N. 177 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 novembre 2009
Ordinanza del 12 novembre 2009 emessa dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da D.P.E.. Misure di prevenzione - Procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione - Giudizio di cassazione - Svolgimento, su istanza delle parti, nelle forme dell'udienza pubblica - Preclusione - Violazione degli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU, nell'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo. - Legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4; legge 31 maggio 1965, n. 575, art. 2-ter. - Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e liberta' fondamentali.(GU n.24 del 16-6-2010 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto nell'interesse di D.P.E., nato a Siracusa l'8 luglio 19.., avverso il decreto della Corte di appello di Catania, in data 9 giugno 2008; Visti gli atti, il decreto denunziato e il ricorso; Sentita in camera di consiglio la relazione svolta dal consigliere dott. Franco Fiandanese; Letta la richiesta del Procuratore Generale presso la Suprema Corte di rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto La Corte di appello di Catania, con decreto in data 9 giugno 2008, confermava il decreto emesso dal Tribunale di Siracusa il 7 febbraio 2008, con il quale D.P.E., in applicazione della legge 31 maggio 1965, n. 575, veniva sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale e dell'obbligo di soggiorno presso il comune di residenza per la durata di un anno e venivano confiscati un immobile e un'autovettura intestati alla moglie dello stesso D.P. Propone ricorso per cassazione l'avv. Puccio Forestiere, deducendo violazione di legge per difetto assoluto di motivazione in merito alle specifiche doglianze difensive formulate con l'atto di appello. Propone ricorso per cassazione anche altro difensore di D.P. avv. Alfredo Gaito, il quale, con riferimento alla misura di prevenzione personale, afferma la mancanza dei presupposti della pericolosita' attuale e della appartenenza di D.P. ad associazione mafiosa; con riferimento alla misura di prevenzione patrimoniale, lamenta la omessa valutazione delle specifiche deduzioni difensive. Lo stesso difensore eccepisce, inoltre, ai sensi dell'art. 609, comma 2, c.p.p., la violazione dell'art. 6 della C.E.D.U., rivolgendo formale istanza per la trattazione del ricorso in udienza pubblica. Il difensore ricorrente osserva che la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con decisione 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, ha condannato l'Italia per violazione del diritto ad una pubblica udienza nel caso di procedimento camerale (nella specie: di prevenzione) nel corso del quale i ricorrenti avevano richiesto che la trattazione avvenisse in pubblica udienza; osserva, ancora, che l'assenza di pubblicita' non deve essere confusa con l'effettivita' del contraddittorio, poiche' la ratio della disposizione convenzionale che prevede la pubblicita' dell'udienza e' quella, riconosciuta dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, di tutela contro la giustizia segreta che sfugge al controllo pubblico e di conservazione della fiducia dei cittadini nei giudici, cosi' che il diritto alla pubblicita' del procedimento e' assolutamente distinto da quello concernente l'accesso agli atti di causa. Ad avviso del difensore ricorrente, l'adeguamento a norma impone anche alla Suprema Corte di cassazione di dare immediata applicazione alla sentenza in discorso, poiche' l'udienza a porte chiuse per tipologie di materia individuate aprioristicamente, al di fuori e senza tener conto dei parametri del giusto processo europeo, non puo' piu' essere intesa quale modulo standardizzato immodificabile. Per il giudizio di legittimita' si impone il meccanismo dell'udienza a porte aperte, in applicazione estensiva di quanto stabilito dall'art. 441, comma 3, c.p.p., per la trasformazione pubblica del giudizio abbreviato, valendo la doglianza esposta nel ricorso quale istanza espressa dell'interessato, con conseguenze invalidanti per le decisioni di merito, ambedue scaturite all'esito di procedure da ritenere illegali ora per allora. Questa Sezione, con ordinanza in data 14 maggio 2009, rilevato che le questioni di diritto sottoposte al suo esame avevano dato luogo o potevano dar luogo ad un contrasto giurisprudenziale, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, ma il Presidente Aggiunto, con proprio provvedimento del 22 giugno 2009, restituiva il procedimento, ritenendo che questa Sezione avesse omesso «di soffermarsi adeguatamente sulla specialita' che connota il giudizio di cassazione» e che non dovesse trascurarsi che «in materia di prevenzione, tra l'altro, il ricorso e' ammesso solo per violazione di legge (art. 3, comma 11, legge n. 1423/1956)». Fissata una nuova udienza in Camera di consiglio, ha depositato memoria il difensore del ricorrente, il quale ha osservato che la capacita' conformatoria delle disposizioni nazionali consentirebbe la possibilita' di trovare una soluzione sul piano ermeneutico volta ad armonizzare il diritto interno con l'ordinamento scaturente dalla CEDU, evitando il sorgere di un'antinomia normativa ed escludendo quindi la necessita' di sollevare questione di legittimita' davanti alla Corte costituzionale. Il ricorrente, pertanto, insiste per l'accoglimento delle doglianze con annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato. Considerato in diritto Con la sentenza del 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia, n. 399/2002, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ricorda che la pubblicita' della procedura degli organi giudiziari di cui all'articolo 6 §1 della Convenzione («Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge») tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico e costituisce anche uno dei mezzi per preservare la fiducia nelle corti e nei tribunali. Con la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della giustizia, aiuta a realizzare lo scopo dell'articolo 6 § 1: l'equo processo, la cui garanzia e' annoverata fra principi di ogni societa' democratica ai sensi della Convenzione. La stessa Corte aggiunge che l'articolo 6 § 1citato tuttavia non pone ostacoli al fatto che le autorita' giudiziarie decidano, viste le particolarita' della causa sottoposta al loro esame, di derogare a questo principio, ma la situazione e' diversa quando una procedura si svolge a porte chiuse in virtu' di una norma generale e assoluta, senza che la persona soggetta a giurisdizione abbia la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza; una procedura che si svolge in questo modo non puo' in linea di principio essere considerata conforme all'articolo 6 § 1 della Convenzione: la persona soggetta a giurisdizione deve almeno avere la possibilita' di domandare la tenuta di dibattimenti pubblici. Nella fattispecie, lo svolgimento in Camera di consiglio delle procedure che riguardano l'applicazione di misure di prevenzione e' espressamente previsto dall'articolo 4 della legge n. 1423 del 1956 e le parti non hanno la possibilita' di domandare ed ottenere una pubblica udienza. La Corte, inoltre, rispondendo al Governo italiano che aveva dedotto la natura altamente tecnica della procedura di applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale a giustificazione della mancanza di pubblicita', sottolinea che «non bisogna perdere di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte». Questo tipo di procedura riguarda l'applicazione della confisca di beni e capitali, cosa che direttamente e sostanzialmente coinvolge la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione. Davanti a tale posta in gioco, non si puo' affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato. In definitiva, la Corte giudica essenziale che le persone soggette a giurisdizione coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello. Questa interpretazione giurisprudenziale puo' ritenersi ormai consolidata a seguito dell'intervento della Grande Camera della Corte di Strasburgo con decisione dell'8 luglio 2008, Perre e altri c. Italia, n. 1905/2005, che ha confermato il contenuto interpretativo della precedente citata pronuncia, sempre con riferimento specifico al procedimento di applicazione delle misure di prevenzione. La questione sollevata dal ricorrente e' gia' venuta all'esame di questa Suprema Corte, che ha ritenuto che l'applicazione della regola secondo la quale i ricorsi per cassazione in tale materia sono soggetti alla trattazione con la procedura camerale non partecipata (art. 611 c.p.p.), non trova ostacolo nella pronuncia della Corte europea dei diritti dell'uomo 13 novembre 2007 in causa Bocellari e Rizza c/ Italia, giacche' questa non opera alcun riferimento al giudizio che si svolge davanti alla Corte di cassazione (Sez. I, 26 febbraio 2008, n. 11279, Magnisi, rv. 239046; Sez. I, 13 febbraio 2008, n. 8990, Ambrogio, rv. 239515 e Sez. I, 26 febbraio 2008, n. 14010, Cucurachi, rv. 240137; Sez. II, 18 novembre 2008, n. 46751, Cacucci ed altri, n.m.; Sez. I, 4 febbraio 2009, n. 13569, Falsone, rv. 243552; Sez. VI, 22 gennaio 2009, n. 17229, Scimeni, rv. 243665). Il Collegio non condivide il contenuto motivazionale di tali pronunce e il conseguente risultato interpretativo. Alcune di esse affermano che «l'incompatibilita' della norma interna con quella della Convenzione non potrebbe mai trovare rimedio nella semplice non applicazione della norma interna da parte del giudice nazionale» (Sez. I, n. 11279 del 2008, cit.) o nella «diretta applicazione» delle disposizioni della Convenzione stessa (Sez. I, n. 13569 del 2009 cit.); altre, aggiungono che «un'eventuale questione di legittimita' costituzionale risulta, tuttavia, manifestamente infondata dal momento che la struttura e le cadenze del procedimento di prevenzione non appaiono contrastanti con i precetti sanciti dall'art. 24 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., sull'equo processo, assicurando, comunque, la partecipazione personale all'udienza e la difesa tecnica del proposto» (Sez. I, n. 14010 del 2008, cit.) Tali affermazioni non sono condivisibili. Le sentenze della Corte costituzionale n. 348 e 349 del 2007 hanno chiarito che le norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in applicazione dell'art. 117, comma 1, Cost., come sostituito dall'art. 3, comma 1, legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, costituiscono «norme interposte» imprescindibili per garantire l'effettivita' della citata disposizione costituzionale e rendere cogenti gli obblighi che l'Italia ha assunto a livello internazionale. Con la conseguenza che al giudice spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme; mentre qualora cio' non sia possibile, ovvero si dubiti della compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, il giudice deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. Pertanto, premesso che il contenuto interpretativo della norma della C.E.D.U. e' quello ad essa attribuito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che sola garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri (ai sensi dell'art. 32 della Convenzione la competenza della Corte di Strasburgo «si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste» dalla medesima), non e' sufficiente dire che la norma interna che appaia incompatibile con la norma convenzionale non puo' essere disapplicata da parte del giudice; neppure e' sufficiente affermare che essa, sebbene incompatibile con la norma convenzionale, e' pur tuttavia conforme alla Costituzione italiana. Infatti, il giudice deve innanzitutto interrogarsi se la norma interna sia suscettibile di un'interpretazione «adeguatrice» alla norma convenzionale e, nel caso in cui cio' non sia possibile, deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1, Cost. Alla Corte costituzionale spetta, poi, di accertare se sussista il denunciato contrasto e verificare la compatibilita' della norma C.E.D.U. con le pertinenti norme della Costituzione sotto il profilo che essa sia conforme alla Costituzione, nel senso che garantisca una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla. Costituzione italiana. Pertanto, le considerazioni svolte dalle citate sentenze in merito al divieto per il giudice di disapplicare la norma interna incompatibile con quella convenzionale ovvero in merito alla compatibilita' della norma interna, nel caso di specie, con gli artt. 24, comma 2, e 111 Cost. non esauriscono la problematica in esame. Ancora di recente la Corte costituzionale ha ribadito che «la diretta applicazione delle disposizioni della CEDU, in quanto tali, e' da escludere» (sent. n. 306 del 2008); che «le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarita', nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalita', sono vincolati ad uniformarsi» (sent. 39 del 2008); che «al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' e' permesso dai testi delle norme e qualora cio' non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta", egli deve investire questa Corte delle relative questioni di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma Cost. (...) Solo ove l'adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l'eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimita' costituzionale, questa Corte potra' essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalita' della disposizione di legge» (sent. n. 239 del 2009). In verita', altre pronunce di questa Corte hanno sostenuto che «benche' la legge n. 1423 del 1956, art. 4 preveda la trattazione in camera di consiglio, nulla vieta che il giudice, seguendo un'interpretazione costituzionalmente orientata, applichi analogicamente la disposizione di cui all'art. 441 c.p.p., la quale prevede che il giudizio abbreviato si svolga in camera di consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta abbia luogo in pubblica udienza, cosi' facendo venire meno i profili di contrasto con la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo», aggiungendo, pero', che la pubblicita' dell'udienza in Corte di cassazione non e' richiesta dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, stante il carattere eminentemente tecnico e di sola legittimita' del giudizio di cassazione (Sez. n. 46751 del 2008, cit.). Tale interpretazione adeguatrice incontra, pero', il rilievo critico della evidenza testuale del disposto normativo che fa specifico riferimento ad un procedimento in Camera di consiglio (art. 4, commi 6 e 11, legge n. 1423 del 1956, che, inoltre, richiama le norme sul procedimento di sorveglianza e di esecuzione); anche a prescindere dal richiamo contenuto nelle citate pronunce della Corte di Strasburgo alla affermazione del Governo italiano, intervenuto davanti alla Corte stessa, che lo svolgimento in camera di consiglio non dipendeva da una decisione discrezionale del giudice e che, pertanto, un'eventuale istanza di pubblico dibattimento proveniente dalle parti sarebbe stata probabilmente respinta. Anche la affermazione di principio, che sembra comune a tutte la citate sentenze di questa Suprema Corte, secondo la quale la citata decisione della Corte di Strasburgo riguarda il giudizio davanti ai giudici di merito e non opera alcun riferimento al giudizio che si svolge davanti alla Corte di cassazione deve essere valutata all'interno del complesso delle regole che disciplinano il giudizio di cassazione. Occorre osservare, in primo luogo, che e' bensi' vero che la C.E.D.U. ha affermato che il diritto ad un'udienza pubblica dipende anche dalle questioni da dirimere e che, in particolare, tale udienza puo' essere esclusa nel caso in cui debbano trattarsi esclusivamente questioni di diritto (cfr. C.E.D.U., Ekbatani c. Svezia, 26 maggio 1988, n. 10563/1983, nonche' Helmer c. Svezia, 29 ottobre 1991, n. 11826/1985; e, in generale, sulla natura delle questioni da decidere, Miller c. Svezia, 8 febbraio 2005, n. 55853/2000), ma la stessa C.E.D.U. ha precisato che l'assenza dell'udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, puo' essere giustificata dalla peculiarita' della procedura in questione, purche' l'udienza pubblica abbia avuto luogo in primo grado (Helmer c. Svezia cit. § 36; nonche' Grande Camera, Martinie c. Francia, 12 aprile 2006, n. 58675/2000, § 43). Quanto alla circostanza che l'interessato non abbia chiesto la pubblica udienza nel giudizio di merito, e' sufficiente il rilievo che la questione di legittimita' costituzionale puo' e/o deve essere rilevata d'ufficio, come si chiarira' piu' avanti con riferimento alla rilevanza della questione in questa sede sollevata. Occorre, inoltre, osservare che il suddetto principio espresso dalle citate sentenze di questa Suprema Corte potrebbe essere condiviso se il procedimento camerale fosse l'unica tipologia di procedimento previsto davanti alla Corte di Cassazione. Deve rilevarsi, invece, che il procedimento davanti alla Corte di cassazione puo' svolgersi in pubblica udienza e se si svolge in Camera di consiglio puo' assumere la forma c.d. non partecipata o quella ex art. 127 c.p.p.; ma soprattutto, deve considerarsi che la regola generale, salvo eccezioni, e' quella secondo la quale «la Corte procede in Camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento» (art. 611 c.p.p.), anzi, talvolta, la Corte procede in pubblica udienza anche quando la sentenza impugnata e' stata pronunciata in Camera di consiglio (art. 611 con riferimento all'art. 442 c.p.p.), in altri termini, la modalita' procedimentale per la decisione dei ricorsi segue quella prevista per il giudizio di merito e talvolta l'udienza pubblica e' prevista anche nel caso in cui la pubblicita' non vi sia stata nei precedenti gradi di giudizio. E' irrilevante, poi, l'osservazione che il motivo di ricorso per cassazione nei procedimenti di prevenzione e' limitato alla violazione di legge, poiche', quale che siano i vizi deducibili e' pacifico che il giudizio in Cassazione e' comunque un giudizio di legittimita' (tra le tante: Sez. VI, 3 ottobre 2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; sez. II, 11 gennaio 2007, n. 7380, Messina, rv. 235716; sez. IV, 10 luglio 2007, n. 35683, Servidei, rv. 237652); d'altro canto, il vizio di violazione di legge e' ravvisabile anche in caso di mancanza di motivazione, qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di appello dal decimo comma dell'art. 4 della legge n. 1423 del 1956, e alla mancanza di motivazione e', peraltro, equiparata l'ipotesi in cui la motivazione risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicita', al punto da risultare meramente apparente, o sia assolutamente inidonea a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Sez. I, 21 gennaio 1999, n. 544, Barbangelo, rv. 212946; Sez. V, 16 marzo 2000, n. 1480, Capizzi, rv. 217361; sez. I, 14 febbraio 2001, n. 18893, Laurito, rv. 218861), secondo un principio affermato dalla giurisprudenza di legittimita' in tutti i casi nei quali il ricorso per cassazione e' limitato al vizio di violazione di legge. Ma soprattutto deve rilevarsi che nel sistema del codice di rito la limitazione della ricorribilita' in cassazione al solo vizio di violazione di legge non necessariamente comporta la trattazione in Camera di consiglio, come e' dimostrato dalla previsione di ricorso immediato per cassazione (art. 569 c.p.p.), con quale non sono deducibili i vizi attinenti la motivazione del provvedimento impugnato (comma 3 articolo citato), tuttavia il rito in cassazione segue quello del procedimento di merito e, quindi, ben potrebbe essere la pubblica udienza. Neppure deve essere trascurato che il procedimento camerale applicabile nel caso di misure di prevenzione e' quello c.d. non partecipato e non, invece, quello ex art. 127 c.p.p. Sul punto la Corte di cassazione ha anche affermato che «e' manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 611 c.p.p., nella parte in cui non prevede, per la trattazione dei ricorsi in materia di misure di prevenzione, l'applicabilita' del rito previsto dall'art. 127 stesso codice, pur vigente per i ricorsi in materia di misure cautelari personali, in quanto queste ultime presentano caratteristiche afflittive superiori alle misure personali di prevenzione, comprendendo la piu' grave limitazione della liberta' personale costituita dalla custodia in carcere e quella degli arresti domiciliari, limitativa della liberta' personale dell'individuo in misura assai piu' grave di qualsiasi misura di prevenzione; sicche' il trattamento processuale differenziato si giustifica per la difformita' delle situazioni esaminate» (Sez. I, 20 novembre 1998 - 8 febbraio 1999, n. 5760, Iorio, rv. 212441). Tali affermazioni di principio dovrebbero essere attentamente esaminate anche alla luce della chiara indicazione contenuta nelle citate sentenze della Corte Europea dei diritti dell'uomo, secondo la quale «non bisogna perdere di vista la posta in gioco delle procedure di prevenzione e gli effetti che sono suscettibili di produrre sulla situazione personale delle persone coinvolte». Sulla "posta in gioco" si sofferma ampiamente la sentenza della Grande Camera Jussila c. Finlandia, 23 novembre 2006, n. 73053/2001, la quale osserva che «gli organi della Convenzione hanno gettato le basi per un'estensione progressiva dell'applicazione del profilo penale dell'art. 6 ad ambiti che non rientrano formalmente nelle categorie tradizionali del diritto penale» e giunge alla conclusione dell'applicabilita' del principio della pubblicita' dell'udienza in contenzioso relativo a penalita' fiscali. Sulla base di tali premesse questa Corte ritiene di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 6, 10 e 11, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (in quanto richiama il procedimento in Camera di consiglio come modalita' procedimentale esclusiva per l'applicazione delle misure personali e patrimoniali di prevenzione), per violazione dell'art. 117, comma primo, Cost., nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in pubblica udienza. La richiesta di parte e', infatti, la garanzia minima pretesa dalla Corte di Strasburgo («la persona soggetta a giurisdizione deve almeno avere la possibilita' di domandare ed ottenere una pubblica udienza») e ben si inserisce nel sistema codicistico, che gia' prevede lo svolgimento del giudizio abbreviato in pubblica udienza «quando ne fanno richiesta tutti gli imputati» (art. 441, comma 3, c.p.p.) Cio' premesso, la questione e' rilevante nel presente procedimento sotto due profili. Il primo e' quello gia' evidenziato, secondo il quale, la scelta del rito davanti a questa Suprema Corte non puo' prescindere dal principio generale secondo il quale «la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento» (art. 611, comma primo, c.p.p.) e tale principio dovrebbe essere applicato, nel prendere in esame l'istanza del ricorrente di trattazione del ricorso in pubblica udienza, non semplicemente tenendo conto del rito adottato nella fattispecie dai giudici di merito, bensi' alla luce di un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' delle predette norme nella parte in cui impongono lo svolgimento in Camera di consiglio del procedimento relativo all'applicazione di misure di prevenzione. Inoltre, seppure si collegasse la scelta del rito ad una opzione del soggetto interessato, essa non necessariamente deve essere spesa in limine, potendosi esprimere anche in successivi gradi del giudizio. Il secondo profilo e' quello concernente la deduzione difensiva di conseguenze invalidanti delle decisioni di merito «scaturite all'esito di procedure da ritenere illegali ora per allora»: e' evidente che la decisione sulla stessa deduzione difensiva non puo' che essere condizionata dall'esito del giudizio sulla questione di legittimita' costituzionale come sopra proposta, tenendo presente che un'eventuale dichiarazione di incostituzionalita' non potrebbe non spiegare i suoi effetti su un processo ancora in corso che, per essere sostanzialmente giusto, deve avere la capacita' di emendarsi, per adeguarsi a regole costituzionalmente corrette. La costante giurisprudenza di questa Suprema Corte in merito agli effetti della declaratoria di incostituzionalita' di una norma ha chiarito che la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, avendo per presupposto l'esistenza di un vizio che inficia sin dall'origine la norma, ha efficacia invalidante e non abrogativa, produce conseguenze assimilabili a quelle dell'annullamento, nel senso che incide, in coerenza con gli effetti propri di tale istituto, anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio nel quale e' consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalita', e spiega, pertanto, effetti non soltanto per il futuro ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, con esclusione, ovviamente, di quelle situazioni giuridiche ormai esaurite, non suscettibili cioe' di essere rimosse o modificate o di quelle situazioni consolidate per effetto di norme penali di favore, alle quali deve darsi comunque prevalenza ex art. 25, comma 2, Cost. Neppure e' consentito distinguere, con riguardo agli effetti retroattivi della declaratoria d'incostituzionalita', fra norme di diritto sostanziale e norme processuali e, relativamente a queste ultime, fra applicazione diretta (con riferimento cioe' alla formazione dell'atto secondo le norme poi dichiarate illegittime) e applicazione indiretta (consistente nel mero controllo dell'atto precedentemente compiuto), posto che, anche in questo secondo caso, il giudice e' tenuto a rilevare l'inidoneita' della normativa dichiarata incostituzionale a qualificare l'attivita' processuale svolta. L'immediata operativita' della dichiarazione d'incostituzionalita' nei giudizi non ancora definiti non puo' essere posta in discussione neppure nell'ipotesi di sentenza additiva della Corte costituzionale, e cioe' quando la suddetta dichiarazione importi la sostituzione positiva di una regola del decidere con altra regola, anziche' la pura e semplice caducazione di un testo normativo: con la conseguenza che, in tal caso, il giudice deve assumere come canone di valutazione esclusivamente la disciplina risultante dall'innovazione apportata dalla decisione della Corte costituzionale (Sez. Un. , 27 febbraio 2002, n. 17179, Conti, rv. 221401; Sez. Un. , 28 gennaio 1998, n. 3, Budini, rv. 210258; Sez. Un. 7 luglio 1984, n. 7232, Cunsolo, rv. 1665563). Tali principi dovranno essere applicati, in caso di dichiarazione di incostituzionalita' con riferimento alla questione sollevata in questa sede, tenendo conto, in relazione al contenuto della dichiarazione stessa, di quanto previsto dall'art. 471 c.p.p. e delle interpretazioni giurisprudenziali in materia (Sez. Un. 21 aprile 1995, n. 7227, Zoccoli, rv. 201378). Per quanto concerne la non manifesta infondatezza della questione proposta, deve, in primo luogo, rilevarsi, che la norma interna non e' suscettibile di un'interpretazione "adeguatrice" alla norma convenzionale in considerazione dell'evidenza testuale della norma stessa alla quale non si puo' attribuire altro senso che "quello fatto palese dal significato proprio delle parole" (art. 12 disposizioni sulla legge in generale), come sopra gia' argomentato, dovendosi solo aggiungere che non e' possibile con riferimento alla disposto dell'art. 441, comma 3, c.p.p., il ricorso all'istituto dell'analogia, poiche' esso e' consentito solo per regolare un'ipotesi, non prevista dalla legge, con la disciplina dettata per un'altra ipotesi, ritenendo con un processo logico-giuridico che quest'ultima norma sia tale, per l'ampiezza del suo fondamento normativo, da ricomprendere razionalmente tanto il caso regolato che quello formalmente non regolato; anzi, proprio l'espressa previsione per il giudizio abbreviato conferma che, nel sistema del codice di rito, si tratta di un'ipotesi eccezionale per la quale e' necessaria una apposita norma. Non essendo possibile un'interpretazione adeguatrice, occorre prendere atto dell'evidente contrasto della normativa interna con le norme convenzionali cosi' come interpretate dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. In verita', secondo un indirizzo interpretativo sostenuto in dottrina, cio' che dovrebbe essere garantito sempre e comunque e' il contraddittorio, quale strumento di partecipazione non soltanto fisica al processo, ma funzionale all'acquisizione del materiale probatorio, e tale principio troverebbe piena tutela nel novellato art. 111 della Costituzione, che, invece, non annovera tra le garanzie costituzionali la pubblicita' dell'udienza; pertanto, occorrerebbe effettuare un bilanciamento ragionevole del valore della pubblicita' del processo rispetto ad altri valori costituzionali, quale quello della ragionevole durata del processo, che sarebbe garantita dalla snellezza e flessibilita' del rito camerale. In effetti, la Corte costituzionale con le citate sentenze ha chiarito che, in occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte della CEDU, cosi' come vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte di Strasburgo, e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformita' a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilita' della norma interposta con la Costituzione e la legittimita' della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta; e che nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, la Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneita' della stessa ad integrare il parametro; inoltre, la stessa Corte ha escluso che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali, poiche' tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. Deve, pero', osservarsi, da un lato che non si vede come possa ravvisarsi un contrasto - peraltro neppure sostenuto dal citato indirizzo interpretativo - tra le norme costituzionali e quella della CEDU in tema di pubblicita' del processo e dall'altro lato, come i principi del contraddittorio e quello della pubblicita' siano valori concorrenti e l'uno non esclude l'altro, poiche' anche la pubblicita' contribuisce a realizzare, attraverso la trasparenza che assicura all'amministrazione della giustizia, lo scopo precipuo dell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, vale a dire le proces equitable. D'altro canto, la pretesa snellezza del rito camerale non puo' essere un'affermazione generale ed astratta, ma deve essere verificata nel concreto della specifica disciplina di legge, che, proprio se garantisce la pienezza del contraddittorio anche nel rito camerale, potrebbe non incidere apprezzabilmente sulla ragionevole durata del processo, ma piuttosto solo pregiudicare il principio di "non segretezza" dell'udienza. E' bene ricordare che il procedimento di prevenzione, pur mantenendo le proprie peculiari connotazioni, e' ormai pervenuto ad una compiuta giurisdizionalizzazione e ad una piena assimilazione al processo ordinario di cognizione, essendo caratterizzato, al pari di quest'ultimo, dai principi coessenziali al giusto processo, identificati dal novellato art. 111 Cost. nella presenza di un giudice terzo e imparziale e nel contraddittorio delle parti in posizione di parita'. Va sottolineato, del resto, che la spinta verso tale equiparazione corrisponde ad una necessita' logica e giuridica dettata dalla natura dei beni giuridici sui quali incidono le misure praeter delictum, il cui contenuto si traduce, nella sostanza, in rilevanti limitazioni di diritti costituzionalmente protetti, primo tra tutti quello della liberta' personale proclamata «inviolabile» dal primo comma dell'art. 13 Cost.: di talche' la potesta' di prevenzione non puo' prescindere dall'osservanza delle garanzie che sono proprie del processo (Sez. I, 24 ottobre 2003, n. 45723, Guttadauro, rv. 226035). Si deve, inoltre, rilevare che la Corte costituzionale ha piu' volte riconosciuto che la regola della pubblicita' dei procedimenti giudiziari, pur non essendo stata posta dagli artt. 24, 101 e 111 della Costituzione, va ritenuta coessenziale ai principi ai quali, in un ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare, deve conformarsi l'amministrazione della giustizia che in quella sovranita' trova fondamento (art. 101, primo comma, della Costituzione). Tale regola puo' subire eccezioni, in riferimento a determinati procedimenti, quando esse abbiano obbiettiva e razionale giustificazione, e soprattutto quando siano operate in funzione di valori dalla stessa Costituzione garantiti (Corte cost. n. 25 del 1965, n. 12 del 1971, n. 212 del 1986, n. 50 del 1989; n. 69 del 1991; n. 373 del 1992); giustificazione che, ad esempio, non e' stata ravvisata con riferimento al procedimento davanti alle commissioni tributarie (sent. n. 50 del 1989). In conclusione, alla stregua delle argomentazioni svolte, deve dichiararsi rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 117, comma primo, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell'articolo 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in pubblica udienza. A norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve dichiararsi la sospensione del giudizio e deve disporsi l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. La cancelleria provvedera' alla notifica di copia della presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e alla comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'articolo 117, primo comma, Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e dell'articolo 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in pubblica udienza; Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Roma, 11 novembre 2009. Il Presidente: Cosentino L'estensore: Fiandanese