N. 138 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 22 novembre 2011
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 22 novembre 2011 (della Regione Marche). Enti locali - Gestione e affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica - Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 e alla normativa europea - Obbligo per gli enti locali di verificare la realizzabilita' di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, liberalizzando tutte le attivita' economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalita' e accessibilita' del servizio e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunita' - Disciplina della verifica del contratto di servizio, nel caso di gestione in house o di partecipazione pubblica del capitale sociale, attribuita allo statuto dell'ente locale anziche' alla Regione - Previsione che amministratori di enti locali non possano essere nominati amministratore di societa' partecipate dagli enti locali medesimi - Lamentata incidenza sulla materia dei servizi pubblici locali di spettanza residuale regionale, elusione degli effetti vincolanti del referendum popolare - Ricorso della Regione Marche - Denunciata violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali e di ordinamento degli enti locali, violazione del vincolo referendario. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 4. - Costituzione, artt. 75 e 117, comma quarto.(GU n.53 del 21-12-2011 )
Ricorso della Regione Marche, in persona del Vice Presidente, delegato pro tempore del Presidente della Giunta regionale, ai sensi dell'art. 7, comma 2, Statuto della Regione, a cio' autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 1466 del 7 novembre 2011, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Stefano Grassi ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Piazza Barberini n. 12, come da procura speciale per atto del notaio Fernando Rosario Giampietro di Ancona, n. rep. 2613 del 9 novembre 2011, Contro lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri pro tempore, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 16 settembre 2011, n. 216. 1. - Con l'approvazione dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il legislatore statale ha introdotto una nuova disciplina dei servizi pubblici locali al dichiarato scopo - come si ricava dalla stessa rubrica dell'articolo in questione - di «adeguare» la normativa previgente «al referendum popolare e alla normativa europea». Nella seduta n. 57 del 25 ottobre 2011, l'Assemblea legislativa delle Marche ha approvato la seguente mozione: «Premesso che con il decreto-legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 14 settembre 2011, e' stata introdotta una disposizione (articolo 4), rubricata sotto il titolo "Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa europea", che di fatto, pur escludendo dalla sua applicazione il servizio idrico integrato, obbliga a privatizzare entro la meta' di marzo tutti gli altri servizi pubblici locali; Considerato che la suddetta norma appare contrastare con l'esito del referendum di giugno sull'art. 23-bis del decreto-legge n. 112/2008, in quanto esso, come affermato in sede di giudizio di ammissibilita' dalla Corte costituzionale, non riguardava solo l'acqua ma l'intero art. 23-bis, vale a dire la disposizione che intendeva favorire la gestione dei servizi pubblici locali da parte di soggetti privati scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica; Considerato, inoltre, che la caducazione dell'art. 23-bis a seguito del referendum suddetto, cosi' come sostenuto dalla Corte costituzionale nel giudizio di ammissibilita', avrebbe comportato, in assenza dell'intervento legislativo statale, l'applicazione immediata nell'ordinamento italiano della normativa comunitaria che, come e' noto, e' meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum, nel senso che essa non impone forme di privatizzazione forzata; Ritenuto che l'art. 4 della legge n. 148/2011 introduce una disciplina ancor piu' favorevole alla privatizzazione dei servizi pubblici locali di quella contenuta nell'art. 23-bis abrogato per referendum; Ritenuto, pertanto, che la suddetta disposizione neutralizza e sovverte l'esito del referendum di cui trattasi, laddove circa 27 milioni di cittadini hanno inequivocabilmente e sostanzialmente dichiarato che il "privato" non e' necessariamente la soluzione ma molto piu' sovente il problema; Ritenuto, infine, che l'art. 4 summenzionato appare violare altresi' le prerogative di autonomia delle regioni, come riconosciuto da alcune regioni italiane, che hanno gia' provveduto ad interporre il gravame costituzionale; Impegna la Giunta regionale a proporre ricorso dinanzi alla Corte costituzionale per la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 convertito, con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148». 2. - La Regione Marche, con la deliberazione della Giunta indicata in epigrafe, ha espresso la volonta' di impugnare davanti a questa Corte le disposizioni contenute nell'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n. 148 del 2011, perche' costituzionalmente illegittime e lesive dell'autonomia che la Costituzione riconosce e garantisce alle Regioni, in riferimento agli artt. 75 e 117, quarto comma, della Costituzione. L'illegittimita' costituzionale che si denuncia con il presente ricorso si fonda sulle seguenti ragioni di D i r i t t o 3. Premessa. 3.1. - La normativa contenuta nell'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, nel testo risultante dalla legge di conversione, mira nella sostanza (e principalmente) a favorire la massima liberalizzazione possibile di tutte le attivita' economiche connesse con l'erogazione dei servizi pubblici locali e a limitare, in via generale, l'attribuzione di diritti di esclusiva nella gestione dei predetti servizi; sotto quest'ultimo profilo, in particolare, la nuova disciplina si propone di ridurre drasticamente e in termini assai rigorosi la possibilita' dell'affidamento diretto della gestione del servizio secondo le modalita' del c.d. «in house providing». Tali obiettivi sono perseguiti, innanzi tutto, imponendo ai Comuni di verificare «la realizzabilita' di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (...) liberalizzando tutte le attivita' economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalita' e accessibilita' del servizio» (comma 1), e stabilendo in via generale che - solo nel caso in cui la verifica di cui sopra abbia esito negativo - si possano riconoscere e mantenere «diritti di esclusiva», mediante l'adozione, da parte degli enti locali, di apposita decisione specificamente motivata in ordine alla inidoneita' della libera iniziativa economica «a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunita'» (comma 1) e, al contempo, in ordine ai «benefici per la comunita' locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio» (comma 2). In secondo luogo, i menzionati obiettivi sono perseguiti tramite la previsione secondo la quale «nel caso in cui l'ente locale, a seguito della verifica di cui al comma 1, intende procedere all'attribuzione di diritti di esclusiva, il conferimento della gestione di servizi pubblici locali avviene in favore di imprenditori o di societa' in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicita', imparzialita', trasparenza, adeguata pubblicita', non discriminazione, parita' di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalita'» (comma 8), prevedendosi altresi' che l'affidamento «a favore di societa' a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per la gestione cosiddetta "in house"» possa avvenire solo ed esclusivamente «se il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento e' pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui» (comma 13). A queste disposizioni altre piu' specifiche se ne aggiungono in riferimento alle ipotesi di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a societa' cosiddette «in house» o a societa' il cui capitale sociale sia partecipato dall'ente locale affidante (comma 18) e, piu' in generale, alla regolamentazione delle societa' partecipate dagli enti locali (comma 21). 3.2. - La complessa disciplina posta dall'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 presenta diversi profili di illegittimita' costituzionale. In primo luogo, l'accennata forte limitazione della possibilita' di ricorrere all'affidamento in house per la gestione dei servizi pubblici locali deve essere ritenuta elusiva dell'esito conseguito dal recente referendum popolare del giugno 2011 sull'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 e, pertanto, direttamente in contrasto con l'art. 75 Cost. e indirettamente lesiva della potesta' legislativa regionale di tipo residuale in materia di «servizi pubblici locali» (primo motivo). In secondo luogo, la nuova disciplina posta dallo Stato viola direttamente competenze che la Costituzione affida alle Regioni (secondo, terzo e quarto motivo). 4. - I Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 1, 8, 9, 10, 11, 12 e 13, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n. 148 del 2011, per violazione dell'art. 75 Cost., in quanto realizza una sostanziale elusione del risultato referendario sancito dal d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113, che ha disposto l'abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008. 4.1. - La normativa posta dalle disposizioni citate e sommariamente esposta in premessa realizza una evidente elusione del referendum abrogativo, svoltosi con esito positivo i giorni 12 e 13 giugno 2011, avente per oggetto l'art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonche' in materia di energia) e dall'art. 15 del d.l. 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunita' europea), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale. Anche la disciplina abrogata mediante referendum, infatti, disciplinava la c.d. «gestione in house» come ipotesi del tutto eccezionale (cfr., in particolare, il comma 3 del citato art. 23-bis) nell'ambito delle diverse modalita' di affidamento dei servizi pubblici locali. L'elusione dell'esito referendario e' stato sottolineato immediatamente dai primi commentatori. E' stato affermato, ad esempio, che «con il decreto-legge del 13 agosto 2011, n. 138 (...) il legislatore (...) e' intervenuto nuovamente (...) nel settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, dando vita ad un'ulteriore versione riveduta e corretta dell'abrogato art. 23-bis e, soprattutto, dell'art. 15, tale da disattendere le aspettative sorte dopo gli esiti referendari», sottolineandosi, piu' in particolare, come il legislatore statale abbia inteso «riproporre in larga misura lo schema normativo gia' oggetto dell'abrogazione referendaria, abbia inteso "restaurare" l'ancient regime, travolto dal voto popolare, in modo da ripristinare la previgente disciplina organica della materia» (cosi' E. Furno, La never ending story dei servizi pubblici locali di rilevanza economica tra aspirazioni concorrenziali ed esigenze sociali: linee di tendenza e problematiche aperte alla luce del d.l. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148/2011, in www.giustamm.it). Il rilievo e' tutt'altro che isolato. Altri autori, infatti, hanno posto in evidenza il fatto che «l'art. 4 del recentissimo d.l. riproduce testualmente e pressoche' del tutto il contenuto dispositivo delle norme gia' contenute nell'art. 23-bis, cosi' come nel relativo regolamento di attuazione» (cosi' D. Masetti, La nuova (?) disciplina dei servizi pubblici locali dopo il referendum abrogativo del 12-13 giugno 2011, in www.giustamm.it, a cui si puo' rinviare anche per una «dimostrazione testuale del carattere pressoche' interamente riproduttivo dell'art. 4 del d.l. n. 138», operata per il tramite di tavole sinottiche, ivi, p. 4 ss; sostanzialmente nel medesimo senso si esprime anche C. Volpe, Appalti pubblici e servizi pubblici. Dall'art. 23-bis al decreto-legge manovra di agosto 2011 attraverso il referendum: l'attuale quadro normativo, in www.giustamm.it, 10). D'altra parte, nella sent. n. 24 del 2011, pronunciandosi sull'ammissibilita' del quesito referendario avente ad oggetto l'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, questa Corte ha espressamente ritenuto «evidente che l'obiettiva ratio del quesito n. 1 va ravvisata (...) nell'intento di escludere l'applicazione delle norme, contenute nell'art. 23-bis, che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e in particolare, quelle di gestione in house di pressoche' tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)», rilevando, pertanto, l'insussistenza di «alcuna contraddizione o incongruita' tra tale intento intrinseco e la formulazione - del tutto chiara, semplice ed univoca - della richiesta referendaria di abrogare l'intero art. 23-bis». Dunque, in base a quanto gia' chiarito da questa Corte, non puo' sussistere alcun dubbio sul significato e sulla portata sostanziale del pronunciamento del corpo elettorale che ha condotto all'abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 sancita dal d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113: rimuovere dall'ordinamento legislativo statale le limitazioni alle modalita' di affidamento diretto e, in particolare, alla «gestione in house» dei servizi subblici locali che risultassero aggiuntive ed ulteriori rispetto a quanto imposto dal diritto dell'Unione europea cosi' come interpretato dalla Corte di Giustizia UE. 4.2. - Se, come e' vero, la pressoche' totale sovrapponibilita' del contenuto normativo delle disposizioni contestate in questa sede con quello dell'art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 colpito dall'abrogazione mediante referendum non puo' essere seriamente negata, altrettanto innegabile e' la violazione dell'art. 75 Cost. nell'interpretazione consolidata che ne fornisce la giurisprudenza costituzionale. Questa Corte, infatti, in piu' di una occasione, ha avuto modo di affermare espressamente che il legislatore ordinario non puo' eludere l'esito referendario adottando una normativa che, nella sostanza, riproponga quella abrogata. A questo riguardo, e' possibile menzionare, innanzi tutto, la sent. n. 468 del 1990, nella quale si legge che «a differenza del legislatore che puo' correggere o addirittura disvolere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta una volonta' definitiva e irripetibile», non e' quindi consentita «al legislatore la scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta», neanche «a titolo transitorio» (par. 4.3 del Considerato in diritto). Tali conclusioni sono state ribadite dalle decisioni successive. Le sentenze nn. 32 e 33 del 1993, infatti, affermano la possibilita', per il legislatore ordinario, di «correggere, modificare o integrare la disciplina residua», «nei limiti», pero', «del divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volonta' popolare» (cosi' la sent. n. 32 del 1993, par. 5 del Considerato in diritto; analogamente la sent. n. 33 del 1993, al par. 3 del Considerato in diritto). Ancora, deve essere citata l'ord. n. 9 del 1997, nella quale si menziona espressamente «la possibilita' di un controllo» ad opera della stessa Corte costituzionale «in ordine all'Osservanza - da parte del legislatore stesso - dei limiti relativi al dedotto divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volonta' popolare». Anche la dottrina si e' prevalentemente schierata a sostegno della posizione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte. In questa sede puo' essere sufficiente riferirsi - per tutti - all'autorevole insegnamento di Livio Paladin, secondo il quale «i referendum non si prestano ad essere compiutamente inseriti fra gli atti normativi equiparati alla legge statale ordinaria» (anche) in virtu' della peculiarita' della loro forza passiva. A questo riguardo, infatti, occorre considerare il peculiare vincolo gravante sulle Camere, che non possono introdurre «una disciplina identica o equivalente a quella abrogata dal popolo». Questo vincolo - nota ancora Paladin - non puo' certo «durare in eterno»: permane, pero', fino al successivo (rispetto al referendum) «momento del rinnovo delle Camere, in quanto produttivo di una situazione politicamente nuova rispetto a quella esistente nel periodo della consultazione popolare» (L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, il Mulino, 1996, 273-275). Nella presente vicenda, l'aspetto temporale da ultimo evidenziato, merita peraltro una specifica sottolineatura. Il referendum abrogativo ha avuto luogo nei giorni 12 e 13 giugno 2011, mentre la proclamazione del risultato e' avvenuta con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell'art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalita' di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica). La norma che qui si impugna e' contenuta nel decreto-legge del successivo 13 agosto 2011. Tra la proclamazione del risultato referendario e la normativa qui contestata che palesemente lo contraddice (a dispetto della rubrica dell'art. 4 che vorrebbe preludere all'«adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea») non e' trascorso neppure un mese. Ed e' superflua la precisazione secondo la quale in tale lasso di tempo non si sono svolte elezioni politiche che abbiano conferito nuova e diversa legittimazione alle assemblee parlamentari che hanno provveduto alla conversione del decreto-legge in esame. In sintesi, appare del tutto evidente che il preciso effetto della normativa impugnata consiste proprio nella realizzazione, in tempi rapidissimi, di quella elusione del risultato referendario - in violazione della Costituzione - che tanto la giurisprudenza costituzionale quanto l'autorevole dottrina sopra citata escludono che possa legittimamente realizzarsi. In considerazione di tutto cio', deve ritenersi che i commi 1, 8, 9, 10, 11, 12 e 13, dell'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, risultano costituzionalmente illegittimi per violazione dell'art. 75 Cost., in quanto realizzano una sostanziale elusione del risultato referendario. 4.3. - Sulla legittimazione della Regione a sollevare la questione appena prospettata nell'ambito del giudizio di costituzionalita' di cui all'art. 127 Cost., si puo' sottolineare quanto segue. Con il presente motivo, la Regione Marche e' ben consapevole di contestare la legittimita' costituzionale della disciplina in esame sotto il profilo della violazione di un parametro costituzionale di per se' estraneo alle norme sul riparto delle competenze. La ricorrente riconosce che il legislatore statale, ponendo una nuova disciplina delle modalita' di gestione e di affidamento dei servizi pubblici locali aventi rilevanza economica, ha fatto uso della propria competenza legislativa nella materia della «tutela della concorrenza» di cui all'art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. e che tale esercizio di potesta' legislativa non contrasta direttamente con le norme costituzionali che regolano la ripartizione delle competenze. Tuttavia, cio' che la Regione Marche lamenta nel caso di specie e' la lesione indiretta delle proprie attribuzioni costituzionali (in primis della propria potesta' legislativa) derivante da una normativa statale che si assume legittima quanto al profilo della competenza, ma gravemente illegittima nei suoi contenuti a causa della violazione dell'art. 75 cost. Il presupposto fondamentale sul quale si regge l'affermata lesione indiretta e' che la disciplina statale di cui si discute e' innegabilmente destinata ad incidere in termini conformativi sulle attribuzioni costituzionalmente spettanti alla Regione, imponendo limiti e vincoli al loro esercizio. Come e' sostenuto dalla piu' recente dottrina, la «lesione indiretta» delle competenze regionali si verifica senza dubbio «nei casi in cui una norma legislativa statale destinata ad incidere in termini conformativi sulle attribuzioni normative, amministrative o finanziarie delle Regioni risulti affetta, nel suo contenuto, da un vizio (sostanziale) di legittimita' costituzionale per violazione di parametri extracompetenziali, assumendosene, al tempo stesso la piena conformita' alle norme costituzionali sul riparto delle competenze. Si pensi, ad esempio, a tutti i casi in cui il legislatore statale eserciti incontestatamente la propria potesta' legislativa esclusiva nelle materie c.d. «trasversali» in termini e con contenuti tali da vincolare, limitare o comunque condizionare dall'interno l'esercizio delle potesta' normative costituzionalmente spettanti alle Regioni (tutela della concorrenza, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti, ordinamento civile, tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, etc.) e, cio' nondimeno, la disciplina in questione risulti in contrasto con norme costituzionali estranee alla distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni (diritti fondamentali, principio di eguaglianza, ragionevolezza, imparzialita' e buon andamento dell'amministrazione, copertura della spesa pubblica, etc.)». In tali ipotesi «e' assai difficile negare che le Regioni subiscano una lesione - seppure indiretta - delle proprie sfere di competenza ad opera di una legge statale che, pur tuttavia, risulta pienamente conforme alle norme costituzionali che disciplinano le attribuzioni regionali lese. La lesione, in questi casi, e' indiretta in quanto prescinde del tutto dalla violazione dei parametri competenziali; anzi, per l'appunto, costituisce l'effetto di una norma legislativa dello Stato che si assume rispettosa dell'assetto costituzionale delle competenze ma che, al tempo stesso, contrasta nel suo contenuto sostanziale con altri parametri costituzionali» (cosi' M. Cecchetti, La «lesione indiretta» delle attribuzioni costituzionali delle Regioni e l'irrisolta questione della loro legittimazione al ricorso nel giudizio di costituzionalita' in via principale, in federalismi.it, n. 15/2011, p. 6). La medesima dottrina si preoccupa di indicare le ragioni che, in simili casi, conducono a configurare la sicura lesione della attribuzioni regionali: «Se l'attivita' legislativa ed amministrativa regionale e' costretta in un quadro di norme incostituzionali, cio' non comporta solo una menomazione del generale interesse della Regione a non essere impedita nell'adempimento dell'obbligo di rispettare la Costituzione, ma implica altresi' una vera e propria lesione della sfera regionale di competenza. Tale lesione consiste nel condizionamento che deriva alle Regioni dai principi incostituzionali - oppure dalla disciplina statale «trasversale» - dei quali dovrebbero comunque subire i contenuti, addivenendo a statuizioni legislative ed amministrative a loro volta di conseguenza illegittime. Infatti, e' del tutto evidente - sul presupposto che la disciplina statale incostituzionale produca un vincolo conformativo sulle potesta' regionali - che gli atti normativi o amministrativi adottati dalla Regione nell'esercizio delle proprie competenze e in conformita' alla suddetta disciplina statale risulterebbero inesorabilmente «condannati» all'instabilita' e all'incertezza, ossia alla possibile, futura caducazione per illegittimita' derivata ad opera del giudice comune (o della Corte nell'eventuale giudizio di costituzionalita' della legge regionale promosso in via incidentale). In questi casi, l'unico rimedio che le Regioni potrebbero avere per evitare di adottare atti illegittimi - e, dunque, per «difendere» le loro prerogative costituzionali - e' quello di ammettere che esse siano abilitate a sollevare la questione di legittimita' costituzionale in via diretta, al fine di chiedere al Giudice delle leggi di «liberarle» dal vincolo legislativo statale incostituzionale» (cosi', ancora, M. Cecchetti, op. cit., pp. 6-7, che riprende affermazioni gia' reperibili in C. Padula, L'asimmetria nel giudizio in via principale. La posizione dello Stato e delle Regioni davanti alla Corte costituzionale, Padova, CEDAM, 2005, 308-309). Tutto cio' e' quanto si verifica per l'appunto nel caso di specie. La disciplina impugnata, pur legittimamente adottata nell'esercizio della competenza legislativa dello Stato in materia di «tutela della concorrenza», e' indiscutibilmente destinata ad incidere in termini vincolanti sulla potesta' legislativa regionale di tipo residuale nella materia dei «servizi pubblici locali» piu' volte riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte a partire dalla sent. n. 272 del 2004. In altri termini, e' fuor di dubbio che le Regioni siano obbligate a conformare la propria legislazione in materia alle nuove previsioni contenute nell'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011; e se tali previsioni sono incostituzionali per violazione dell'art. 75 Cost., esse finiscono per costituire un vincolo imposto alle Regioni ad adottare discipline a loro volta incostituzionali in quanto necessariamente partecipi del medesimo vizio. Di qui l'attualita' e concretezza dell'interesse a ricorrere della Regione Marche e la sua sicura legittimazione a sollevare nel presente giudizio la prospettata questione di violazione dell'art. 75 Cost. 5. - II Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n. 148 del 2011, per contrasto con l'art. 117, quarto comma, Cost., in quanto, affidando agli enti locali il compito di decidere circa il regime giuridico dei servizi pubblici locali, scegliendo tra l'ipotesi della liberalizzazione e l'ipotesi della attribuzione di diritti di esclusiva, sottrae alla Regione la scelta in questione, in violazione della competenza legislativa residuale di quest'ultima in materia di «servizi pubblici locali». 5.1. - Come accennato piu' sopra, il comma 1 dell'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 affida agli enti locali il compito di decidere circa il regime giuridico dei servizi pubblici locali, scegliendo tra l'ipotesi della liberalizzazione e l'ipotesi della attribuzione di diritti di esclusiva. Ora, senza voler qui contestare il potere del legislatore statale, in virtu' della competenza esclusiva in materia di tutela della concorrenza ex art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., di stabilire il regime della possibilita' di scelta tra la liberalizzazione di un settore e l'affidamento dello svolgimento del relativo servizio in esclusiva, cio' che appare contestabile e' che tale scelta - una volta che lo Stato si determini nel senso di non compierla - venga affidata agli enti locali anziche' alla potesta' legislativa regionale. Al riguardo, e' possibile osservare quanto segue. Se sul punto che qui interessa (ossia il regime giuridico dei servizi pubblici locali) e' possibile, in base all'art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, optare sia per il regime di liberalizzazione che - alle condizioni e nelle circostanze previste dal medesimo art. 4 - per quello dell'affidamento del servizio in esclusiva, e' evidente che il compimento di questa scelta, nell'uno o nell'altro senso, non incide sulla «tutela della concorrenza» ai sensi della normativa statale. Lo Stato, dunque, ha ritenuto di non dover vincolare, nell'ambito della sua potesta' legislativa ex art. 117, secondo comma, lett. e), Cost., tale scelta. In secondo luogo, occorre mettere in evidenza come la scelta in esame si esprima mediante una attivita' normativa. Non si potrebbe eccepire che, ove tale scelta fosse compiuta dal Comune e ove portasse all'affidamento di un servizio in esclusiva a un determinato soggetto, essa potrebbe essere formalizzata in un atto amministrativo (o una serie di atti amministrativi). Alla base ci sarebbe, comunque, una decisione normativa, volta a stabilire il regime giuridico del servizio pubblico in questione: se sottoposto a privativa o liberalizzato. 5.2. - Da queste premesse deriva agevolmente la conclusione secondo la quale la «decisione normativa» circa il regime giuridico di ciascun settore relativo ai servizi pubblici locali, ove lasciata (almeno parzialmente) impregiudicata dalla competenza «trasversale» dello Stato, non puo' che rientrare nella potesta' legislativa residuale regionale in materia di «servizi pubblici locali», pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale. Per queste ragioni l'art. 4, comma 1, del d.l. n. 138 del 2011, affidando agli enti locali la scelta normativa in questione e, dunque, sottraendola alle Regioni, viola l'art. 117, quarto comma, Cost. 6. - III Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 18, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n. 148 del 2011, per contrasto con l'art. 117, quarto comma, Cost., in quanto, affidando allo statuto dell'ente locale la disciplina della verifica del contratto di servizio, sottrae alla Regione la disciplina in questione, in violazione della competenza legislativa residuale di quest'ultima in materia di «servizi pubblici locali». 6.1. - L'art. 4, comma 18, del d.l. n. 138 del 2011 cosi' dispone: «In caso di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a societa' cosiddette "in house" e in tutti i casi in cui il capitale sociale del soggetto gestore e' partecipato dall'ente locale affidante, la verifica del rispetto del contratto di servizio nonche' ogni eventuale aggiornamento e modifica dello stesso sono sottoposti, secondo modalita' definite dallo statuto dell'ente locale, alla vigilanza dell'organo di revisione di cui agli articoli 234 e seguenti del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni. Restano ferme le disposizioni contenute nelle discipline di settore vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto». Questa disposizione si rivela costituzionalmente illegittima per ragioni del tutto analoghe a quelle illustrate al precedente par. 5, in relazione al comma 1 dell'art. 4. Anche in questo caso, infatti, il legislatore statale ha affidato una decisione normativa in materia di servizi pubblici locali (ossia quella concernente le modalita' di vigilanza nei confronti delle societa' «in house» e di tutte quelle comunque partecipate dal soggetto pubblico affidante) all'ente locale - ed in particolar modo alla sua fonte statutaria - cosi' sottraendola alla competenza legislativa regionale residuale. Cio', dunque, in violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. 7. - IV Motivo: illegittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 21, del d.l. n. 138 del 2011, come convertito in legge dalla legge n. 148 del 2011, per violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost., in quanto, escludendo la possibilita' di essere nominati amministratori di societa' partecipate dagli enti locali per coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa societa', invade la competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di «ordinamento degli enti locali». 7.1. - L'art. 4, comma 21, del d.l. n. 138 del 2011, prevede che «non possono essere nominati amministratori di societa' partecipate da enti locali coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore, di cui all'art. 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa societa'». Si tratta di una norma che rientra nell'ambito della materia dell'«ordinamento degli enti locali», affidata alla competenza legislativa residuale regionale ex art. 117, quarto comma, Cost. Prima della riforma costituzionale del 2001, come e' noto, per le Regioni ordinarie era lo Stato ad avere la competenza legislativa nella suddetta materia, sia in quanto di essa non si faceva menzione nell'elenco delle materie di potesta' legislativa regionale di cui all'art. 117 Cost., sia in forza dell'art. 128 Cost., allora vigente. La legge cost. n. 3 del 2001 ha profondamente innovato l'assetto delle competenze sul punto. E' stato invertito il criterio generale della distribuzione delle competenze legislative, riconoscendo la residualita' di quelle regionali (art. 117, quarto comma, Cost.); e' stato abrogato il citato art. 128 Cost.; e' stata riconosciuta allo Stato (per quel che qui rileva) soltanto la competenza esclusiva in materia di funzioni fondamentali, organi di governo e legislazione elettorale di Comuni, Province e Citta' metropolitane (art. 117, secondo comma, lett. p) Cost.). Dunque, salvo quanto indicato in quest'ultima disposizione costituzionale (e salve eventuali ulteriori «incursioni» che trovino fondamento su altri titoli espressi di legittimazione della competenza statale), la materia dell'ordinamento degli enti locali, deve essere ascritta alla competenza residuale regionale (in questo senso si vedano le sentenze nn. 244 del 2005, 456 del 2005 e 237 del 2009). Come e' evidente, la disciplina qui impugnata, pur ricadendo nella materia dell'ordinamento degli enti locali, non e' riconducibile alla competenza esclusiva statale di cui alla lett. p) dell'art. 117, secondo comma, Cost. Per questa ragione non puo' che concludersi nel senso della spettanza alla potesta' residuale regionale della relativa competenza. Nel senso appena indicato, del resto, e' orientata la giurisprudenza costituzionale. Al riguardo, e' dirimente la considerazione della sent. n. 326 del 2008 (par. 8.1 del Considerato in diritto), nella quale questa Corte ha espressamente ricondotto alla potesta' legislativa regionale residuale di cui all'art. 117, quarto comma, Cost., la materia della «organizzazione degli uffici regionali e degli enti locali» e, all'interno di quest'ultima, proprio «l'organizzazione delle societa' dipendenti, esercenti l'industria o i servizi». L'art. 4, comma 21, del d.l. n. 138 del 2011 e' quindi incostituzionale, perche' invade la competenza legislativa regionale residuale in materia di «ordinamento degli enti locali».
P. Q. M. Si chiede che questa ecc.ma Corte costituzionale, in accoglimento del presente ricorso, dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nei termini sopra esposti. Roma, addi' 14 novembre 2011 Avv. Prof. Grassi Saranno depositati i seguenti documenti: 1) deliberazione di autorizzazione al giudizio n. 1466 del 7 novembre 2011; 2) procura speciale del notaio Giampietro, n. rep. 2613 del 9 novembre 2011.