N. 134 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 11 - 18 novembre 2011

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 18 novembre 2011 (della Regione Lazio). 
 
Iniziativa  economica  privata  -  Commercio   -   Abolizione   delle
  restrizioni all'accesso e all'esercizio delle attivita' economiche,
  c.d. liberalizzazione - Obbligo per gli enti  locali  di  adeguare,
  entro un anno, i rispettivi ordinamenti al  principio  secondo  cui
  l'iniziativa e l'attivita' economica  privata  sono  libere  ed  e'
  permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge  -
  Elemento per la valutazione della  c.d.  "virtuosita'"  degli  enti
  territoriali, secondo il meccanismo  introdotto  dall'art.  20  del
  d.l. n. 98/2011 - Lamentata incidenza  nella  sfera  di  competenza
  regionale in assenza di  coinvolgimento  delle  Regioni  -  Ricorso
  della  Regione  Lazio  -  Denunciata  violazione  della  competenza
  legislativa residuale regionale in materia di attivita'  produttive
  e di commercio, violazione del principio di leale collaborazione. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 3, commi
  1 e 4. 
- Costituzione, art. 117, comma quarto. 
Regioni (in genere) -  Consiglieri  regionali  -  Determinazione  del
  numero  massimo  dei  consiglieri  e  degli  assessori   regionali,
  previsione  di  un  limite  massimo  degli   emolumenti   e   delle
  indennita', commisurazione del trattamento economico alla effettiva
  partecipazione  ai   lavori   del   Consiglio,   introduzione   del
  trattamento previdenziale contributivo, istituzione e disciplina di
  un organo regionale denominato "Collegio dei revisori dei conti"  -
  Obbligo per le Regioni di adeguamento entro i termini  stabiliti  -
  Elemento per la valutazione della  c.d.  "virtuosita'"  degli  enti
  territoriali, secondo il meccanismo  introdotto  dall'art.  20  del
  d.l. n. 98/2011 - Lamentata totale assenza di titolo  competenziale
  dello Stato - Ricorso della Regione Lazio -  Denunciata  violazione
  dell'autonomia regionale. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre  2011,  n.  148,  art.  14,
  comma 1. 
- Costituzione, artt. 122 e 123. 
Enti locali - Unioni di comuni  -  Comuni  fino  a  1000  abitanti  -
  Esercizio necessario di tutte le funzioni, incluse quelle  delegate
  o  attribuite  dalle  Regioni,  attraverso  la  forma   associativa
  dell'Unione dotata  di  propri  organi  e  potesta'  statutaria,  e
  titolare di rapporti giuridici e  di  risorse  -  Previsione  della
  forma  alternativa  della  convenzione,   rimessa   ai   Comuni   e
  all'apprezzamento del  Ministero  dell'interno  -  Attribuzione  al
  prefetto di un  potere  di  controllo  e  sostitutivo  -  Lamentata
  interferenza dello Stato in materia di associazionismo  degli  enti
  locali,  soppressione  e   fusione   dei   piccoli   Comuni   senza
  l'osservanza delle procedure costituzionali e  creazione  di  nuovi
  enti  territoriali  in  violazione   del   quadro   costituzionale,
  riallocazione di funzioni comunali ad opera  dello  Stato  anziche'
  della Regione in contrasto  con  il  principio  di  sussidiarieta',
  contrasto con la  riforma  del  Titolo  V  della  Costituzione  che
  implicitamente  esclude  controlli  statali  sugli  atti  comunali,
  mancato coinvolgimento della Regione - Ricorso della Regione  Lazio
  -  Denunciata  esorbitanza  dello  Stato  dal  proprio  ambito   di
  competenza in materia di enti locali, violazione  della  competenza
  legislativa e amministrativa  regionale  residuale  in  materia  di
  ordinamento degli enti locali e  di  forme  associative  tra  enti,
  lesione dei principi di sussidiarieta' e leale collaborazione. 
- Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,  convertito  nella  legge  14
  settembre 2011, n. 148, art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7,  8,  10,  11,
  12, 13, 14, 15, 16 e 28. 
- Costituzione, artt. 117, commi secondo, lett. p), e quarto, 118,  e
  133, comma secondo; legge costituzionale 18  ottobre  2001,  n.  3,
  art. 9, comma 2. 
Enti locali - Gestione e affidamento dei servizi pubblici  locali  di
  rilevanza  economica  -Adeguamento  della  disciplina  dei  servizi
  pubblici locali al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 e alla
  normativa europea - Obbligo per gli enti locali  di  verificare  la
  realizzabilita' di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici
  locali,    liberalizzando    tutte    le    attivita'    economiche
  compatibilmente  con  le   caratteristiche   di   universalita'   e
  accessibilita'  del  servizio  e  limitando,  negli   altri   casi,
  l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base
  ad una analisi di mercato, la libera iniziativa  economica  privata
  non risulti idonea a garantire un servizio rispondente  ai  bisogni
  della comunita' - Lamentata incidenza  sulla  materia  dei  servizi
  pubblici locali di spettanza residuale  regionale,  elusione  degli
  effetti vincolanti del referendum popolare - Ricorso della  Regione
  Lazio  -  Denunciata  violazione   della   competenza   legislativa
  regionale  residuale  in  materia  di  servizi   pubblici   locali,
  violazione del vincolo referendario. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 4. 
- Costituzione, artt. 75 e 117, comma quarto. 
(GU n.52 del 14-12-2011 )
     Ricorso della Regione Lazio, con sede in  Roma,  Via  Cristoforo
Colombo n. 212 (c.f. 80143490581), in persona  della  Presidente  pro
tempore, Renata  Polverini,  rappresentata  e  difesa,  in  forza  di
procura a margine del presente atto ed in virtu' della  Deliberazione
della Giunta regionale n. 522/2011 dal Prof. Avv.  Francesco  Saverio
Marini            (c.f.            MRNFNC73D28HSO1U,             PEC:
francescosaveriomarini@ordineavvocati  roma.org;  fax   06.36001570),
presso il cui studio in Roma, via dei Monti Parioli,  48,  ha  eletto
domicilio; ricorrente; 
    Contro il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del
Consiglio dei Ministri pro tempore, con sede in Roma, Palazzo  Chigi,
Piazza Colonna, 370, rappresentato e difeso ex  lege  dall'Avvocatura
generale dello Stato, con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,  12,
resistente; 
    Per  la  dichiarazione  di  illegittimita'   costituzionale   del
decreto-legge 13 agosto  2011,  n.  138,  recante  «Ulteriori  misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo»,  come
convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011,  n.  148,
pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n.  216  del  16
settembre 2011, limitatamente ai seguenti articoli: art. 3, commi 1 e
4; art. 4; art. 14, comma 1, e art. 16 (in particolare, commi  1,  3,
4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28),  per  violazione  degli
articoli 75, 117, 118, 122, 123 e 133, comma 2,  della  Costituzione,
dell'art. 9, comma 2, l. cost. n. 3/2001,  nonche'  per  lesione  del
principio di leale collaborazione. 
 
                                Fatto 
 
    1. Il decreto-legge 13 agosto  2011,  n.  138  -  convertito  con
modificazioni dalla legge 14  settembre  2011,  n.  148  -  introduce
nell'ordinamento una serie di  norme  finalizzate,  stando  a  quanto
emerge dal titolo dell'atto, ad integrare «ulteriori  misure  urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo». 
    2. Alcune di tali norme, peraltro, recano una disciplina atta  ad
incidere in maniera diretta su molteplici aspetti,  tanto  funzionali
quanto organizzativi, sia degli enti regionali che degli enti locali. 
    3. Anzitutto, infatti, l'art. 3 del d.l. n. 138/2011  stabilisce,
al comma 1, che «Comuni, Province, Regioni e  Stato,  entro  un  anno
dalla data di entrata  in  vigore  della  legge  di  conversione  del
presente decreto, adeguano  i  rispettivi  ordinamenti  al  principio
secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono  libere
ed e' permesso tutto cio' che  non  e'  espressamente  vietato  dalla
legge  nei  soli  casi  di:  a)  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli  obblighi  internazionali;  b)  contrasto  con  i
principi fondamentali della Costituzione; c)  danno  alla  sicurezza,
alla  liberta',  alla  dignita'  umana  e  contrasto  con  l'utilita'
sociale; d)  disposizioni  indispensabili  per  la  protezione  della
salute umana, la  conservazione  delle  specie  animali  e  vegetali,
dell'ambiente,  del  paesaggio  e  del   patrimonio   culturale;   e)
disposizioni relative alle attivita' di raccolta di  giochi  pubblici
ovvero che comunque comportano effetti  sulla  finanza  pubblica».  A
cio', il comma 4 aggiunge che «l'adeguamento di  Comuni,  Province  e
Regioni all'obbligo  di  cui  al  comma  1  costituisce  elemento  di
valutazione  della   virtuosita'   dei   predetti   enti   ai   sensi
dell'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio  2011,  n.  98,
convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». 
    Puo' sin d'ora  rilevarsi  come  da  tali  disposizioni  emergano
almeno due dati: il primo di essi consiste nella constatazione che la
disciplina in esame interviene in materia di attivita'  produttive  e
di commercio; il secondo dato e' che gli enti territoriali menzionati
nel comma 4 - e per quanto qui in particolare interessa,  la  Regione
Lazio - vedranno valutata la propria  «virtuosita'»,  nel  senso  che
tale termine assume in base all'art. 20  del  d.l.  n.  98/2011  come
convertito dalla legge n. 111/2011, ai fini del rispetto del patto di
stabilita' interno (e delle conseguenze, negative o positive, che  da
cio' sono destinate a derivare), anche sulla base  del  loro  essersi
adeguati a quanto imposto dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 138/2011. 
    4. Allo stesso scopo della valutazione di  «virtuosita'»,  l'art.
14, comma 1, del d.l. n. 138/2011, poi, introduce una serie di  norme
che impongono alle Regioni ad autonomia ordinaria di  conformarsi  ad
un assetto organizzativo tassativamente stabilito dalle stesse  norme
ed inerente: il numero massimo dei consiglieri  regionali  (art.  14,
comma 1, lett. a)); il numero massimo degli assessori regionali (art.
14, comma 1, lett. b)); il limite massimo degli  emolumenti  e  delle
indennita' da corrispondersi consiglieri regionali (art. 14, comma 1,
lett.  c));  la  commisurazione   del   trattamento   economico   dei
consiglieri regionali alla loro effettiva  partecipazione  ai  lavori
del Consiglio (art. 14, comma  1,  lett.  d));  l'istituzione  di  un
«Collegio dei revisori dei conti» (art. 14, comma 1, lett.  e)  -  la
disposizione stabilisce perfino le modalita' con cui i componenti del
Collegio debbono essere individuati); nonche', infine, il  passaggio,
entro sei mesi dalla data di entrata in vigore  del  decreto-legge  e
con  efficacia  a  decorrere  dalla   prima   legislatura   regionale
successiva a quella in corso alla  data  di  entrata  in  vigore  del
medesimo, al sistema previdenziale  contributivo  per  i  consiglieri
regionali (art. 14, comma 1, lett. f)). 
    Tali previsioni  sono  precedute,  peraltro,  da  un  inciso  che
richiama l'«autonomia statutaria e legislativa» delle Regioni: ma  in
un  simile  contesto,  puo'  agevolmente   gia'   notarsi,   siffatto
riferimento presenta tutti i caratteri  di  una  inutile  formula  di
stile, la cui vacuita' emerge ictu oculi. 
    5. Per quanto concerne l'art. 16 del d.l. n. 138/2011, esso detta
una disciplina che interviene  in  via  diretta  ed  immediata  sulla
organizzazione e sulle funzioni degli enti comunali, ed e'  destinata
a trovare applicazione a partire dal termine fissato al comma 9 della
disposizione, ossia «a decorrere dal giorno della proclamazione degli
eletti negli organi di governo del comune che, successivamente al  13
agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo». 
    L'incidenza  della  disciplina  sugli  aspetti  organizzativi   e
funzionali dei comuni e' evidente. Infatti, per il comma  1  di  tale
articolo, «i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti  esercitano
obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative
e  tutti  i  servizi  pubblici  loro  spettanti  sulla   base   della
legislazione  vigente  mediante  un'unione   di   comuni   ai   sensi
dell'articolo 32 del testo unico di cui  al  decreto  legislativo  18
agosto 2000, n. 267», mentre al comma 3 si aggiunge che  alle  unioni
di comuni cosi' obbligatoriamente costituite, «in deroga all'articolo
32, commi 2, 3 e 5, secondo periodo, del citato testo unico di cui al
decreto legislativo n. 267 del 2000, si applica la disciplina di  cui
al presente articolo». 
    In particolare, inoltre, il comma 4 dell'art. 16 d.l. n. 138/2011
assegna all'unione di comuni  cosi'  determinata  «la  programmazione
finanziaria e la  gestione  contabile»  con  riguardo  alle  funzioni
esercitate dai comuni associati  per  mezzo  dell'unione,  mentre  il
comma 5 stabilisce che «l'unione succede  a  tutti  gli  effetti  nei
rapporti giuridici in essere alla data di cui al comma  9  che  siano
inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati  ai  sensi  dei
commi 1, 2 e 4, ferme restando le disposizioni  di  cui  all'articolo
111 del codice di procedura civile. Alle unioni di  cui  al  comma  1
sono trasferite tutte le risorse umane e  strumentali  relative  alle
funzioni ed ai servizi loro affidati ai sensi dei commi  1,  2  e  4,
nonche' i relativi rapporti finanziari  risultanti  dal  bilancio.  A
decorrere dall'anno 2014, le unioni di comuni di cui al comma 1  sono
soggette alla disciplina del patto di stabilita' interno per gli enti
locali prevista per i comuni aventi corrispondente  popolazione».  Il
successivo comma 8 impone ai comuni individuati al comma 1, entro  il
«termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione» del decreto-legge, di avanzare alla Regione  la
proposta di unione e la stessa Regione e' tenuta, entro  il  «termine
perentorio del 31 dicembre 2012» «a sancire l'istituzione di tutte le
unioni nel proprio territorio». 
    I commi da 10 a 15 dell'art. 16 in parola recano, dal canto loro,
una minuziosa disciplina degli organi,  e  delle  relative  funzioni,
delle unioni di comuni cosi' costituite. Tale disciplina  si  applica
anche alle unioni gia' costituite  in  precedenza:  nel  comma  7  si
specifica, infatti, che «le unioni di comuni che risultino costituite
alla data di cui al comma 9 e di cui facciano parte uno o piu' comuni
con popolazione fino a 1.000 abitanti,  entro  i  successivi  quattro
mesi adeguano i rispettivi ordinamenti alla disciplina  delle  unioni
di  cui  al  presente  articolo.  I  comuni  appartenenti   a   forme
associative di cui agli articoli 30 e 31 del citato  testo  unico  di
cui al decreto legislativo n. 267 del  2000  cessano  di  diritto  di
farne parte alla data in cui diventano membri di un'unione di cui  al
comma 1». 
    Il comma 16 dell'art. 16 del d.l. n. 138/2011 interviene, poi, ad
attribuire  addirittura  alla  discrezionale  valutazione  del   solo
Ministero dell'Interno una funzione di primario rilievo nella  stessa
individuazione  dei  comuni  tenuti  ad  aggregarsi  forzosamente  in
unioni. Tale disposizione, infatti, stabilisce che «l'obbligo di  cui
al comma 1 non trova applicazione nei riguardi dei comuni  che,  alla
data  del  30  settembre  2012,  risultino  esercitare  le   funzioni
amministrative e i servizi  pubblici  di  cui  al  medesimo  comma  1
mediante convenzione ai sensi dell'articolo 30 del citato testo unico
di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000.  Ai  fini  di  cui  al
primo periodo, tali comuni  trasmettono  al  Ministero  dell'interno,
entro  il   15   ottobre   2012,   un'attestazione   comprovante   il
conseguimento di significativi livelli  di  efficacia  ed  efficienza
nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive  attribuzioni.
Con decreto del Ministro dell'interno, da  adottare  entro  tre  mesi
dalla data di entrata  in  vigore  della  legge  di  conversione  del
presente  decreto,  sono  determinati  contenuti  e  modalita'  delle
attestazioni di cui al secondo periodo.  Il  Ministero  dell'interno,
previa valutazione delle attestazioni ricevute,  adotta  con  proprio
decreto, da pubblicare entro il 30 novembre  2012  nel  proprio  sito
internet,  l'elenco  dei  comuni  obbligati  e  di  quelli   esentati
dall'obbligo di cui al comma 1». 
    Infine, l'art. 16 del d.l. n. 138/2011 configura,  al  comma  28,
un'ipotesi di  esercizio  del  potere  sostitutivo  dello  Stato  nei
riguardi degli enti locali che esula integralmente dal coinvolgimento
dell'ente regionale e si realizza  attraverso  un  previo  potere  di
controllo assegnato ai Prefetti. La disposizione in  esame,  infatti,
prevede che «al fine di verificare il perseguimento  degli  obiettivi
di semplificazione e di riduzione delle spese  da  parte  degli  enti
locali, il prefetto accerta che  gli  enti  territoriali  interessati
abbiano  attuato,  entro  i  termini   stabiliti,   quanto   previsto
dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009,
n. 191, e successive modificazioni, e  dall'articolo  14,  comma  32,
primo periodo, del citato decreto-legge  n.  78  del  2010,  come  da
ultimo modificato dal comma 27 del presente  articolo.  Nel  caso  in
cui, all'esito  dell'accertamento,  il  prefetto  rilevi  la  mancata
attuazione di quanto previsto dalle  disposizioni  di  cui  al  primo
periodo, assegna agli enti inadempienti un termine  perentorio  entro
il  quale  provvedere.  Decorso  inutilmente  detto  termine,   fermo
restando quanto previsto  dal  secondo  periodo,  trova  applicazione
l'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131». 
    6. L'art. 4 del d.l. n. 138/2011 si occupa,  infine,  di  dettare
una disciplina in materia di servizi  pubblici  locali  di  rilevanza
economica. Si prevede, in particolare, che gli  enti  locali  debbano
liberalizzare tutte le attivita' economiche relative a  tali  servizi
(comma 1), salvo che gli stessi enti  locali  non  adducano  motivate
ragioni, in  relazione  ai  diversi  settori,  sulla  cui  base  essi
ritengano di non procedere alla  liberalizzazione  in  considerazione
dei benefici che alla comunita' derivano dal mantenimento del  regime
di esclusiva (comma 3). 
    7. Tutto cio' premesso, con il presente ricorso la Regione Lazio,
come in epigrafe rappresentata e difesa, impugna il decreto-legge  13
agosto 2011, n. 138, convertito  con  modificazioni  dalla  legge  14
settembre  2011,  n.  148,  limitatamente  alle  norme   piu'   sopra
menzionate, in quanto lesive delle proprie attribuzioni garantite  da
disposizioni di rango costituzionale, e chiede,  pertanto,  che  esse
vengano  dichiarate  costituzionalmente  illegittime  alla  luce  dei
seguenti motivi di 
 
                               Diritto 
 
I.  Illegittimita'   costituzionale   della   norma   derivante   dal
combinato-disposto dei commi 1 e 4 dell'art. 3 del  decreto-legge  n.
138 del 2011, convertito con modificazioni dalla  legge  n.  148  del
2011, per violazione dell'art.  117,  comma  4,  Cost.,  nonche'  del
principio di leale collaborazione. 
    Come dianzi ricordato,  il  comma  i  dell'art.  3  del  d.l.  n.
138/2011 impone alle Regioni di  adeguare  i  propri  ordinamenti  al
principio per il quale «l'iniziativa e l'attivita' economica  privata
sono libere ed e'  permesso  tutto  cio'  che  non  e'  espressamente
vietato dalla legge» con riguardo ad una serie di casi tassativamente
indicati nella stessa disposizione, contestualmente  stabilendo  come
sanzione - al comma 4 - che il mancato  adeguamento  regionale  venga
valutato ai fini del «declassamento» da «Regione virtuosa» a «Regione
meno virtuosa» con riguardo al patto di stabilita' interno e, dunque,
ai fini della sua sottoposizione, rispettivamente,  ad  un  minore  o
maggiore  carico  partecipativo  in  vista  del  conseguimento  degli
obiettivi di finanza pubblica, secondo quanto stabilito dall'art. 20,
comma 3, del d.l. n. 98/2011. 
    Ora, al di la' del rilievo che tra i casi tassativamente  fissati
dal  legislatore  statale  si  e'  sorprendentemente  annoverato   il
«contrasto con i principi fondamentali della Costituzione» -  con  la
paradossale conseguenza, dunque, che se il contrasto si  ponesse  con
una norma costituzionale che non integri un  principio  fondamentale,
l'iniziativa  e  l'attivita'   economica   privata   non   potrebbero
soggiacere ad alcun limite - al di la' di tale rilievo, la  norma  in
questione rappresenta una patente violazione dell'art. 117, comma  4,
Cost.,  ai  sensi  del  quale  «spetta  alle  Regioni   la   potesta'
legislativa  in  riferimento  ad  ogni  materia   non   espressamente
riservata alla legislazione dello Stato». 
    E' evidente infatti che la  norma  statale  che  qui  si  censura
interviene in un ambito che, dal punto di vista della  configurazione
in termini di materia, attiene prevalentemente  alla  disciplina  del
commercio e delle attivita' produttive: vale a dire,  a  due  materie
che codesta ecc.ma Corte ha  ritenuto,  con  consistente  e  costante
giurisprudenza, riconducibili alla competenza  legislativa  residuale
delle Regioni, ai sensi dell'appena menzionato  art.  117,  comma  4,
Cost. (con riguardo alla materia «attivita' produttive»,  ex  multis,
cfr. sentt. nn. 213 e 214 del 2006; sentt. nn. 38, 64, 81, 443 e  452
del 2007; sent. n. 94 del 2008; sent. n.  76  del  2009;  per  quanto
concerne la materia «commercio», cfr. sentt. nn. 64 e 165  del  2007;
sent. n. 247 del 2010). 
    L'aver dunque il legislatore statale  introdotto  una  disciplina
che essenzialmente inerisce alla regolazione del  commercio  e  delle
attivita' produttive, imponendo alla Regione ricorrente di  adeguarsi
ad essa entro un termine stabilito e corroborando, per di piu',  tale
previsione con l'attivarsi di un meccanismo sanzionatorio in caso  di
mancato  adeguamento,  consistente  nell'attribuzione  del  carattere
«meno virtuoso» ai fini della ripartizione delle risorse in relazione
al   patto   di   stabilita'   interno,   tutto   questo    determina
l'illegittimita'  della  norma  contestata  per  violazione  di   una
competenza legislativa che,  per  effetto  dell'art.  117,  comma  4,
Cost., bisogna intendere assegnata alla Regione. 
    Ne' a tali considerazioni varrebbe opporre che la  disciplina  in
questione rappresenta una modalita'  di  esercizio  della  competenza
esclusiva dello Stato in materia di «tutela  della  concorrenza»,  ai
sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e), Cost.  E'  agevole  mostrare,
invero, che la previsione a  livello  di  legislazione  regionale  di
limiti   all'attivita'   economica   privata,   non   necessariamente
coincidenti con quelli indicati dalla  norma  statale  impugnata,  ma
efficaci erga omnes  e  fondati  su  diversi  presupposti  che  siano
ragionevoli, motivati e costituzionalmente legittimi, non e' in grado
di recare alcun nocumento al  libero  esplicarsi  della  concorrenza,
proprio perche'  tali  eventuali  limiti  sono  destinati  a  trovare
applicazione nei riguardi di tutti gli operatori dei diversi settori,
e dunque per definizione non  ne  privilegiano  alcuno,  ne'  tampoco
determinano alcuna alterazione della piu' ampia  competizione  tra  i
potenziali concorrenti. 
    Cio' che si e' appena rilevato si pone sulla scia  di  quanto  e'
stato  recentemente  chiarito  dalla  giurisprudenza   costituzionale
proprio in relazione ad una normativa regionale  veneta  introduttiva
di limitazioni all'esercizio di attivita' commerciali; nella sent. n.
247 del 2010 codesta ecc.ma Corte ha con  nettezza  evidenziato  come
non produca «alcuna lesione di regole a tutela della  concorrenza»  e
non incida, «ne' direttamente ne' indirettamente, sulla  liberta'  di
concorrenza», una norma regionale che si collochi, «senza  introdurre
discriminazioni fra differenti categorie di operatori  economici  che
esercitano l'attivita' in posizione identica o analoga,  nel  diverso
solco della  semplice  regolamentazione  territoriale  del  commercio
[...]  ed  appare  razionalmente  giustificato   dalle   concrete   e
localizzabili  esigenze  di  tutela  di  altri  interessi  di   rango
costituzionale». 
    Ma anche ove si volesse ritenere, per  assurdo,  che  il  portato
normativo risultante dai commi 1 e 4 dell'art. 3 del d.l. n. 138/2011
riguardi,  per  qualche  aspetto,  il  settore  della  «tutela  della
concorrenza»,  la  disciplina  statale  risulterebbe  in  ogni   caso
costituzionalmente  illegittima  e  lesiva  delle  competenze   della
Regione  ricorrente,  in  quanto  frutto  del  mancato  rispetto  del
principio di leale collaborazione. Infatti, pure qualora si volessero
considerare  toccati  dagli   impugnati   disposti   taluni   aspetti
riconducibili  alla  «tutela  della  concorrenza»,  in  nessun   caso
potrebbe ragionevolmente negarsi che tali  aspetti  coesistano  e  si
intreccino, senza in alcun modo  prevalere,  con  altri  aspetti,  di
consistenza quanto meno equivalente,  certamente  riconducibili  alle
materie «attivita' produttive» e «commercio»  le  quali,  come  sopra
mostrato, sono altrettanto certamente  da  ritenersi  spettanti  alla
competenza  regionale.  A  tutto  concedere,  ci  si  troverebbe,  in
sostanza, dinanzi  ad  una  ipotesi  di  «concorrenza  di  competenze
nazionali e regionali, senza che sia possibile  ravvisare  la  sicura
prevalenza di  una  materia  sull'altra».  Ossia,  ci  si  troverebbe
davanti ad un'ipotesi nella  quale  codesta  Corte  ha  costantemente
ritenuto (cfr., da ultimo, sent. n. 33 del 2011) che vada seguito «il
canone della leale collaborazione, che impone alla legge  statale  di
predisporre adeguati strumenti di  coinvolgimento  delle  Regioni,  a
salvaguardia delle loro competenze» (cosi', tra le altre, sentt.  nn.
88 del 2009 e 278 del 2010). 
    Il  rispetto  di  tale  canone,  nel  caso  di  specie,   risulta
integralmente pretermesso dal legislatore statale, che si e' limitato
a stabilire una disciplina, cui ha  imposto  all'autonomia  normativa
regionale  di  adeguarsi,  prevedendo  altresi'  una   sanzione   per
l'eventuale mancato adeguamento. Anche sotto tale profilo, dunque, il
contenuto normativo recato dall'art. 3, commi 1  e  4,  del  d.l.  n.
138/2011 e' da riconoscersi costituzionalmente illegittimo. 
II. Illegittimita' costituzionale delle norme contenute nell'art. 14,
comma  1,  del  decreto-legge  n.  138  del  2011,   convertito   con
modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt.
123 e 122 Cost. 
    Come riferito in narrativa, l'art.  14,  comma  1,  del  d.l.  n.
138/2011 interviene in modo radicale su una serie  di  rilevantissimi
questioni  attinenti  all'organizzazione  regionale,  imponendo  alla
Regione ricorrente - cosi' come  a  tutte  le  Regioni  ad  autonomia
ordinaria - di adeguarsi alla disciplina  da  esso  dettata  entro  i
termini ivi stabiliti e prevedendo, anche in questo caso, la medesima
sanzione configurata dall'art. 3, comma 4:  il  mancato  adeguamento,
infatti,  rileva  ai  fini  della  collocazione  nelle   «classi   di
virtuosita'», con le relative e gia' ricordate  conseguenze  negative
cui soggiacciono le Regioni «meno virtuose», secondo quanto  previsto
dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011, come convertito  con  modificazioni
dalla legge n. 111/2011. 
    In  particolare,  la  disposizione  impugnata:  fissa  il  numero
massimo dei consiglieri regionali  (art.  14,  comma  1,  lett.  a));
stabilisce il numero massimo  degli  assessori  regionali  (art.  14,
comma 1, lett. b)); prevede il  limite  massimo  degli  emolumenti  e
delle indennita' da corrispondersi consiglieri  regionali  (art.  14,
comma  1,  lett.  c));  impone  la  commisurazione  del   trattamento
economico   dei   consiglieri   regionali   alla    loro    effettiva
partecipazione ai lavori del Consiglio (art. 14, comma 1, lett.  d));
richiede l'istituzione di un organo  regionale  denominato  «Collegio
dei revisori dei conti»  e  ne  determina  modalita'  di  nomina  dei
componenti e loro requisiti (art. 14, comma 1, lett. e)); obbliga  la
Regione, infine, a passare, entro sei mesi dalla data di  entrata  in
vigore del decreto-legge e con  efficacia  a  decorrere  dalla  prima
legislatura regionale  successiva  a  quella  in  corso,  al  sistema
previdenziale contributivo per  i  consiglieri  regionali  (art.  14,
comma 1, lett. f)). 
    Ebbene, tutte  queste  norme  sono  da  ritenersi  -  e  in  modo
manifesto - costituzionalmente illegittime per  difetto  assoluto  di
competenza in capo allo Stato ad intervenire in questi ambiti  e  per
lesione sia delle competenze assegnate dall'art. 123 Cost. in maniera
espressa all'ente regionale, sia di quelle che in capo a quest'ultimo
si traggono, a contrario, da quanto previsto dall'art. 122 Cost. 
    E' evidente,  infatti,  che  la  determinazione  del  numero  dei
consiglieri regionali o degli assessori, l'individuazione  di  organi
regionali (costituzionalmente non necessari) ausiliari o di controllo
- quale l'ipotizzato Collegio regionale  dei  revisori  dei  conti  -
cosi' come il trattamento economico e previdenziale  dei  consiglieri
regionali ed il suo legame con l'attivita' svolta  in  Consiglio,  e'
evidente,  si  diceva,  che  la  regolazione  dell'insieme  di   tali
questioni rientra tra  le  competenze  che  la  Costituzione  assegna
all'autonomia normativa regionale, in via diretta  e  non  superabile
dal legislatore statale. 
    Si tratta,  infatti,  di  questioni  che,  per  una  parte  -  e,
specificamente, in relazione al  numero  massimo  dei  consiglieri  e
degli assessori e all'istituzione di organi regionali ausiliari o  di
controllo - vengono pacificamente ricondotte all'alveo  della  «forma
di governo» regionale e dei «principi fondamentali di  organizzazione
e funzionamento», di esclusiva spettanza allo Statuto  regionale,  in
base all'art. 123 Cost. Per l'altra parte, debbono invece  intendersi
residualmente rimessi  alla  competenza  legislativa  regionale,  dal
momento che l'art. 122, comma 1, Cost. arresta  la  competenza  dello
Stato in subiecta materia alla fissazione della durata  degli  organi
elettivi e alla introduzione dei principi  fondamentali  inerenti  il
sistema di elezione e i casi di ineleggibilita' e di incompatibilita'
del Presidente, degli altri componenti della Giunta regionale  e  dei
componenti del Consiglio regionale. 
    Si tratta, peraltro, di rilievi che codesta ecc.ma Corte ha avuto
modo recentemente di ribadire in relazione  alla  determinazione  del
numero dei consiglieri regionali  (ma  con  argomentazione  che  puo'
agevolmente estendersi, in via analogica, agli altri profili  oggetto
delle norme impugnate): «gli artt.  122  e  123  Cost.  prevedono  un
"complesso riparto della materia  elettorale  tra  le  diverse  fonti
normative  statali  e  regionali"  (sentenza  n.  2  del  2004).   In
particolare, "l'art. 122, quinto comma, stabilisce che il  Presidente
della Giunta regionale e' eletto a suffragio  universale  e  diretto,
salvo che lo statuto disponga diversamente; l'art. 123, primo  comma,
prevede che rientri nella competenza statutaria la forma  di  governo
regionale; l'art.  122,  primo  comma,  dispone  che  il  sistema  di
elezione sia di competenza del legislatore regionale 'nei limiti  dei
principi  fondamentali  stabiliti  con   legge   della   Repubblica'"
(sentenza  n.  45  del  2011).  [...]  Nell'ambito  di  tali  riserve
normative, rientra  la  determinazione  del  numero  dei  membri  del
Consiglio,  in  quanto  la   composizione   dell'organo   legislativo
regionale rappresenta una fondamentale "scelta politica sottesa  alla
determinazione della "forma di governo" della Regione» (sentenza n. 3
del 2006). Di conseguenza,  quando  la  fonte  statutaria  indica  un
numero fisso di consiglieri, senza  possibilita'  di  variazione,  la
legge regionale non puo' prevedere meccanismi diretti  ad  attribuire
seggi aggiuntivi» (cosi', con estrema chiarezza, la sent. n. 188  del
2011). 
    Ma se non e' dato alla legge regionale  intervenire  a  prevedere
variazioni del numero dei consiglieri  regionali  rispetto  a  quanto
statutariamente  fissato,  tanto  piu'  illegittima  si  palesa   una
normativa statale, quale quella qui censurata, che in totale  assenza
di titolo competenziale abbia la  pretesa  di  imporre  alla  Regione
adeguamenti statutari o legislativi in ordine a  tale  ambito,  o  ad
ambiti da considerarsi analoghi in  quanto  rispondenti  alla  stessa
ratio  di   garanzia   costituzionalmente   accordata   all'autonomia
regionale. 
    Ne'  sarebbe  in  alcun  modo  sostenibile,  facendo  leva  sulla
finalita' formalmente indicata dall'impugnato art. 14, comma 1  («per
il  conseguimento   degli   obiettivi   stabiliti   nell'ambito   del
coordinamento della finanza pubblica»), che le norme  da  esso  poste
possano  configurarsi  come  legittimo  esercizio  della   competenza
legislativa concorrente dello Stato in tema di  «coordinamento  della
finanza pubblica e del sistema tributario», prevista  dall'art.  117,
comma 3, Cost. e dall'art. 119, comma 2, Cost. 
    Al riguardo, infatti, e' sufficiente riportare quel  che  codesta
Corte  ha,  mediante  la  recente  sent.  n.  247/2010,  con  estrema
chiarezza ribadito: «in termini  generali,  va  rilevato  che  questa
Corte, con giurisprudenza costante (da ultimo,  sentenze  n.  52  del
2010 e n. 237 del 2009), ha ritenuto che, per individuare la  materia
in cui devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censure, non
assuma rilievo dirimente la mera qualificazione che di  esse  da'  il
legislatore  (statale  o  regionale),  ma  occorra  fare  riferimento
all'oggetto della disciplina stessa». 
    E'  sin  troppo  evidente  che,  nel  caso  di  specie,  con   la
disposizione censurata il legislatore statale non incide, se  non  in
termini meramente marginali e riflessi, nella materia  «coordinamento
della  finanza  pubblica»  -  rispetto  alla  quale,  peraltro,  come
costantemente affermato da codesta Corte, da ultimo  nella  sent.  n.
182 del 2011, lo Stato dovrebbe in  ogni  caso  limitarsi  a  dettare
esclusivamente una disciplina di  principio,  e  non  gia'  norme  di
minuto  dettaglio  come  nella  presente  circostanza.  In   realta',
l'«oggetto  della  disciplina»  impugnata   e',   ben   diversamente,
rappresentato  da  un  vasto  e  profondo   intervento   modificativo
dell'assetto organizzativo regionale, rispetto al quale, tuttavia, lo
Stato - a differenza della Regione  ricorrente  -  non  puo'  vantare
alcuna competenza. 
    D'altro  canto,  se  assurdamente  si  ritenesse  sufficiente  la
potesta'   legislativa   concorrente   dello   Stato   in   tema   di
«coordinamento della finanza pubblica»  per  considerarlo  abilitato,
nell'esercizio di essa, a travolgere  qualsiasi  diversa  riserva  di
competenza normativa posta  dalla  Costituzione  in  capo  egli  enti
regionali, dovrebbe  coerentemente  pervenirsi  ad  ammettere  talune
conseguenze enormi. In tale fallace prospettiva, ad esempio, dovrebbe
riconoscersi  che,  in  vista  del   «coordinamento   della   finanza
pubblica», lo Stato possa esso stesso definire d'imperio la forma  di
governo regionale o determinare i  principi  di  funzionamento  della
Regione, in totale spregio di quanto espressamente previsto dall'art.
123 Cost. La conseguenza  e'  talmente  aberrante,  che  essa  appare
sufficiente a  dimostrare  il  carattere  altrettanto  aberrante  del
presupposto da cui, per necessita' logica, deriva. 
    Per tali  ragioni,  dunque,  voglia  la  Corte  adita  dichiarare
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 1,  del  d.l.  n.
138/2011. 
III. Illegittimita' costituzionale delle  norme  contenute  nell'art.
16, in particolare ai commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15,
16  e  28  del  decreto-legge  n.  138  del  2011,   convertito   con
modificazioni dalla  legge  n.  148  del  2011,  per  violazione  del
combinato-disposto degli artt. 117, comma 2, lett. p), e  117,  comma
4, Cost.;  dell'art.  118  Cost.;  dell'art.  133,  comma  2,  Cost.;
dell'art. 9, comma 2, L. cost. n. 3/2001, nonche'  del  principio  di
leale collaborazione. 
    Come gia' ricordato nella ricostruzione in fatto, l'art.  16  del
d.l. n. 138/2011 opera un ampio - e, come si mostrera', illegittimo -
intervento in materia di organizzazione e funzioni delle associazioni
degli enti comunali. 
    Le norme in  esso  contenute,  infatti,  non  prevedono  soltanto
l'obbligatorieta' dell'esercizio  associato,  nella  forma  tassativa
dell'unione di comuni, delle  funzioni  amministrative  per  tutti  i
comuni con popolazione pari o inferiore a 1.000 abitanti  (comma  1),
sottraendoli alla disciplina stabilita dall'art. 32, commi 2, 3 e  5,
secondo periodo, del d.lgs. n. 267/2000 (comma  3)  ed  obbligando  -
entro termini perentori - sia i comuni interessati ad  avanzare  alla
Regione la proposta di unione,  sia  la  Regione  stessa  «a  sancire
l'istituzione di tutte le unioni nel proprio territorio» (comma 8). 
    In aggiunta, i commi da  10  a  15  regolano  nel  dettaglio  gli
organi, e le loro funzioni,  che  debbono  caratterizzare  le  unioni
forzose  di  comuni,  e  la  disciplina  recata  dall'articolo   deve
intendersi estesa anche alle unioni di comuni gia' esistenti, di  cui
facciano parte uno o piu' comuni con una  popolazione  fino  a  mille
abitanti (comma 7). Dal punto di vista funzionale, in particolare  si
attribuisce alle unioni obbligatorie  di  comuni  «la  programmazione
finanziaria e la  gestione  contabile»  con  riguardo  alle  funzioni
esercitate dai comuni associati per mezzo dell'unione  (comma  4),  e
stabilisce sia che «l'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti
giuridici [...] che siano inerenti alle funzioni  ed  ai  servizi  ad
essa affidati ai sensi  dei  commi  1,  2  e  4,  ferme  restando  le
disposizioni di cui all'articolo 111 del codice di procedura civile»,
sia che «alle unioni di cui al  comma  l  sono  trasferite  tutte  le
risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro
affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4,  nonche'  i  relativi  rapporti
finanziari risultanti dal bilancio», sia da ultimo che  «a  decorrere
dall'anno 2014, le unioni di comuni di cui al comma 1  sono  soggette
alla disciplina del patto di stabilita' interno per gli  enti  locali
prevista per i comuni aventi corrispondente popolazione» (comma 5). 
    La disposizione prevede, ancora,  che  l'unione  forzosa  non  si
applica a quei comuni che alla data del 30 settembre  2012  risultino
esercitare le loro funzioni in forma associata, in base agli artt. 30
e 31 del d.lgs. n. 267/200, se attestano di aver conseguito  in  tale
esercizio «significativi livelli di  efficacia  ed  efficienza  nella
gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni»  e  se
il Ministero dell'Interno ritenga confacente tale attestazione (comma
16). Infine (comma 28), allo scopo di  «verificare  il  perseguimento
degli obiettivi di semplificazione e  di  riduzione  delle  spese  da
parte degli enti locali», si configura un'ipotesi  di  esercizio  del
potere sostitutivo dello Stato nei  riguardi  di  tali  enti  locali,
senza che alla regione sia riconosciuto alcun ruolo: e'  il  prefetto
ad operare il controllo e ad accertare che gli enti territoriali  non
abbiano  «attuato,  entro  i  termini  stabiliti,   quanto   previsto
dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009,
n. 191, e successive modificazioni, e  dall'articolo  14,  comma  32,
primo periodo, del citato decreto-legge  n.  78  del  2010,  come  da
ultimo modificato dal comma 27  del  presente  articolo»,  assegnando
conseguentemente  un  termine  per  adempiere;  nel   caso   in   cui
quest'ultimo non venga rispettato si procede all'esercizio del potere
sostitutivo ai sensi dell'art. 8, commi 1, 2, 3, e 5, della legge  n.
131/2003. 
    Ebbene, tutta la riferita disciplina, che qui si impugna,  e'  da
ritenersi costituzionalmente illegittima per  lesione  di  competenze
assegnate alla Regione ricorrente da norme di  rango  costituzionale.
Infatti, sia l'istituzione obbligatoria  di  unioni  di  comuni,  sia
ciascuna delle previsioni che ineriscono  alla  disciplina  dei  loro
organi e delle loro funzioni, risultano anzitutto in contrasto con il
combinato disposto degli artt. 117, comma 2, lett. p), e  117,  comma
4, Cost., dal quale emerge  che  la  regolazione  delle  associazioni
degli enti locali  va  ricondotta  alla  competenza  normativa  della
Regione e non  gia'  dello  Stato  -  che  deve  invece  limitarsi  a
stabilire la normativa in tema di «legislazione elettorale, organi di
governo  e  funzioni  fondamentali  di  Comuni,  Province  e   Citta'
metropolitane», restando evidentemente esclusi da tale  «voce»  tutti
gli aspetti riguardanti l'associazionismo di tali enti. 
    Del resto, la costante giurisprudenza  costituzionale  sul  punto
non da' adito ad alcun dubbio: a partire dalle  sentt.  n.  229/2001,
244/2005 e 456/2005 codesta Corte ha posto in luce che  l'elencazione
degli  enti,  e  degli  aspetti  della  loro  disciplina,   contenuta
nell'art. 117,  comma  2,  lett.  p),  assume  carattere  puntuale  e
stringente.  Infatti,  con  argomentazione  riferita  alle  comunita'
montane ma da intendersi estesa ad ogni forma di  associazione  degli
enti locali, nella sent. n. 456/2005 si sottolinea  che  nella  norma
costituzionale da ultimo citata, gli enti locali  rispetto  ai  quali
viene individuata la competenza statale,  ossia  Comuni,  Province  e
Citta' metropolitane, deve ritenersi una «indicazione tassativa»: «da
qui la conseguenza che la disciplina delle Comunita' montane, pur  in
presenza della loro qualificazione come  enti  locali  contenuta  nel
d.lgs. n. 267 del 2000,  rientra  ora  nella  competenza  legislativa
residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma,  della
Costituzione». 
    Ma non  basta.  Infatti,  l'illegittimita'  costituzionale  delle
impugnate norme desumibili dall'art. 16 del d.l. n.  138/2011  emerge
anche lungo altri versanti. 
    Anzitutto, la disciplina che si contesta, riallocando le funzioni
amministrative comunali ad un livello territoriale  superiore,  quale
quello delle unioni di comuni, risulta altresi' lesiva dell'art.  118
Cost. In base al primo comma  di  tale  disposizione  costituzionale,
com'e' noto, «le funzioni amministrative sono  attribuite  ai  Comuni
salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario,  siano  conferite  a
Province, Citta' metropolitane,  Regioni  e  Stato,  sulla  base  dei
principi di  sussidiarieta',  differenziazione  ed  adeguatezza».  La
norma  consente,  dunque,  che  le  funzioni  amministrative  vengano
sottratte ai comuni  e  riallocate  legislativamente  ad  un  livello
territorialmente piu' esteso, soltanto qualora  sussista  un'esigenza
di esercizio unitario. 
    Tuttavia, per individuare l'ente competente ad  operare  siffatta
riallocazione (Stato o Regione) non si puo' prescindere  dal  rilievo
che  la  disposizione  costituzionale  attribuisce  ai  principi   di
sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza. Ora, tali  principi,
e quello di  sussidiarieta'  in  particolare,  escludono  che  l'ente
competente a procedere ad una riallocazione delle  funzioni  comunali
ad  un  livello  che  sia  si'  sovracomunale,  ma  al  tempo  stesso
infraregionale,  possa  essere  lo  Stato.  Tale  conclusione  appare
evidente se si considera che nella  prospettiva  sussidiaria  accolta
dall'art. 118 Cost. deve essere l'ente dotato di potesta' legislativa
e che al contempo sia territorialmente «piu' vicino» (vale a dire, la
Regione), a valutare se sussista un'esigenza di esercizio unitario  a
livello  regionale  o  infraregionale  che  possa  giustificare   una
sottrazione di funzioni ai comuni. Allo Stato spettera',  invece,  di
valutare se l'esigenza di esercizio  unitario  assuma  una  rilevanza
addirittura nazionale, con conseguente riallocazione delle  funzioni,
in quel caso, in capo allo Stato stesso. 
    Risulterebbe,  invece,  del  tutto  contrario  al  principio   di
sussidiarieta' ritenere ammissibile un intervento riallocativo  delle
funzioni ad opera dello  Stato,  riguardato  come  ente  abilitato  a
stabilire  quando  sia  configurabile  l'esistenza  di  una  esigenza
unitaria non soltanto nazionale, ma perfino regionale o subregionale.
Ad accettare siffatta erronea impostazione, infatti, si finirebbe per
rimettere esclusivamente allo Stato ogni riallocazione,  a  qualunque
livello  territoriale,  delle   funzioni   amministrative,   con   la
conseguenza - assurda perche' integralmente antisussidiaria - di  non
poter riconoscere alcuno spazio entro il quale  sia  consentito  alla
legge  regionale  operare  tale  «riposizionamento»  delle   funzioni
originariamente comunali,  conferendole  al  livello  regionale  o  a
quello di un ente territoriale infraregionale, dopo aver  valutato  e
riconosciuto  la  sussistenza  di  una  corrispondente  esigenza   di
esercizio unitario. 
    Anche da questo  punto  di  vista,  dunque,  deve  ritenersi  che
rientri nella competenza regionale, per quanto  si  evince  dall'art.
118  Cost.,  valutare  se   sussista   l'esigenza   che   giustifichi
l'assegnazione di funzioni amministrative comunali  ad  un'unione  di
comuni.  Poiche'  le  norme   statali   impugnate   esercitano   tale
competenza, sottraendola alla Regione,  esse  sono  da  considerarsi,
anche lungo tale versante, costituzionalmente illegittime. 
    A tutto quel che precede va  aggiunto,  altresi',  che  le  norme
statali censurate integrano parimenti una violazione  dell'art.  133,
comma 2 Cost., ai sensi del quale «la Regione, sentite le popolazioni
interessate, puo' con sue  leggi  istituire  nel  proprio  territorio
nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni». 
    Una lettura sistematica e  non  meramente  formalistica  di  tale
disposizione,   infatti,   induce   ad    individuarne    la    ratio
nell'attribuzione alla  competenza  regionale  della  disciplina  del
numero dei comuni non perche' essi vengano intesi come «enti privi di
funzioni», ma proprio in ragione delle funzioni dai medesimi svolte. 
    Nessun senso avrebbe, infatti, l'istituzione di nuovi comuni,  se
ad essa  non  corrispondesse  l'istituzione  di  un  ente  dotato  di
funzioni. Pertanto, un intervento statale - quale quello censurato  -
che svuota di funzioni gli enti comunali non puo' non comportare  una
surrettizia elusione, e dunque una violazione, anche della riserva di
competenza stabilita in favore della Regione dall'art. 133, comma  2,
Cost. 
    A tutto quel che precede va aggiunto, infine, che in relazione al
comma 28 dell'art. 16 del d.l. n. 138/2011 - che prevede un controllo
prefettizio sull'operato comunale ed  il  conseguente  esercizio  del
potere sostitutivo statale - si palesa altresi'  una  violazione  sia
dell'art. 9, comma 2, 1. cost. n. 3/2001 (che, abrogando  l'art.  130
dell'originario testo costituzionale, ha  implicitamente  escluso  la
legittimita' di procedure amministrative statali di  controllo  sugli
atti comunali), sia del principio di leale collaborazione. 
    Con riguardo a quest'ultimo aspetto, infatti, la norma statale ha
integralmente e illegittimamente omesso di  prevedere  una  forma  di
coinvolgimento  regionale  all'esercizio  del   potere   sostitutivo,
nonostante l'art. 49 dello Statuto della  Regione  Lazio  attribuisca
proprio alla legge regionale la disciplina dell'esercizio del  potere
sostitutivo da parte della Regione nei riguardi degli enti locali. In
sostanza, il controllo e il potere sostitutivo  statali,  contemplati
dal comma 28 in parola, privano la legge regionale della possibilita'
di regolare un ambito che pure ad  essa  e'  rimesso  dallo  Statuto,
senza che a cio'  corrisponda  alcun  ruolo  o  partecipazione  della
Regione nell'esercizio del  medesimo  potere  sostitutivo,  o  almeno
nella valutazione dei suoi presupposti: non puo' che conseguirne  una
violazione del principio di leale collaborazione. 
IV. Illegittimita' costituzionale delle norme contenute  nell'art.  4
del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla
legge n. 148 del 2011, per violazione dell'art. 117, comma 4, Cost. e
dell'art. 75 Cost. 
    Costituzionalmente viziata appare anche,  infine,  la  disciplina
recata dall'art. 4 del d.l. n. 138/2011.  La  disposizione  contiene,
infatti, una serie di prescrizioni in materia di liberalizzazione dei
servizi pubblici locali  di  rilevanza  economica;  prescrizioni  che
fanno  comunque  salvo  il  potere  dell'ente  locale  di  verificare
l'opportunita' di sottrarre alla liberalizzazione i diversi  settori,
per ragioni legate ai «benefici per la comunita' locale derivanti dal
mantenimento di un regime di esclusiva del servizio» (art.  4,  comma
2). 
    Ora, l'ambito materiale «servizi pubblici locali» non appare  tra
quelli  assegnati,  ai  sensi  dell'art.  117,  commi  2  e  3,  alla
legislazione statale, ne' esclusiva, ne' concorrente; pertanto,  esso
puo' essere ricondotto, ai sensi del comma  4  dello  articolo  della
Costituzione, alla competenza legislativa residuale regionale. 
    Ne' sembra che l'intervento statale possa ritenersi abilitato  in
ragione di esigenze di «tutela della concorrenza», dal momento che  -
come  sottolineato  -  viene  comunque  rimessa  all'ente  locale  la
possibilita' di sottrarre i servizi alla liberalizzazione, dopo  aver
verificato l'esistenza di benefici per  la  comunita'  derivanti  dal
mantenere il regime di esclusiva  dei  servizi  stessi.  Sicche',  la
disciplina statale, senza che possa dirsi realmente finalizzata  alla
«tutela  della  concorrenza»,  consegue  l'effetto,  illegittimo,  di
«espropriare» l'ente regionale della regolazione  di  una  materia  -
quale quella inerente i servizi pubblici locali -sulla quale in  base
al  riparto  costituzionale,  invece,  esso   ha   piena   competenza
legislativa. 
    Peraltro, anche a ritenere che lo Stato goda attraverso la tutela
della concorrenza di una competenza trasversale ed abbia la capacita'
di incidere sulle  modalita'  di  affidamento  dei  servizi  pubblici
locali, la  disciplina  impugnata  risulterebbe  illegittima  per  un
ulteriore profilo. In questo caso, infatti,  l'esercizio  del  titolo
competenziale  della   «tutela   della   concorrenza»   astrattamente
configurabile  in  capo  allo  Stato,  dovrebbe  essere  in  concreto
ritenuto radicalmente escluso anche ai sensi dell'art.  75  Cost.  In
altri termini, il legislatore statale non risulterebbe competente  ad
intervenire in conseguenza dell'effetto vincolante  che  su  di  esso
deriva dall'abrogazione, deliberata  tramite  i  referendum  popolari
celebrati il 12 e 13 giugno 2011, di analoga  disciplina  legislativa
statale, relativa  alle  modalita'  di  affidamento  e  gestione  dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica e alla  determinazione
della tariffa del servizio  idrico  integrato  in  base  all'adeguata
remunerazione del capitale investito. In altri termini, la violazione
dell'art. 75 si riflette in una lesione delle  competenze  regionali,
in  quanto  va  ad  incidere  in  modo  illegittimo,  attraverso   la
concorrenza, su una materia di legislazione esclusiva della Regione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Voglia codesta ecc.ma Corte, ogni contraria istanza  e  deduzione
disattesa,  in  accoglimento   del   presente   ricorso,   dichiarare
l'illegittimita' costituzionale del decreto-legge 13 agosto 2011,  n.
138,  recante  «Ulteriori  misure  urgenti  per  la   stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo»,  come  convertito  con  modificazioni
dalla legge 14 settembre 2011,  n.  148,  pubblicata  sulla  Gazzetta
Ufficiale,  serie  generale,  n.   216   del   16   settembre   2011,
limitatamente ai seguenti articoli: art. 3, commi 1 e 4; art. 4; art.
14, comma 1 e art. 16 (in particolare, commi 1, 3, 4, 5,  7,  8,  10,
11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28), per violazione degli articoli 75,  117,
118, 122, 123 e 133, comma 2, della Costituzione. dell'art. 9,  comma
2, 1. cost. n. 3/2001, nonche' per lesione  del  principio  di  leale
collaborazione, per i profili e alla luce di tutte  le  ragioni  piu'
sopra esposte. 
        Roma, addi' 11 novembre 2011 
 
                          Prof. Avv. Marini