N. 331 SENTENZA 12 - 16 dicembre 2011

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Favoreggiamento dell'immigrazione clandestina - Misure
  cautelari - Obbligatorieta' della  custodia  cautelare  in  carcere
  quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine  ai  reati
  previsti dall'art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del  1998,  salvo
  che siano acquisiti elementi dai quali risulti che  non  sussistono
  esigenze cautelari - Omessa salvezza, altresi', dell'ipotesi in cui
  siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso  concreto,
  dai  quali  risulti  che  le  esigenze  cautelari  possono   essere
  soddisfatte  con  altre  misure  -  Violazione  dei   principi   di
  uguaglianza, di ragionevolezza e del minore  sacrificio  necessario
  della liberta' personale nell'applicazione delle misure cautelari -
  Contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell'imputato sino
  alla condanna definitiva - Illegittimita' costituzionale  in  parte
  qua. 
- D.lgs. 25 luglio 1998, n.  286,  art.  12,  comma  4-bis,  aggiunto
  dall'art. 1, comma 26, lett. f), della legge 15 luglio 2009, n. 94. 
- Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma. 
(GU n.53 del 21-12-2011 )
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente: Alfonso QUARANTA; 
Giudici: Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe
  TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe   FRIGO,   Alessandro
  CRISCUOLO, Paolo  GROSSI,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA, Sergio MATTARELLA; 
ha pronunciato la seguente 
 
                              Sentenza 
 
nel giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  12,  comma
4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico
delle disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e
norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall'art. 1,  comma
26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n.  94  (Disposizioni  in
materia di sicurezza pubblica), promosso dalla  Corte  di  cassazione
nel procedimento  penale  a  carico  di  E.S.A.K.M.F.  ed  altri  con
ordinanza del 27  aprile  2011,  iscritta  al  n.  169  del  registro
ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del 9 novembre  2011  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Con ordinanza depositata il 27  aprile  2011,  la  Corte  di
cassazione ha sollevato, in  riferimento  agli  artt.  3,  13,  primo
comma,  e  27,  secondo  comma,  della  Costituzione,  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 12, comma  4-bis,  del  decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo  unico  delle  disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla  condizione
dello straniero), aggiunto dall'art. 1, comma 26, lettera  f),  della
legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni  in  materia  di  sicurezza
pubblica), nella parte in cui - nel prevedere che, quando  sussistono
gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma  3
del medesimo articolo, e' applicata la custodia cautelare in carcere,
salvo  che  siano  acquisiti  elementi  dai  quali  risulti  che  non
sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi  in
cui  siano  acquisiti  elementi  specifici,  in  relazione  al   caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono  essere
soddisfatte con altre misure. 
    La Corte rimettenteriferisce che, con ordinanza  del  3  novembre
2010, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice  distrettuale  del
riesame,  aveva  confermato  l'ordinanza  di  custodia  cautelare  in
carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del  Tribunale
di Latina nei  confronti  di  cinque  cittadini  egiziani,  da  tempo
residenti Italia. Agli indagati era  contestato  il  delitto  di  cui
all'art. 12, comma 3, lettere a), b) e d),  del  d.lgs.  n.  286  del
1998, per aver compiuto, tra il 3 e il 4 ottobre 2010, atti diretti a
procurare illegalmente  l'ingresso  nel  territorio  dello  Stato  di
alcuni stranieri, giunti con un peschereccio davanti  alla  costa  di
Borgo Grappa, trasportandoli a terra con un  gommone  e  conducendoli
presso un'abitazione  sita  in  Anzio.  Si  trattava,  cioe',  «della
ipotesi  autonoma  del  reato  di  favoreggiamento  dell'immigrazione
clandestina,  aggravata  in  relazione   al   numero   dei   migranti
trasportati, alle condizioni di pericolo  in  cui  si  e'  svolto  il
trasporto e al numero dei concorrenti nel reato». 
    Ravvisati,  a  carico  degli  indagati,   i   gravi   indizi   di
colpevolezza, il Tribunale del riesame rilevava come  -  non  essendo
stati  acquisiti  elementi  dai  quali  evincere  l'insussistenza  di
esigenze  cautelari  -  risultasse   operante,   nella   specie,   la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola  custodia  carceraria,
stabilita dall'art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998,  che
privava il giudice di ogni discrezionalita' nella scelta della misura
cautelare applicabile. 
    Avverso la  decisione  proponevano  ricorso  per  cassazione  gli
indagati, reiterando l'eccezione di illegittimita' costituzionale del
citato  art.  12,  comma  4-bis,  gia'  disattesa  dal  Tribunale.  I
ricorrenti  formulavano,  altresi',  motivi  volti  a  denunciare  un
preteso profilo di  nullita'  dell'ordinanza  impugnata,  nonche'  la
carenza di motivazione della  medesima  in  ordine  alla  sussistenza
delle condizioni di cui agli artt. 273 e 274 del codice di  procedura
penale. 
    Ad avviso della Corte  rimettente,  mentre  i  motivi  da  ultimo
indicati non potrebbero essere accolti, la questione di  legittimita'
costituzionale risulterebbe rilevante e non manifestamente infondata. 
    Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva come, nei  motivi
di ricorso, si sostenga - «non senza fondamento» - che il  fatto  non
e' stato commesso nell'ambito di una struttura criminale  organizzata
avente   caratteristiche   di   stampo   mafioso:   circostanza   che
emergerebbe, in effetti, dallo stesso  provvedimento  impugnato,  nel
quale  si  riconosce  come  «la  rudimentale   organizzazione   delle
attivita'  di  collaborazione  poste  in  essere  da  ciascuno  degli
indagati deponga per una condotta episodica e, in  sostanza,  di  non
peculiare gravita'». D'altra parte, fin dall'inizio del procedimento,
lo stesso pubblico ministero aveva ritenuto di dover  distinguere  la
posizione di almeno uno degli indagati,  chiedendo  che  al  medesimo
fosse applicata la misura  degli  arresti  domiciliari:  istanza  non
accolta dal giudice - che pure, di  regola,  non  puo'  disporre  una
misura piu' afflittiva di quella richiesta dal pubblico  ministero  -
solo in ragione della previsione  limitativa  contenuta  nella  norma
denunciata. 
    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il  giudice  a  quo
rileva come questa Corte, con la sentenza  n.  265  del  2010,  abbia
dichiarato l'illegittimita' costituzionale,  per  contrasto  con  gli
artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., dell'art.  275,
comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui  -  nel  prevedere  che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine  ai  delitti
di cui agli artt. 600-bis, primo  comma,  609-bis  e  609-quater  del
codice penale, e' applicata la custodia cautelare in  carcere,  salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure. 
    Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni  poste  a
base di tale pronuncia - sinteticamente ripercorse nell'ordinanza  di
rimessione - varrebbero  anche  in  rapporto  all'omologa  previsione
della norma censurata. In particolare, allo stesso modo dei delitti a
sfondo sessuale oggetto  della  citata  sentenza  n.  265  del  2010,
neppure i delitti di  favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina
potrebbero essere assimilati, sotto  il  profilo  che  interessa,  ai
delitti di mafia, in rapporto ai quali questa Corte (con  l'ordinanza
n. 450 del 1995) ha ritenuto giustificabile la  presunzione  assoluta
di  adeguatezza  della  sola  custodia  cautelare  in   carcere.   Il
favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina  -  consistente   nel
compimento  di  atti  diretti  a  procurare  l'ingresso  illegale  di
stranieri nel territorio dello Stato - e', infatti, un  delitto  che,
pure  nelle   ipotesi   aggravate,   puo'   essere   compiuto   anche
occasionalmente, con condotte  individuali  fortemente  differenziate
tra loro e al di fuori di una struttura criminale organizzata. 
    In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe sia l'art. 3
Cost.,  sottoponendo  irrazionalmente  i  delitti  in  questione   al
medesimo trattamento cautelare previsto per i delitti di  mafia;  sia
l'art. 13, primo comma, Cost.,  introducendo  una  deroga  al  regime
ordinario delle misure cautelari privative della  liberta'  personale
senza una adeguata ragione giustificatrice; sia, infine,  l'art.  27,
secondo comma, Cost., attribuendo alla coercizione processuale tratti
funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione di  non
colpevolezza dell'imputato prima della condanna definitiva. 
    2. - E' intervenuto nel giudizio di  legittimita'  costituzionale
il Presidente del Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione  sia
dichiarata non fondata. 
    La difesa dello Stato rileva che e' ben vero  che  questa  Corte,
con la sentenza n. 265 del  2010,  ha  dichiarato  costituzionalmente
illegittima, con riferimento a  taluni  delitti  a  sfondo  sessuale,
l'analoga disposizione dell'art.  275,  comma  3,  cod.  proc.  pen.:
declaratoria di illegittimita' costituzionale successivamente  estesa
dalla  sentenza  n.  164  del  2011  anche  al  delitto  di  omicidio
volontario (art. 575 cod. pen.). 
    In precedenza, tuttavia, la Corte, con  l'ordinanza  n.  450  del
1995, aveva escluso che la presunzione sancita dal citato  art.  275,
comma  3,  cod.  proc.  pen.  potesse  ritenersi   costituzionalmente
illegittima in riferimento ai delitti di mafia,  tenuto  conto  della
specificita' degli stessi, caratterizzati dalla  permanenza  e  dalla
«vischiosita'» del rapporto del reo con  il  sodalizio  criminoso  di
appartenenza. Nell'occasione, la Corte aveva specificamente affermato
che, mentre l'apprezzamento delle  esigenze  cautelari  («l'an  della
cautela») deve essere lasciato al giudice, l'individuazione del  tipo
di misura cautelare («il  quomodo»)  puo'  bene  essere  operata,  in
termini generali, dal legislatore, nel rispetto della  ragionevolezza
della scelta e del corretto bilanciamento dei valori coinvolti. 
    La  giurisprudenza  costituzionale  avrebbe   valutato,   quindi,
diversamente  le  presunzioni  di  adeguatezza  della  sola  custodia
cautelare, a seconda della natura dei  reati  e  della  pericolosita'
sociale degli indiziati. 
    A questo riguardo, andrebbe tenuto conto del fatto che le  citate
sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011  hanno  riguardato  figure
criminose - quali i reati sessuali e  l'omicidio  volontario  -  che,
nella maggior parte dei casi, si pongono al di fuori di  un  contesto
di criminalita' organizzata. Di  contro,  le  fattispecie  delittuose
previste dall'art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 - se  pure
non  costituiscono,  di  per  se',  reati  a  concorso  necessario  -
colpirebbero  condotte  poste  in  essere,  nella  generalita'  delle
ipotesi concrete, da soggetti inseriti  in  organizzazioni  criminali
stabilmente dedite a promuovere o a favorire  l'ingresso  clandestino
di  cittadini  extracomunitari  nel  territorio  dello  Stato.   Come
comprovato anche dall'esperienza giudiziaria,  i  reati  in  discorso
richiederebbero, infatti, una adeguata  predisposizione  di  mezzi  e
l'impiego di uomini specificamente «addestrati  per  il  traffico  di
esseri umani». Di conseguenza, essi risulterebbero assimilabili  piu'
ai delitti di criminalita' organizzata indicati nell'art.  51,  comma
3-bis, cod. proc. pen., che non a  quelli  oggetto  delle  richiamate
sentenze n. 265 del 2010 e n. 164 del 2011. 
    Cosi' come in rapporto ai delitti di mafia  in  senso  lato,  non
potrebbe ritenersi, dunque, irragionevole che  il  legislatore  abbia
individuato  nella  custodia  in  carcere  l'unica  misura  idonea  a
fronteggiare le esigenze cautelari in rapporto alle figure  criminose
di cui si discute. Cio', sia in considerazione  della  necessita'  di
interrompere il vincolo  che  lega  il  singolo  soggetto  al  gruppo
criminale di appartenenza, obiettivo che  le  misure  cautelari  piu'
lievi risulterebbero inidonee a realizzare; sia in ragione dell'«alto
coefficiente di pericolosita' per la sicurezza collettiva connaturato
alle  suddette  fattispecie  di  reato,  anche  in   relazione   alla
recrudescenza del fenomeno». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.  -  La  Corte  di   cassazione   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo  25
luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle  disposizioni  concernenti  la
disciplina  dell'immigrazione  e   norme   sulla   condizione   dello
straniero), aggiunto dall'art. 1, comma 26, lettera f),  della  legge
15  luglio  2009,  n.  94  (Disposizioni  in  materia  di   sicurezza
pubblica), nella parte  in  cui  non  consente  di  applicare  misure
cautelari diverse e  meno  afflittive  della  custodia  cautelare  in
carcere alla persona raggiunta da gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine a taluno  dei  delitti  di  favoreggiamento  dell'immigrazione
clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12. 
    Il giudice a quo reputa estensibili ai  procedimenti  relativi  a
detti reati le  ragioni  che  hanno  indotto  questa  Corte,  con  la
sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima
l'analoga presunzione prevista dall'art. 275, comma 3, del codice  di
procedura penale in riferimento a taluni delitti  a  sfondo  sessuale
(artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale). 
    Al pari di tali delitti, neanche le fattispecie di  cui  all'art.
12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 potrebbero  essere,  infatti,
assimilate,  sotto  il  profilo  in  esame,  ai  delitti  di   mafia,
relativamente ai quali questa Corte  ha  ritenuto  giustificabile  la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare  in
carcere. Il favoreggiamento  dell'immigrazione  clandestina  potrebbe
essere infatti realizzato, anche nelle ipotesi aggravate cui la norma
censurata fa riferimento,  con  condotte  profondamente  diverse  tra
loro, indipendenti da una struttura criminale  organizzata,  e  tali,
dunque, da proporre esigenze cautelari affrontabili anche con  misure
diverse dalla custodia carceraria. 
    La presunzione censurata verrebbe, di  conseguenza,  a  porsi  in
contrasto - conformemente a quanto deciso dalla  citata  sentenza  n.
265 del 2010 - con i principi  di  eguaglianza  e  di  ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e di inviolabilita' della liberta' personale (art. 13,
primo comma, Cost.), nonche' con la presunzione di  non  colpevolezza
(art. 27, secondo comma, Cost.). 
    2. - La questione e' fondata. 
    3. - La norma denunciata assoggetta i  reati  di  favoreggiamento
dell'immigrazione clandestina da essa considerati a  uno  speciale  e
piu' severo  regime  cautelare,  omologo  a  quello  prefigurato,  in
rapporto a un complesso di altre figure  delittuose,  dall'art.  275,
comma 3, secondo e terzo periodo, del  codice  di  procedura  penale,
come modificato dall'art. 2,  comma  1,  lettere  a)  e  a-bis),  del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in  materia  di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche'  in
tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38. 
    Si tratta di un regime che fa perno su una  duplice  presunzione:
relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta,
quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata  -
ove la  presunzione  relativa  non  risulti  vinta  -  unicamente  la
custodia cautelare in carcere. 
    3.1. - Come ricorda il  giudice  a  quo,  questa  Corte,  con  la
sentenza n. 265  del  2010,  ha  gia'  dichiarato  costituzionalmente
illegittima la norma del codice di cui quella  censurata  replica  le
cadenze, nella parte in cui configura  una  presunzione  assoluta  di
adeguatezza  della  sola  misura  carceraria  nei   confronti   degli
indiziati  di  taluni  delitti  a  sfondo   sessuale   (induzione   o
sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale  e  atti
sessuali con minorenne). 
    Ad analoghe  declaratorie  di  illegittimita'  costituzionale  la
Corte  e'  altresi'  pervenuta,  successivamente   all'ordinanza   di
rimessione, nei riguardi della medesima norma,  nella  parte  in  cui
rende  operante  la   predetta   presunzione   assoluta   anche   nei
procedimenti per i delitti di omicidio volontario  (sentenza  n.  164
del 2011) e di  associazione  finalizzata  al  traffico  illecito  di
sostanze stupefacenti o psicotrope (sentenza n. 231 del 2011). 
    3.2. - Nelle decisioni ora citate, questa Corte ha rilevato come,
alla luce dei principi costituzionali di riferimento -  segnatamente,
il principio di inviolabilita' della  liberta'  personale  (art.  13,
primo comma, Cost.) e la presunzione di non  colpevolezza  (art.  27,
secondo comma, Cost.) - la disciplina delle  misure  cautelari  debba
essere ispirata al criterio del «minore  sacrificio  necessario»:  la
compressione della liberta' personale va contenuta,  cioe',  entro  i
limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze  cautelari  del
caso  concreto.  Cio'  impegna  il  legislatore,  da  una  parte,   a
strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralita'
graduata», predisponendo una gamma di misure  alternative,  connotate
da  differenti  gradi  di   incidenza   sulla   liberta'   personale;
dall'altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti»  del
trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle
singole fattispecie concrete. Canoni ai  quali  non  contraddice,  la
disciplina generale del codice  di  procedura  penale,  basata  sulla
tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravita' crescente (artt.
281-285)  e   sulla   correlata   enunciazione   del   principio   di
«adeguatezza» (art. 275, comma 1), al lume del quale  il  giudice  e'
tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente
idonee a  soddisfare  le  esigenze  cautelari  ravvisabili  nel  caso
concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura  massima  (la
custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura  risulti
inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo). 
    3.3. - Discostandosi in modo marcato da tale regime, il novellato
art. 275, comma 3, cod. proc. pen. - e, sulla sua falsariga, la norma
oggi sottoposta a scrutinio - sottraggono, per converso,  al  giudice
ogni potere di scelta, vincolandolo a disporre la misura maggiormente
rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorche'  la  gravita'
indiziaria  attenga  a  determinate  fattispecie  di  reato.   Questa
soluzione normativa si traduce in una valutazione legale di idoneita'
della sola custodia carceraria a fronteggiare le  esigenze  cautelari
(presunte, a loro volta, iuris tantum). 
    A tale proposito, questa Corte ha,  peraltro,  ribadito  che  «le
presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto  fondamentale
della  persona,  violano  il  principio  di  eguaglianza,   se   sono
arbitrarie  e  irrazionali,  cioe'  se  non  rispondono  a  dati   di
esperienza  generalizzati,  riassunti  nella  formula  dell'id   quod
plerumque   accidit.   In   particolare,   l'irragionevolezza   della
presunzione assoluta si coglie tutte le  volte  in  cui  sia  agevole
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione
posta a base della presunzione stessa» (sentenze n. 231 e n. 164  del
2011, n. 265 e n. 139 del 2010). 
    L'evenienza  ora  indicata  era  puntualmente  riscontrabile   in
rapporto alla presunzione assoluta in questione, nella parte  in  cui
risultava riferita, tra gli altri, tanto ai delitti a sfondo sessuale
dianzi indicati (sentenza  n.  265  del  2010),  quanto  all'omicidio
volontario   (sentenza   n.   164   del   2011),   quanto,    ancora,
all'associazione finalizzata al narcotraffico (sentenza  n.  231  del
2011). A tali figure delittuose non poteva,  infatti,  estendersi  la
ratio giustificativa del  regime  derogatorio  gia'  ravvisata  dalla
Corte in rapporto ai delitti di mafia (i soli  considerati  dall'art.
275, comma 3, cod. proc. pen. anteriormente alla novella  legislativa
del 2009) (ordinanza n. 450 del  1995):  ossia  che  dalla  struttura
stessa della fattispecie e dalle sue  connotazioni  criminologiche  -
legate alla circostanza che l'appartenenza ad  associazioni  di  tipo
mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio  criminoso  di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta
rete  di  collegamenti  personali  e  dotato  di  particolare   forza
intimidatrice - deriva, nella generalita'  dei  casi  e  secondo  una
regola  di  esperienza  sufficientemente  condivisa,   una   esigenza
cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in
carcere (non essendo  le  misure  minori  sufficienti  a  troncare  i
rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale  di  appartenenza,
neutralizzandone la pericolosita'). 
    Connotazioni analoghe non erano infatti riscontrabili in rapporto
alle  figure  criminose  sopra  elencate.  Pur  nella  loro  indubbia
gravita' e riprovevolezza - destinata a pesare  opportunamente  nella
determinazione  della  pena  inflitta  all'autore,  quando   ne   sia
riconosciuta in via definitiva la colpevolezza - i  suddetti  delitti
abbracciano, infatti, ipotesi concrete  marcatamente  eterogenee  tra
loro e  suscettibili  soprattutto  di  proporre,  in  un  numero  non
marginale di casi, esigenze  cautelari  adeguatamente  fronteggiabili
con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria. 
    Questa Corte ha ritenuto, quindi, che l'art. 275, comma  3,  cod.
proc.  pen.  violasse,  in  parte  qua,  sia  l'art.  3  Cost.,   per
l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi  ai  delitti
considerati a quelli concernenti i  delitti  di  mafia,  nonche'  per
l'irrazionale assoggettamento a un medesimo  regime  cautelare  delle
diverse  ipotesi  concrete  riconducibili   ai   relativi   paradigmi
punitivi;  sia  l'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  quale   referente
fondamentale del regime ordinario delle  misure  cautelari  privative
della liberta' personale; sia,  infine,  l'art.  27,  secondo  comma,
Cost., per essere  attribuiti  alla  coercizione  processuale  tratti
funzionali tipici della pena. 
    4. - Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche in  rapporto
alle figure di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, cui  il
regime cautelare speciale e' esteso  dal  censurato  art.  12,  comma
4-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998. 
    Si tratta, in specie, delle ipotesi  previste  dal  comma  3  del
medesimo articolo (oggetto, a sua  volta,  di  profonda  modifica  ad
opera  della  legge  n.  94  del  2009),  nelle  quali  il  fatto  di
favoreggiamento - identificato in quello di chi,  in  violazione  del
testo unico sull'immigrazione, «promuove, dirige, organizza, finanzia
o effettua il trasporto  di  stranieri  nel  territorio  dello  Stato
ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l'ingresso
nel territorio dello Stato,  ovvero  di  altro  Stato  del  quale  la
persona non e' cittadina o non ha titolo di residenza  permanente»  -
viene configurato come fattispecie distinta e piu' severamente punita
di quella di cui  al  comma  1,  per  il  concorso  di  elementi  che
accrescono,   nella    valutazione    legislativa,    il    disvalore
dell'illecito. Tali elementi attengono, alternativamente,  al  numero
degli stranieri agevolati (lettera a) o  dei  concorrenti  nel  reato
(lettera d), prima parte); alle modalita' del fatto (che espongano  a
pericolo la vita o l'incolumita' del trasportato o lo sottopongano  a
trattamento  inumano  o  degradante:  lettere  b)  e  c);  ai   mezzi
utilizzati (servizi  internazionali  di  trasporto  o  documentazione
alterata, contraffatta o comunque illegalmente ottenuta:  lettera  d,
seconda parte);  alla  disponibilita',  infine,  di  armi  o  materie
esplodenti da parte degli autori del fatto (lettera e). 
    Anche in ragione dell'alternativita' delle ipotesi ora  indicate,
la figura delittuosa viene,  peraltro,  a  ricomprendere  fattispecie
concrete marcatamente differenziate tra loro, sotto  il  profilo  che
qui rileva. 
    Il  delitto  in  discorso  costituisce,  infatti,  un   reato   a
consumazione anticipata, che si perfeziona con il solo compimento  di
«atti diretti a procurare»  l'ingresso  illegale  di  stranieri  «nel
territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del  quale  la  persona
non e' cittadina o non ha titolo di residenza permanente».  Il  verbo
«procurare»   conferisce,   altresi',   alla   fattispecie   un'ampia
latitudine applicativa, abbracciando qualunque apporto  efficiente  e
causalmente orientato a produrre il risultato finale, ivi comprese  -
secondo una corrente lettura  giurisprudenziale  -  talune  attivita'
immediatamente successive all'arrivo in Italia degli  stranieri,  che
agevolino l'esito dell'operazione. 
    Dal paradigma legale tipico esula, in ogni  caso,  il  necessario
collegamento dell'agente con una struttura associativa permanente. Il
reato  puo'  bene   costituire   frutto   di   iniziativa   meramente
individuale: la presenza di un numero di concorrenti pari o superiore
a tre  e',  infatti  -  come  accennato  -  solo  una  delle  ipotesi
alternativamente  considerata  dalla  citata  norma.  D'altra  parte,
quando pure risulti ascrivibile a una pluralita' di persone, il fatto
puo'  comunque  mantenere  un  carattere   puramente   episodico   od
occasionale e basarsi su una  organizzazione  rudimentale  di  mezzi:
evenienza, questa, che - stando a quanto si riferisce  nell'ordinanza
di rimessione - si sarebbe, del resto, verificata  nel  caso  oggetto
del giudizio a quo. Cio', indipendentemente dal rilievo che,  secondo
quanto gia' chiarito da  questa  Corte  in  rapporto  al  delitto  di
associazione  finalizzata  al  narcotraffico,   neppure   la   natura
associativa del reato basterebbe, di per se' sola, a  legittimare  la
presunzione in  parola,  ove  non  accompagnata  da  una  particolare
qualita'  del  vincolo   fra   gli   associati,   come   nell'ipotesi
dell'associazione mafiosa (sentenza n. 231 del 2011). 
    In sostanza, dunque, le fattispecie criminose cui la  presunzione
in esame e' riferita possono assumere le piu' disparate connotazioni:
dal fatto ascrivibile ad  un  sodalizio  internazionale,  rigidamente
strutturato e dotato di ingenti mezzi, che specula abitualmente sulle
condizioni di bisogno dei migranti, senza farsi scrupolo di esporli a
pericolo  di  vita;  all'illecito  commesso  una  tantum  da  singoli
individui o gruppi di individui,  che  agiscono  per  le  piu'  varie
motivazioni, anche semplicemente solidaristiche in rapporto  ai  loro
particolari legami con i  migranti  agevolati,  essendo  il  fine  di
profitto previsto dalla legge come mera circostanza aggravante (comma
3-bis, lettera b), dell'art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998). 
    L'eterogeneita'  delle   fattispecie   concrete   riferibili   al
paradigma punitivo astratto non consente, dunque,  di  enucleare  una
regola   generale,   ricollegabile   ragionevolmente   a   tutte   le
«connotazioni criminologiche»  del  fenomeno,  secondo  la  quale  la
custodia cautelare in carcere  sarebbe  l'unico  strumento  idoneo  a
fronteggiare le esigenze cautelari. 
    La presunzione assoluta censurata non puo' neppure  rinvenire  la
sua base di legittimazione costituzionale nella gravita' astratta del
reato di  favoreggiamento  dell'immigrazione,  ne'  nell'esigenza  di
eliminare o  ridurre  le  situazioni  di  allarme  sociale  correlate
all'incremento  del  fenomeno  della  migrazione   clandestina.   Va,
infatti, ribadito quanto gia' affermato al riguardo da questa  Corte:
e, cioe', che la gravita' astratta del reato, considerata in rapporto
alla misura della pena o  alla  natura  dell'interesse  protetto,  e'
significativa  ai  fini  della  determinazione  della  sanzione,   ma
inidonea a fungere da elemento preclusivo  alla  verifica  del  grado
delle  esigenze   cautelari   e   all'individuazione   della   misura
concretamente idonea a farvi fronte; mentre  il  rimedio  all'allarme
sociale causato dal reato non puo' essere annoverato tra le finalita'
della custodia  cautelare,  costituendo  una  funzione  istituzionale
della pena, perche' presuppone la certezza circa il responsabile  del
delitto che ha provocato l'allarme (sentenze n.  231  e  n.  164  del
2011, n. 265 del 2010). 
    5.  -  Cio'  che  vulnera  i  valori  costituzionali  non  e'  la
presunzione in se', ma il suo carattere  assoluto,  che  implica  una
indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore
sacrificio necessario». Di contro, la previsione di  una  presunzione
solo relativa di adeguatezza  della  custodia  carceraria  -  atta  a
realizzare una semplificazione del procedimento probatorio  suggerita
da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque
superabile da elementi di segno contrario - non eccede  i  limiti  di
compatibilita'  costituzionale,  rimanendo   per   tale   verso   non
censurabile   l'apprezzamento   legislativo   circa   la    ordinaria
configurabilita'  di  esigenze  cautelari  nel  grado  piu'   intenso
(sentenze n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 del 2010). 
    Il comma 4-bis dall'art.  12  del  d.lgs.  n.  286  del  1998  va
dichiarato, pertanto, costituzionalmente  illegittimonella  parte  in
cui  -  nel  prevedere  che,  quando  sussistono  gravi   indizi   di
colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, e' applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    Dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  12,  comma
4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286  (Testo  unico
delle disposizioni  concernenti  la  disciplina  dell'immigrazione  e
norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall'art. 1,  comma
26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n.  94  (Disposizioni  in
materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui  -  nel  prevedere
che, quando sussistono gravi indizi  di  colpevolezza  in  ordine  ai
reati previsti dal comma 3 del medesimo  articolo,  e'  applicata  la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai
quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non  fa  salva,
altresi', l'ipotesi in cui siano  acquisiti  elementi  specifici,  in
relazione al  caso  concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 2011. 
 
                       Il Presidente: Quaranta 
 
 
                         Il redattore: Frigo 
 
 
                       Il cancelliere: Melatti 
 
    Depositata in cancelleria il 16 dicembre 2011. 
 
               Il direttore della cancelliere: Melatti