N. 138 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 22 novembre 2011

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 22 novembre 2011 (della Regione Marche). 
 
Enti locali - Gestione e affidamento dei servizi pubblici  locali  di
  rilevanza economica -  Adeguamento  della  disciplina  dei  servizi
  pubblici locali al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 e alla
  normativa europea - Obbligo per gli enti locali  di  verificare  la
  realizzabilita' di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici
  locali,    liberalizzando    tutte    le    attivita'    economiche
  compatibilmente  con  le   caratteristiche   di   universalita'   e
  accessibilita'  del  servizio  e  limitando,  negli   altri   casi,
  l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base
  ad una analisi di mercato, la libera iniziativa  economica  privata
  non risulti idonea a garantire un servizio rispondente  ai  bisogni
  della comunita'  -  Disciplina  della  verifica  del  contratto  di
  servizio, nel  caso  di  gestione  in  house  o  di  partecipazione
  pubblica del capitale sociale, attribuita  allo  statuto  dell'ente
  locale anziche' alla Regione -  Previsione  che  amministratori  di
  enti locali non possano essere nominati amministratore di  societa'
  partecipate dagli enti locali medesimi - Lamentata incidenza  sulla
  materia  dei  servizi  pubblici  locali  di   spettanza   residuale
  regionale,  elusione  degli  effetti  vincolanti   del   referendum
  popolare - Ricorso della Regione  Marche  -  Denunciata  violazione
  della competenza legislativa  regionale  residuale  in  materia  di
  servizi  pubblici  locali  e  di  ordinamento  degli  enti  locali,
  violazione del vincolo referendario. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 4. 
- Costituzione, artt. 75 e 117, comma quarto. 
(GU n.53 del 21-12-2011 )
    Ricorso della Regione Marche, in  persona  del  Vice  Presidente,
delegato pro tempore del Presidente della Giunta regionale, ai  sensi
dell'art. 7, comma 2, Statuto della Regione, a cio'  autorizzato  con
deliberazione della Giunta regionale n. 1466  del  7  novembre  2011,
rappresentato  e   difeso   dall'avv.   prof.   Stefano   Grassi   ed
elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo  in  Roma,
Piazza Barberini n. 12, come da procura speciale per atto del  notaio
Fernando Rosario Giampietro di Ancona, n. rep. 2613  del  9  novembre
2011, 
    Contro lo Stato, in persona  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  pro  tempore,  per  la  dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale in parte qua dell'art. 4 del d.l. 13 agosto  2011,  n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la  stabilizzazione  finanziaria  e
per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
14 settembre 2011, n. 148, pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  16
settembre 2011, n. 216. 
    1. - Con l'approvazione dell'art. 4 del d.l. 13 agosto  2011,  n.
138 (Ulteriori misure urgenti per la  stabilizzazione  finanziaria  e
per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge
14 settembre 2011, n. 148, il legislatore statale ha  introdotto  una
nuova disciplina dei servizi pubblici locali al  dichiarato  scopo  -
come si ricava dalla stessa rubrica dell'articolo in questione  -  di
«adeguare» la normativa previgente «al  referendum  popolare  e  alla
normativa europea». 
    Nella seduta n. 57 del 25 ottobre 2011,  l'Assemblea  legislativa
delle Marche ha approvato la seguente mozione: 
        «Premesso  che  con  il  decreto-legge  n.  138   del   2011,
convertito in legge n. 148 del 14 settembre 2011, e' stata introdotta
una disposizione (articolo 4), rubricata sotto il titolo "Adeguamento
della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e
alla normativa europea", che  di  fatto,  pur  escludendo  dalla  sua
applicazione il servizio idrico  integrato,  obbliga  a  privatizzare
entro la meta' di marzo tutti gli altri servizi pubblici locali; 
        Considerato che la  suddetta  norma  appare  contrastare  con
l'esito del referendum di giugno sull'art. 23-bis  del  decreto-legge
n. 112/2008, in quanto esso, come affermato in sede  di  giudizio  di
ammissibilita'  dalla  Corte  costituzionale,  non  riguardava   solo
l'acqua ma l'intero art. 23-bis, vale  a  dire  la  disposizione  che
intendeva favorire la gestione dei servizi pubblici locali  da  parte
di soggetti privati scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica; 
        Considerato, inoltre, che la caducazione dell'art.  23-bis  a
seguito del referendum suddetto, cosi'  come  sostenuto  dalla  Corte
costituzionale nel giudizio di ammissibilita', avrebbe comportato, in
assenza dell'intervento legislativo statale, l'applicazione immediata
nell'ordinamento italiano della normativa comunitaria  che,  come  e'
noto, e' meno restrittiva rispetto a quella  oggetto  di  referendum,
nel senso che essa non impone forme di privatizzazione forzata; 
        Ritenuto che l'art. 4 della legge n. 148/2011  introduce  una
disciplina ancor piu' favorevole  alla  privatizzazione  dei  servizi
pubblici locali di quella contenuta  nell'art.  23-bis  abrogato  per
referendum; 
        Ritenuto, pertanto, che la suddetta disposizione  neutralizza
e sovverte l'esito del referendum di cui trattasi, laddove  circa  27
milioni  di  cittadini  hanno  inequivocabilmente  e  sostanzialmente
dichiarato che il "privato" non e' necessariamente  la  soluzione  ma
molto piu' sovente il problema; 
        Ritenuto, infine, che l'art. 4 summenzionato  appare  violare
altresi' le prerogative di autonomia delle regioni, come riconosciuto
da alcune regioni italiane, che hanno gia' provveduto  ad  interporre
il gravame costituzionale; 
        Impegna la Giunta regionale a proporre ricorso  dinanzi  alla
Corte  costituzionale   per   la   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 4 del decreto-legge 13 agosto 2011,  n.  138
convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148». 
    2. -  La  Regione  Marche,  con  la  deliberazione  della  Giunta
indicata in epigrafe, ha espresso la volonta' di impugnare davanti  a
questa Corte le disposizioni contenute nell'art. 4 del  d.l.  n.  138
del 2011, come convertito in legge  dalla  legge  n.  148  del  2011,
perche' costituzionalmente illegittime e lesive dell'autonomia che la
Costituzione riconosce e garantisce alle Regioni, in riferimento agli
artt. 75 e 117, quarto comma, della Costituzione. 
    L'illegittimita' costituzionale che si denuncia con  il  presente
ricorso si fonda sulle seguenti ragioni di 
 
                            D i r i t t o 
 
    3. Premessa. 
    3.1. - La normativa contenuta nell'art. 4 del  d.l.  n.  138  del
2011, nel testo risultante dalla legge  di  conversione,  mira  nella
sostanza (e principalmente) a favorire  la  massima  liberalizzazione
possibile di tutte le attivita' economiche connesse con  l'erogazione
dei  servizi  pubblici  locali  e  a  limitare,  in   via   generale,
l'attribuzione di diritti di esclusiva nella  gestione  dei  predetti
servizi;  sotto  quest'ultimo  profilo,  in  particolare,  la   nuova
disciplina si propone di ridurre drasticamente  e  in  termini  assai
rigorosi la possibilita' dell'affidamento diretto della gestione  del
servizio secondo le modalita' del c.d. «in house providing». 
    Tali obiettivi  sono  perseguiti,  innanzi  tutto,  imponendo  ai
Comuni  di   verificare   «la   realizzabilita'   di   una   gestione
concorrenziale dei servizi pubblici  locali  di  rilevanza  economica
(...) liberalizzando tutte le  attivita'  economiche  compatibilmente
con  le  caratteristiche  di  universalita'  e   accessibilita'   del
servizio» (comma 1), e stabilendo in via generale che - solo nel caso
in cui la verifica di cui sopra abbia esito  negativo  -  si  possano
riconoscere e mantenere «diritti di esclusiva», mediante  l'adozione,
da parte degli enti  locali,  di  apposita  decisione  specificamente
motivata in ordine alla inidoneita' della libera iniziativa economica
«a garantire un servizio  rispondente  ai  bisogni  della  comunita'»
(comma 1) e, al contempo, in ordine ai  «benefici  per  la  comunita'
locale derivanti dal mantenimento  di  un  regime  di  esclusiva  del
servizio» (comma 2). 
    In secondo luogo, i menzionati obiettivi sono perseguiti  tramite
la previsione secondo la quale «nel caso  in  cui  l'ente  locale,  a
seguito  della  verifica  di  cui  al  comma  1,  intende   procedere
all'attribuzione di  diritti  di  esclusiva,  il  conferimento  della
gestione di servizi pubblici locali avviene in favore di imprenditori
o di societa' in  qualunque  forma  costituite  individuati  mediante
procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi
del Trattato sul funzionamento dell'Unione  europea  e  dei  principi
generali relativi  ai  contratti  pubblici  e,  in  particolare,  dei
principi  di  economicita',  imparzialita',   trasparenza,   adeguata
pubblicita',  non  discriminazione,  parita'  di  trattamento,  mutuo
riconoscimento e proporzionalita'» (comma 8),  prevedendosi  altresi'
che l'affidamento  «a  favore  di  societa'  a  capitale  interamente
pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per
la  gestione  cosiddetta  "in  house"»   possa   avvenire   solo   ed
esclusivamente  «se  il  valore  economico   del   servizio   oggetto
dell'affidamento e'  pari  o  inferiore  alla  somma  complessiva  di
900.000 euro annui» (comma 13). 
    A queste disposizioni altre piu' specifiche se ne  aggiungono  in
riferimento alle ipotesi di affidamento della  gestione  dei  servizi
pubblici locali a societa' cosiddette «in house» o a societa' il  cui
capitale sociale sia partecipato dall'ente  locale  affidante  (comma
18)  e,  piu'  in  generale,  alla  regolamentazione  delle  societa'
partecipate dagli enti locali (comma 21). 
    3.2. - La complessa disciplina posta dall'art. 4 del d.l. n.  138
del 2011 presenta diversi profili di illegittimita' costituzionale. 
    In primo luogo, l'accennata forte limitazione della  possibilita'
di ricorrere all'affidamento in house per  la  gestione  dei  servizi
pubblici locali deve essere ritenuta  elusiva  dell'esito  conseguito
dal recente referendum popolare del giugno 2011 sull'art. 23-bis  del
d.l. n. 112 del 2008  e,  pertanto,  direttamente  in  contrasto  con
l'art. 75 Cost. e indirettamente lesiva  della  potesta'  legislativa
regionale di tipo residuale in materia di «servizi  pubblici  locali»
(primo motivo). 
    In secondo luogo, la nuova disciplina  posta  dallo  Stato  viola
direttamente competenze  che  la  Costituzione  affida  alle  Regioni
(secondo, terzo e quarto motivo). 
    4. - I Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art.  4,  commi
1, 8, 9, 10, 11, 12 e 13, del d.l. n. 138 del 2011,  come  convertito
in legge dalla legge n. 148 del 2011,  per  violazione  dell'art.  75
Cost., in quanto realizza  una  sostanziale  elusione  del  risultato
referendario sancito dal d.P.R.  18  luglio  2011,  n.  113,  che  ha
disposto l'abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008. 
    4.1.  -  La  normativa  posta   dalle   disposizioni   citate   e
sommariamente esposta in premessa realizza una evidente elusione  del
referendum abrogativo, svoltosi con esito positivo i giorni 12  e  13
giugno 2011, avente  per  oggetto  l'art.  23-bis  (Servizi  pubblici
locali di rilevanza economica)  del  d.l.  25  giugno  2008,  n.  112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito  in  legge,  con  modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n.  133,  come  modificato  dall'art.  30,
comma 26, della legge 23 luglio 2009,  n.  99  (Disposizioni  per  lo
sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonche' in materia
di energia) e dall'art.  15  del  d.l.  25  settembre  2009,  n.  135
(Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari  e  per
l'esecuzione di sentenze della corte  di  giustizia  della  Comunita'
europea), convertito in legge,  con  modificazioni,  dalla  legge  20
novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della  sentenza
n. 325 del 2010 della Corte costituzionale. 
    Anche  la  disciplina  abrogata  mediante  referendum,   infatti,
disciplinava la c.d. «gestione  in  house»  come  ipotesi  del  tutto
eccezionale (cfr., in particolare, il comma 3 del citato art. 23-bis)
nell'ambito  delle  diverse  modalita'  di  affidamento  dei  servizi
pubblici locali. 
    L'elusione  dell'esito   referendario   e'   stato   sottolineato
immediatamente  dai  primi  commentatori.  E'  stato  affermato,   ad
esempio, che «con il decreto-legge del 13 agosto 2011, n.  138  (...)
il legislatore (...) e' intervenuto nuovamente (...) nel settore  dei
servizi  pubblici  locali  di  rilevanza  economica,  dando  vita  ad
un'ulteriore versione riveduta e corretta dell'abrogato  art.  23-bis
e, soprattutto, dell'art. 15, tale  da  disattendere  le  aspettative
sorte  dopo  gli  esiti  referendari»,   sottolineandosi,   piu'   in
particolare, come il legislatore statale abbia inteso «riproporre  in
larga  misura  lo  schema  normativo  gia'  oggetto  dell'abrogazione
referendaria, abbia inteso "restaurare"  l'ancient  regime,  travolto
dal voto popolare, in modo da ripristinare la  previgente  disciplina
organica della materia» (cosi' E. Furno, La never  ending  story  dei
servizi  pubblici  locali  di  rilevanza  economica  tra  aspirazioni
concorrenziali ed esigenze sociali: linee di tendenza e problematiche
aperte alla luce del d.l. n.  138/2011,  convertito  nella  legge  n.
148/2011, in www.giustamm.it). 
    Il rilievo e' tutt'altro  che  isolato.  Altri  autori,  infatti,
hanno posto in evidenza il fatto che «l'art. 4 del recentissimo  d.l.
riproduce  testualmente  e  pressoche'   del   tutto   il   contenuto
dispositivo delle norme gia' contenute nell'art. 23-bis,  cosi'  come
nel relativo regolamento di attuazione» (cosi' D. Masetti,  La  nuova
(?)  disciplina  dei  servizi  pubblici  locali  dopo  il  referendum
abrogativo del 12-13 giugno 2011, in www.giustamm.it, a cui  si  puo'
rinviare  anche  per  una  «dimostrazione  testuale   del   carattere
pressoche' interamente riproduttivo dell'art. 4  del  d.l.  n.  138»,
operata  per  il  tramite  di  tavole  sinottiche,  ivi,  p.  4   ss;
sostanzialmente nel medesimo senso si esprime anche C. Volpe, Appalti
pubblici  e  servizi  pubblici.  Dall'art.  23-bis  al  decreto-legge
manovra di agosto 2011 attraverso  il  referendum:  l'attuale  quadro
normativo, in www.giustamm.it, 10). 
    D'altra  parte,  nella  sent.  n.  24  del  2011,  pronunciandosi
sull'ammissibilita' del quesito referendario avente ad oggetto l'art.
23-bis del d.l. n.  112  del  2008,  questa  Corte  ha  espressamente
ritenuto  «evidente  che  l'obiettiva  ratio  del  quesito  n.  1  va
ravvisata (...) nell'intento di escludere l'applicazione delle norme,
contenute  nell'art.  23-bis,  che  limitano,  rispetto  al   diritto
comunitario, le ipotesi di  affidamento  diretto  e  in  particolare,
quelle di gestione in house di pressoche' tutti  i  servizi  pubblici
locali di rilevanza economica (ivi  compreso  il  servizio  idrico)»,
rilevando, pertanto,  l'insussistenza  di  «alcuna  contraddizione  o
incongruita' tra tale intento intrinseco  e  la  formulazione  -  del
tutto chiara, semplice ed univoca - della richiesta  referendaria  di
abrogare l'intero art. 23-bis». 
    Dunque, in base a quanto gia' chiarito da questa Corte, non  puo'
sussistere alcun dubbio sul significato e sulla  portata  sostanziale
del   pronunciamento   del   corpo   elettorale   che   ha   condotto
all'abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 sancita dal
d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113: rimuovere dall'ordinamento legislativo
statale le limitazioni alle modalita' di affidamento  diretto  e,  in
particolare, alla «gestione in house» dei servizi subblici locali che
risultassero aggiuntive ed ulteriori rispetto a  quanto  imposto  dal
diritto dell'Unione europea cosi' come interpretato  dalla  Corte  di
Giustizia UE. 
    4.2. - Se, come e' vero, la pressoche'  totale  sovrapponibilita'
del contenuto normativo delle disposizioni contestate in questa  sede
con quello  dell'art.  23-bis  del  d.l.  n.  112  del  2008  colpito
dall'abrogazione  mediante  referendum  non  puo'  essere  seriamente
negata, altrettanto innegabile e' la violazione  dell'art.  75  Cost.
nell'interpretazione consolidata che ne  fornisce  la  giurisprudenza
costituzionale. Questa Corte, infatti, in piu' di una  occasione,  ha
avuto modo di affermare espressamente che  il  legislatore  ordinario
non puo' eludere l'esito referendario adottando  una  normativa  che,
nella sostanza, riproponga quella abrogata. 
    A questo riguardo, e' possibile  menzionare,  innanzi  tutto,  la
sent. n. 468 del 1990, nella quale si legge  che  «a  differenza  del
legislatore che puo' correggere o addirittura disvolere quanto ha  in
precedenza statuito, il referendum manifesta una volonta'  definitiva
e irripetibile», non e' quindi consentita «al legislatore  la  scelta
politica di far rivivere la  normativa  ivi  contenuta»,  neanche  «a
titolo transitorio» (par.  4.3  del  Considerato  in  diritto).  Tali
conclusioni  sono  state  ribadite  dalle  decisioni  successive.  Le
sentenze nn. 32 e 33 del 1993, infatti,  affermano  la  possibilita',
per il legislatore ordinario, di «correggere, modificare o  integrare
la disciplina residua», «nei limiti», pero', «del divieto di  formale
o sostanziale ripristino  della  normativa  abrogata  dalla  volonta'
popolare» (cosi' la sent. n. 32 del 1993, par. 5 del  Considerato  in
diritto; analogamente la  sent.  n.  33  del  1993,  al  par.  3  del
Considerato in diritto). Ancora, deve essere citata l'ord. n.  9  del
1997, nella quale si menziona espressamente «la  possibilita'  di  un
controllo» ad opera della  stessa  Corte  costituzionale  «in  ordine
all'Osservanza -  da  parte  del  legislatore  stesso  -  dei  limiti
relativi al dedotto divieto di formale o sostanziale ripristino della
normativa abrogata dalla volonta' popolare». 
    Anche la dottrina si  e'  prevalentemente  schierata  a  sostegno
della posizione fatta propria dalla giurisprudenza di  questa  Corte.
In questa sede puo'  essere  sufficiente  riferirsi  -  per  tutti  -
all'autorevole insegnamento di Livio Paladin,  secondo  il  quale  «i
referendum non si prestano ad essere compiutamente inseriti  fra  gli
atti normativi equiparati alla legge statale  ordinaria»  (anche)  in
virtu'  della  peculiarita'  della  loro  forza  passiva.  A   questo
riguardo, infatti, occorre considerare il peculiare vincolo  gravante
sulle Camere, che non possono introdurre «una disciplina  identica  o
equivalente a quella abrogata dal  popolo».  Questo  vincolo  -  nota
ancora Paladin - non puo' certo «durare in eterno»:  permane,  pero',
fino al successivo (rispetto  al  referendum)  «momento  del  rinnovo
delle Camere, in quanto produttivo di  una  situazione  politicamente
nuova rispetto a quella esistente  nel  periodo  della  consultazione
popolare» (L. Paladin, Le fonti del  diritto  italiano,  Bologna,  il
Mulino, 1996, 273-275). 
    Nella   presente   vicenda,   l'aspetto   temporale   da   ultimo
evidenziato, merita peraltro una specifica sottolineatura. 
    Il referendum abrogativo ha avuto luogo nei giorni 12 e 13 giugno
2011, mentre la proclamazione del risultato e' avvenuta con il d.P.R.
18  luglio  2011,  n.  113  (Abrogazione,  a  seguito  di  referendum
popolare,  dell'art.  23-bis  del  decreto-legge  n.  112  del  2008,
convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  n.  133  del  2008,  e
successive  modificazioni,  nel  testo  risultante  a  seguito  della
sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010,  in  materia  di
modalita' di affidamento e gestione dei servizi  pubblici  locali  di
rilevanza economica). La norma che qui si impugna  e'  contenuta  nel
decreto-legge del successivo 13 agosto 2011. Tra la proclamazione del
risultato referendario e la normativa qui contestata che  palesemente
lo contraddice (a dispetto della rubrica  dell'art.  4  che  vorrebbe
preludere all'«adeguamento  della  disciplina  dei  servizi  pubblici
locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione  europea»)
non e' trascorso neppure un mese. Ed  e'  superflua  la  precisazione
secondo la quale in tale lasso di tempo non si sono  svolte  elezioni
politiche che abbiano conferito nuova e diversa  legittimazione  alle
assemblee parlamentari che  hanno  provveduto  alla  conversione  del
decreto-legge in esame. 
    In sintesi, appare del tutto  evidente  che  il  preciso  effetto
della normativa impugnata consiste proprio  nella  realizzazione,  in
tempi rapidissimi, di quella elusione del risultato referendario - in
violazione  della  Costituzione  -  che   tanto   la   giurisprudenza
costituzionale quanto l'autorevole dottrina  sopra  citata  escludono
che possa legittimamente realizzarsi. 
    In considerazione di tutto cio', deve ritenersi che i commi 1, 8,
9, 10, 11, 12 e 13, dell'art. 4 del d.l. n. 138 del  2011,  risultano
costituzionalmente illegittimi per violazione dell'art. 75 Cost.,  in
quanto   realizzano   una   sostanziale   elusione   del    risultato
referendario. 
    4.3.  -  Sulla  legittimazione  della  Regione  a  sollevare   la
questione   appena   prospettata   nell'ambito   del   giudizio    di
costituzionalita' di cui all'art. 127  Cost.,  si  puo'  sottolineare
quanto segue. 
    Con il presente motivo, la Regione Marche e' ben  consapevole  di
contestare la legittimita' costituzionale della disciplina  in  esame
sotto il profilo della violazione di un parametro  costituzionale  di
per  se'  estraneo  alle  norme  sul  riparto  delle  competenze.  La
ricorrente riconosce che il legislatore statale,  ponendo  una  nuova
disciplina delle modalita' di gestione e di affidamento  dei  servizi
pubblici locali  aventi  rilevanza  economica,  ha  fatto  uso  della
propria competenza legislativa  nella  materia  della  «tutela  della
concorrenza» di cui all'art. 117, secondo comma, lett.  e),  Cost.  e
che tale esercizio di potesta' legislativa non contrasta direttamente
con le  norme  costituzionali  che  regolano  la  ripartizione  delle
competenze. 
    Tuttavia, cio' che la Regione Marche lamenta nel caso  di  specie
e' la lesione indiretta delle proprie attribuzioni costituzionali (in
primis della propria potesta' legislativa) derivante da una normativa
statale che si assume legittima quanto al profilo  della  competenza,
ma gravemente illegittima nei suoi contenuti a causa della violazione
dell'art. 75 cost. Il presupposto fondamentale  sul  quale  si  regge
l'affermata lesione indiretta e' che la disciplina statale di cui  si
discute  e'  innegabilmente  destinata   ad   incidere   in   termini
conformativi sulle  attribuzioni  costituzionalmente  spettanti  alla
Regione, imponendo limiti e vincoli al loro esercizio. 
    Come e'  sostenuto  dalla  piu'  recente  dottrina,  la  «lesione
indiretta» delle competenze regionali si verifica senza  dubbio  «nei
casi in cui una norma legislativa statale destinata  ad  incidere  in
termini conformativi sulle attribuzioni normative,  amministrative  o
finanziarie delle Regioni risulti affetta, nel suo contenuto,  da  un
vizio (sostanziale) di legittimita' costituzionale per violazione  di
parametri extracompetenziali, assumendosene, al tempo stesso la piena
conformita' alle norme costituzionali sul riparto  delle  competenze.
Si pensi, ad esempio, a tutti i casi in cui  il  legislatore  statale
eserciti incontestatamente la propria potesta' legislativa  esclusiva
nelle materie c.d. «trasversali» in termini e con contenuti  tali  da
vincolare, limitare o comunque condizionare dall'interno  l'esercizio
delle potesta' normative costituzionalmente  spettanti  alle  Regioni
(tutela  della  concorrenza,  livelli  essenziali  delle  prestazioni
concernenti i diritti, ordinamento  civile,  tutela  dell'ambiente  e
dell'ecosistema, etc.) e, cio' nondimeno, la disciplina in  questione
risulti  in  contrasto  con  norme   costituzionali   estranee   alla
distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni  (diritti  fondamentali,
principio  di  eguaglianza,  ragionevolezza,  imparzialita'  e   buon
andamento  dell'amministrazione,  copertura  della  spesa   pubblica,
etc.)». In tali ipotesi «e' assai difficile  negare  che  le  Regioni
subiscano una lesione - seppure indiretta - delle  proprie  sfere  di
competenza ad opera di una legge statale che, pur  tuttavia,  risulta
pienamente conforme alle norme  costituzionali  che  disciplinano  le
attribuzioni regionali lese. La lesione, in questi casi, e' indiretta
in  quanto  prescinde  del  tutto  dalla  violazione  dei   parametri
competenziali; anzi, per  l'appunto,  costituisce  l'effetto  di  una
norma legislativa dello Stato che si assume  rispettosa  dell'assetto
costituzionale delle competenze ma che, al  tempo  stesso,  contrasta
nel suo contenuto sostanziale  con  altri  parametri  costituzionali»
(cosi'  M.  Cecchetti,  La  «lesione  indiretta»  delle  attribuzioni
costituzionali delle  Regioni  e  l'irrisolta  questione  della  loro
legittimazione al ricorso nel giudizio di  costituzionalita'  in  via
principale, in federalismi.it, n. 15/2011, p. 6). 
    La medesima dottrina si preoccupa di indicare le ragioni che,  in
simili  casi,  conducono  a  configurare  la  sicura  lesione   della
attribuzioni regionali: «Se l'attivita' legislativa ed amministrativa
regionale e' costretta in un quadro di norme  incostituzionali,  cio'
non comporta  solo  una  menomazione  del  generale  interesse  della
Regione  a  non  essere  impedita  nell'adempimento  dell'obbligo  di
rispettare la Costituzione, ma implica altresi' una  vera  e  propria
lesione della sfera regionale di competenza.  Tale  lesione  consiste
nel  condizionamento   che   deriva   alle   Regioni   dai   principi
incostituzionali - oppure dalla disciplina  statale  «trasversale»  -
dei quali dovrebbero  comunque  subire  i  contenuti,  addivenendo  a
statuizioni legislative ed amministrative a loro volta di conseguenza
illegittime. Infatti, e' del tutto evidente - sul presupposto che  la
disciplina statale incostituzionale produca un  vincolo  conformativo
sulle potesta' regionali - che gli atti  normativi  o  amministrativi
adottati dalla Regione nell'esercizio delle proprie competenze  e  in
conformita'   alla   suddetta   disciplina   statale   risulterebbero
inesorabilmente «condannati» all'instabilita' e all'incertezza, ossia
alla possibile, futura caducazione  per  illegittimita'  derivata  ad
opera del giudice comune (o della Corte  nell'eventuale  giudizio  di
costituzionalita' della legge regionale promosso in via incidentale).
In questi casi, l'unico rimedio che le Regioni potrebbero  avere  per
evitare di adottare atti illegittimi - e, dunque, per «difendere»  le
loro prerogative costituzionali - e' quello  di  ammettere  che  esse
siano  abilitate   a   sollevare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale in via diretta, al fine di chiedere al  Giudice  delle
leggi   di    «liberarle»    dal    vincolo    legislativo    statale
incostituzionale» (cosi', ancora, M. Cecchetti, op.  cit.,  pp.  6-7,
che riprende affermazioni gia' reperibili in C. Padula,  L'asimmetria
nel giudizio in via principale. La  posizione  dello  Stato  e  delle
Regioni davanti  alla  Corte  costituzionale,  Padova,  CEDAM,  2005,
308-309). 
    Tutto cio' e' quanto  si  verifica  per  l'appunto  nel  caso  di
specie. 
    La   disciplina   impugnata,    pur    legittimamente    adottata
nell'esercizio della competenza legislativa dello Stato in materia di
«tutela  della  concorrenza»,  e'  indiscutibilmente   destinata   ad
incidere in termini vincolanti sulla potesta'  legislativa  regionale
di tipo residuale nella materia dei «servizi  pubblici  locali»  piu'
volte riconosciuta dalla giurisprudenza di  questa  Corte  a  partire
dalla sent. n. 272 del 2004. In altri termini, e' fuor di dubbio  che
le Regioni siano obbligate a conformare la  propria  legislazione  in
materia alle nuove previsioni contenute nell'art. 4 del d.l.  n.  138
del 2011; e se tali previsioni sono incostituzionali  per  violazione
dell'art. 75 Cost., esse finiscono per costituire un vincolo  imposto
alle Regioni ad adottare discipline a loro volta incostituzionali  in
quanto necessariamente partecipi del medesimo vizio. 
    Di qui l'attualita'  e  concretezza  dell'interesse  a  ricorrere
della Regione Marche e la sua sicura legittimazione a  sollevare  nel
presente giudizio la prospettata questione di violazione dell'art. 75
Cost. 
    5. - II Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4,  comma
1, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge  n.
148 del 2011, per contrasto con l'art. 117, quarto comma,  Cost.,  in
quanto, affidando agli enti locali il compito di  decidere  circa  il
regime  giuridico  dei  servizi  pubblici  locali,   scegliendo   tra
l'ipotesi della liberalizzazione e l'ipotesi  della  attribuzione  di
diritti di esclusiva, sottrae alla Regione la scelta in questione, in
violazione della competenza legislativa residuale di quest'ultima  in
materia di «servizi pubblici locali». 
    5.1. - Come accennato piu' sopra, il comma 1 dell'art. 4 del d.l.
n. 138 del 2011 affida agli enti locali il compito di decidere  circa
il regime giuridico  dei  servizi  pubblici  locali,  scegliendo  tra
l'ipotesi della liberalizzazione e l'ipotesi  della  attribuzione  di
diritti di esclusiva. 
    Ora,  senza  voler  qui  contestare  il  potere  del  legislatore
statale, in virtu' della competenza esclusiva in  materia  di  tutela
della concorrenza ex art. 117, secondo comma,  lett.  e),  Cost.,  di
stabilire  il  regime   della   possibilita'   di   scelta   tra   la
liberalizzazione di un settore e l'affidamento dello svolgimento  del
relativo servizio in esclusiva, cio' che appare contestabile  e'  che
tale scelta - una volta che lo Stato si determini nel  senso  di  non
compierla - venga affidata agli enti locali  anziche'  alla  potesta'
legislativa regionale. 
    Al riguardo, e' possibile osservare quanto segue. 
    Se sul punto che qui interessa (ossia  il  regime  giuridico  dei
servizi pubblici locali) e' possibile, in base all'art. 4 del d.l. n.
138 del 2011, optare sia per il regime di liberalizzazione che - alle
condizioni e nelle circostanze previste dal medesimo  art.  4  -  per
quello dell'affidamento del servizio in esclusiva, e' evidente che il
compimento di questa scelta, nell'uno o nell'altro senso, non  incide
sulla «tutela della concorrenza» ai sensi della normativa statale. Lo
Stato, dunque, ha ritenuto di non dover vincolare, nell'ambito  della
sua potesta' legislativa ex art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.,
tale scelta. 
    In secondo luogo, occorre mettere in evidenza come la  scelta  in
esame si esprima mediante una attivita' normativa.  Non  si  potrebbe
eccepire che, ove  tale  scelta  fosse  compiuta  dal  Comune  e  ove
portasse all'affidamento di un servizio in esclusiva a un determinato
soggetto, essa potrebbe essere formalizzata in un atto amministrativo
(o una serie di atti amministrativi). Alla base ci sarebbe, comunque,
una decisione normativa, volta a stabilire il  regime  giuridico  del
servizio  pubblico  in  questione:  se  sottoposto  a   privativa   o
liberalizzato. 
    5.2. - Da  queste  premesse  deriva  agevolmente  la  conclusione
secondo la quale la «decisione normativa» circa il  regime  giuridico
di ciascun settore relativo ai servizi pubblici locali, ove  lasciata
(almeno parzialmente) impregiudicata dalla  competenza  «trasversale»
dello Stato,  non  puo'  che  rientrare  nella  potesta'  legislativa
residuale  regionale  in  materia  di  «servizi   pubblici   locali»,
pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale. 
    Per queste ragioni l'art. 4, comma 1, del d.l. n. 138  del  2011,
affidando agli enti  locali  la  scelta  normativa  in  questione  e,
dunque, sottraendola alle Regioni, viola l'art.  117,  quarto  comma,
Cost. 
    6. - III Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma
18, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n.
148 del 2011, per contrasto con l'art. 117, quarto comma,  Cost.,  in
quanto, affidando allo statuto dell'ente locale la  disciplina  della
verifica  del  contratto  di  servizio,  sottrae  alla   Regione   la
disciplina in questione, in violazione della  competenza  legislativa
residuale di quest'ultima in materia di «servizi pubblici locali». 
    6.1. - L'art. 4, comma  18,  del  d.l.  n.  138  del  2011  cosi'
dispone: «In caso di affidamento della gestione dei servizi  pubblici
locali a societa' cosiddette "in house" e in tutti i casi in  cui  il
capitale sociale del soggetto gestore e' partecipato dall'ente locale
affidante, la verifica del rispetto del contratto di servizio nonche'
ogni eventuale aggiornamento e modifica dello stesso sono sottoposti,
secondo modalita'  definite  dallo  statuto  dell'ente  locale,  alla
vigilanza dell'organo  di  revisione  di  cui  agli  articoli  234  e
seguenti del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive
modificazioni.  Restano  ferme  le   disposizioni   contenute   nelle
discipline di settore vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente decreto». 
    Questa disposizione si rivela costituzionalmente illegittima  per
ragioni del tutto analoghe a quelle illustrate al precedente par.  5,
in relazione al comma 1 dell'art. 4. Anche in questo  caso,  infatti,
il legislatore statale ha affidato una decisione normativa in materia
di servizi pubblici locali (ossia quella concernente le modalita'  di
vigilanza nei confronti delle societa' «in house» e di  tutte  quelle
comunque partecipate dal soggetto pubblico affidante) all'ente locale
-  ed  in  particolar  modo  alla  sua  fonte  statutaria   -   cosi'
sottraendola alla competenza legislativa regionale  residuale.  Cio',
dunque, in violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. 
    7. - IV Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4,  comma
21, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n.
148 del 2011, per violazione dell'art. 117, quarto comma,  Cost.,  in
quanto, escludendo la possibilita' di essere nominati  amministratori
di societa' partecipate dagli enti locali per coloro che nei tre anni
precedenti alla nomina hanno ricoperto la  carica  di  amministratore
negli enti locali che detengono quote di partecipazione  al  capitale
della stessa societa', invade  la  competenza  legislativa  residuale
delle Regioni in materia di «ordinamento degli enti locali». 
    7.1. - L'art. 4, comma 21, del d.l. n. 138 del 2011, prevede  che
«non possono essere nominati amministratori di  societa'  partecipate
da enti locali coloro che nei tre anni precedenti alla  nomina  hanno
ricoperto la carica di amministratore, di cui all'art. 77 del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli
enti locali che detengono quote di partecipazione al  capitale  della
stessa societa'». 
    Si tratta di una norma  che  rientra  nell'ambito  della  materia
dell'«ordinamento  degli  enti  locali»,  affidata  alla   competenza
legislativa residuale regionale ex art. 117, quarto comma, Cost. 
    Prima della riforma costituzionale del 2001, come e' noto, per le
Regioni ordinarie era lo Stato ad  avere  la  competenza  legislativa
nella suddetta materia, sia in quanto di essa non si faceva  menzione
nell'elenco delle materie di potesta' legislativa  regionale  di  cui
all'art. 117 Cost., sia in forza dell'art. 128 Cost., allora vigente.
La legge cost. n. 3 del  2001  ha  profondamente  innovato  l'assetto
delle competenze sul punto. E' stato invertito il  criterio  generale
della distribuzione delle  competenze  legislative,  riconoscendo  la
residualita' di quelle regionali (art. 117, quarto comma, Cost.);  e'
stato abrogato il citato art. 128 Cost.; e' stata  riconosciuta  allo
Stato (per quel che qui rileva) soltanto la competenza  esclusiva  in
materia di funzioni fondamentali, organi di  governo  e  legislazione
elettorale di Comuni, Province  e  Citta'  metropolitane  (art.  117,
secondo comma, lett. p) Cost.).  Dunque,  salvo  quanto  indicato  in
quest'ultima disposizione costituzionale (e salve eventuali ulteriori
«incursioni» che trovino  fondamento  su  altri  titoli  espressi  di
legittimazione della competenza statale), la materia dell'ordinamento
degli enti locali, deve essere  ascritta  alla  competenza  residuale
regionale (in questo senso si vedano le sentenze nn.  244  del  2005,
456 del 2005 e 237 del 2009). 
    Come e' evidente, la  disciplina  qui  impugnata,  pur  ricadendo
nella  materia   dell'ordinamento   degli   enti   locali,   non   e'
riconducibile alla competenza esclusiva statale di cui alla lett.  p)
dell'art. 117, secondo comma, Cost. Per questa ragione non  puo'  che
concludersi  nel  senso  della  spettanza  alla  potesta'   residuale
regionale della relativa competenza. 
    Nel  senso  appena  indicato,  del   resto,   e'   orientata   la
giurisprudenza  costituzionale.  Al   riguardo,   e'   dirimente   la
considerazione della sent. n. 326 del 2008 (par. 8.1 del  Considerato
in diritto), nella quale questa  Corte  ha  espressamente  ricondotto
alla potesta' legislativa regionale residuale di  cui  all'art.  117,
quarto comma, Cost., la materia della  «organizzazione  degli  uffici
regionali e  degli  enti  locali»  e,  all'interno  di  quest'ultima,
proprio  «l'organizzazione  delle  societa'   dipendenti,   esercenti
l'industria o i servizi». 
    L'art.  4,  comma  21,  del  d.l.  n.  138  del  2011  e'  quindi
incostituzionale, perche' invade la competenza legislativa  regionale
residuale in materia di «ordinamento degli enti locali». 
 
                               P. Q. M. 
 
    Si chiede che questa ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento
del  presente  ricorso,  dichiari   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito  in
legge, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148,  nei
termini sopra esposti. 
        Roma, addi' 14 novembre 2011 
 
                          Avv. Prof. Grassi 
 
    Saranno depositati i seguenti documenti: 
        1) deliberazione di autorizzazione al giudizio n. 1466 del  7
novembre 2011; 
        2) procura speciale del notaio Giampietro, n. rep. 2613 del 9
novembre 2011.