N. 351 SENTENZA 29 novembre - 3 dicembre 2010

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Previdenza - Indennita' premio di  fine  servizio  per  il  direttore
  generale di A.S.L. - Determinazione  dei  contributi  previdenziali
  sulla base del trattamento economico effettivamente corrisposto per
  l'incarico   conferito,   anziche'   sullo   stipendio    spettante
  (retribuzione  «virtuale»)  per  l'ultima  prestazione   lavorativa
  effettuata presso l'ente di provenienza - Ritenuta  violazione  dei
  principi  e  criteri  direttivi  stabiliti  dalla  legge  delega  -
  Esclusione - Non fondatezza della questione. 
- D.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3, commi  2  e  3,  che  abroga
  l'art. 3, comma 8, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502  e  aggiunge
  l'art. 3-bis, comma 11, al medesimo d.lgs. n. 502 del 1992. 
- Costituzione, art. 76; legge 30 novembre  1998,  n.  419,  art.  2,
  comma 1, lett. t). 
(GU n.49 del 9-12-2010 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Ugo DE SIERVO; 
Giudici: Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco
  GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano  SILVESTRI,  Sabino  CASSESE,  Maria
  Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe
  FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI. 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 3, commi  2
e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n.  229  (Norme  per  la
razionalizzazione  del  Servizio   sanitario   nazionale,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), promosso dalla
Corte d'appello di Ancona con ordinanza del 9 aprile  2009,  iscritta
al n. 214 del registro ordinanze 2009  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 35, 1ª serie speciale, dell'anno 2009. 
    Visti gli atti di costituzione dell'INPDAP e di M.A.L.; 
    Udito nell'udienza pubblica  del  16  novembre  2010  il  Giudice
relatore Gaetano Silvestri; 
    Uditi gli avvocati Dario Marinuzzi per l'INPDAP e  Rosaria  Russo
Valentini per M.A.L. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza del 9  aprile  2009,  la  Corte  d'appello  di
Ancona ha sollevato, in riferimento all'art. 76  della  Costituzione,
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, commi  2  e  3,
del decreto  legislativo  19  giugno  1999,  n.  229  (Norme  per  la
razionalizzazione  del  Servizio   sanitario   nazionale,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), nella parte in
cui, rispettivamente, abroga la disposizione di cui all'art. 3, comma
8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502  (Riordino  della
disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della  legge
23 ottobre 1992, n. 421), ed aggiunge  l'art.  3-bis,  comma  11,  al
medesimo  d.lgs.  n.  502  del  1992,  prevedendo  che  i  contributi
previdenziali  -  da  versarsi  da  parte   dall'amministrazione   di
appartenenza del dipendente collocato in aspettativa  senza  assegni,
in quanto nominato direttore generale di azienda sanitaria  locale  -
siano calcolati sul trattamento economico corrisposto per  l'incarico
conferito. 
    1.1. - Il giudice a quo e' chiamato a decidere  sull'impugnazione
proposta  dall'INPDAP  (Istituto  nazionale  di  previdenza   per   i
dipendenti dell'amministrazione pubblica) avverso la sentenza  emessa
dal Tribunale di Macerata, in funzione di giudice del lavoro, che  ha
condannato l'Istituto a pagare l'importo  di  136.374,73  euro  oltre
interessi, quale differenza tra la minor somma corrisposta  e  quella
dovuta a titolo di liquidazione del trattamento di fine servizio,  in
favore di M.A.L., gia'  dipendente  della  azienda  unita'  sanitaria
locale n. 9 di Macerata, successivamente nominato direttore  generale
dell'azienda sanitaria locale n. 4  di  Terni,  infine  collocato  in
quiescenza con decorrenza 1° ottobre 2002. 
    Riferisce il rimettente che l'istituto appellante  ha  articolato
vari  motivi  di  impugnazione,  oltre  a  richiedere  l'integrazione
necessaria del contraddittorio nei confronti  dell'azienda  sanitaria
n.  9  di  Macerata,  ed  ha  sollevato  eccezione  di   legittimita'
costituzionale delle disposizioni contenute nell'art. 3, commi 2 e 3,
del d.lgs. n. 229 del 1999, per violazione degli artt. 3 e 76 Cost. 
    1.2. - Il giudice a quo reputa non sussistente la  necessita'  di
disporre  l'integrazione  del  contraddittorio  nei  confronti  della
azienda  sanitaria  locale  n.  9  di  Macerata,  «stante  la  natura
previdenziale dell'indennita'  premio  di  fine  servizio,  affermata
dalla giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione, sez. unite
n. 11329 del 2005)», mentre ritiene rilevante  e  non  manifestamente
infondata  la  questione   di   legittimita'   costituzionale   delle
disposizioni contenute nell'art. 3, commi 2 e 3, del  d.lgs.  n.  229
del 1999, in riferimento al solo art. 76 Cost. 
    1.3. -  Il  rimettente  richiama  gli  aspetti  essenziali  della
vicenda  in  esame,  precisando  come  sia  pacifico  in   atti   che
l'appellato, al tempo del  collocamento  in  quiescenza  (1°  ottobre
2002), si trovasse in aspettativa senza assegni  in  quanto  nominato
direttore generale della azienda unita'  sanitaria  locale  n.  4  di
Terni, in applicazione dell'art. 3-bis del d.lgs. n.  502  del  1992.
Per tale incarico il  trattamento  economico  onnicomprensivo  annuo,
inizialmente stabilito in 200 milioni di lire, era stato elevato, con
decorrenza 1° gennaio 2002, ad euro 132.212,97. La  liquidazione  del
trattamento di fine servizio  era  stata  attuata  dall'INPDAP  della
provincia di Macerata in base alle disposizioni della legge  8  marzo
1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per  il  personale
degli  Enti  locali),  sulla  retribuzione  che  l'appellato  avrebbe
continuato  a  percepire,  come  lavoratore  dipendente  dell'azienda
sanitaria  di  appartenenza,  se  non  fosse   stato   collocato   in
aspettativa senza assegni. 
    Peraltro, osserva il rimettente,  il  chiaro  disposto  dell'art.
3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che il versamento
dei contributi previdenziali, da parte  dell'amministrazione  o  ente
privato di appartenenza del lavoratore collocato in aspettativa senza
assegni  in  quanto  nominato   direttore   generale   (sanitario   o
amministrativo) di asl o  azienda  ospedaliera,  sia  commisurato  al
trattamento  economico  effettivamente  corrisposto  per   l'incarico
conferito, e non gia' al  trattamento  stipendiale  del  rapporto  di
lavoro in stato di quiescenza, ancorche' nel limite del massimale  di
cui all'art. 3, comma 7, del decreto legislativo 24 aprile  1997,  n.
181 (Attuazione della delega conferita  dall'articolo  2,  comma  22,
della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di regime pensionistico
per gli iscritti all'Istituto nazionale di previdenza per i dirigenti
di  aziende  industriali),  e  in  tal  senso  si  e'   espressa   la
giurisprudenza di legittimita' (sono  richiamate  le  sentenze  della
Corte di cassazione n. 11925 e n. 12325 del 2008). 
    Ma le disposizioni con cui e' stata  introdotta  nell'ordinamento
la censurata previsione contrasterebbero, a parere del giudice a quo,
con i principi e criteri direttivi contenuti nella legge 30  novembre
1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del Servizio
sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia  di
organizzazione e  funzionamento  del  Servizio  sanitario  nazionale.
Modifiche al d.lgs. 30 dicembre 1992, n.  502),  in  particolare  con
l'art. 2, comma 1, lettera t), che impegnava il  Governo  a  «rendere
omogenea la disciplina del trattamento assistenziale e  previdenziale
dei soggetti nominati direttore generale, direttore amministrativo  e
direttore  sanitario  di   azienda,   nell'ambito   dei   trattamenti
assistenziali e previdenziali previsti  dalla  legislazione  vigente,
prevedendo  altresi'  per   i   dipendenti   privati   l'applicazione
dell'articolo 3, comma 8, secondo periodo, del decreto legislativo 30
dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni». 
    Il rimettente si sofferma sul contenuto della disposizione  (oggi
abrogata) di cui al richiamato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del
1992, ove era  stabilito,  al  primo  periodo,  che  per  i  pubblici
dipendenti la nomina a direttore generale, direttore amministrativo e
direttore sanitario determinasse il collocamento in aspettativa senza
assegni e che il periodo di  aspettativa  fosse  utile  ai  fini  del
trattamento di  quiescenza  e  di  previdenza  e  dell'anzianita'  di
servizio,  mentre,  al  secondo  periodo,  era   previsto   che   «Le
amministrazioni  di  appartenenza   provvedono   ad   effettuare   il
versamento dei relativi contributi, comprensivi delle quote a  carico
del dipendente, nonche' dei contributi assistenziali,  calcolati  sul
trattamento stipendiale spettante al  medesimo  ed  a  richiedere  il
rimborso  del  correlativo  onere  alle   unita'   sanitarie   locali
interessate, le quali procedono al  recupero  delle  quote  a  carico
dall'interessato». 
    Ad  avviso  della  Corte  d'appello  di  Ancona,  era  questa  la
disciplina che, in base al criterio di delega, doveva  essere  estesa
ai dipendenti privati. In essa si faceva chiaramente riferimento,  ai
fini del calcolo dei contributi  assistenziali  e  previdenziali,  al
trattamento stipendiale spettante al  dipendente  in  aspettativa,  e
dunque, inequivocabilmente, al compenso "virtuale" che sarebbe  stato
corrisposto   dall'amministrazione   di   appartenenza   qualora   il
dipendente non fosse stato collocato in aspettativa senza assegni per
assumere l'incarico dirigenziale. 
    Diversamente, osserva il rimettente, il d.lgs. n. 229  del  1999,
nell'attuare la delega ha  proceduto,  con  l'art.  3,  comma  2,  ad
abrogare il richiamato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992  e
con il successivo comma 3 del medesimo  art.  3,  ad  aggiungere  nel
d.lgs. n. 502  del  1992,  l'art.  3-bis,  comma  11,  nel  quale  e'
stabilito che «La  nomina  a  direttore  generale,  amministrativo  e
sanitario determina per i lavoratori dipendenti  il  collocamento  in
aspettativa senza assegni e il diritto  al  mantenimento  del  posto.
L'aspettativa e' concessa entro sessanta giorni dalla  richiesta.  Il
periodo di aspettativa e' utile ai fini del trattamento di quiescenza
e di previdenza. Le amministrazioni  di  appartenenza  provvedono  ad
effettuare   il   versamento   dei   contributi   previdenziali    ed
assistenziali  comprensivi  delle  quote  a  carico  del  dipendente,
calcolati  sul  trattamento  economico  corrisposto  per   l'incarico
conferito nei limiti dei massimali di cui all'art. 3,  comma  7,  del
decreto legislativo 24  aprile  1997,  n.  181,  e  a  richiedere  il
rimborso  di  tutto  l'onere  da  esse   complessivamente   sostenuto
all'unita' sanitaria locale o all'azienda ospedaliera interessata, la
quale procede al recupero della quota a carico dell'interessato». 
    La disposizione cosi'  introdotta,  secondo  il  giudice  a  quo,
presenterebbe contenuto innovativo  nella  parte  in  cui  adotta  un
criterio diverso - piu' oneroso per l'amministrazione di appartenenza
-  rispetto  a  quello  espressamente  richiamato  dalla   legge   di
delegazione ai  fini  della  estensione  ai  dipendenti  privati  del
trattamento gia' previsto per i dipendenti pubblici. 
    Il diverso  e  innovativo  criterio  di  calcolo  dell'imponibile
contributivo non troverebbe legittimazione, secondo il rimettente, in
altre disposizioni di  legge,  quali  l'art.  10,  comma  2,  secondo
periodo, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in  materia
di perequazione, razionalizzazione e  federalismo  fiscale),  che  ha
previsto l'emanazione di disposizioni correttive e integrative  entro
un anno dalla data di entrata in vigore dei decreti  attuativi  della
legge di delega n. 419 del 1998, e cio' sia in ragione  del  richiamo
ai principi e criteri  contenuti  nella  delega  originaria,  sia  in
quanto la delega, di cui al comma 1 del  medesimo  art.  10,  non  ha
alcuna attinenza con la materia della razionalizzazione del  servizio
sanitario nazionale. 
    Neppure  varrebbe  a  legittimare   l'operato   del   legislatore
delegato, l'esito della valutazione congiunta dei criteri  di  delega
espressi nell'art. 2, comma 1, lettere t) ed u), della legge  n.  419
del 1998, come pure prospettato nel giudizio principale dalla  difesa
dell'appellato. In proposito, il rimettente osserva come  l'obiettivo
della  "omogeneizzazione  ai  fini   retributivi"   della   dirigenza
sanitaria non possa riguardare il trattamento di  fine  servizio,  al
quale   la   giurisprudenza   di   legittimita'   riconosce    natura
previdenziale  e  non  retributiva  (e'  richiamata  la  gia'  citata
sentenza della Corte di cassazione, n. 11329 del 2005). 
    In tal senso, conclude il giudice a quo «si deve  dubitare  della
legittimita' costituzionale delle predette disposizioni  del  decreto
delegato n. 229 del 1999 ovvero, in via  gradata,  si  deve  dubitare
della legittimita' costituzionale della disposizione di cui al  comma
11 dell'art. 3-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n.  502,
nella parte in cui dispone che il  versamento  dei  contributi  debba
essere  calcolato  "...sul  trattamento  economico  corrisposto   per
l'incarico conferito..."». 
    1.4.  -  Quanto,  infine,  alla  rilevanza  della  questione,  il
rimettente  evidenzia  come  solo  in   caso   di   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale delle  disposizioni  denunciate,  e  di
conseguente  ripristino  della   disciplina   previgente,   contenuta
nell'art. 3, comma 8, secondo periodo, del d.lgs. n.  502  del  1992,
«risulterebbe conforme a legge l'interpretazione  dell'INPDAP,  cioe'
il calcolo dei contributi previdenziali sul  trattamento  stipendiale
spettante al dipendente in aspettativa in  ragione  del  rapporto  di
lavoro subordinato con l'amministrazione  di  appartenenza»,  con  la
conseguente possibilita' di accogliere l'appello. 
    2. - Con atto depositato il 18 settembre 2009, si  e'  costituito
nel giudizio di legittimita' costituzionale l'INPDAP, appellante  nel
procedimento principale, per chiedere l'accoglimento della questione. 
    La difesa dell'Istituto appellante osserva in  primo  luogo  come
l'indennita' premio di servizio venga corrisposta a favore  degli  ex
dipendenti degli Enti locali ovvero del Servizio Sanitario Nazionale,
secondo le previsioni della legge n. 152 del 1968, che considera - ai
fini  previdenziali  -  soltanto  la  retribuzione   assoggettata   a
contribuzione (in particolare, sono richiamati gli artt. 4 e 11). 
    Quanto all'indennita' premio di servizio  spettante  a  coloro  i
quali, come nella specie,  abbiano  svolto  l'incarico  di  direttore
generale di  asl,  la  stessa  difesa  osserva  come  sia  necessario
valutare  se  esista  continuita'  tra  le  posizioni   assunte   dal
lavoratore, tenuto conto della natura di lavoro autonomo propria  del
rapporto che si  instaura  tra  il  direttore  generale  e  l'azienda
sanitaria. 
    Invero, prosegue la difesa dell'Istituto, e in linea generale, il
lavoratore dipendente, sia pubblico sia privato, una  volta  nominato
direttore  generale  di  una  azienda  sanitaria  locale  o   azienda
ospedaliera, viene collocato in aspettativa senza  assegni  dall'ente
di provenienza. Il periodo di aspettativa, in quanto si  caratterizza
per la sospensione degli obblighi tipici del rapporto di lavoro,  con
ricadute anche sul rapporto giuridico previdenziale  (che  nel  primo
trova il suo presupposto), non dovrebbe  risultare  "utile"  ai  fini
previdenziali. Nondimeno, allo scopo di  salvaguardare  la  posizione
previdenziale del lavoratore per  tutta  la  durata  dell'aspettativa
senza assegni, l'ordinamento  consente  di  considerare  quest'ultima
utile ai fini previdenziali,  in  alcuni  casi  condizionatamente  al
pagamento di un contributo da riscatto (cosi' per le aspettative  non
retribuite per motivi privati del lavoratore). 
    Cio' posto, l'art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502  del  1992,
introdotto dal d.lgs.  n.  229  del  1999,  non  si  e'  limitato  ad
estendere l'utilita' del periodo  di  aspettativa  senza  assegni  al
dipendente  privato  il  quale  sia   nominato   direttore   generale
(sanitario  o  amministrativo)  di  azienda  sanitaria,  ma   prevede
altresi', con valenza generalizzata, che debba essere assoggettato  a
contribuzione l'importo percepito per  lo  svolgimento  dell'incarico
dirigenziale. 
    La disposizione censurata risulterebbe incoerente  rispetto  alla
ratio che giustifica  la  previsione  dell'utilita'  dei  periodi  di
aspettativa senza assegni ai fini previdenziali: mentre lo  scopo  di
quest'ultima e' di evitare soluzioni di continuita'  nella  posizione
previdenziale  del  lavoratore,  il  risultato  cui  e'   giunto   il
legislatore delegato e'  l'attribuzione  di  un  ingiusto  privilegio
attraverso  «una   riliquidazione   del   trattamento   previdenziale
parametrato, per tutti gli anni  di  servizio  svolti,  al  ben  piu'
vantaggioso  compenso  percepito  solamente  nell'ultimo  periodo  di
lavoro in cui e' stato svolto l'incarico» dirigenziale. 
    La difesa dell'Istituto prosegue osservando che  il  rapporto  di
lavoro del direttore generale e' qualificato dalla giurisprudenza  di
legittimita' come  lavoro  autonomo  (Corte  di  cassazione,  sezioni
unite, sentenza n. 3882 del  1998),  distinto  da  quello  di  natura
subordinata (presso ente pubblico o  datore  di  lavoro  privato)  in
essere  al  momento  del  collocamento  in  aspettativa,   che   solo
giustifica  la  tutela  previdenziale.  Cio'  che  del  resto   trova
riscontro nella  previsione  contenuta  nell'art.  1,  comma  6,  del
d.P.C.m. 19 luglio 1995, n. 502, secondo  cui  «nulla  e'  dovuto,  a
titolo di indennita' di recesso, al direttore generale  nei  casi  di
cessazione dell'incarico per decadenza, mancata  conferma,  revoca  o
risoluzione del contratto nonche' per dimissioni». 
    Proprio in ragione di tale ricostruzione del  sistema  -  secondo
cui oggetto esclusivo di tutela e'  la  continuita'  della  posizione
previdenziale  del  lavoratore  in  aspettativa   senza   assegni   -
l'Istituto ha costantemente interpretato l'art. 3-bis, comma 11,  del
d.lgs. n. 502 del 1992, nel  senso  che  il  versamento  contributivo
debba essere effettuato (dall'amministrazione di appartenenza)  sulla
retribuzione che il dipendente percepiva all'atto di collocamento  in
aspettativa o alla quale avrebbe avuto diritto,  secondo  la  normale
progressione economica all'interno dell'ente,  se  fosse  rimasto  in
servizio (e' richiamata l'Informativa INPDAP  n.  4  del  15  gennaio
2002). 
    2.2. - La difesa dell'Istituto appellante osserva come la  delega
contenuta nell'art. 2, comma 1, lettera t), della legge  n.  419  del
1998  avesse  il  chiaro  scopo  di   eliminare   una   «evidente   e
ingiustificata   discriminazione»   in   ambito   previdenziale   tra
lavoratori pubblici, da un lato, e  lavoratori  privati,  dall'altro,
nell'eventualita'  di  nomina  a  direttori   generali   di   azienda
sanitaria. L'art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del  1992  assicurava
solo ai  primi  l'utilita'  ai  fini  previdenziali  del  periodo  di
aspettativa senza assegni; i lavoratori dipendenti  privati  potevano
soltanto riscattare tale periodo. 
    La legge di  delega  n.  419  del  1998,  oltre  ad  indicare  la
finalita'  di  rendere  omogeneo  il  trattamento  previdenziale  dei
lavoratori dipendenti, pubblici e privati, nominati ai vertici  delle
aziende sanitarie ed ospedaliere, avrebbe  anche  tracciato  in  modo
puntuale il cammino da seguire per realizzare la finalita'  predetta,
attraverso cioe' l'estensione ai dipendenti privati della  previsione
contenuta nell'art. 3, comma 8, secondo periodo, del  d.lgs.  n.  502
del 1992. 
    Diversamente, il decreto delegato n. 229 del 1999 avrebbe violato
la delega in duplice senso: dapprima con  l'abrogazione  -  ad  opera
dell'art. 3, comma 2 - della previsione che doveva essere  estesa,  e
successivamente con l'introduzione - ad opera dell'art. 3, comma 3  -
dell'art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992, che ha dettato
una nuova disciplina dei versamenti previdenziali, individuando quale
retribuzione utile a tal fine il compenso  percepito  per  l'incarico
dirigenziale anziche' lo stipendio spettante al  momento  in  cui  il
lavoratore e' collocato in aspettativa senza assegni. 
    2.3. -  Dopo  aver  richiamato  numerose  pronunzie  della  Corte
costituzionale in tema di eccesso di delega,  la  difesa  dell'INPDAP
evidenzia come, nel caso oggi sottoposto all'esame  della  Corte,  la
volonta' del legislatore delegante non fosse quella  di  disciplinare
ex novo, peraltro con costi aggiuntivi e senza copertura finanziaria,
il regime previdenziale  applicabile  ai  lavoratori  dipendenti  che
vengono nominati direttori generali di aziende  sanitarie;  nel  caso
contrario, la legge di delega non  avrebbe  richiamato  espressamente
l'art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992. 
    3. - Con atto depositato il 18 settembre 2009, si  e'  costituito
nel  giudizio  incidentale   M.A.L.,   appellato   nel   procedimento
principale, il quale ha concluso  per  il  rigetto  della  questione,
riservandosi di esporre le  relative  argomentazioni  con  successiva
memoria. 
    In prossimita' dell'udienza, la difesa dell'appellato  depositava
memoria illustrativa nella quale riepilogava i  dati  riguardanti  la
posizione lavorativa del predetto. 
    3.1.  -  La  difesa  della  parte  privata  reputa  la  questione
infondata,  essendo  erroneo  il  presupposto  sul  quale  la   Corte
d'appello rimettente ha sviluppato il proprio  ragionamento.  Secondo
il giudice a quo, infatti, poiche' l'incarico di  direttore  generale
di  azienda   sanitaria   e'   considerato   prestazione   di   opera
professionale da lavoro autonomo, il trattamento stipendiale indicato
nell'art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992 non poteva riferirsi
agli emolumenti  ricevuti  per  l'attivita'  di  direttore  generale,
bensi' alla retribuzione che  il  soggetto  percepiva  da  lavoratore
subordinato. 
    In realta', prosegue la difesa del lavoratore appellato,  secondo
l'art. 1, comma 1, lettera d), della legge 23 ottobre  1992,  n.  421
(Delega al Governo per la  razionalizzazione  e  la  revisione  delle
discipline in materia di sanita', di pubblico impiego, di  previdenza
e di finanza territoriale), il direttore generale  «e'  assunto»  con
contratto  di  diritto  privato  a  termine.   Cio'   non   significa
necessariamente che sia un lavoratore autonomo, tanto piu' che quella
stessa legge di delega, all'art. 2, imponeva al Governo di  prevedere
l'applicazione del diritto civile a buona parte del pubblico impiego;
ne' la previsione  del  termine  esclude  che  si  tratti  di  lavoro
dipendente,  essendo  ammessa  anche  la  "tutela  reale"  di  natura
ripristinatoria, in se' incompatibile  con  il  lavoro  autonomo  (e'
richiamata l'ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V,  n.  3069  del
2007). 
    In definitiva, percio',  la  locuzione  utilizzata  nell'art.  3,
comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, doveva essere interpretata  come
indicativa della retribuzione percepita dal lavoratore per l'incarico
di direttore generale, sicche' il d.lgs. n. 229 del 1999 non  sarebbe
sul punto innovativo. 
    Al  contrario,  la  locuzione  predetta  fu  interpretata   dagli
Istituti di  assicurazione  nel  senso  che  l'INPDAP  effettuava  il
prelievo contributivo sulla retribuzione  virtuale  che  il  pubblico
dipendente avrebbe percepito se non fosse stato posto in  aspettativa
senza  assegni  dall'amministrazione  di   appartenenza,   e   l'INPS
effettuava il rimanente  prelievo  sulla  retribuzione  percepita  in
qualita'  di  direttore  generale  (e'  richiamata  in  proposito  la
Circolare INPS n. 201 del 17 ottobre  1996).  Cio'  determinava,  tra
l'altro, trattamenti ingiustificatamente differenziati  tra  soggetti
che esercitavano  la  medesima  attivita',  a  seconda  del  compenso
"virtuale" che ciascuno  avrebbe  ricevuto  dall'originario  ente  di
appartenenza, tenuto conto che nel  settore  pubblico  esistono  nove
aree  dirigenziali,  ciascuna  con  diverso  trattamento   economico.
Inoltre,  non  potendosi  calcolare  le  indennita'  correlate   alla
effettiva presenza in servizio, la  retribuzione  virtuale  risultava
significativamente ridotta, sicche' i dirigenti venivano collocati  a
riposo con un trattamento economico nettamente inferiore a quello che
sarebbe loro spettato se fossero rimasti in servizio effettivo presso
l'ente di appartenenza. 
    Per i dirigenti provenienti dal settore privato, poi, mancava del
tutto una disciplina riguardante  il  trattamento  previdenziale  (e'
richiamata la sentenza della Cassazione n. 12325 del 2008). 
    I profili di disomogeneita'  che  discendevano  da  tale  assetto
normativo erano a dir poco eclatanti: cio'  avrebbe  dovuto  portare,
secondo  la  difesa  dell'appellato,  a  ritenere  che  la  locuzione
trattamento stipendiale, di cui all'art. 3, comma 8,  del  d.lgs.  n.
502 del 1992, dovesse riferirsi a quanto percepito dal lavoratore per
l'incarico di direttore generale (sanitario o amministrativo) di  asl
o di aziende ospedaliere. 
    In questo era intervenuta la legge di delega n. 419 del 1998, che
all'art. 2, lettera t), dava mandato al Governo di procedere in primo
luogo alla omogeneizzazione del trattamento, fissando,  come  secondo
obiettivo, di estendere ai lavoratori dipendenti privati la copertura
previdenziale. 
    Secondo la difesa della parte privata, la lettura del criterio di
delega  assunta  dal  rimettente,  e  prima  di  esso   dalla   parte
appellante,  sarebbe  erroneamente  restrittiva,  in  quanto   riduce
all'estensione della previsione contenuta nell'art. 3, comma  8,  del
d.lgs. n. 502 del 1992, l'intero, e piu' ampio, obiettivo di  rendere
omogeneo  il  trattamento  previdenziale  dei  soggetti  nominati  ai
vertici  delle  aziende  sanitarie  o  ospedaliere,  nel   quale   la
disposizione introdotta dall'avverbio «altresi'» andrebbe intesa come
riferita all'applicazione anche ai dipendenti privati della copertura
previdenziale, essendone costoro fino a quel momento sprovvisti. 
    3.2. - La difesa dell'appellato evidenzia infine  che  a  partire
dalla entrata in vigore della nuova normativa, vale a dire  da  circa
dieci anni, l'INPDAP non ne  ha  mai  contestato  l'applicazione  con
riferimento   al   trattamento   di   quiescenza,   avendo   riscosso
contribuzione piena su tutta la retribuzione percepita dai  direttori
generali provenienti dal settore  pubblico,  mentre  con  riferimento
all'indennita' premio di servizio lo stesso Istituto ha continuato ad
utilizzare la base di calcolo del trattamento retributivo  "virtuale"
(cosi' la Circolare n. 2 del 2000, che distingue tra  il  trattamento
onnicomprensivo,  proprio  della  pensione,  e  il   trattamento   di
indennita' premio di  servizio),  sul  presupposto  che  l'indennita'
predetta abbia natura di retribuzione differita e non  previdenziale,
e cio' in contrasto con la piu' volte  richiamata  giurisprudenza  di
legittimita'  che  ha  ricondotto  l'indennita'  premio  di  servizio
nell'ambito dei trattamenti di previdenza e assistenza da calcolarsi,
ai sensi dell'art. 3-bis, comma 11, del d.lgs n. 502  del  1992,  sul
trattamento economico effettivamente percepito dal lavoratore. 
    La  parte  privata  conclude,  quindi,  per  il   rigetto   della
questione, rappresentando che l'INPDAP ha introitato per dieci anni i
maggiori contributi in virtu' della  norma  oggi  censurata,  sicche'
l'accoglimento della tesi propugnata dall'Istituto  e  fatta  propria
dal rimettente finirebbe per ledere l'affidamento di quei soggetti  i
quali hanno deciso di accettare  l'incarico  di  direttore  generale,
sanitario,   amministrativo,   di   aziende   sanitarie   o   aziende
ospedaliere. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - La Corte d'appello di Ancona ha  sollevato,  in  riferimento
all'art.   76   della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 3, commi 2 e 3, del decreto  legislativo  19
giugno 1999, n. 229 (Norme  per  la  razionalizzazione  del  Servizio
sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30  novembre
1998, n.  419),  nella  parte  in  cui,  rispettivamente,  abroga  la
disposizione di cui all'art. 3, comma 8, del decreto  legislativo  30
dicembre  1992,  n.  502  (Riordino  della  disciplina   in   materia
sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23  ottobre  1992,  n.
421), ed aggiunge l'art. 3-bis, comma 11, al medesimo d.lgs.  n.  502
del 1992, prevedendo che i contributi previdenziali - da versarsi  da
parte dell'amministrazione di appartenenza del  dipendente  collocato
in aspettativa senza assegni, in quanto nominato  direttore  generale
di  azienda  sanitaria  locale  -  siano  calcolati  sul  trattamento
economico  corrisposto  per  l'incarico  conferito.  La  disposizione
censurata sarebbe in contrasto con l'art. 2,  comma  1,  lettera  t),
della legge 30 novembre 1998,  n.  419  (Delega  al  Governo  per  la
razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale e  per  l'adozione
di un testo unico in materia di organizzazione  e  funzionamento  del
Servizio sanitario nazionale. Modifiche al D.Lgs. 30 dicembre 1992 n.
502)  e  pertanto  eccederebbe  dai  principi  e  criteri   direttivi
stabiliti dal legislatore delegante. 
    2. - La questione non e' fondata. 
    2.1. - La legge di  delega  n.  419  del  1998,  intervenendo  in
materia di trattamento assistenziale  e  previdenziale  dei  soggetti
nominati direttore generale,  direttore  amministrativo  e  direttore
sanitario di azienda sanitaria locale, dava  mandato  al  Governo  di
«rendere omogenea la disciplina» di  tale  trattamento,  «nell'ambito
dei  trattamenti  assistenziali  e   previdenziali   previsti   dalla
legislazione vigente, prevedendo altresi' per  i  dipendenti  privati
l'applicazione dell'articolo 3, comma 8, secondo periodo, del decreto
legislativo 30 dicembre 1992 n. 502, e successive modificazioni». 
    Il d.lgs. n. 229 del 1999, attuativo della delega, ha abrogato il
citato art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992, sostituendolo con
l'art. 3-bis, comma 11, che cosi' dispone:  «La  nomina  a  direttore
generale, amministrativo  o  sanitario  determina  per  i  lavoratori
dipendenti il collocamento in aspettativa senza assegni e il  diritto
al mantenimento del posto. L'aspettativa e' concessa  entro  sessanta
giorni dalla richiesta. Il periodo di aspettativa e'  utile  ai  fini
del trattamento di quiescenza e di previdenza. Le amministrazioni  di
appartenenza provvedono ad effettuare il  versamento  dei  contributi
previdenziali e assistenziali comprensivi delle quote  a  carico  del
dipendente,  calcolati  sul  trattamento  economico  corrisposto  per
l'incarico conferito nei limiti dei  massimali  di  cui  all'art.  3,
comma 7,  del  decreto  legislativo  24  aprile  1997  n.  181,  e  a
richiedere il rimborso di  tutto  l'onere  da  esse  complessivamente
sostenuto  all'unita'  sanitaria  locale  o  all'azienda  ospedaliera
interessata, la quale  procede  al  recupero  della  quota  a  carico
dell'interessato». 
    A sua volta, l'art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 502 del 1992  cosi'
statuiva: «Per i pubblici dipendenti la nomina a direttore  generale,
direttore  amministrativo  e   direttore   sanitario   determina   il
collocamento in aspettativa senza assegni; il periodo di  aspettativa
e' utile ai fini del trattamento di  quiescenza  e  di  previdenza  e
dell'anzianita'  di  servizio.  Le  amministrazioni  di  appartenenza
provvedono ad  effettuare  il  versamento  dei  relativi  contributi,
comprensivi  delle  quote  a  carico  del  dipendente,  nonche'   dei
contributi  assistenziali,  calcolati  sul  trattamento   stipendiale
spettante al medesimo ed a richiedere  il  rimborso  del  correlativo
onere alle unita' sanitarie locali interessate, le quali procedono al
recupero delle quote a carico dell'interessato. Qualora il  direttore
generale, il direttore sanitario ed il direttore amministrativo siano
dipendenti privati sono collocati in aspettativa  senza  assegni  con
diritto al mantenimento del posto». 
    3. - La questione di legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
giudice a quo si fonda essenzialmente  sulla  considerazione  che  il
legislatore  delegante  avrebbe  perseguito  l'obiettivo  di  rendere
omogenea la disciplina del trattamento assistenziale e  previdenziale
dei soggetti di cui sopra «attraverso la previsione della  estensione
anche ai dipendenti privati della disciplina omogenea del trattamento
assistenziale  e  previdenziale»  gia'  prevista  per  i   dipendenti
pubblici   e   fondata   sul   «comune   presupposto   del    calcolo
dell'imponibile contributivo sulla base del livello  stipendiale  del
rapporto di lavoro quiescente con conseguente esclusione del criterio
alternativo del calcolo sulla base dei compensi (da lavoro  autonomo)
spettanti per l'incarico di direzione». 
    Tale argomentazione non e' compatibile con la lettera  e  con  la
ratio della sopra trascritta disposizione contenuta  nella  legge  di
delega. 
    Quest'ultima infatti rivolge  al  Governo  due  distinti  criteri
direttivi, che trovano la loro base comune  in  un  unico  principio,
consistente nella  finalita'  di  eliminare  le  differenziazioni  di
trattamento assistenziale e previdenziale tra tutti i  soggetti  che,
pur provenienti da settori diversi, pubblici e privati, si trovino ad
espletare le funzioni di vertice di aziende sanitarie. Nell'ambito di
tale principio a carattere generale, il primo  di  detti  criteri  e'
quello di individuare una base comune  di  calcolo,  per  evitare  il
perpetuarsi delle sperequazioni derivanti dalla  diversa  provenienza
degli interessati;  il  secondo  e'  quello  di  estendere  anche  ai
dipendenti privati la "utilita'", ai fini previdenziali, del  periodo
trascorso nell'incarico, fino a quel  momento  prevista  per  i  soli
dipendenti pubblici. Accanto al censurato comma 11  dell'art.  3-bis,
e' stato inserito, inoltre, un comma 12, che estende ulteriormente il
principio dell'unificazione di  trattamento  previdenziale  anche  ai
lavoratori  autonomi,  completando  in  tal  modo  l'attuazione   del
principio stesso, mediante un terzo criterio direttivo, che non viene
direttamente in considerazione nel presente giudizio, ma tuttavia  si
lega strettamente ai primi due. 
    3.1. - Il dato  letterale,  che  sostiene  la  corretta  lettura,
illustrata al paragrafo precedente, della disposizione della legge di
delega, e' costituito dalla presenza  dell'avverbio  «altresi'»,  che
non  avrebbe  alcun  senso  se  tra  omologazione   dei   trattamenti
previdenziali   ed   estensione   anche   ai    dipendenti    privati
dell'efficacia delle norme dettate per i dipendenti pubblici vi fosse
un rapporto esaustivo tra  fine  e  mezzo,  come  ritiene  invece  il
rimettente, che lo considera l'unico mezzo ammesso dalla  delega  per
realizzare l'omologazione delle tutele previdenziali. 
    Al legislatore  delegato  viene  prescritto  invero  di  «rendere
omogenei» i trattamenti ed  inoltre  («altresi'»)  di  estendere  gli
stessi, una volta unificati, ai lavoratori  privati,  allo  scopo  di
completare   il   quadro   della   parificazione   della    copertura
previdenziale. 
    Sarebbe stato peraltro  in  contraddizione  con  la  ratio  della
delega, se la omologazione dei  trattamenti  previdenziali  si  fosse
limitata ad estendere,  puramente  e  semplicemente,  il  trattamento
preesistente, fonte di disparita' - dovute alle  diverse  carriere  e
status dei soggetti - anche  ai  dipendenti  privati.  Questi  ultimi
avrebbero superato la  ingiustificata  diversificazione  rispetto  ai
pubblici dipendenti,  dovuta  all'assenza  di  contribuzione  per  la
durata dell'  incarico,  ma  avrebbero  condiviso  con  i  primi  una
situazione sicuramente non  omogenea,  in  contrasto  con  il  chiaro
indirizzo manifestato dal legislatore delegante. 
    4. - La delega imponeva  al  Governo  di  mantenersi  nell'ambito
della legislazione vigente in materia previdenziale.  Cio'  significa
che non era consentito creare, con il decreto delegato, forme nuove e
diverse di previdenza, sia con riguardo al trattamento di quiescenza,
sia con riferimento all'indennita' premio di  servizio.  Si  deve  in
proposito rilevare che nessuna innovazione e'  stata  introdotta  sia
nel metodo di determinazione della  pensione,  previsto  dalle  leggi
vigenti per i pubblici dipendenti, sia per  il  criterio  di  calcolo
della misura dell'indennita' premio di servizio,  che  rimane  quello
fissato dall'art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme  in
materia previdenziale per il personale degli Enti locali). 
    Posto quanto sopra, l'individuazione della base di calcolo  nella
retribuzione   goduta   per   l'incarico   di   direttore   generale,
amministrativo e sanitario di azienda sanitaria,  e  non  invece  sul
compenso  "virtuale"   legato   all'ultima   prestazione   lavorativa
effettuata  presso  l'ente  di  provenienza,  e'  stata  operata  dal
legislatore  delegato  scegliendo  uno  dei   mezzi   possibili   per
realizzare quell'unificazione delle tutele  imposta  dalla  legge  di
delega. 
    Ne' varrebbe, a  sostegno  della  tesi  dell'eccesso  di  delega,
rilevare  la  "specialita'"  della  disciplina  dettata  dalla  norma
censurata,  che  si   rifletterebbe   in   un   indebito   incremento
dell'indennita' premio di servizio, giacche', come  ha  osservato  il
giudice della legittimita', proprio con riguardo alla norma censurata
nel presente giudizio, «il riferimento dell'art.  4  l.  n.  152/1968
alla retribuzione dell'ultimo  anno  di  servizio  ben  consente,  in
generale, il computo di aumenti retributivi conseguiti in prossimita'
della cessazione  del  rapporto  di  lavoro»  (Corte  di  cassazione,
sentenza n. 11925 del 2008). La normativa speciale, che stabilisce la
permanenza del rapporto di lavoro dipendente, mediante  l'aspettativa
senza  assegni,  e  la  "utilita'"  del  periodo  trascorso  in  tale
situazione ai fini assistenziali e previdenziali, e' preesistente  al
d.lgs. n. 229 del 1999. Da essa deriva una linea di  continuita',  ai
fini previdenziali, tra status precedente del  soggetto  ed  incarico
svolto, in regime contrattuale, a tempo determinato. 
    Il legislatore, sin dalla riforma generale del Servizio sanitario
nazionale del 1992, non ha voluto scoraggiare  la  disponibilita'  di
soggetti dotati di esperienza e professionalita' adeguate ad assumere
i  delicati  e  rilevanti  incarichi  di  dirigenza   delle   aziende
sanitarie.  La  norma  censurata  ha  soltanto  inteso  eliminare  la
scissione tra "valore" della prestazione lavorativa attuale,  segnato
dal compenso contrattuale contenuto entro i massimali  fissati  dalla
legge, e misura della contribuzione previdenziale, rapportata  ad  un
lavoro  non  attualmente  svolto,  legato  a   diverse   funzioni   e
responsabilita'. In particolare, nel solco della  delega,  ha  voluto
eliminare situazioni di ingiustificata disparita' di trattamento,  in
base alle quali per lo stesso lavoro, ed a parita' di retribuzione in
atto percepita, le contribuzioni previdenziali  presentavano  livelli
anche  molto  differenziati,  la  cui  divaricazione  si  manifestava
palesemente  irragionevole,  al  punto  da  indurre  il   legislatore
delegante  a  dare  mandato  al  Governo  di  «rendere  omogenei»   i
trattamenti. 
    Del resto, la norma generale contenuta nell'art. 31  della  legge
20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e  dignita'
dei lavoratori, della liberta' sindacale e  dell'attivita'  sindacale
nei luoghi di lavoro e norme  sul  collocamento),  che  si  riferisce
all'aspettativa dei lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive
o a ricoprire cariche sindacali, pone, al quinto comma, il divieto di
ogni duplicazione contributiva, ritenendo interamente sostitutivo  il
trattamento  previdenziale  previsto   in   relazione   alla   carica
ricoperta. In tal caso la contribuzione sara' ovviamente  commisurata
all'indennita'  percepita  per  la  carica  e  si   riflettera'   sul
trattamento previsto «in relazione all'attivita' espletata durante il
periodo di aspettativa». 
    Per quanto riguarda i dipendenti delle pubbliche  amministrazioni
eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei  Consigli
regionali, essi possono optare per l'indennita' di carica,  in  luogo
della retribuzione percepita per il lavoro precedente. Anche in  tale
ipotesi, la contribuzione  sara'  reale  ed  a  carico  del  soggetto
istituzionale, nel cui ambito vengono  svolte  le  funzioni  inerenti
alla carica. 
    Analogamente,   i   soggetti    provenienti    dalle    pubbliche
amministrazioni, che  assumono  le  cariche  di  direttore  generale,
amministrativo e sanitario di aziende  sanitarie  sono  "coperti",  a
fini previdenziali, ai sensi della norma  censurata,  dai  contributi
reali, gravanti sull'ente nell'ambito del quale vengono esercitate le
relative  funzioni.  La  soluzione,   individuata   dal   legislatore
delegato,   al   problema   della   omologazione   dei    trattamenti
previdenziali   e   assistenziali   non   e'   pertanto    eccentrica
nell'ordinamento, giacche' essa tende a comparire tutte le  volte  in
cui un soggetto svolge temporaneamente  funzioni  diverse  e  gli  si
attribuisce il diritto a fruire  di  contribuzioni  commisurate  alla
retribuzione effettiva in atto percepita,  secondo  un  principio  di
tendenziale   corrispondenza   proporzionale   tra   entita'    della
retribuzione ed entita' della  contribuzione,  che  trova  attuazioni
diverse, a seconda della specificita' delle situazioni. 
    5. - Il principio  di  cui  sopra,  peraltro,  e'  stato  per  un
decennio accettato dall'INPDAP,  che  ha  regolarmente  introitato  i
maggiori contributi versati in relazione agli incarichi  in  oggetto,
che sono entrati, senza contestazioni, nel calcolo del trattamento di
quiescenza. L'accoglimento della  presente  questione  determinerebbe
pertanto un ulteriore squilibrio  fra  trattamento  di  quiescenza  e
indennita'  premio  di  servizio,   che,   secondo   la   consolidata
giurisprudenza di legittimita', ha ugualmente  natura  previdenziale.
E' appena il caso di aggiungere che il  pensionamento,  e  quindi  il
diritto  all'indennita'  di  cui  sopra,  del   lavoratore   pubblico
dipendente in costanza dell'incarico  esterno  e'  una  evenienza  di
fatto, che determina coerenti conseguenze giuridiche  ed  economiche,
mentre diversa e' la situazione di chi  rientri  nell'amministrazione
di provenienza, una volta cessato dall'incarico,  cui  ugualmente  si
applica l'art. 4 della legge n. 152 del 1968. 
    6. - L'intervenuta abrogazione dell'art. 3, comma 8,  del  d.lgs.
n. 502 del 1992 non e' significativa ai fini  della  valutazione  del
denunciato  eccesso  di  delega.  Difatti,  il  contenuto   di   tale
disposizione e' stato trasfuso nel nuovo art. 3-bis,  comma  11,  con
l'unica  variante  della  precisazione  della  base  di  calcolo  dei
contributi previdenziali,  resa  necessaria,  come  s'e'  visto,  per
adempiere al mandato della legge di delega,  di  rendere  omogenei  i
trattamenti. 
    In definitiva, si deve ritenere che la norma contenuta  nell'art.
3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 229 del 1999, non si pone in contrasto
con l'art. 2, comma 1, lettera t), della legge di delega n.  419  del
1998, in quanto, nel rispetto della  ratio  di  quest'ultima,  e'  il
frutto dell'esercizio della discrezionalita' del legislatore delegato
nell'ambito dei principi e criteri direttivi stabiliti dalla  delega,
in coerenza con la giurisprudenza di questa Corte in tema  di  limiti
posti dall'art. 76 Cost. (ex plurimis, tra le piu' recenti,  sentenze
n. 293 del 2010, n. 340 del 2007, n. 426 del 2006 e n. 280 del 2004). 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999,  n.
229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale,
a norma dell'articolo 1  della  legge  30  novembre  1998,  n.  419),
sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dalla Corte
d'appello di Ancona con l'ordinanza in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 29 novembre 2010. 
 
                      Il Presidente: De Siervo 
 
 
                       Il redattore: Silvestri 
 
 
                      Il cancelliere: Di Paola 
 
    Depositata in cancelleria il 3 dicembre 2010. 
 
              Il direttore della cancelleria: Di Paola