N. 76 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 gennaio - 17 febbraio 2011
Ordinanza del 17 febbraio 2011 emessa dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di Belfiore Giuseppe. Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative comportanti un regime piu' favorevole in tema di prescrizione dei reati - Disciplina transitoria - Inapplicabilita' delle nuove norme ai processi gia' pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione - Lesione del diritto dell'accusato al trattamento piu' lieve, corollario del principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale affermato dall'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo. - Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 10, comma 3. - Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.19 del 4-5-2011 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da Belfiore Giuseppe, nato a Gioiosa Jonica il 7 ottobre 1956 (avverso la sentenza della Corte d'Appello di Torino in data 3 febbraio 2010; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza; udito il Procuratore Generale in persona del dott. Giovanni D'Angelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore dell'imputato Avv. Marco Ferrero, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino in data 11 dicembre 2002, Belfiore Giuseppe veniva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per il reato dl bancarotta fraudolenta patrimoniale commesso quale amministratore unico della s.r.l. API, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Torino in data 17 giugno 1996, distraendo, distruggendo o comunque dissipando macchine per ufficio, mobili, arredi per ufficio e crediti dell'importo di lire 10.000.000. Il ricorrente lamenta: 1. violazione degli articoli 157 cod. pen. e 10 legge 251/2005 in ordine alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione; 2. violazione degli articoli 192, 521, 533 e 604 cod. proc. pen. e manifesta illogicita' della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilita' dell'imputato; 3. mancata assunzione di una prova decisiva costituita dalla deposizione del teste Tempo Giovanni. Ritenuto in diritto 1. Con il primo motivo il ricorrente, premesso che con la sentenza impugnata venivano escluse l'aggravante e la recidiva contestate e che il reato e' di conseguenza prescritto ove venga applicata la sopravvenuta normativa in materia di termini prescrizionali di cui alla legge n. 251 del 2005, e richiamati gli orientamenti giurisprudenziali succedutisi in tema di determinazione della pendenza del procedimento in appello ai fini di detta applicazione della nuova normativa, sostiene essere preferibile la tesi, convalidata da parte della giurisprudenza nel caso della pronuncia in primo grado di una sentenza assolutoria e ritenuta valida anche per il caso in esame, per la quale la pendenza in secondo grado si realizza con l'emissione del decreto di citazione a giudizio in appello, in quanto maggiormente garantiste e tale da legare la pendenza ad un momento processuale certo, comune a tutte le situazioni senza discriminazione fra casi di condanna e di assoluzione in primo grado; ed a questo proposito rileva come la diversa indicazione giurisprudenziale della sentenza di primo grado quale determinante la pendenza in appello, pur fatta propria dalle Sezioni Unite di questa Corte, contrasta con l'art. 117 Cost. in quanto non conforme all'art. 6 comma secondo del Trattato sull'Unione Europea, laddove Io stesso impone il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia del diritti dell'uomo, e con le decisioni della Corte di Giustizia delle Comunita' Europee che includono fra detti principi l'applicazione della pena piu' favorevole in tema di prescrizione, come riconosciuto con l'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite in data 12 novembre 2009 che si allega al ricorso, in subordine sollevandosi eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10 legge 251/2005 per contrasto con il citato art. 117. 2. Come e' noto, l'art. 10 legge n. 251 del 2005 detta disposizioni transitorie sull'applicazione dei termini prescrizionali secondo i diversi criteri stabiliti dalla stessa legge a modifica della previsione dell'art. 157 cod. pen. In particolare, per cio' che qui interessa, il comma 3 dell'articolo citato, nella formulazione conseguente alla declaratoria di parziale illegittimita' costituzionale di cui a Corte Cost., sent. n. 393 del 2006, stabilisce che i termini computati secondo la normativa sopravvenuta, ove piu' brevi di quelli individuati alla legislazione precedente, vengano applicati ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge ad esclusione di quelli gia' pendenti in grado di appello o dinanzi alla Corte di Cassazione. Posto che la disciplina dei termini di prescrizione ha natura sostanziale (Sez. 5, n. 12766 del 16 febbraio 2010, imp. Meggiorin, Rv. 246877) ed e' pertanto soggetta all'applicazione del principi generali di cui all'art. 2 cod. pen. in tema di retroattivita' della legge piu' favorevole all'imputato, la norma in oggetto pone nella specie un limite a tale generale effetto retroattivo, identificandolo, nello sviluppo cronologico del procedimento, nella pendenza del procedimento in grado di appello; per cui, laddove detta pendenza abbia avuto inizio prima dell'entrata in vigore della legge introduttiva delle nuove modalita' di calcolo dei termini di prescrizione, queste ultime non potranno essere applicate nel procedimento, che continuera' ad essere regolato a questi fini dalla normativa previgente. Come rammentato dallo stesso ricorrente, questa Corte ha recentemente affermato che il dato processuale della pendenza del procedimento in grado d'appello del procedimento e' determinato dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado (Sez. U, n. 47008 del 29 ottobre 2009, imp. D'Amato, Rv. 244810). Questa posizione, ribadita anche da decisioni successive (Sez. 6, n. 8983 del 16 dicembre 2009, imp. Torrisi, Rv. 246406), e' coerente con la attuale formulazione dell'art. 10, comma 3, legge n. 251 del 2005, che non radica il discrimine fra le aree di operativita' delle normative succedutesi in un atto processuale determinato, ma Io indica Invece sostanzialmente nell'inizio di una fase processuale. Ragionevole e consequenziale e' a questo punto un'interpretazione che colloca il limite nell'atto formalmente conclusivo della fase immediatamente precedente, ossia quella di primo grado; atto che deve essere individuato nella pronuncia della sentenza di condanna che definisce quella fase, ponendosi per altro verso come affermazione particolarmente qualificata, in quanto susseguente alla verifica del contraddittorio dibattimentale, della volonta' punitiva dell'ordinamento, come tale indicata in posizione preminente quale atto interruttivo della prescrizione dall'art. 160, comma 1, cod. pen.. Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, il principio appena enunciato non e' posto in discussione dall'indirizzo giurisprudenziale per il quale, laddove il giudizio di primo grado si sia concluso con una sentenza di assoluzione, il momento determinante per l'instaurarsi della pendenza in grado di appello deve essere identificato nell'emissione del decreto di citazione a giudizio per tale grado. L'orientamento in esame (Sez. 6, n. 7112 del 25 novembre 2008, imp. Perrone, Rv. 242421) e' fondato invero proprio sull'impossibilita' di estendere le connotazioni conclusive e definitorie della fase di primo grado, proprie della sentenza di condanna, alla sentenza di assoluzione, significativamente non indicata fra gli atti interruttivi della prescrizione; in tal senso il criterio adottato dalla citata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte viene ad essere a contrariis confermato. 3. Tanto premesso, la questione di legittimita' costituzionale proposta in via subordinata sul punto dal ricorrente e' meritevole di attenta considerazione. Come gia' osservato in una precedente declaratoria di non manifesta infondatezza della questione (Sez. 2, n. 22357 del 27 maggio 2010, imp. De Giovanni, Rv. 247321), il principio di retroattivita' della legge piu' favorevole e' sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario. In primo luogo l'art. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge L. n. 881 del 1977, stabilisce che «se, posteriormente alla commissione di un reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, il colpevole deve beneficiarne», «disposizione alla quale si collega la riserva dell'Italia nel senso dell'applicazione limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli nei quali sia intervenuta una decisione definitiva». Gia' questa norma di carattere Internazionale, se paremetrata non all'art. 3 Cost., ma all'art. 117 comma 1, Cost., rende non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della disciplina transitoria in esame, perche' priva l'imputato, Il cui processo sia gia' pendente in appello o in Cassazione, dell'ottemperanza alla regola cogente, imposta dalla norma pattizia per la quale la legge piu' favorevole deve essere di immediata applicazione, senza che le deroghe disposte dalla legge ordinaria possano essere giustificate per effetto del bilanciamento con interessi di analogo rilievo. Piu' decisioni della Corte costituzionale, da ultima Corte cost., sent. n. 93 del 2010, hanno peraltro costantemente affermato che «le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione, integrano, quali norme interposte il parametro costituzionale espresso dall'art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui esso impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli "obblighi Internazionali" (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008)». Ne consegue che «nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma CEDU, il giudice nazionale comune, deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilita' di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sentenza n. 239 del 2009), e, ove tale soluzione risulti impercorribile, non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante, deve denunciare la rilevata incompatibilita' proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato». La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell'uomo, in seguito al ricorso n. 10249 del 2003 presentato da Scoppola Franco, con sentenza del 17 settembre 2009 ha imposto allo Stato italiano di porre fine alla violazione degli artt. 6 e 7 della Convenzione e di assicurare che la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente venisse sostituita con pena non superiore a quella della reclusione di anni trenta. La CEDU e' pervenuta alla citata decisione avendo affermato che l'art. 7 della Convenzione, che stabilisce il principio del divieto di applicazione retroattiva della legge penale, incorpora anche il corollario del diritto dell'accusato al trattamento piu' lieve. In particolare, per quel che rileva nel presente procedimento, dopo aver rammentato le proprie precedenti pronunce sull'interpretazione dell'art. 7 della Convenzione, la Corte europea ha stabilito che la sopravvenienza di norme di carattere internazionale e di pronunce applicative e interpretative di esse Imponeva un «approccio dinamico ed evolutivo nell'interpretazione dell'art. 7». Allo scopo richiamava l'art. 491 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, la sentenza 3 maggio 2005 della Corte di giustizia delle Comunita' europee e lo stesso art. 2 cod. pen. italiano. Affermava in conseguenza il principio secondo il quale «l'art. 71 della Convenzione non sancisce solo il principio della retroattivita' della legge penale piu' severa, ma anche, implicitamente, il principio della retroattivita' della legge penale meno severa», per cui «se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli all'imputato». Risulta a questo punto evidente il significato innovativo attribuito all'art. 7 della Convenzione, integrante norma interposta in relazione al parametro costituzionale di cui all'art. 117 Cost.. Il che impone lo scrutinio di legittimita' costituzionale, rispetto alla predetta norma, della disciplina che pone dei limiti all'efficacia nei procedimenti penali in corso della nuova previsione della legge 251 del 2005 in tema di determinazione dei termini di prescrizione, ove gli stessi siano piu' favorevoli all'imputato. 4. La proposta questione di legittimita' costituzionale e' altresi' rilevante nel presente giudizio. Occorre premettere che con la sentenza impugnata, escluse la circostanza aggravante di cui all'art. 219, comma secondo, n. 1 legge fall. e la recidiva reiterata ed infraquinquennale, la pena, determinata nella misura base di anni tre di reclusione, veniva ridotta per la riconosciuta attenuante di cui all'art. 219, comma terzo, legge fall.. Secondo la previgente normativa in tema di individuazione del termine di prescrizione, quest'ultimo dovrebbe essere stabilito nel caso di specie, avuto riguardo all'effetto della circostanza attenuante su un reato punito con pena edittale massima di anni dieci, e quindi con pena rilevante ai fini prescrizionali superiore ai cinque anni, nella misura di anni dieci, aumentata fino al limite massimo previsto in anni quindici per l'effetto degli atti interruttivi e ad anni quindici, mesi due e giorni quattordici per le sospensioni derivanti da rinvii delle udienze dibattimentali in primo grado dal 23 ottobre 2002 al 31 ottobre 2002 ed in secondo grado dal 27 novembre 2009 al 3 febbraio 2010; termine decorrente dalla data della dichiarazione di fallimento al 17 giugno 1996, e pertanto non ancora trascorso. Con l'applicazione della normativa sopravvenuta, irrilevante essendo l'attenuante in quanto circostanza ad effetto speciale, il termine di prescrizione dovrebbe essere determinato in misura pari al massimo edittale di anni dieci. Ai fini dell'aumento di detto termine fino al limite massimo previsto per gli atti interruttivi non puo' tenersi conto della contestata recidiva; pur se la motivazione della sentenza chiarisce che detta esclusione veniva pronunciata ai soli fini sanzionatori, in considerazione della lontananza nel tempo dei precedenti penali, tanto e' sufficiente perche' della circostanza non si possa tener conto neppure ai fini prescrizionali (Sez. 2, n. 18595 dell'8 aprile 2009, Rv. 244158). In questa prospettiva il termine massimo, tenuto conto dei menzionati periodi di sospensione, e' dunque di anni dodici, mesi otto e giorni quattordici, e risulta decorso al 3 marzo 2009. Ove ritenuta, all'applicabilita' dell'attuale disciplina seguirebbe pertanto la declaratoria di estinzione del reato. Gli ulteriori motivi di ricorso, se accolti, non determinerebbero regressioni del procedimento implicanti in quanto tali l'applicazione dei nuovi termini prescrizionali. L'eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3, legge 251 del 2005 determinerebbe pertanto l'applicazione di una disciplina per l'imputato piu' favorevole di quella attualmente operante. La questione deve pertanto essere rimessa alla Corte costituzionale, con sospensione del presente giudizio.
P.Q.M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale comma 3, legge 5 dicembre 2005, n. 251 in relazione all'art. 117 delle Costituzione e sospende il giudizio in corso. Dispone che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti del due rami del Parlamento. Cosi' deciso in Roma il 27 gennaio 2011. Il Presidente: Oldi Il consigliere estensore: Zaza