N. 134 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 11 - 18 novembre 2011
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 18 novembre 2011 (della Regione Lazio). Iniziativa economica privata - Commercio - Abolizione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle attivita' economiche, c.d. liberalizzazione - Obbligo per gli enti locali di adeguare, entro un anno, i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge - Elemento per la valutazione della c.d. "virtuosita'" degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Lamentata incidenza nella sfera di competenza regionale in assenza di coinvolgimento delle Regioni - Ricorso della Regione Lazio - Denunciata violazione della competenza legislativa residuale regionale in materia di attivita' produttive e di commercio, violazione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 3, commi 1 e 4. - Costituzione, art. 117, comma quarto. Regioni (in genere) - Consiglieri regionali - Determinazione del numero massimo dei consiglieri e degli assessori regionali, previsione di un limite massimo degli emolumenti e delle indennita', commisurazione del trattamento economico alla effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio, introduzione del trattamento previdenziale contributivo, istituzione e disciplina di un organo regionale denominato "Collegio dei revisori dei conti" - Obbligo per le Regioni di adeguamento entro i termini stabiliti - Elemento per la valutazione della c.d. "virtuosita'" degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Lamentata totale assenza di titolo competenziale dello Stato - Ricorso della Regione Lazio - Denunciata violazione dell'autonomia regionale. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 14, comma 1. - Costituzione, artt. 122 e 123. Enti locali - Unioni di comuni - Comuni fino a 1000 abitanti - Esercizio necessario di tutte le funzioni, incluse quelle delegate o attribuite dalle Regioni, attraverso la forma associativa dell'Unione dotata di propri organi e potesta' statutaria, e titolare di rapporti giuridici e di risorse - Previsione della forma alternativa della convenzione, rimessa ai Comuni e all'apprezzamento del Ministero dell'interno - Attribuzione al prefetto di un potere di controllo e sostitutivo - Lamentata interferenza dello Stato in materia di associazionismo degli enti locali, soppressione e fusione dei piccoli Comuni senza l'osservanza delle procedure costituzionali e creazione di nuovi enti territoriali in violazione del quadro costituzionale, riallocazione di funzioni comunali ad opera dello Stato anziche' della Regione in contrasto con il principio di sussidiarieta', contrasto con la riforma del Titolo V della Costituzione che implicitamente esclude controlli statali sugli atti comunali, mancato coinvolgimento della Regione - Ricorso della Regione Lazio - Denunciata esorbitanza dello Stato dal proprio ambito di competenza in materia di enti locali, violazione della competenza legislativa e amministrativa regionale residuale in materia di ordinamento degli enti locali e di forme associative tra enti, lesione dei principi di sussidiarieta' e leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 16, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28. - Costituzione, artt. 117, commi secondo, lett. p), e quarto, 118, e 133, comma secondo; legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, art. 9, comma 2. Enti locali - Gestione e affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica -Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 e alla normativa europea - Obbligo per gli enti locali di verificare la realizzabilita' di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, liberalizzando tutte le attivita' economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalita' e accessibilita' del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunita' - Lamentata incidenza sulla materia dei servizi pubblici locali di spettanza residuale regionale, elusione degli effetti vincolanti del referendum popolare - Ricorso della Regione Lazio - Denunciata violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali, violazione del vincolo referendario. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 4. - Costituzione, artt. 75 e 117, comma quarto.(GU n.52 del 14-12-2011 )
Ricorso della Regione Lazio, con sede in Roma, Via Cristoforo Colombo n. 212 (c.f. 80143490581), in persona della Presidente pro tempore, Renata Polverini, rappresentata e difesa, in forza di procura a margine del presente atto ed in virtu' della Deliberazione della Giunta regionale n. 522/2011 dal Prof. Avv. Francesco Saverio Marini (c.f. MRNFNC73D28HSO1U, PEC: francescosaveriomarini@ordineavvocati roma.org; fax 06.36001570), presso il cui studio in Roma, via dei Monti Parioli, 48, ha eletto domicilio; ricorrente; Contro il Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, con sede in Roma, Palazzo Chigi, Piazza Colonna, 370, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, 12, resistente; Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», come convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 216 del 16 settembre 2011, limitatamente ai seguenti articoli: art. 3, commi 1 e 4; art. 4; art. 14, comma 1, e art. 16 (in particolare, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28), per violazione degli articoli 75, 117, 118, 122, 123 e 133, comma 2, della Costituzione, dell'art. 9, comma 2, l. cost. n. 3/2001, nonche' per lesione del principio di leale collaborazione. Fatto 1. Il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 - convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 - introduce nell'ordinamento una serie di norme finalizzate, stando a quanto emerge dal titolo dell'atto, ad integrare «ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo». 2. Alcune di tali norme, peraltro, recano una disciplina atta ad incidere in maniera diretta su molteplici aspetti, tanto funzionali quanto organizzativi, sia degli enti regionali che degli enti locali. 3. Anzitutto, infatti, l'art. 3 del d.l. n. 138/2011 stabilisce, al comma 1, che «Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e contrasto con l'utilita' sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica». A cio', il comma 4 aggiunge che «l'adeguamento di Comuni, Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Puo' sin d'ora rilevarsi come da tali disposizioni emergano almeno due dati: il primo di essi consiste nella constatazione che la disciplina in esame interviene in materia di attivita' produttive e di commercio; il secondo dato e' che gli enti territoriali menzionati nel comma 4 - e per quanto qui in particolare interessa, la Regione Lazio - vedranno valutata la propria «virtuosita'», nel senso che tale termine assume in base all'art. 20 del d.l. n. 98/2011 come convertito dalla legge n. 111/2011, ai fini del rispetto del patto di stabilita' interno (e delle conseguenze, negative o positive, che da cio' sono destinate a derivare), anche sulla base del loro essersi adeguati a quanto imposto dall'art. 3, comma 1, d.l. n. 138/2011. 4. Allo stesso scopo della valutazione di «virtuosita'», l'art. 14, comma 1, del d.l. n. 138/2011, poi, introduce una serie di norme che impongono alle Regioni ad autonomia ordinaria di conformarsi ad un assetto organizzativo tassativamente stabilito dalle stesse norme ed inerente: il numero massimo dei consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. a)); il numero massimo degli assessori regionali (art. 14, comma 1, lett. b)); il limite massimo degli emolumenti e delle indennita' da corrispondersi consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. c)); la commisurazione del trattamento economico dei consiglieri regionali alla loro effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio (art. 14, comma 1, lett. d)); l'istituzione di un «Collegio dei revisori dei conti» (art. 14, comma 1, lett. e) - la disposizione stabilisce perfino le modalita' con cui i componenti del Collegio debbono essere individuati); nonche', infine, il passaggio, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge e con efficacia a decorrere dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore del medesimo, al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. f)). Tali previsioni sono precedute, peraltro, da un inciso che richiama l'«autonomia statutaria e legislativa» delle Regioni: ma in un simile contesto, puo' agevolmente gia' notarsi, siffatto riferimento presenta tutti i caratteri di una inutile formula di stile, la cui vacuita' emerge ictu oculi. 5. Per quanto concerne l'art. 16 del d.l. n. 138/2011, esso detta una disciplina che interviene in via diretta ed immediata sulla organizzazione e sulle funzioni degli enti comunali, ed e' destinata a trovare applicazione a partire dal termine fissato al comma 9 della disposizione, ossia «a decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo». L'incidenza della disciplina sugli aspetti organizzativi e funzionali dei comuni e' evidente. Infatti, per il comma 1 di tale articolo, «i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti esercitano obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti sulla base della legislazione vigente mediante un'unione di comuni ai sensi dell'articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267», mentre al comma 3 si aggiunge che alle unioni di comuni cosi' obbligatoriamente costituite, «in deroga all'articolo 32, commi 2, 3 e 5, secondo periodo, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, si applica la disciplina di cui al presente articolo». In particolare, inoltre, il comma 4 dell'art. 16 d.l. n. 138/2011 assegna all'unione di comuni cosi' determinata «la programmazione finanziaria e la gestione contabile» con riguardo alle funzioni esercitate dai comuni associati per mezzo dell'unione, mentre il comma 5 stabilisce che «l'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici in essere alla data di cui al comma 9 che siano inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, ferme restando le disposizioni di cui all'articolo 111 del codice di procedura civile. Alle unioni di cui al comma 1 sono trasferite tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, nonche' i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio. A decorrere dall'anno 2014, le unioni di comuni di cui al comma 1 sono soggette alla disciplina del patto di stabilita' interno per gli enti locali prevista per i comuni aventi corrispondente popolazione». Il successivo comma 8 impone ai comuni individuati al comma 1, entro il «termine perentorio di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione» del decreto-legge, di avanzare alla Regione la proposta di unione e la stessa Regione e' tenuta, entro il «termine perentorio del 31 dicembre 2012» «a sancire l'istituzione di tutte le unioni nel proprio territorio». I commi da 10 a 15 dell'art. 16 in parola recano, dal canto loro, una minuziosa disciplina degli organi, e delle relative funzioni, delle unioni di comuni cosi' costituite. Tale disciplina si applica anche alle unioni gia' costituite in precedenza: nel comma 7 si specifica, infatti, che «le unioni di comuni che risultino costituite alla data di cui al comma 9 e di cui facciano parte uno o piu' comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, entro i successivi quattro mesi adeguano i rispettivi ordinamenti alla disciplina delle unioni di cui al presente articolo. I comuni appartenenti a forme associative di cui agli articoli 30 e 31 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000 cessano di diritto di farne parte alla data in cui diventano membri di un'unione di cui al comma 1». Il comma 16 dell'art. 16 del d.l. n. 138/2011 interviene, poi, ad attribuire addirittura alla discrezionale valutazione del solo Ministero dell'Interno una funzione di primario rilievo nella stessa individuazione dei comuni tenuti ad aggregarsi forzosamente in unioni. Tale disposizione, infatti, stabilisce che «l'obbligo di cui al comma 1 non trova applicazione nei riguardi dei comuni che, alla data del 30 settembre 2012, risultino esercitare le funzioni amministrative e i servizi pubblici di cui al medesimo comma 1 mediante convenzione ai sensi dell'articolo 30 del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000. Ai fini di cui al primo periodo, tali comuni trasmettono al Ministero dell'interno, entro il 15 ottobre 2012, un'attestazione comprovante il conseguimento di significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni. Con decreto del Ministro dell'interno, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono determinati contenuti e modalita' delle attestazioni di cui al secondo periodo. Il Ministero dell'interno, previa valutazione delle attestazioni ricevute, adotta con proprio decreto, da pubblicare entro il 30 novembre 2012 nel proprio sito internet, l'elenco dei comuni obbligati e di quelli esentati dall'obbligo di cui al comma 1». Infine, l'art. 16 del d.l. n. 138/2011 configura, al comma 28, un'ipotesi di esercizio del potere sostitutivo dello Stato nei riguardi degli enti locali che esula integralmente dal coinvolgimento dell'ente regionale e si realizza attraverso un previo potere di controllo assegnato ai Prefetti. La disposizione in esame, infatti, prevede che «al fine di verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali, il prefetto accerta che gli enti territoriali interessati abbiano attuato, entro i termini stabiliti, quanto previsto dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, e dall'articolo 14, comma 32, primo periodo, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, come da ultimo modificato dal comma 27 del presente articolo. Nel caso in cui, all'esito dell'accertamento, il prefetto rilevi la mancata attuazione di quanto previsto dalle disposizioni di cui al primo periodo, assegna agli enti inadempienti un termine perentorio entro il quale provvedere. Decorso inutilmente detto termine, fermo restando quanto previsto dal secondo periodo, trova applicazione l'articolo 8, commi 1, 2, 3 e 5 della legge 5 giugno 2003, n. 131». 6. L'art. 4 del d.l. n. 138/2011 si occupa, infine, di dettare una disciplina in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica. Si prevede, in particolare, che gli enti locali debbano liberalizzare tutte le attivita' economiche relative a tali servizi (comma 1), salvo che gli stessi enti locali non adducano motivate ragioni, in relazione ai diversi settori, sulla cui base essi ritengano di non procedere alla liberalizzazione in considerazione dei benefici che alla comunita' derivano dal mantenimento del regime di esclusiva (comma 3). 7. Tutto cio' premesso, con il presente ricorso la Regione Lazio, come in epigrafe rappresentata e difesa, impugna il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, limitatamente alle norme piu' sopra menzionate, in quanto lesive delle proprie attribuzioni garantite da disposizioni di rango costituzionale, e chiede, pertanto, che esse vengano dichiarate costituzionalmente illegittime alla luce dei seguenti motivi di Diritto I. Illegittimita' costituzionale della norma derivante dal combinato-disposto dei commi 1 e 4 dell'art. 3 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, per violazione dell'art. 117, comma 4, Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. Come dianzi ricordato, il comma i dell'art. 3 del d.l. n. 138/2011 impone alle Regioni di adeguare i propri ordinamenti al principio per il quale «l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge» con riguardo ad una serie di casi tassativamente indicati nella stessa disposizione, contestualmente stabilendo come sanzione - al comma 4 - che il mancato adeguamento regionale venga valutato ai fini del «declassamento» da «Regione virtuosa» a «Regione meno virtuosa» con riguardo al patto di stabilita' interno e, dunque, ai fini della sua sottoposizione, rispettivamente, ad un minore o maggiore carico partecipativo in vista del conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, secondo quanto stabilito dall'art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011. Ora, al di la' del rilievo che tra i casi tassativamente fissati dal legislatore statale si e' sorprendentemente annoverato il «contrasto con i principi fondamentali della Costituzione» - con la paradossale conseguenza, dunque, che se il contrasto si ponesse con una norma costituzionale che non integri un principio fondamentale, l'iniziativa e l'attivita' economica privata non potrebbero soggiacere ad alcun limite - al di la' di tale rilievo, la norma in questione rappresenta una patente violazione dell'art. 117, comma 4, Cost., ai sensi del quale «spetta alle Regioni la potesta' legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». E' evidente infatti che la norma statale che qui si censura interviene in un ambito che, dal punto di vista della configurazione in termini di materia, attiene prevalentemente alla disciplina del commercio e delle attivita' produttive: vale a dire, a due materie che codesta ecc.ma Corte ha ritenuto, con consistente e costante giurisprudenza, riconducibili alla competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell'appena menzionato art. 117, comma 4, Cost. (con riguardo alla materia «attivita' produttive», ex multis, cfr. sentt. nn. 213 e 214 del 2006; sentt. nn. 38, 64, 81, 443 e 452 del 2007; sent. n. 94 del 2008; sent. n. 76 del 2009; per quanto concerne la materia «commercio», cfr. sentt. nn. 64 e 165 del 2007; sent. n. 247 del 2010). L'aver dunque il legislatore statale introdotto una disciplina che essenzialmente inerisce alla regolazione del commercio e delle attivita' produttive, imponendo alla Regione ricorrente di adeguarsi ad essa entro un termine stabilito e corroborando, per di piu', tale previsione con l'attivarsi di un meccanismo sanzionatorio in caso di mancato adeguamento, consistente nell'attribuzione del carattere «meno virtuoso» ai fini della ripartizione delle risorse in relazione al patto di stabilita' interno, tutto questo determina l'illegittimita' della norma contestata per violazione di una competenza legislativa che, per effetto dell'art. 117, comma 4, Cost., bisogna intendere assegnata alla Regione. Ne' a tali considerazioni varrebbe opporre che la disciplina in questione rappresenta una modalita' di esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza», ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. E' agevole mostrare, invero, che la previsione a livello di legislazione regionale di limiti all'attivita' economica privata, non necessariamente coincidenti con quelli indicati dalla norma statale impugnata, ma efficaci erga omnes e fondati su diversi presupposti che siano ragionevoli, motivati e costituzionalmente legittimi, non e' in grado di recare alcun nocumento al libero esplicarsi della concorrenza, proprio perche' tali eventuali limiti sono destinati a trovare applicazione nei riguardi di tutti gli operatori dei diversi settori, e dunque per definizione non ne privilegiano alcuno, ne' tampoco determinano alcuna alterazione della piu' ampia competizione tra i potenziali concorrenti. Cio' che si e' appena rilevato si pone sulla scia di quanto e' stato recentemente chiarito dalla giurisprudenza costituzionale proprio in relazione ad una normativa regionale veneta introduttiva di limitazioni all'esercizio di attivita' commerciali; nella sent. n. 247 del 2010 codesta ecc.ma Corte ha con nettezza evidenziato come non produca «alcuna lesione di regole a tutela della concorrenza» e non incida, «ne' direttamente ne' indirettamente, sulla liberta' di concorrenza», una norma regionale che si collochi, «senza introdurre discriminazioni fra differenti categorie di operatori economici che esercitano l'attivita' in posizione identica o analoga, nel diverso solco della semplice regolamentazione territoriale del commercio [...] ed appare razionalmente giustificato dalle concrete e localizzabili esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale». Ma anche ove si volesse ritenere, per assurdo, che il portato normativo risultante dai commi 1 e 4 dell'art. 3 del d.l. n. 138/2011 riguardi, per qualche aspetto, il settore della «tutela della concorrenza», la disciplina statale risulterebbe in ogni caso costituzionalmente illegittima e lesiva delle competenze della Regione ricorrente, in quanto frutto del mancato rispetto del principio di leale collaborazione. Infatti, pure qualora si volessero considerare toccati dagli impugnati disposti taluni aspetti riconducibili alla «tutela della concorrenza», in nessun caso potrebbe ragionevolmente negarsi che tali aspetti coesistano e si intreccino, senza in alcun modo prevalere, con altri aspetti, di consistenza quanto meno equivalente, certamente riconducibili alle materie «attivita' produttive» e «commercio» le quali, come sopra mostrato, sono altrettanto certamente da ritenersi spettanti alla competenza regionale. A tutto concedere, ci si troverebbe, in sostanza, dinanzi ad una ipotesi di «concorrenza di competenze nazionali e regionali, senza che sia possibile ravvisare la sicura prevalenza di una materia sull'altra». Ossia, ci si troverebbe davanti ad un'ipotesi nella quale codesta Corte ha costantemente ritenuto (cfr., da ultimo, sent. n. 33 del 2011) che vada seguito «il canone della leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze» (cosi', tra le altre, sentt. nn. 88 del 2009 e 278 del 2010). Il rispetto di tale canone, nel caso di specie, risulta integralmente pretermesso dal legislatore statale, che si e' limitato a stabilire una disciplina, cui ha imposto all'autonomia normativa regionale di adeguarsi, prevedendo altresi' una sanzione per l'eventuale mancato adeguamento. Anche sotto tale profilo, dunque, il contenuto normativo recato dall'art. 3, commi 1 e 4, del d.l. n. 138/2011 e' da riconoscersi costituzionalmente illegittimo. II. Illegittimita' costituzionale delle norme contenute nell'art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt. 123 e 122 Cost. Come riferito in narrativa, l'art. 14, comma 1, del d.l. n. 138/2011 interviene in modo radicale su una serie di rilevantissimi questioni attinenti all'organizzazione regionale, imponendo alla Regione ricorrente - cosi' come a tutte le Regioni ad autonomia ordinaria - di adeguarsi alla disciplina da esso dettata entro i termini ivi stabiliti e prevedendo, anche in questo caso, la medesima sanzione configurata dall'art. 3, comma 4: il mancato adeguamento, infatti, rileva ai fini della collocazione nelle «classi di virtuosita'», con le relative e gia' ricordate conseguenze negative cui soggiacciono le Regioni «meno virtuose», secondo quanto previsto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011, come convertito con modificazioni dalla legge n. 111/2011. In particolare, la disposizione impugnata: fissa il numero massimo dei consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. a)); stabilisce il numero massimo degli assessori regionali (art. 14, comma 1, lett. b)); prevede il limite massimo degli emolumenti e delle indennita' da corrispondersi consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. c)); impone la commisurazione del trattamento economico dei consiglieri regionali alla loro effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio (art. 14, comma 1, lett. d)); richiede l'istituzione di un organo regionale denominato «Collegio dei revisori dei conti» e ne determina modalita' di nomina dei componenti e loro requisiti (art. 14, comma 1, lett. e)); obbliga la Regione, infine, a passare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto-legge e con efficacia a decorrere dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso, al sistema previdenziale contributivo per i consiglieri regionali (art. 14, comma 1, lett. f)). Ebbene, tutte queste norme sono da ritenersi - e in modo manifesto - costituzionalmente illegittime per difetto assoluto di competenza in capo allo Stato ad intervenire in questi ambiti e per lesione sia delle competenze assegnate dall'art. 123 Cost. in maniera espressa all'ente regionale, sia di quelle che in capo a quest'ultimo si traggono, a contrario, da quanto previsto dall'art. 122 Cost. E' evidente, infatti, che la determinazione del numero dei consiglieri regionali o degli assessori, l'individuazione di organi regionali (costituzionalmente non necessari) ausiliari o di controllo - quale l'ipotizzato Collegio regionale dei revisori dei conti - cosi' come il trattamento economico e previdenziale dei consiglieri regionali ed il suo legame con l'attivita' svolta in Consiglio, e' evidente, si diceva, che la regolazione dell'insieme di tali questioni rientra tra le competenze che la Costituzione assegna all'autonomia normativa regionale, in via diretta e non superabile dal legislatore statale. Si tratta, infatti, di questioni che, per una parte - e, specificamente, in relazione al numero massimo dei consiglieri e degli assessori e all'istituzione di organi regionali ausiliari o di controllo - vengono pacificamente ricondotte all'alveo della «forma di governo» regionale e dei «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento», di esclusiva spettanza allo Statuto regionale, in base all'art. 123 Cost. Per l'altra parte, debbono invece intendersi residualmente rimessi alla competenza legislativa regionale, dal momento che l'art. 122, comma 1, Cost. arresta la competenza dello Stato in subiecta materia alla fissazione della durata degli organi elettivi e alla introduzione dei principi fondamentali inerenti il sistema di elezione e i casi di ineleggibilita' e di incompatibilita' del Presidente, degli altri componenti della Giunta regionale e dei componenti del Consiglio regionale. Si tratta, peraltro, di rilievi che codesta ecc.ma Corte ha avuto modo recentemente di ribadire in relazione alla determinazione del numero dei consiglieri regionali (ma con argomentazione che puo' agevolmente estendersi, in via analogica, agli altri profili oggetto delle norme impugnate): «gli artt. 122 e 123 Cost. prevedono un "complesso riparto della materia elettorale tra le diverse fonti normative statali e regionali" (sentenza n. 2 del 2004). In particolare, "l'art. 122, quinto comma, stabilisce che il Presidente della Giunta regionale e' eletto a suffragio universale e diretto, salvo che lo statuto disponga diversamente; l'art. 123, primo comma, prevede che rientri nella competenza statutaria la forma di governo regionale; l'art. 122, primo comma, dispone che il sistema di elezione sia di competenza del legislatore regionale 'nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica'" (sentenza n. 45 del 2011). [...] Nell'ambito di tali riserve normative, rientra la determinazione del numero dei membri del Consiglio, in quanto la composizione dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale "scelta politica sottesa alla determinazione della "forma di governo" della Regione» (sentenza n. 3 del 2006). Di conseguenza, quando la fonte statutaria indica un numero fisso di consiglieri, senza possibilita' di variazione, la legge regionale non puo' prevedere meccanismi diretti ad attribuire seggi aggiuntivi» (cosi', con estrema chiarezza, la sent. n. 188 del 2011). Ma se non e' dato alla legge regionale intervenire a prevedere variazioni del numero dei consiglieri regionali rispetto a quanto statutariamente fissato, tanto piu' illegittima si palesa una normativa statale, quale quella qui censurata, che in totale assenza di titolo competenziale abbia la pretesa di imporre alla Regione adeguamenti statutari o legislativi in ordine a tale ambito, o ad ambiti da considerarsi analoghi in quanto rispondenti alla stessa ratio di garanzia costituzionalmente accordata all'autonomia regionale. Ne' sarebbe in alcun modo sostenibile, facendo leva sulla finalita' formalmente indicata dall'impugnato art. 14, comma 1 («per il conseguimento degli obiettivi stabiliti nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica»), che le norme da esso poste possano configurarsi come legittimo esercizio della competenza legislativa concorrente dello Stato in tema di «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», prevista dall'art. 117, comma 3, Cost. e dall'art. 119, comma 2, Cost. Al riguardo, infatti, e' sufficiente riportare quel che codesta Corte ha, mediante la recente sent. n. 247/2010, con estrema chiarezza ribadito: «in termini generali, va rilevato che questa Corte, con giurisprudenza costante (da ultimo, sentenze n. 52 del 2010 e n. 237 del 2009), ha ritenuto che, per individuare la materia in cui devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censure, non assuma rilievo dirimente la mera qualificazione che di esse da' il legislatore (statale o regionale), ma occorra fare riferimento all'oggetto della disciplina stessa». E' sin troppo evidente che, nel caso di specie, con la disposizione censurata il legislatore statale non incide, se non in termini meramente marginali e riflessi, nella materia «coordinamento della finanza pubblica» - rispetto alla quale, peraltro, come costantemente affermato da codesta Corte, da ultimo nella sent. n. 182 del 2011, lo Stato dovrebbe in ogni caso limitarsi a dettare esclusivamente una disciplina di principio, e non gia' norme di minuto dettaglio come nella presente circostanza. In realta', l'«oggetto della disciplina» impugnata e', ben diversamente, rappresentato da un vasto e profondo intervento modificativo dell'assetto organizzativo regionale, rispetto al quale, tuttavia, lo Stato - a differenza della Regione ricorrente - non puo' vantare alcuna competenza. D'altro canto, se assurdamente si ritenesse sufficiente la potesta' legislativa concorrente dello Stato in tema di «coordinamento della finanza pubblica» per considerarlo abilitato, nell'esercizio di essa, a travolgere qualsiasi diversa riserva di competenza normativa posta dalla Costituzione in capo egli enti regionali, dovrebbe coerentemente pervenirsi ad ammettere talune conseguenze enormi. In tale fallace prospettiva, ad esempio, dovrebbe riconoscersi che, in vista del «coordinamento della finanza pubblica», lo Stato possa esso stesso definire d'imperio la forma di governo regionale o determinare i principi di funzionamento della Regione, in totale spregio di quanto espressamente previsto dall'art. 123 Cost. La conseguenza e' talmente aberrante, che essa appare sufficiente a dimostrare il carattere altrettanto aberrante del presupposto da cui, per necessita' logica, deriva. Per tali ragioni, dunque, voglia la Corte adita dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 1, del d.l. n. 138/2011. III. Illegittimita' costituzionale delle norme contenute nell'art. 16, in particolare ai commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, per violazione del combinato-disposto degli artt. 117, comma 2, lett. p), e 117, comma 4, Cost.; dell'art. 118 Cost.; dell'art. 133, comma 2, Cost.; dell'art. 9, comma 2, L. cost. n. 3/2001, nonche' del principio di leale collaborazione. Come gia' ricordato nella ricostruzione in fatto, l'art. 16 del d.l. n. 138/2011 opera un ampio - e, come si mostrera', illegittimo - intervento in materia di organizzazione e funzioni delle associazioni degli enti comunali. Le norme in esso contenute, infatti, non prevedono soltanto l'obbligatorieta' dell'esercizio associato, nella forma tassativa dell'unione di comuni, delle funzioni amministrative per tutti i comuni con popolazione pari o inferiore a 1.000 abitanti (comma 1), sottraendoli alla disciplina stabilita dall'art. 32, commi 2, 3 e 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 267/2000 (comma 3) ed obbligando - entro termini perentori - sia i comuni interessati ad avanzare alla Regione la proposta di unione, sia la Regione stessa «a sancire l'istituzione di tutte le unioni nel proprio territorio» (comma 8). In aggiunta, i commi da 10 a 15 regolano nel dettaglio gli organi, e le loro funzioni, che debbono caratterizzare le unioni forzose di comuni, e la disciplina recata dall'articolo deve intendersi estesa anche alle unioni di comuni gia' esistenti, di cui facciano parte uno o piu' comuni con una popolazione fino a mille abitanti (comma 7). Dal punto di vista funzionale, in particolare si attribuisce alle unioni obbligatorie di comuni «la programmazione finanziaria e la gestione contabile» con riguardo alle funzioni esercitate dai comuni associati per mezzo dell'unione (comma 4), e stabilisce sia che «l'unione succede a tutti gli effetti nei rapporti giuridici [...] che siano inerenti alle funzioni ed ai servizi ad essa affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, ferme restando le disposizioni di cui all'articolo 111 del codice di procedura civile», sia che «alle unioni di cui al comma l sono trasferite tutte le risorse umane e strumentali relative alle funzioni ed ai servizi loro affidati ai sensi dei commi 1, 2 e 4, nonche' i relativi rapporti finanziari risultanti dal bilancio», sia da ultimo che «a decorrere dall'anno 2014, le unioni di comuni di cui al comma 1 sono soggette alla disciplina del patto di stabilita' interno per gli enti locali prevista per i comuni aventi corrispondente popolazione» (comma 5). La disposizione prevede, ancora, che l'unione forzosa non si applica a quei comuni che alla data del 30 settembre 2012 risultino esercitare le loro funzioni in forma associata, in base agli artt. 30 e 31 del d.lgs. n. 267/200, se attestano di aver conseguito in tale esercizio «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni» e se il Ministero dell'Interno ritenga confacente tale attestazione (comma 16). Infine (comma 28), allo scopo di «verificare il perseguimento degli obiettivi di semplificazione e di riduzione delle spese da parte degli enti locali», si configura un'ipotesi di esercizio del potere sostitutivo dello Stato nei riguardi di tali enti locali, senza che alla regione sia riconosciuto alcun ruolo: e' il prefetto ad operare il controllo e ad accertare che gli enti territoriali non abbiano «attuato, entro i termini stabiliti, quanto previsto dall'articolo 2, comma 186, lettera e), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni, e dall'articolo 14, comma 32, primo periodo, del citato decreto-legge n. 78 del 2010, come da ultimo modificato dal comma 27 del presente articolo», assegnando conseguentemente un termine per adempiere; nel caso in cui quest'ultimo non venga rispettato si procede all'esercizio del potere sostitutivo ai sensi dell'art. 8, commi 1, 2, 3, e 5, della legge n. 131/2003. Ebbene, tutta la riferita disciplina, che qui si impugna, e' da ritenersi costituzionalmente illegittima per lesione di competenze assegnate alla Regione ricorrente da norme di rango costituzionale. Infatti, sia l'istituzione obbligatoria di unioni di comuni, sia ciascuna delle previsioni che ineriscono alla disciplina dei loro organi e delle loro funzioni, risultano anzitutto in contrasto con il combinato disposto degli artt. 117, comma 2, lett. p), e 117, comma 4, Cost., dal quale emerge che la regolazione delle associazioni degli enti locali va ricondotta alla competenza normativa della Regione e non gia' dello Stato - che deve invece limitarsi a stabilire la normativa in tema di «legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Citta' metropolitane», restando evidentemente esclusi da tale «voce» tutti gli aspetti riguardanti l'associazionismo di tali enti. Del resto, la costante giurisprudenza costituzionale sul punto non da' adito ad alcun dubbio: a partire dalle sentt. n. 229/2001, 244/2005 e 456/2005 codesta Corte ha posto in luce che l'elencazione degli enti, e degli aspetti della loro disciplina, contenuta nell'art. 117, comma 2, lett. p), assume carattere puntuale e stringente. Infatti, con argomentazione riferita alle comunita' montane ma da intendersi estesa ad ogni forma di associazione degli enti locali, nella sent. n. 456/2005 si sottolinea che nella norma costituzionale da ultimo citata, gli enti locali rispetto ai quali viene individuata la competenza statale, ossia Comuni, Province e Citta' metropolitane, deve ritenersi una «indicazione tassativa»: «da qui la conseguenza che la disciplina delle Comunita' montane, pur in presenza della loro qualificazione come enti locali contenuta nel d.lgs. n. 267 del 2000, rientra ora nella competenza legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione». Ma non basta. Infatti, l'illegittimita' costituzionale delle impugnate norme desumibili dall'art. 16 del d.l. n. 138/2011 emerge anche lungo altri versanti. Anzitutto, la disciplina che si contesta, riallocando le funzioni amministrative comunali ad un livello territoriale superiore, quale quello delle unioni di comuni, risulta altresi' lesiva dell'art. 118 Cost. In base al primo comma di tale disposizione costituzionale, com'e' noto, «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Citta' metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza». La norma consente, dunque, che le funzioni amministrative vengano sottratte ai comuni e riallocate legislativamente ad un livello territorialmente piu' esteso, soltanto qualora sussista un'esigenza di esercizio unitario. Tuttavia, per individuare l'ente competente ad operare siffatta riallocazione (Stato o Regione) non si puo' prescindere dal rilievo che la disposizione costituzionale attribuisce ai principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza. Ora, tali principi, e quello di sussidiarieta' in particolare, escludono che l'ente competente a procedere ad una riallocazione delle funzioni comunali ad un livello che sia si' sovracomunale, ma al tempo stesso infraregionale, possa essere lo Stato. Tale conclusione appare evidente se si considera che nella prospettiva sussidiaria accolta dall'art. 118 Cost. deve essere l'ente dotato di potesta' legislativa e che al contempo sia territorialmente «piu' vicino» (vale a dire, la Regione), a valutare se sussista un'esigenza di esercizio unitario a livello regionale o infraregionale che possa giustificare una sottrazione di funzioni ai comuni. Allo Stato spettera', invece, di valutare se l'esigenza di esercizio unitario assuma una rilevanza addirittura nazionale, con conseguente riallocazione delle funzioni, in quel caso, in capo allo Stato stesso. Risulterebbe, invece, del tutto contrario al principio di sussidiarieta' ritenere ammissibile un intervento riallocativo delle funzioni ad opera dello Stato, riguardato come ente abilitato a stabilire quando sia configurabile l'esistenza di una esigenza unitaria non soltanto nazionale, ma perfino regionale o subregionale. Ad accettare siffatta erronea impostazione, infatti, si finirebbe per rimettere esclusivamente allo Stato ogni riallocazione, a qualunque livello territoriale, delle funzioni amministrative, con la conseguenza - assurda perche' integralmente antisussidiaria - di non poter riconoscere alcuno spazio entro il quale sia consentito alla legge regionale operare tale «riposizionamento» delle funzioni originariamente comunali, conferendole al livello regionale o a quello di un ente territoriale infraregionale, dopo aver valutato e riconosciuto la sussistenza di una corrispondente esigenza di esercizio unitario. Anche da questo punto di vista, dunque, deve ritenersi che rientri nella competenza regionale, per quanto si evince dall'art. 118 Cost., valutare se sussista l'esigenza che giustifichi l'assegnazione di funzioni amministrative comunali ad un'unione di comuni. Poiche' le norme statali impugnate esercitano tale competenza, sottraendola alla Regione, esse sono da considerarsi, anche lungo tale versante, costituzionalmente illegittime. A tutto quel che precede va aggiunto, altresi', che le norme statali censurate integrano parimenti una violazione dell'art. 133, comma 2 Cost., ai sensi del quale «la Regione, sentite le popolazioni interessate, puo' con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni». Una lettura sistematica e non meramente formalistica di tale disposizione, infatti, induce ad individuarne la ratio nell'attribuzione alla competenza regionale della disciplina del numero dei comuni non perche' essi vengano intesi come «enti privi di funzioni», ma proprio in ragione delle funzioni dai medesimi svolte. Nessun senso avrebbe, infatti, l'istituzione di nuovi comuni, se ad essa non corrispondesse l'istituzione di un ente dotato di funzioni. Pertanto, un intervento statale - quale quello censurato - che svuota di funzioni gli enti comunali non puo' non comportare una surrettizia elusione, e dunque una violazione, anche della riserva di competenza stabilita in favore della Regione dall'art. 133, comma 2, Cost. A tutto quel che precede va aggiunto, infine, che in relazione al comma 28 dell'art. 16 del d.l. n. 138/2011 - che prevede un controllo prefettizio sull'operato comunale ed il conseguente esercizio del potere sostitutivo statale - si palesa altresi' una violazione sia dell'art. 9, comma 2, 1. cost. n. 3/2001 (che, abrogando l'art. 130 dell'originario testo costituzionale, ha implicitamente escluso la legittimita' di procedure amministrative statali di controllo sugli atti comunali), sia del principio di leale collaborazione. Con riguardo a quest'ultimo aspetto, infatti, la norma statale ha integralmente e illegittimamente omesso di prevedere una forma di coinvolgimento regionale all'esercizio del potere sostitutivo, nonostante l'art. 49 dello Statuto della Regione Lazio attribuisca proprio alla legge regionale la disciplina dell'esercizio del potere sostitutivo da parte della Regione nei riguardi degli enti locali. In sostanza, il controllo e il potere sostitutivo statali, contemplati dal comma 28 in parola, privano la legge regionale della possibilita' di regolare un ambito che pure ad essa e' rimesso dallo Statuto, senza che a cio' corrisponda alcun ruolo o partecipazione della Regione nell'esercizio del medesimo potere sostitutivo, o almeno nella valutazione dei suoi presupposti: non puo' che conseguirne una violazione del principio di leale collaborazione. IV. Illegittimita' costituzionale delle norme contenute nell'art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 148 del 2011, per violazione dell'art. 117, comma 4, Cost. e dell'art. 75 Cost. Costituzionalmente viziata appare anche, infine, la disciplina recata dall'art. 4 del d.l. n. 138/2011. La disposizione contiene, infatti, una serie di prescrizioni in materia di liberalizzazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica; prescrizioni che fanno comunque salvo il potere dell'ente locale di verificare l'opportunita' di sottrarre alla liberalizzazione i diversi settori, per ragioni legate ai «benefici per la comunita' locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio» (art. 4, comma 2). Ora, l'ambito materiale «servizi pubblici locali» non appare tra quelli assegnati, ai sensi dell'art. 117, commi 2 e 3, alla legislazione statale, ne' esclusiva, ne' concorrente; pertanto, esso puo' essere ricondotto, ai sensi del comma 4 dello articolo della Costituzione, alla competenza legislativa residuale regionale. Ne' sembra che l'intervento statale possa ritenersi abilitato in ragione di esigenze di «tutela della concorrenza», dal momento che - come sottolineato - viene comunque rimessa all'ente locale la possibilita' di sottrarre i servizi alla liberalizzazione, dopo aver verificato l'esistenza di benefici per la comunita' derivanti dal mantenere il regime di esclusiva dei servizi stessi. Sicche', la disciplina statale, senza che possa dirsi realmente finalizzata alla «tutela della concorrenza», consegue l'effetto, illegittimo, di «espropriare» l'ente regionale della regolazione di una materia - quale quella inerente i servizi pubblici locali -sulla quale in base al riparto costituzionale, invece, esso ha piena competenza legislativa. Peraltro, anche a ritenere che lo Stato goda attraverso la tutela della concorrenza di una competenza trasversale ed abbia la capacita' di incidere sulle modalita' di affidamento dei servizi pubblici locali, la disciplina impugnata risulterebbe illegittima per un ulteriore profilo. In questo caso, infatti, l'esercizio del titolo competenziale della «tutela della concorrenza» astrattamente configurabile in capo allo Stato, dovrebbe essere in concreto ritenuto radicalmente escluso anche ai sensi dell'art. 75 Cost. In altri termini, il legislatore statale non risulterebbe competente ad intervenire in conseguenza dell'effetto vincolante che su di esso deriva dall'abrogazione, deliberata tramite i referendum popolari celebrati il 12 e 13 giugno 2011, di analoga disciplina legislativa statale, relativa alle modalita' di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e alla determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all'adeguata remunerazione del capitale investito. In altri termini, la violazione dell'art. 75 si riflette in una lesione delle competenze regionali, in quanto va ad incidere in modo illegittimo, attraverso la concorrenza, su una materia di legislazione esclusiva della Regione.
P.Q.M. Voglia codesta ecc.ma Corte, ogni contraria istanza e deduzione disattesa, in accoglimento del presente ricorso, dichiarare l'illegittimita' costituzionale del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», come convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 216 del 16 settembre 2011, limitatamente ai seguenti articoli: art. 3, commi 1 e 4; art. 4; art. 14, comma 1 e art. 16 (in particolare, commi 1, 3, 4, 5, 7, 8, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e 28), per violazione degli articoli 75, 117, 118, 122, 123 e 133, comma 2, della Costituzione. dell'art. 9, comma 2, 1. cost. n. 3/2001, nonche' per lesione del principio di leale collaborazione, per i profili e alla luce di tutte le ragioni piu' sopra esposte. Roma, addi' 11 novembre 2011 Prof. Avv. Marini