N. 144 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 23 novembre 2011
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Emilia-Romagna). Iniziativa economica privata - Finanza regionale - Adeguamento degli ordinamenti regionali al principio della liberalizzazione delle attivita' economiche, secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge - Qualificazione quale principio fondamentale per lo sviluppo economico e attuativo della piena tutela della concorrenza tra le imprese - Soppressione delle normative statali incompatibili, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi - Previsione di potere regolamentare statale, in carenza di qualunque delimitazione - Elemento per la valutazione della c.d. «virtuosita'» degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Previsione di un regime per l'esclusione di singole attivita' economiche, azionabile solo dallo Stato - Ritenuta genericita' dei criteri di adeguamento, impossibilita' giuridica di attuazione attraverso il meccanismo della abrogazione e necessita' di bilanciamento dei valori contrapposti, incertezza sulla disciplina vigente, mancata previsione di intesa, mancanza di collegamento con lo stato della finanza regionale - Ricorso della Regione Emilia-Romagna - Denunciata violazione della potesta' legislativa e regolamentare regionale, violazione dei principi di ragionevolezza, buon andamento, certezza del diritto, legalita' sostanziale, leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 3, commi 2, 3, 4, 10 e 11. - Costituzione, artt. 3, 97, primo comma, e 117, commi terzo, quarto e sesto. Enti locali - Servizi pubblici locali - Gestione e affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica -Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 e alla normativa europea - Previsione di una soglia di valore fissata dal legislatore nazionale, al di sopra della quale e' in ogni caso esclusa la possibilita' per gli enti locali di ricorrere alla modalita' organizzativa della gestione in house - Previsione di restrizioni e penalizzazioni per le societa' titolari di affidamenti diretti - Previsione che le societa' in house siano assoggettate al patto di stabilita' interno secondo modalita' definite con atto ministeriale - Lamentata reintroduzione di una limitazione della capacita' di scelta degli enti territoriali in ordine alla gestione dei servizi pubblici elusiva della ratio del referendum e degli effetti vincolanti dello stesso, incidenza sulla materia dei servizi pubblici locali di spettanza residuale regionale - Ricorso della Regione Emilia-Romagna - Denunciata violazione della competenza legislativa e regolamentare della Regione in materia di servizi pubblici locali e di ordinamento degli enti locali, violazione del vincolo referendario. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 4, commi 8, 12, 13, 14, 32 e 33. - Costituzione, artt. 75 e 117, commi terzo, quarto e sesto. Istruzione - Istruzione e formazione professionale - Disciplina dei tirocini formativi e di orientamento non curricolari - Durata non superiore a sei mesi - Beneficiari esclusivi neodiplomati o neolaureati non oltre 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio - Lamentata interferenza nella materia della formazione esterna all'azienda di competenza esclusiva regionale, mancanza di coinvolgimento delle Regioni - Ricorso della Regione Emilia-Romagna - Denunciata violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di formazione professionale, lesione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 11. - Costituzione, art. 117, comma quarto. Regioni (in genere) - Consiglieri regionali - Determinazione del numero massimo dei consiglieri e degli assessori regionali, previsione di un limite massimo degli emolumenti e delle indennita', commisurazione del trattamento economico alla effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio, introduzione del trattamento previdenziale contributivo, istituzione e disciplina di un organo regionale denominato «Collegio dei revisori dei conti» - Obbligo per le Regioni di adeguamento entro i termini stabiliti - Elemento per la valutazione della c.d. «virtuosita'» degli enti territoriali, secondo il meccanismo introdotto dall'art. 20 del d.l. n. 98/2011 - Lamentata interferenza nell'ambito della potesta' statutaria e della autonomia finanziaria e organizzativa regionale, lamentata introduzione di norme di dettaglio in luogo di obiettivi di finanza pubblica, imposizione di un obbligo di modifica statutaria di cui la Regione non dispone compiutamente, imposizione alla Corte dei conti di poteri regolamentari in contrasto con la sua funzione, carenza dei presupposti della decretazione d'urgenza - Ricorso della Regione Emilia-Romagna - Denunciata violazione della potesta' statutaria regionale, violazione dell'autonomia finanziaria regionale, esorbitanza dello Stato dall'ambito della potesta' legislativa esclusiva, violazione della competenza legislativa regionale nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica, violazione della funzione di controllo della Corte dei conti, abuso della potesta' di decretazione d'urgenza. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 14. - Costituzione, artt. 3, 97, 77, 117, commi secondo, terzo e sesto, 119 e 123. Enti locali - Unioni di comuni - Comuni fino a 1000 abitanti - Esercizio necessario di tutte le funzioni, incluse quelle delegate o attribuite dalle Regioni, attraverso la forma associativa dell'Unione dotata di propri organi e potesta' statutaria, e titolare di rapporti giuridici e di risorse - Previsione di poteri regolamentari e amministrativi statali nonche' del controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione - Lamentata carenza dei presupposti della decretazione d'urgenza, lamentata soppressione e fusione dei piccoli Comuni senza l'osservanza delle procedure costituzionali e creazione di nuovi enti territoriali in violazione del quadro costituzionale, interferenza in ambiti settoriali di competenza legislativa e amministrativa regionale, contrasto con la Carta europea delle autonomie locali, mancata previsione di procedure collaborative - Ricorso della Regione Emilia-Romagna - Denunciata violazione delle prerogative delle autonomie locali, esorbitanza dello Stato dal proprio ambito di competenza in materia di enti locali, violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di associazionismo tra enti locali, abuso della potesta' di decretazione d'urgenza, violazione dell'obbligo di osservanza dei vincoli di diritto internazionale, violazione dei principi di sussidiarieta', non discriminazione, ragionevolezza, buon andamento e leale collaborazione. - Decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 16. - Costituzione, artt. 3, 5, 77, commi primo e secondo, 97, 114, commi primo e secondo, 117, commi primo, secondo, lett. p), e quarto, 118 e 133, comma secondo; carta europea dell'autonomia locale del 15 ottobre 1985, ratificata con legge 30 dicembre 1989, n. 439.(GU n.54 del 28-12-2011 )
Ricorso della Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della Giunta regionale pro-tempore Vasco Errani, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale 14 novembre 2011, n. 1645 (doc. 1), rappresentata e difesa, come da procura speciale rogata dal notaio dott. Michele Zerbini del Collegio di Bologna il 14 novembre 2011, repertorio n. 41257 (doc. 2), dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, dall'avv. prof. Franco Mastragostino di Bologna e dall'avv. Luigi Manzi di Roma, con domicilio eletto in Roma nello studio di quest'ultimo in via Confalonieri, n. 5, Contro il Presidente del Consiglio dei ministri; Per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale: del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, recante Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo, in quanto convertito, con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. del 16 settembre 2011, con riferimento alle seguenti disposizioni: articolo 3, commi 2, 3, 4„ 10 e 11; articolo 4, commi 8 e 12, 13, 14, 32 33; articolo 11; articolo 14, comma 1; articolo 16; Per violazione: degli articoli 3, 5, 75, 77, 97, 100, 103, 114, 117, 118, 119, 121, 123 e 133 della Costituzione; del principi di legalita' sostanziale, di non discriminazione e di ragionevolezza, di certezza del diritto e di leale collaborazione; nei modi e per i profili di seguito illustrati. Fatto Il decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138 ha introdotto Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Esso e' stato poi convertito, con modificazioni, nella legge n. 148 del 2011. La presente impugnazione si rivolge dunque a talune disposizioni del decreto-legge, in quanto esse sono state convertite dalla citata legge e nella forma che con essa hanno assunto. Naturalmente la Regione Emilia-Romagna e' ben consapevole delle gravi ragioni, legate alla situazione della finanza pubblica, che hanno fornito la motivazione per le diverse disposizioni del decreto. Ritiene pero' che anche le misure restrittive debbano muoversi nel quadro delle regole costituzionali dei rapporti tra lo Stato, le Regioni e le autonomie locali, e che anzi il rispetto di tali regole sia necessario sempre, ma lo sia ancor piu' quando la loro applicazione comporta sacrifici per le comunita' territoriali coinvolte e per le persone che di esse fanno parte. Cio' premesso, la ricorrente Regione Emilia-Romagna ritiene che le disposizioni sopra indicate siano lesive della sua autonomia regionale costituzionalmente garantita, nonche' in parte dell'autonomia garantita agli enti locali della Regioni, e che dunque esse risultino costituzionalmente illegittime per le seguenti ragioni di Diritto I. Illegittimita' costituzionale dell'articolo 3, recante Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attivita' economiche, in relazione ai commi 2, 3, 4, 10 e 11. L'art. 3 e' dedicato, come ricorda la sua intitolazione, al tentativo di semplificare il regime giuridico al quale sono sottoposte le attivita' economiche, nel quadro pero' della necessaria salvaguardia dei valori pubblici concorrenti e spesso contrapposti. Esso si apre enunciando, al comma 1, un principio, e prescrivendo che l'ordinamento di tutti gli enti territoriali, dai Comuni allo Stato, vi si adegui. Il principio consiste nella statuizione secondo la quale «l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e contrasto con l'utilita' sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica». Il comma 1, ora illustrato, non forma oggetto della presente impugnazione. Esso pone un ovvio principio di liberta' e non meno ovvie regole che lo limitano, ponendo «eccezioni» che in realta' consistono nel riferimento a valori ampi ed indeterminati, che non restringono affatto l'ambito dei possibili divieti, e si traducono in un richiamo ad un principio di ragionevolezza. Si puo' affermare senza paura di sbagliare che tutti i divieti oggi esistenti potrebbero giustificarsi in base ad una o piu' delle categorie enunciate. Il problema che si pone, come si dira', consiste invece nella circostanza che per la stessa ragione esso non e' in grado ne' di funzionare da norma parametro della possibile abrogazione di particolari regimi amministrativi, ne' di fungere da significativa indicazione dei contenuti di una possibile normazione attuativa. Il comma secondo dell'art. 3 stabilisce che «il comma 1 costituisce principio fondamentale per lo sviluppo economico e attua la piena tutela della concorrenza tra le imprese». Esso costituisce dunque una qualificazione giuridica del comma 1. Esso forma oggetto della presente impugnazione per la circostanza che le qualificazioni che esso assegna ad avviso della ricorrente Regione sono o del tutto prive di significato, o comunque erronee. Che il comma I costituisca «principio fondamentale per lo sviluppo economico» potra' essere affermato in senso generico, ma tradotto in termini di qualificazione giuridica risulta privo di ogni significato. Infatti, lo sviluppo economico non e' materia di potesta' legislativa concorrente tra lo Stato e le Regioni, e in quanto considerato come materia e' semmai materia residuale regionale. Non vi e' dunque alcuno specifico potere statale di dettare principi fondamentali. Ne' si vede quale possa essere il significato concreto della enunciazione secondo la quale il comma 1 «attua la piena tutela della concorrenza tra le imprese». Esso stabilisce - come gia' l'art. 41 Cost. - il principio della libera iniziativa economica, e lo tempera - sempre come l'art. 41 Cost. - con la necessaria tutela di altri valori competitivi, gli stessi che l'art. 41 sintetizza nella tutela della utilita' sociale e della sicurezza, liberta' e dignita' umana, prescrivendo che anche a tal fine vi siano «i programmi e i controlli opportuni». Esso dunque descrive i criteri del bilanciamento tra la liberta' di impresa e le sue limitazioni, e non tutela la concorrenza piu' di quanto la tuteli qualunque altra regola alla quale tutte le imprese siano soggette. Da sempre le Regioni sono competenti, nelle proprie materie e secondo le regole di ciascuna, a porre limiti all'attivita' di impresa per la tutela dei valori enunciati al comma 1. Il comma 2 sarebbe dunque del tutto illegittimo ove con tale enunciazione volesse affermare la competenza esclusiva statale in materia. Ma che cio' non sia, risulta dallo stesso comma 1, che impegna le stesse Regioni ad adeguare il proprio ordinamento al principio in esso enunciato, cosi' direttamente riconoscendo la competenza del legislatore regionale. Il nucleo centrale della presente impugnazione ha comunque ad oggetto i meccanismi giuridici che, secondo il comma 3 dovrebbero garantire l'operativita' del comma 1. A termini del comma 3, primo periodo, «sono in ogni caso soppresse, alla scadenza del termine di cui al comma 1» - cioe' decorso il termine di un anno - «le disposizioni normative statali incompatibili con quanto disposto nel medesimo comma, con conseguente diretta applicazione degli istituti della segnalazione di inizio di attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi». Cosi' disponendo il comma 3, pur utilizzando il termine atecnico della soppressione introduce indubbiamente un meccanismo abrogativo, che tuttavia non e' in grado di funzionare, per le ragioni gia' sopra esposte. Infatti, nessun divieto o limitazione posta dalla legge e' puramente capriccioso, e tutti hanno necessariamente un fondamento in termini di tutela della sicurezza, liberta', dignita' umana, o sono destinati ad evitare un contrasto con l'utilita' sociale, o sono stati ritenuti indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale. Il problema e' piuttosto quello di trovare un corretto bilanciamento tra le diverse esigenze, ma cio' non puo' avvenire attraverso un meccanismo abrogativo che si limiti a confrontare un astratto principio di liberta' con i limiti che proteggono i valori contrapposti, ma deve essere operato in concreto, norma per norma, attraverso la specifica fissazione normativa di un nuovo equilibrio. Di difficile comprensione e' poi la previsione della sostituzione delle disposizioni «soppresse» con i meccanismi della segnalazione di inizio di attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi: si tratta infatti di meccanismi (previsti dalla legislazione sul procedimento amministrativo) che, quando ne ricorrono i presupposti, sono gia' autoapplicativi e prevalenti sulle discipline di settore: mentre se non ne ricorrono i presupposti non si vede come essi potrebbero essere applicati. La disposizione risulta dunque illegittima per violazione del principio di ragionevolezza, dedotto dall'art. 3 Cost., del principio di buon andamento, di cui all'art. 97, primo comma, Cost., nonche' del principio di certezza del diritto, palesemente violato dalla assoluta incertezza sulla disciplina vigente che deriverebbe dalla applicazione del comma 3. Conviene precisare che la Regione ritiene di essere legittimata a far valere il vizio enunciato anche se il comma 3 si riferisce apparentemente alle sole disposizioni normative statali. Infatti, la legittimazione e lo stesso interesse della Regione verrebbero meno se si potesse intendere che il comma 3 e' destinato ad operare soltanto negli ambiti in cui non puo' intervenire la legislazione regionale, cioe' negli ambiti materiali statali chiaramente ed oggettivamente distinti dagli ambiti di legislazione regionale. Sennonche', proprio i principi enunciati al comma 2 lasciano invece pensare che la disposizione intenda operare anche negli ambiti in cui e' legittimata ad intervenire la legislazione regionale: di qui la legittimazione e l'interesse al ricorso, dal momento che l'abrogazione delle disposizioni statali e la sostituzione dei meccanismi vigenti con i meccanismi della segnalazione di inizio di attivita' e dell'autocertificazione con controlli successivi verrebbe ad incidere sulla applicazione della legislazione regionale. Le considerazioni sopra svolte circa l'impossibilita' di una applicazione diretta del comma 1 nella direzione di un sensato giudizio di abrogazione delle singole discipline vigenti nei diversi settori inducono ad affermare che la vera funzione del comma 3 sta nel fungere da premessa al «vero» meccanismo attuativo previsto dall'art. 3: il potere regolamentare statale previsto dal secondo e terzo periodo. Dispone infatti ancora il comma 3 che «nelle more della decorrenza del predetto termine, l'adeguamento al principio di cui al comma 1 puo' avvenire anche attraverso gli strumenti vigenti di semplificazione normativa» (secondo periodo) e che «entro il 31 dicembre 2012 il Governo e' autorizzato ad adottare uno o piu' regolamenti ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, con i quali vengono individuate le disposizioni abrogate per effetto di quanto disposto nel presente comma ed e' definita la disciplina regolamentare della materia ai fini dell'adeguamento al principio di cui al comma 1» (terzo periodo). La previsione di un meccanismo di integrazione normativa che settore per settore e norma per norma provveda a compiere ex novo la valutazione necessaria per stabilire un nuovo equilibrio tra il principio della liberta' di impresa e la tutela costituzionalmente dovuta dei valori antagonisti si spiega facilmente, alla luce della illustrata impossibilita' giuridica di una attuazione del comma 1 attraverso il meccanismo della abrogazione implicita. Ma per la stessa ragione la previsione di regolamenti di semplificazione e di delegificazione si rivela costituzionalmente illegittima, in primo luogo per violazione del principio di legalita' sostanziale. Sono infatti del tutto generici, ed in pratica dunque assolutamente assenti, quei criteri, indicazioni e vincoli di contenuto che devono costituire la cornice legislativa al cui interno puo' esplicarsi: sicche' la disciplina regolamentare finisce per essere meramente potestativa da parte del potere esecutivo. Inoltre, l'assenza di qualunque delimitazione di materia del potere regolamentare cosi' creato finisce per estenderne l'ambito sia alle materie di potesta' concorrente che alle materie di potesta' residuale regionale, con specifica violazione dell'art. 117, sesto comma. In subordine, ove in denegata ipotesi per ragioni di sussidiarieta' dovesse essere ammessa la legittimita' del potere regolamentare cosi' attribuito, la sua disciplina procedimentale rimarrebbe illegittima per la mancata previsione dell'intesa con la Conferenza Stato Regioni per i profili di connessione o interferenza con le materie regionali. Il comma 4 dell'art. 3 dispone che «l'adeguamento di Comuni, Province e Regioni all'obbligo di cui al comma 1 costituisce elemento di valutazione della virtuosita' dei predetti enti ai sensi dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito dalla legge 15 luglio 2011, n. 111». Ad avviso della ricorrente Regione, anche tale disposizione e' illegittima, sotto un duplice profilo. In primo luogo, essendo (come sopra esposto) i criteri ai quali le Regioni dovrebbero adeguarsi del tutto generici ed indefiniti, cosi' come risulta impossibile un giudizio di abrogazione di specifica disciplina, allo stesso modo risulta indeterminato il dovere di adeguamento, ed ulteriormente privo di parametri il giudizio sull'avvenuto o non avvenuto adeguamento. Di qui la complessiva incertezza ed irrazionalita' della disciplina, e la sottoposizione della potesta' legislativa regionale a limiti diversi da quelli previsti dalla Costituzione. In secondo luogo, se anche i criteri ai quali adeguarsi fossero definiti, non vi e' alcun collegamento razionale tra le discipline regionali in questione e lo stato della finanza regionale, sicche' e' del tutto incongruo che la Regione possa venire finanziariamente penalizzata per presunti mancati adeguamenti ai principi statali nell'esercizio della potesta' legislativa. I commi 8 e 9 - che non formano oggetto della presente impugnazione - prevedono la diretta abrogazione di una serie di restrizioni all'esercizio di attivita' economiche. E' invece impugnato il comma 10, secondo il quale «le restrizioni diverse da quelle elencate nel comma 9 precedente possono essere revocate con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, emanato su proposta del Ministro competente». Tale potere regolamentare risulta illegittimo per le stesse ragioni gia' illustrate in relazione al comma 3, secondo e terzo periodo: violazione del principio di legalita' sostanziale, per assenza di qualunque criterio al cui interno il potere regolamentare possa dirsi meramente esecutivo, violazione dell'art. 117, sesto comma, in quanto il regolamento possa estendersi ad oggetti ed ambiti di competenza regionale; in subordine, violazione del principio di leale collaborazione, non prevedendosi per le materie di competenza regionale l'intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Il comma 11 dispone che «singole attivita' economiche possono essere escluse, in tutto o in parte, dall'abrogazione delle restrizioni disposta ai sensi del comma 8» , e che «in tal caso, la suddetta esclusione, riferita alle limitazioni previste dal comma 9, puo' essere concessa, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita l'Autorita' garante della concorrenza e del mercato, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, qualora: a) la limitazione sia funzionale a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana; b) la restrizione rappresenti un mezzo idoneo, indispensabile e, dal punto di vista del grado di interferenza nella liberta' economica, ragionevolmente proporzionato all'interesse pubblico cui e' destinata; c) la restrizione non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalita' o, nel caso di societa', sulla sede legale dell'impresa. Anche tale disposizione appare costituzionalmente illegittima in primo luogo in quanto consente solo allo Stato, e non anche alle Regioni, di far valere, per le materie di propria competenza, le ragioni di interesse pubblico che ostano al venir meno della limitazione in questione. In secondo luogo, ove per ragioni di uniformita' e sussidiarieta' dovesse apparire legittima la esclusiva competenza statale, sembra evidente che gli interessi rappresentati dalle Regioni nelle materie di propria competenza dovrebbero pur sempre trovare espressione nella necessita' dell'intesa con la Conferenza Stato-Regioni: intesa di cui non vi e' traccia nella disposizione impugnata. Di qui l'illegittimita' per violazione del principio di leale collaborazione. II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, recante «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea» e segnatamente, dei commi 8,12, 13, 32, 33 e 14, per violazione degli artt. 75 e 117, quarto comma Cost. All'art. 4 sono introdotte innovazioni legislative che incidono sulle modalita' di affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, in una materia gia' oggetto di pronuncia referendaria abrogativa di disposizioni in buona parte del tutto analoghe a quelle oggi reintrodotte (art. 23-bis). Tali disposizioni intervengono in una materia - quella dei servizi pubblici locali - che in quanto tale spetta pur sempre alla competenza legislativa residuale regionale, ai sensi dell'art. 117, quarto comma Cost. Ad avviso della ricorrente Regione, le disposizioni statali qui impugnate non sono giustificate da ragioni di tutela della concorrenza, ma, soprattutto, violano la volonta', manifestata attraverso il referendum, di riduzione/eliminazione dei vincoli, aggiuntivi rispetto ai vincoli del diritto comunitario, discrezionalmente introdotti dal legislatore statale con l'art. 23-bis, in ordine alle forme di gestione dei servizi pubblici locali. Alle Regioni spetta, inoltre, la legittimazione ad impugnare le leggi statali in via diretta non solo a tutela della propria legislazione, ma anche con il riferimento alla prospettata lesione, da parte della legge nazionale, della autonomia propria degli enti territoriali. La Regione Emilia Romagna impugna, quindi, l'art. 4 e, segnatamente, i commi 8, 12, 13, 32, 33 e 14, anche come rappresentante degli interessi del «sistema regionale delle autonomie territoriali», su richiesta del Consiglio delle Autonomie, formulata ai sensi dell'art. 9, comma 2 della legge 5 giugno 2003 n. 131, che modifica l'art. 32, comma 2 della legge 11 marzo 1953 n. 87. L'art. 4 ripropone disposizioni precedentemente contenute nell'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99 e dall'art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009 n. 135, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, abrogate con efficacia dal giorno successivo a quello di pubblicazione del d.P.R. 18 luglio 2011, n. 13 (G.U. 20 luglio 2011, n.167) e disposizioni del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168, recante «Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell'articolo 23-bis comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133», la cui efficacia e' venuta meno a seguito di tale abrogazione. In sede di ammissibilita' della richiesta di referendum per l'abrogazione dell'art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n.133 e s.m.i., nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 di codesta ecc.ma Corte, e' stato evidenziato che tale abrogazione non ha «ad oggetto una legge a contenuto comunitariamente vincolato (e, quindi, costituzionalmente vincolato, in applicazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.)» e che «in particolare, l'eventuale abrogazione referendaria non comporterebbe alcun inadempimento degli obblighi comunitari», in quanto «... la sentenza n. 325 del 2010, ha espressamente escluso che l'art. 23-bis costituisca applicazione necessitata del diritto dell'Unione europea» (cfr. Corte cost. n. 24/2011). Del resto, le disposizioni ivi previste recanti regole concorrenziali (come quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l'affidamento della gestione di servizi pubblici) risultano piu' rigorose di quelle minime, richieste dal diritto dell'Unione europea, non essendo, peraltro, imposte dall'ordinamento comunitario, ma integrando solo «una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare» il «primo comma dell'art.117 Cost.» (cfr. Corte cost. n. 325/2010). L'esito del referendum abrogativo ha determinato una riduzione dei vincoli discrezionalmente introdotti dal legislatore statale con l'art. 23-bis nelle forme di gestione dei servizi pubblici locali, in particolare rendendo meno restrittivo il modello in house e piu' flessibile il modello misto, favorendo cosi', entro i limiti dettati dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria, il riespandersi del potere di scelta degli enti locali, il cui ruolo in materia di organizzazione e assetto dei servizi pubblici locali e' incisivamente evidenziato, a livello comunitario, dagli articoli 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dall'allegato Protocollo 26 che, con riguardo al settore dei servizi di interesse economico generale, sottolinea che i valori comuni dell'Unione europea comprendono, in particolare, «il ruolo essenziale e l'ampio potere discrezionale delle autorita' nazionali, regionali e locali di fornire, commissionare e organizzare servizi di interesse economico generale, piu' vicini possibile alle esigenze degli utenti», riconoscendo, nel contempo, «la diversita' tra i vari servizi di interesse economico generale e le differenze delle esigenze e preferenze degli utenti che possono discendere da situazioni geografiche, sociali e culturali diverse». Invero, in sede di adozione dell'art. 4, il legislatore statale ha inteso riproporre - salvo prevedere la sola esclusione del servizio idrico integrato dalla relativa disciplina (comma 34) -, in modo quasi completo ed in forma pressoche' testuale, il contenuto dispositivo restrittivo di molteplici norme gia' contenute nell'art. 23-bis e nel relativo regolamento di attuazione, di cui al d.P.R. n. 168/2010, in materia di gestioni in house, di partecipazione di soggetti privati per la costituzione di societa' miste, di regime transitorio degli affidamenti a societa' a partecipazione mista pubblica e privata e a societa' a partecipazione pubblica (anche quotate in borsa) e di limiti alla capacita' di azione delle societa' titolari di affidamenti diretti, ponendosi cosi' in netto e radicale contrasto con i limiti che il potere legislativo incontra, in seguito alla abrogazione referendaria, nell'intervenire nella materia oggetto di referendum, con particolare riferimento al «divieto di far rivivere la normativa abrogata» dal referendum medesimo (Corte cost. n. 33/1993, 32/1993, e ord. n.9/1997). Del resto, codesta ecc.ma Corte, richiamando la «peculiare natura del referendum quale atto fonte dell'ordinamento», ha osservato che, a «differenza del legislatore, che puo' correggere o addirittura disvolvere quanto ha in precedenza statuito, il referendum manifesta una volonta' definitiva e irripetibile» (Corte cost. n.468/1990). Tale principio e' stato sviluppato nella sentenza n. 32/1993, ove la Corte ha circoscritto la possibilita', per il legislatore, di «correggere, modificare o integrare la disciplina residua» entro i «limiti del divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volonta' popolare», nonche', soprattutto, nell'ord. n. 9/1997, che ha sancito la «possibilita' di un controllo di questa Corte in ordine all'osservanza, da parte del legislatore, di tali limiti». Sicche', pare corretto ritenere che "la limitazione alla potesta' legislativa delle Camere possa circoscriversi al divieto di approvazione di una nuova legge che reintroduca i principi ispiratori della disciplina abrogata ed i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, in analogia con quanto indicato nella sentenza n. 68/1978» (cfr. S. Bartole, R.Bin, Commentario breve alla Costituzione, sub art. 75, CEDAM, 2008, pag. 687). I commi che si intendono impugnare dell'art. 4 e che verranno di seguito declinati violano i suddetti principi, proprio in quanto ripristinano, in maniera sia formale che sostanziale, la normativa abrogata per effetto del referendum. Procedendo all'esame puntuale di tali disposizioni, si evidenzia che: il comma 8 ripropone il comma 2, lett.a), l'art. 23-bis del d.1. 112/2008 e s.m.i., escludendo l'affidamento diretto in house dalle forme ordinarie di conferimento della gestione dei servizi pubblici, se superiore ai limiti dettati dal successivo comma 13; il comma 12 ripropone il comma 2, lett. b) dell'art. 23-bis e l'art. 3, comma 4 del d.P.R. n. 168/2011, prevedendo che l'affidamento del servizio a societa' a partecipazione mista pubblica costituita con procedura avente ad oggetto, allo stesso tempo, la selezione del socio privato, cui devono essere attribuiti specifici compiti operativi e una partecipazione non inferiore al 40 per cento, e l'affidamento del servizio, con cio' imponendo limiti che escludono altre fattispecie di partenariato istituzionale pubblico privato presenti a livello comunitario (ad esempio, le societa' miste con partecipazione privata inferiore al 40%); il comma 13 introduce un limite di valore, non presente a livello comunitario, per l'affidamento in house. 11 servizio puo' essere affidato a societa' a capitale interamente pubblico in possesso dei requisiti comunitari, ma a condizione che il valore economico del medesimo sia pari o inferiore alla somma complessiva di 900 mila euro annui; il comma 32 disciplina il regime transitorio degli affidamenti, riproponendo, in termini sostanzialmente analoghi, limitazioni e scadenze al regime degli affidamenti in atto, gia' fissate dall'abrogato art. 23-bis e va, quindi, impugnato, in quanto consequenziale ai commi 8 e 12. Nel merito, la disposizione prevede che: a) la gestione affidata a societa' in house non conformi ai requisiti richiesti dal comma 13 (limite di 900 mila euro e requisiti comunitari), nonche' ad altre societa' non aventi i requisiti richiesti dal medesimo comma 32, cessa improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data del 31 marzo 2012 (31 dicembre 2011 nella versione dell'art.23-bis); b) la gestione affidata a societa' a partecipazione mista, il cui socio privato e' stato selezionato con procedure competitive, che non hanno riguardato l'attribuzione di specifici compiti operativi, cessa, improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data del 30 giugno 2012, riproponendo sostanzialmente il comma 8, lett. b) dell'art. 23-bis, ma prolungandone la scadenza di sei mesi; c) le gestioni delle societa' a partecipazione pubblica assentite alla data del 1° ottobre 2003 e gia' quotate in borsa a tale data e le societa' da queste controllate ai sensi dell'art. 2359 c.c. - qualora la partecipazione pubblica non si riduca progressivamente ad una quota non superiore al 40 per cento entro il 30 giugno 2013 e ad una quota non superiore al 30 per centro entro il 31 dicembre 2013 - cessano, improrogabilmente e senza necessita' di apposita deliberazione dell'ente affidante, alla data del 30 giugno 2013 o del 31 dicembre 2015, riproponendo sostanzialmente il comma 8, lett. d), dell'art. 23-bis; il comma 33 ripropone formalmente e sostanzialmente il comma 9 dell'art. 23-bis, confermando il divieto, per le societa' titolari di affidamenti diretti (tra queste anche quelle in house), di acquisire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, nonche' di svolgere servizi o attivita' per altri enti pubblici o privati, ne' direttamente, ne' tramite societa' ad esse riferite, ne' partecipando a gare; infine, il comma 14 - che, per comodita' espositiva, si tratta a parte, in quanto censurato anche sotto altro profilo - assoggetta le societa' in house affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno, secondo modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme del federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008, convertito con la legge n. 133/2008 e s.m.i., con la precisazione che «gli enti locali vigilano sull'osservanza, da parte dei soggetti indicati al periodo precedente, al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno». Prendendo le mosse dalla disciplina dei sistemi di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali (commi 8, 12 e 13), si evidenzia che essi rappresentano, appunto, la riproposizione della disciplina abrogata dal referendum e, per tale motivo, costituiscono una netta violazione dell'art. 75 Cost. Nei suoi termini effettivi e concreti, infatti, il referendum ha inteso abrogare l'applicazione di nonne che, rendendo estremamente limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di quasi tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, escludevano di fatto la gestione in house, comunque consentita a livello comunitario nel rispetto dei (soli) requisiti (comunitari) del controllo analogo e dell'attivita' prevalente. Invero, le peculiari condizioni «oggettive» che, nell'impianto normativo delineato dal previgente art. 23-bis, condizionavano la possibilita', per gli enti locali, di ricorrere all'autoproduzione dei servizi (in house providing), hanno ceduto il passo ad una soglia di valore (900.000 euro annui), arbitrariamente fissata dal legislatore nazionale (peraltro, in assenza di qualsivoglia forma di previa concertazione con gli enti territoriali), al di sopra della quale e', in ogni caso, esclusa la possibilita' per gli enti stessi di ricorrere alla modalita' organizzativa dell'in house. Ebbene, al di la' del fatto che l'introduzione della suddetta soglia di valore costituisca formalmente una innovazione, occorre considerare che, in realta', detta previsione rappresenta, comunque, una forte limitazione della capacita' di scelta degli enti territoriali, suscettibile di incidere sull'autonomia loro riconosciuta in subiecta materia, invero ancor piu' restrittiva di quella precedentemente fissata dal comma 3 dell'art. 23-bis, con cio' sostanzialmente riproducendo lo stesso schema limitativo che caratterizzava la disciplina recata dall'art. 23-bis e che il referendum ha inteso eliminare in toto. Sotto il medesimo profilo (violazione art. 75 Cost.), si rileva che tali nuove disposizioni (commi 8, 12 e 13) contenute nell'art. 4 violano la ratio del referendum, in quanto contrastano con l'intento, sotteso al quesito referendario, di rendere perfettamente equivalenti le diverse modalita' di affidamento (gara, societa' mista, in house providing) contemplate dalla normativa e cio', in ossequio alle indicazioni comunitarie. Ancora una volta, invece, il legislatore nazionale indica come alternative ed equivalenti le sole modalita' di esternalizzazione (gara e societa' mista), mentre qualifica come eccezionale l'autoproduzione, introducendo, nel palese intento di aggirare il divieto di riproposizione della disciplina formale e sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, l'innovativo limite di valore (comma 13), di cui sopra si e' detto. Il quale limite deve, quindi, essere censurato sia - al pari del sistema complessivo degli affidamenti - sotto il profilo della violazione dell'art. 75, in quanto contrastante con lo spirito referendario, sia perche' arbitrario, con riferimento alla omessa concertazione con gli enti territoriali, ed illogico, in quanto riferito indifferentemente alla generalita' dei servizi pubblici locali, a prescindere dalle specificita' che caratterizzano le varie tipologie di servizi (invero, la manutenzione delle strade ha caratteristiche diverse dall'illuminazione votiva). Coerentemente con l'impugnazione dei commi 8, 12 e 13, si censura anche il successivo comma 32, laddove prevede un periodo transitorio degli affidamenti ancora una volta marcatamente caratterizzato dalla penalizzazione delle forme di autoproduzione dei servizi. A ben vedere, detta disposizione perderebbe, comunque, di significato qualora fosse dichiarata l'illegittimita' costituzionale dei precedenti commi 8, 12 e 13, con conseguente ripristino della perfetta equiparazione delle varie modalita' di affidamento dei servizi pubblici locali ed e' per queste ragioni di intima connessione con il sistema degli affidamenti che tale norma va compresa nello stesso quadro impugnatorio. Quanto al successivo comma 33, che costituisce la pedissequa trasposizione dell'abrogato comma 9 dell'art. 23-bis, si rileva che esso restringe eccessivamente la capacita' di azione delle societa' titolari di affidamenti diretti. Infatti, preclude del tutto alle societa' in house e miste, titolari di affidamenti conseguiti senza gara, la possibilita' di conseguire nuove commesse (da enti pubblici o privati), privandole completamente della capacita' imprenditoriale loro spettante. Invero, detta disposizione impedisce alle societa' in house la facolta', pacificamente riconosciuta loro dal diritto comunitario e, peraltro, ribadita da codesta ecc.ma Corte, di eseguire una parte, seppur marginale, della propria attivita' a favore di altri mercati (da attivita' «prevalente» ad esclusiva). Al riguardo, vale la pena di sottolineare che la stessa Autorita' garante della concorrenza e del mercato ha osservato che tale restrizione rischia di limitare drasticamente il numero degli operatori ammissibili alle procedure di gara, favorendo cosi' l'aggiudicazione al precedente affidatario, spesso l'unico partecipante alla gara (AS 864 del 26 agosto 2011). Sul punto, si segnala la proposta formulata dall'Autorita' di «attenuare le condizioni che consentono agli affidatari diretti di partecipare ad altre gare, consentendo loro di farlo nel caso in cui (i) i soggetti in questione siano nella fase finale (inferiore ai due anni) del proprio affidamenti e (ii) sia gia' stata bandita la gara per il riaffidamento del servizio o, almeno, sia stata adottata la decisione di procedere al nuovo affidamento attraverso procedure ad evidenza pubblica, per il servizio erogato dall'affidatario diretto». Da ultimo e sotto altro profilo si censura il comma 14 per violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto, Cost. Tale ultima disposizione riveste carattere innovativo essendo gia' stata espunta dall'art. 23-bis in un momento anteriore al referendum e, precisamente, in sede di scrutinio della legittimita' costituzionale del medesimo art. 23-bis, effettuato con la sent. n. 325/2010. La disposizione in parola prevede l'assoggettamento delle societa' in house al patto di stabilita' interno «secondo le modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme per il federalismo, in sede di attuazione dell'art. 18, comma 2 bis, del d.l. n. 112/2008». Ebbene, il cit. comma 14 deve ritenersi costituzionalmente illegittimo per le stesse ragioni per le quali codesta ecc.ma Corte, con la piu' volte cit. sent. n. 325/2010, ha ritenuto incostituzionale il riferimento al patto di stabilita', a suo tempo previsto dal comma 10, lett. a) dell'art. 23-bis, sul presupposto che «l'ambito di applicazione del patto di stabilita' interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentt. nn. 284 e 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l'art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potesta' regolamentare» (cfr. ivi, punto 12.6 del diritto). A ben vedere, la censure evidenziate risultano vieppiu' confermate dalla circostanza secondo cui il procedimento di approvazione del decreto attuativo dell'art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008, richiamato dalla disposizione in esame, contempla esclusivamente una fase consultiva non vincolante innanzi alla Conferenza unificata e non prevede alcun coinvolgimento diretto delle Regioni, escludendole ancora una volta. III. Illegittimita' costituzionale dell'art. 11 recante «Livelli di tutela essenziali per l'attivazione dei tirocini» Violazione dell'art. 117, quarto comma Cost. e del principio di leale collaborazione. Dopo aver precisato che «i tirocinii formativi e di orientamento possono essere promossi unicamente da soggetti in possesso degli specifici requisiti preventivamente determinati dalle normative regionali, in funzione di idonee garanzie all'espletamento delle iniziative medesime», l'art.11 dispone che «fatta eccezione per i disabili, gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, i soggetti in trattamento psichiatrico, i tossicodipendenti, gli alcolisti e i condannati ammessi a misure alternative di detenzione, i tirocinii formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una durata superiore a sei mesi, proroghe comprese, e possono essere promossi unicamente a favore di neo-diplomati o neo-laureati entro e non oltre dodici mesi dal conseguimento del relativo titolo di studio». Viene, poi, precisato che in assenza di specifiche regolamentazioni regionali, trovano applicazione le disposizioni contenute nell'art. 18 della legge 24 giugno 1997 n. 196 ed il relativo regolamento di attuazione. Con tale norma viene dettata una disciplina statale dei tirocini formativi e di orientamento non curriculari omogenea ed uniforme per tutto il territorio nazionale. Sennonche', si tratta di una materia di sicura competenza residuale regionale, qual e' quella della «istruzione e formazione professionale» nel cui ambito la disciplina del tirocinio formativo e di orientamento pacificamente rientra. La Regione Emilia-Romagna, del resto, gia' dispone di una propria disciplina della materia, che per gli aspetti in questione prevede termini leggermente diversi. Il legislatore statale ha ritenuto di potersi «ritagliare» un importante spazio della materia, in virtu' del titolo competenziale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) Cost. «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» che, infatti, e' evocato nella stessa rubrica dell'art. 11. Tale qualificazione, tuttavia, e' ingannevole. Infatti, la legge statale, ben lungi dal fissare prestazioni da garantire, ne fissa invece limitazioni, impedendo alle Regioni di garantire le prestazioni in termini piu' estesi. Si tratta dunque di «limiti prestazionali» e non della determinazione di «livelli minimi essenziali». La non riconducibilita' della norma alla indicata competenza statale ne comporta l'illegittimita', per difetto di competenza. A parte cio', tali limitazioni, per quanto bene intenzionate, appaiono anche irragionevoli nella loro uniformita' per tutto il territorio nazionale, che e' invece caratterizzato da una varieta' di esigenze e situazioni che richiedono risposte diversificate, quali solo la competenza regionale puo' assicurare. Ma, anche se l'indicato titolo di competenza potesse giustificare un intervento statale, va comunque rilevato che tale intervento non potrebbe consistere nella uniforme e rigida unilaterale determinazione uguale per tutto il territorio nazionale, ma semmai nella istituzione di una procedura di collaborazione per le singole determinazioni in sede locale. E' fuor di dubbio, infatti, che laddove si rinvenga un «intreccio» tra livelli essenziali delle prestazioni e competenze regionali, la condizione di legittimita' dell'intervento statale e' data dalla «previsione di adeguate procedure di coinvolgimento delle Regioni nella specificazione delle prestazioni», come la stessa Corte ha piu' volte indicato. In altri termini, quando vi e' l'intreccio delle competenze, derivante dalla sovrapposizione di interessi statali e regionali convergenti, l'ente «minore» deve comunque essere consultato, in misura graduata in base al livello di incisione della sua competenza ed al rilievo dell'interesse di cui e' portatore, in virtu' del principio di leale collaborazione (in tal senso sentt. 88/2003; 387/2007; 134/2006, che ha sanzionato l'illegittima riduzione della partecipazione regionale al livello del semplice parere, anziche' della necessaria intesa). E non par dubbio che, nello specifico, la Regione Emilia Romagna abbia interessi rilevanti nella materia della formazione che essa ha, peraltro, disciplinato con propria legge, la 1.r. n. 17/2005, il cui art. 25 riguardante i tirocinii di formazione ed orientamento ha, fra l'altro, previsto termini di durata massima piu' lunghi, dai dodici ai ventiquattro mesi, rispetto a quelli ora indicati dall'art. 11). Nessuna procedura di coinvolgimento e' contenuta nella disposizione in esame, che si limita a dettare una disciplina uniforme dell'istituto, senza prevedere fasi successive di specificazione ed attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni entro cui coinvolgere le Regioni, con la conseguenza che deve esserne dichiarata l'illegittimita' per violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost. e del principio di leale collaborazione. IV. Illegittimita' costituzionale dell'art. 14, recante «Riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali e relative indennita. Misure premiali», in relazione al comma 1. 1. Illegittimita' costituzionale in quanto le norme limitano l'autonomia statutaria e legislativa, sottoponendone l'esercizio a sanzione negativa. Violazione degli artt. 123 e 117, comma secondo, Cost. L'art. 14 (Riduzione del numero dei consiglieri e assessori regionali e relative indennita'. Misure premiali) al comma 1 introduce una serie di «obblighi di adeguamento» a cui le Regioni devono ottemperare per non essere escluse dall'applicazione dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. Questa norma si riferisce alle Regioni «virtuose» che, avendo conseguito gli obiettivi di finanza pubblica fissati dal patto di stabilita', non sono tenute a concorrere, a partire dal 2013, alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica attraverso i pesanti «tagli» fissati dal comma 5 dello stesso articolo e dall'articolo 14 del decreto-legge n. 78 del 2010. Gli obblighi posti dall'art. 14 consistono in una serie di misure che avrebbero l'obiettivo di ridurre i «costi della politica» regionale. Essi si concretizzano, per la parte che forma oggetto del presente ricorso, in una riduzione del numero sia dei consiglieri regionali che dei componenti della Giunta regionale. Precisamente, si tratta delle seguenti disposizioni: «a) previsione che il numero massimo dei consiglieri regionali, ad esclusione del Presidente della Giunta regionale, sia uguale o inferiore a 20 per le Regioni con popolazione fino ad un milione di abitanti; a 30 per le Regioni con popolazione fino a due milioni di abitanti; a 40 per le Regioni con popolazione fino a quattro milioni di abitanti; a 50 per le Regioni con popolazione fino a sei milioni di abitanti; a 70 per le Regioni con popolazione fino ad otto milioni di abitanti; a 80 per le Regioni con popolazione superiore ad otto milioni di abitanti. La riduzione del numero dei consiglieri regionali rispetto a quello attualmente previsto e' adottata da ciascuna Regione entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e deve essere efficace dalla prima legislatura regionale successiva a quella della data di entrata in vigore del presente decreto. Le Regioni che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non possono aumentarne il numero; b) previsione che il numero massimo degli assessori regionali sia pari o inferiore ad un quinto del numero dei componenti del Consiglio regionale, con arrotondamento all'unita' superiore. La riduzione deve essere operata entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e deve essere efficace, in ciascuna regione, dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto». Puo' considerarsi pacifico che la Costituzione non attribuisce al legislatore statale poteri legislativi tali da incidere direttamente sulla materia, che dalla Costituzione e' gelosamente riservata agli Statuti regionali. E' ben noto, infatti, che l'art. 123, discostandosi dalla precedente formulazione, assoggetta gli Statuti regionali - oltre che alle specifiche disposizioni dettate in tema di forma di governo - al solo criterio della «armonia con la Costituzione», ad esclusione di qualunque vincolo disposto dalla legge ordinaria statale. Conformemente, la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha sancito che «la composizione dell'organo legislativo regionale rappresenta una fondamentale "scelta politica sottesa alla determinazione della "forma di governo-della Regione" (sentenza n. 3 del 2006)» (cosi' la sent.n. 188/2011 di codesta Corte). E' dunque escluso che la legge statale possa imporre alle Regioni un obbligo di adeguamento, in quanto il potere statutario e' vincolato ad essere «in armonia» con la Costituzione, ma non e' piu' soggetto alla legislazione ordinaria dello Stato. E' probabilmente per tale ragione che il legislatore ha inserito nella rubrica dell'articolo l'autoqualificazione delle misure introdotte come «misure premiali». Si tratterebbe, dunque, non di un qualcosa a cui la Regione sia costretta, ma di qualche cosa che la Regione puo' volontariamente fare per ottenere un premio, cioe' uno specifico vantaggio. Tuttavia non e' certo questo il significato ne' il modo di funzionamento della norma, e l'erronea autoqualificazione, mentre rivela la consapevolezza di non disporre dei necessari poteri, non puo' occultare la reale natura dell'intervento statale. E' infatti giurisprudenza costante della Corte costituzionale che le qualificazioni di una norma, che siano contenute nel testo o nella rubrica, non hanno alcun valore condizionante, dovendosi, invece, tenere conto della natura oggettiva della norma, che spetta alla Corte stessa di valutare: diversamente, la rigidita' e lo stesso significato del riparto costituzionale delle attribuzioni verrebbe meno, potendo il legislatore statale disporne a piacere. Occorre, dunque, valutare se il dovere di modificare la composizione degli organi statutari, al fine di mantenere (in realta' di poter mantenere, ricorrendo tutte le altre condizioni) la qualifica di Regione virtuosa, sia da considerarsi come una norma giuridica a carattere effettivamente «premiale» o meno. La risposta negativa sembra evidente, ma converra' comunque debitamente argomentarla. Sotto un profilo di teoria generale, le norme «premiali» non presentano una struttura diversa da quelle «normali»: e' prescritto un comportamento, assistendo questa prescrizione con una sanzione «positiva» (il «premio») anziche' con una «negativa» (la pena). Nelle relazioni con le Regioni, lo Stato e' talvolta ricorso al meccanismo delle norme «premiali» o «promozionali» (si veda ad es. il caso del contributo finanziario introdotto per promuovere il coordinamento preventivo dei programmi relativi all'eutrofizzazione delle acque marine e lacustri, nel caso deciso dalla sent. n. 800/1988). La distinzione tra il premio e la pena non puo' essere solo lessicale, ma deve guardare alla sostanza della situazione giuridica che la sanzione realizza. Per decidere se una disposizione di legge sia una normale prescrizione con sanzione negativa o una norma premiale e' necessario badare alla situazione giuridica in cui la norma opera e come questa viene cambiata dalla sanzione comminata (si veda in questo senso la sent. n. 283/2009, a proposito di una legge della Regione Puglia): solo cosi' si puo' cogliere se la norma in questione ha natura «promozionale» o «coattiva» (si veda in tal senso, a proposito di una norma a favore delle c.d. «quote rosa», la sent. n. 4/2010). Ad esempio, prescrivere che «chiunque riveli l'identita' dei suoi collaboratori sara' mantenuto in vita», non e' diverso da minacciare i renitenti con la pena di morte. In altre parole, una norma potra' dirsi premiale quando la sua osservanza comporta il prodursi di una nuova situazione favorevole, prima inesistente; e sara' al contrario «penale» (in senso generico) o affittiva, quando la sua inosservanza comporti il prodursi di una nuova situazione sfavorevole, prima inesistente. Nel caso della disposizione qui impugnata, e' palese che il rispetto degli obiettivi posti dallo Stato non comporta per la Regione l'acquisizione di un «di piu'», ma semplicemente il mantenimento di uno status che evita alla Regione stessa di subire ulteriori sanzioni negative di tipo finanziario. Se poi si colloca questo effetto nell'attuale contesto della finanza regionale, e' evidente che quello che alla Regione inadempiente si minaccia e' a tutti gli effetti una sanzione negativa, quantificabile in termini di tagli di bilancio. Dunque, nonostante il titolo edulcorato, la Regione e' posta davanti ad un obbligo di modificare il proprio Statuto, obbligo fornito di una evidente sanzione negativa, con violazione della autonomia statutaria garantita dall'art. 123 Cost., nonche' dell'art. 117, comma 2, in cui sono descritti i limiti della potesta' legislativa dello Stato. Ed e' evidente che in questi termini la disposizione impugnata limita indebitamente l'ambito della potesta' statutaria definito dalla Costituzione. Ne' l'illegittima intromissione si puo' giustificare a titolo di coordinamento della finanza pubblica, essendo evidente che non esiste alcuna connessione necessaria tra il numero dei consiglieri e degli assessori ed un determinato risultato complessivo della gestione finanziaria. Al contrario, il riferimento al coordinamento finanziario evidenzia un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale, come di seguito esposto. 2. Violazione dell'autonomia finanziaria regionale garantita dall'art. 119 Cost. Infatti, una ulteriore ragione di illegittimita' della norma de qua deriva dalla natura stessa degli obiettivi assegnati da essa alle Regioni, e dei corrispondenti vincoli imposti. La disciplina del patto di stabilita' introdotta dall'art. 20 del decreto-legge n. 98/2011, come convertito dalla legge n. 111/2011, fissa delle modalita' di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica da parte delle singole Regioni, che possono essere concordate tra lo Stato e le Regioni stesse attraverso una procedura negoziata. In questo ambito si prevede che le Regioni siano responsabili dei risultati conseguiti, e si fissano i criteri con cui valutare le loro prestazioni. Le Regioni verranno suddivise in quattro classi di virtuosita', sulla base di una serie considerevole di «parametri di virtuosita'» definiti in termini «performativi», ossia fissando obiettivi di finanza pubblica, che lasciano la singola Regione pienamente responsabile di trovare gli strumenti per conseguirli. La norma ora impugnata introduce, invece, un criterio nuovo e del tutto eterogeneo, di tipo «esigenziale». Anche se la Regione sara' stata capace di individuare gli strumenti adatti a raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica, non sara' inserita tra gli enti virtuosi, se non avra' rispettato l'obbligo di adeguamento ad un criterio numerico (relativo al numero dei consiglieri e di componenti dell'esecutivo), fissato in ragione proporzionale con la popolazione dell'ente. In questo modo, ad essere apprezzato non sara' il risultato conseguito usando opportunamente la propria autonomia finanziaria, ma l'aver applicato un criterio che vincola la Regione in modo tassativo, senza consentirle alternative equivalenti per il risultato. Appare, percio', lesa l'autonomia finanziaria, garantita alla Regione dall'art. 119 Cost. Alla Regione e' tolta la possibilita' di scegliere attraverso quale via raggiungere gli obietti fissati, perche' le si impone, in nome del coordinamento della finanza pubblica, di operare in un modo rigidamente vincolato. Non adempiere a questo requisito esigenziale impedisce di accedere alla qualifica perseguita, malgrado si siano conseguiti tutti i risultati finanziari richiesti dagli altri requisiti, con conseguenze negative che hanno un evidente carattere sanzionatorio. 3. In ogni modo, illegittimita' costituzionale delle disposizioni, in quanto disposizioni di dettaglio. Violazione dell'art. 117 comma terzo. Se pure fosse giustificato il riferimento della disciplina alla materia del coordinamento della finanza pubblica, essa rimarrebbe ugualmente illegittima in quanto fondata su regole di dettaglio, in violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost. Infatti, con riferimento a tale profilo, pare evidente, sulla scorta della stessa giurisprudenza costituzionale, che la disposizione in esame ha carattere di estremo dettaglio, che non si limita ad indicare alle Regioni obiettivi, standard, tetti da raggiungere con mezzi e modalita' individuabili dalla stessa Regione, nell'ambito della sfera di discrezionalita'/autonomia alla medesima costituzionalmente garantita, ma fissa direttamente ed obbligatoriamente tagli e riduzioni degli organici del Consiglio, sulla base di parametri (consistenza popolazione), che erano stati superati dalla stessa riforma costituzionale del 1999, allorche' era stata demandato alla competenza statutaria delle Regioni («nuovo» art. 123, comma 1, Cost.) il compito di determinare il numero, ritenuto ottimale e rappresentativo, dei componenti del Consiglio regionale. Nell'ambito della giurisprudenza costituzionale, si rinviene un orientamento consolidato (Corte cost nn. 159/2008, 36/2004, 390/2004, 449/2005, 95/2007) secondo cui costituiscono principi fondamentali le disposizioni che si limitano a prescrivere obiettivi da realizzare, lasciando alle Regioni la scelta del modo attraverso cui perseguirli. Mentre, di contro, e' da escludere la possibilita' di simile qualificazione, nel caso di disposizioni che impongono misure analitiche, di dettaglio e vincoli puntuali. Pertanto, nella misura in cui la disposizione in esame non si limita a stabilire un obiettivo, ma indica direttamente i mezzi ed anche il dettaglio minuto della relativa applicazione, non lasciando alternativa alcuna, e' evidente che la stessa fuoriesce dalla qualificazione in termini di norma di «principio». Sotto altro profilo, occorre considerare che, pur non essendo sempre chiara la ratio distinguendi fra norma di dettaglio e norma di principio, emerge dalla giurisprudenza della Corte e, specialmente, dalla dottrina, la considerazione secondo cui la norma di principio puo' spingersi nel dettaglio soltanto qualora si possa dimostrare che la disposizione enunciata e' l'unica modalita' possibile di perseguimento dell'obiettivo atteso. E' evidente che detta regola non vale affatto a giustificare la pervasivita' dell'intervento posto con l'art. 14, considerato che l'obiettivo perseguito dalla manovra e' sostanzialmente quello del contenimento dei costi della politica delle Regioni; obiettivo, in verita', che puo' essere perseguito mediante una pluralita' di azione diverse. Per queste ragioni, ai precedenti motivi di impugnazione, si aggiunge anche la violazione dell'art. 117, comma 3, laddove, in materia di «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», detta norma costituzionale assegna allo Stato potesta' legislativa concorrente, e percio' limitata alla sola «determinazione dei principi fondamentali». 4. In subordine. Ulteriore illegittimita' costituzionale della disposizione, in quanto sanziona la Regione per una circostanza della quale essa stessa non dispone compiutamente. Una ulteriore ragione di illegittimita' degli obblighi di adeguamento che le disposizioni impugnate impongono alle Regioni, risulta dalla circostanza che la richiesta riduzione del numero massimo dei consiglieri (e degli assessori) regionali potra' con certezza essere «operata entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto» solo se lo Statuto non abbisogna a tal fine di una revisione, ponendo indicazioni numeriche diverse. Ove invece il numero dei consiglieri sia determinato dallo Statuto, lo stesso Ente Regione non puo' essere considerato del tutto libero di apportare al suo Statuto le modifiche richieste. La Regione, in quanto ente, non e' in grado ne' di determinare compiutamente i tempi della approvazione, ne' la stessa approvazione delle modifiche richieste. Infatti, come prescrive la Costituzione, la legge di revisione statutaria e' potenzialmente sottoposta a ben tre altre «autorita'», oltre a quella dell'Assemblea legislativa: al controllo preventivo del Governo, all'eventuale giudizio preventivo della Corte costituzionale, all'eventuale referendum approvativo. Quindi, l'art. 14 pone a carico dell'Ente Regione un obbligo giuridico sanzionato che, pero', puo' essere impedito da soggetti che stanno fuori del novero delle istituzioni regionali politicamente responsabili. Ne' si dica che i primi due eventi conseguono alla illegittimita' delle norme eventualmente adottate: perche' il giudizio - iniziato per ragioni di legittimita' - potra' bene concludersi con la reiezione del ricorso, ma intanto i tempi di approvazione delle modifiche saranno completamente saltati. Ancor piu' evidente appare la possibilita' che la modifica statutaria venga sottoposta a referendum, con la conseguente impossibilita' di predire il risultato. L'irragionevolezza e' palese: la riduzione del numero dei consiglieri regionali potra' anche essere «adottata» entro il termine di sei mesi (pure non previsto dalla Costituzione) attraverso una delibera dell'Assemblea legislativa, ma che essa sia «efficace dalla prima legislatura regionale, successiva a quella della data di entrata in vigore del presente decreto», e' un fatto che dipende dalla volonta' di altri soggetti (Governo, Corte costituzionale, corpo elettorale). E' chiaro, peraltro, che la minaccia delle gravi conseguenze che la norma impugnata ricollega al mancato adempimento degli obblighi previsti, si tradurrebbe in una forte pressione sul corpo elettorale, affinche' non eserciti la sua facolta' di promuovere il referendum conformativo. L'irragionevolezza di questa norma determina sotto questo profilo anche una ulteriore violazione dell'autonomia statutaria della Regione, alterando il ruolo che il corpo elettorale svolge nell'adozione e nella modifica dello Statuto in base all'art. 123, comma 6, della Cost. Lo Statuto e' anche un atto politico della comunita'/popolo regionale, atto di cui, dunque, la Regione «ente» non dispone completamente. 5. Illegittimita' costituzionale dell'obbligo di istituzione Collegio dei revisori e dei poteri regolamentari affidati alla Corte dei conti. Violazione degli articoli 100, comma secondo, 103, comma secondo, 117, commi terzo e sesto, 121 della Costituzione. La disposizione contenuta nella lettera e) prevede l'obbligatoria istituzione, in ogni Regione, a decorrere dal 1 gennaio 2012, di un Collegio dei revisori dei conti, quale organo di vigilanza sulla regolarita' contabile, finanziaria ed economica della gestione dell'Ente, il quale, «ai fini del coordinamento della finanza pubblica, opera in raccordo con le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti». Alla stessa Corte dei conti e' demandata l'individuazione dei criteri per la determinazione della specifica qualificazione professionale in materia di contabilita' pubblica e gestione economica e finanziaria degli enti territoriali, richiesta per l'iscrizione nell'elenco, dal quale debbono essere estratti i componenti (oltre a tale qualificazione, per l'iscrizione sono richiesti anche i requisiti previsti dai principi contabili internazionali e la qualifica di revisori legali). Ad avviso della ricorrente Regione tali disposizioni sono costituzionalmente illegittime: si dispone l'istituzione di un nuovo organo necessario delle Regioni, in contrasto con il dettato costituzionale e all'autonomia statutaria regionale, con in piu' la singolare - ma anche illegittima - attribuzione di poteri normativi alla Corte dei conti circa l'individuazione dei componenti. Ora, l'art. 121 Cost. individua direttamente gli organi necessari delle Regioni (Presidente, Giunta e Consiglio); mentre, di converso, l'istituzione degli organi non necessari (ossia eventuali) e' rimessa allo Statuto o alla legge regionale, ferma restando l'intangibilita' delle competenze affidate dalla Costituzione agli organi necessari. Pertanto, il legislatore statale ordinario difetta di qualsivoglia competenza in ordine alla stessa previsione/imposizione del nuovo organo quale componente necessaria dell'organizzazione regionale. Si noti che la norma qui censurata entra in conflitto con le previsioni statutarie e legislative che la Regione ha dettato proprio allo scopo di sottoporre al controllo «tecnico» la gestione delle finanze regionali: l'art. 72 dello Statuto prevede gia' che siano istituite forme di collaborazione con la Corte dei conti, mentre la legge regionale 23 dicembre 2010, n. 12, disciplinando il Patto di stabilita' territoriale della Regione Emilia-Romagna, ha introdotto anche organi e forme per il controllo sulla applicazione di esso. Dunque, la previsione statale verrebbe a sostituirsi alle regole che la Regione, nella sua autonomia, ha gia' dettato allo stesso scopo, senza che vi sia alcun titolo che legittimi un intervento cosi' pervasivo. Non si tratta dunque di un «principio» di coordinamento di finanza pubblica, ma di una norma organizzativa dettagliata che impone addirittura la specifica composizione/qualificazione professionale del nuovo organo e dei suoi componenti, esorbitando dai limiti della competenza legislativa statale, in violazione dell'art. 117, terzo comma Cost. Specificamente ed ulteriormente illegittimo, inoltre, appare l'affidamento alla Corte dei conti di poteri regolamentari il cui esercizio non solo interferisce con l'autonomia legislativa regionale, ma snatura la funzione stessa della Corte dei conti quale organo di controllo e giurisdizionale, per definizione esterno rispetto all'organizzazione degli enti in relazione ai quali essa svolge la sua azione, in violazione degli artt. 100 e 103 Cost. Ne' lo Stato, privo esso stesso della potesta' regolamentare nelle materie concorrenti, puo' demandarla all'organo di controllo, in violazione dell'art. 117, commi terzo e sesto. 6. Ulteriore specifica illegittimita' costituzionale della disposizione secondo cui le Regioni che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non possono aumentarne il numero. Violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Accanto a quelle sopra lamentate, una specifica ragione di illegittimita' costituzionale colpisce la disposizione secondo la quale «le Regioni che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, abbiano un numero di consiglieri regionali inferiore a quello previsto nella presente lettera, non possono aumentarne il numero». Infatti, se pure in denegata ipotesi vi fosse un potere del legislatore statale di determinare il numero dei consiglieri in modo indiretto, impropriamente sanzionando la Regione sul piano dei vincoli giuridici ed economici per il mancato adeguamento, tale potere non potrebbe esercitarsi che secondo un principio di razionalita' ed in condizioni di uguaglianza per tutte le Regioni che si trovassero nelle medesime condizioni. A tale elementare principio contraddice la regola secondo la quale una Regione non sarebbe neppure libera di determinare un numero di consiglieri regionali che la stessa legge statale mostra di giudicare congruo, per la sola ragione che con precedente scelta la Regione stessa aveva determinato un numero inferiore. Si tratta, in definitiva, di violazione del principio di uguaglianza tra enti, che hanno, sotto tutti i profili rilevanti, le medesime caratteristiche oggettive. 7. Illegittimita' costituzionale per difetto di urgenza. Violazione dell'art. 77 Cost. Benche' si sia qui preferito dare la priorita' alle censure che riguardano il merito dispositivo della norma impugnata, per completezza va aggiunto che, ad avviso della ricorrente Regione, essa e' costituzionalmente illegittima anche sotto il diverso profilo della carenza dei presupposti del decreto-legge. Essa pone un termine assai stringente per la «adozione» o per la «operativita'» della modifica statutaria (6 mesi), senza alcuna esigenza di urgenza, visto che la norma stessa dispone che le nuove misure saranno «efficaci» solo con la prossima legislatura regionale, quindi non prima di maggio 2015. Risulta percio' violato anche l'art. 77 Cost., che sottopone la decretazione d'urgenza a precisi requisiti di urgenza, oltre che di straordinarieta' e necessita'. Stabilire un termine «urgente» di sei mesi per l'approvazione di disposizioni destinate ad operare non prima di quattro anni dall'entrata in vigore del provvedimento, sembra un caso molto chiaro di violazione delle condizioni poste dall'art. 77 Cost. Sui presupposti a cui la giurisprudenza costituzionale subordina la legittimazione della Regione ad agire per la violazione delle norme costituzionali relative alle «forme» degli atti legislativi, si rinvia alle motivazioni sviluppate in seguito in relazione all'art. 16, che qui vengono richiamate in toto. V. Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, recante «Riduzione dei costi relativi alla rappresentanza politica nei comuni e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali». Si premette che la Regione Emilia Romagna impugna l'art. 16 in nome proprio, ma anche su richiesta del Consiglio delle Autonomie, formulata ai sensi dell'art. 9, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, che modifica l'art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953 n. 87, e quale portatrice dei loro interessi istituzionali. 1. Illegittimita' dell'art. 16 per violazione dell'art. 77, commi primo e secondo, Cost. L'intero art. 16, qui impugnato, appare in primo luogo costituzionalmente illegittimo per difetto del requisito dei «casi straordinari di necessita' e d'urgenza» richiesti dall'art. 77, commi primo e secondo, della Costituzione. Si tratta, invero, di norme ordinamentali che incidono profondamente sullo status istituzionale dei Comuni. Infatti, i commi da 1 a 16 impongono ai Comuni fino a 1000 abitanti la gestione associata ed altre modalita' vincolate per l'esercizio di tutte le funzioni amministrative e la gestione di tutti i servizi, definendo altresi' minutamente l'istituzione e la composizione degli organi di una nuova forma di associazione obbligatoria denominata Unione; mentre i commi da 17 a 21 innovano nella composizione e nell'articolazione degli organi dei Comuni in genere, incidendo sulla loro autonomia organizzativa e sul loro attuale funzionamento, e dispongono in materia di retribuzione dei componenti degli organi di governo degli enti territoriali. Lo stesso decreto-legge stabilisce che la disciplina varata non e' di immediata applicazione, laddove al comma 9 pospone la sua operativita' «a decorrere dal giorno della proclamazione degli eletti negli organi di governo del Comune che, successivamente al 13 agosto 2012, sia per primo interessato al rinnovo». Appare dunque di tutta evidenza che l'applicazione delle disposizioni in questione non e' destinata a compiersi, e nemmeno ad iniziare, nell'immediato. E' altrettanto evidente che entro quel termine - ed anzi molto prima - avrebbe potuto attivarsi e compiersi l'ordinario procedimento legislativo, e che dunque non vi era ragione alcuna per la quale il Governo dovesse sostituirsi al naturale titolare della funzione legislativa. Ne' si potrebbe replicare che l'urgenza, se non era di queste disposizioni, era invece di altre contenute nello stesso decreto: perche' questo, anziche' giustificare, aggrava il vulnus inferto alle regole sulle competenze costituzionali, avendo con cio' il Governo costretto il Parlamento a deliberare senza ragione nel breve termine che la conversione del decreto-legge, e la reale urgenza economica del paese, richiedevano. A rendere ancor piu' evidente il gia' evidente difetto di urgenza delle disposizioni introdotte vale ulteriormente la considerazione che esse non solo sono destinate ad attuarsi in un momento lontano nel tempo, ma neppure appaiono connesse a risparmi di spesa che si possano considerare certi e rilevanti. Infatti, i contenuti delle norme censurate non sembrano rispondere adeguatamente alla finalita' del «contenimento delle spese degli enti territoriali», perseguita in nome del risanamento della finanza pubblica, non essendo, tra l'altro, nemmeno quantificati i supposti risparmi di spesa. Sicche', mentre gli effetti di innovazione ordinamentale contenuti in queste norme sono di grandissima rilevanza, anche sotto il profilo costituzionale, gli effetti concreti che queste possono determinare sul contenimento della spesa appaiono incerti e, comunque, solo eventuali: mancano, infatti, di quella precisione ed evidenza che ne potrebbe giustificare l'emanazione per decreto-legge. Sotto il profilo economico e di contenimento della spesa manca ogni quantificazione anche nella Relazione della Ragioneria Generale che ha accompagnato il provvedimento di urgenza. All'opposto, sarebbero stati da tenere in considerazione, anche ai fini della copertura delle spese, gli oneri amministrativi a carico delle Amministrazioni coinvolte, che deriverebbero dall'applicazione di queste norme come conseguenza dei mutamenti di organizzazione, di strutture operative, di semplici ma non irrilevanti costi di ristrutturazione degli uffici e del materiale amministrativo. Si tratta di costi certi, che rendono solo benintenzionata, ma non certo efficace, quella disposizione che legislatore ha inserito in chiusura alla nuova disciplina (comma 30) secondo cui «dall'applicazione di ciascuna delle disposizioni di cui al presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Si tratta di una clausola la cui presenza non fa che introdurre un ulteriore elemento di irrazionalita' nella disciplina, perche' le spese sono davvero certe, ove si consideri che anche semplici adempimenti burocratici, come il cambiamento dell'intestazione della carta ufficiale, dei timbri o degli indirizzi elettronici dovra' inevitabilmente comportare una qualche spesa a carico del bilancio pubblico. Che il difetto dei requisiti di necessita' ed urgenza generi vizio di legittimita' costituzionale e' fuori di dubbio. Gia' con la «storica» sent. n. 29/1995, codesta Corte ha fermamente ribadito la sindacabilita' della sussistenza dei presupposti di straordinarieta', necessita' e urgenza del decreto-legge, i quali costituiscono «un requisito di validita' costituzionale dell'adozione del predetto atto», di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge [...] quanto un vizio in procedendo della legge di conversione, avendo quest'ultima [...] valutato erroneamente l'esistenza di presupposti di validita' in realta' insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione» - vizio che rimane censurabile quand'anche il decreto e' gia' stato convertito in legge, come la stessa Corte ha ribadito nelle ben note sent. nn. 171/2007 e 128/2008. E' vero che la Corte ha affermato anche che la mancanza dei presupposti della decretazione d'urgenza puo' dar luogo ad un vizio di legittimita' dell'atto «solo quando essa appaia chiara e manifesta perche' solo in questo caso il sindacato di legittimita' della Corte non rischia di sovrapporsi alla valutazione di opportunita' politica riservata al Parlamento» (sent. 398/1998, n. 3 del considerato in diritto). Ma un decreto-legge che pospone l'operativita' delle proprie misure ad una data indefinita, ma che comunque in nessun caso puo' cadere prima di un anno dalla sua entrata in vigore appare del tutto incompatibile con quella «immediata applicazione» che la legge 400/1988, in attuazione dell'art. 77 Cost., pone come vincolo al potere governativo di decretazione d'urgenza. Denunciato il vizio, che ad avviso della ricorrente Regione inficia l'intera disciplina dell'art. 16, occorre ora affrontare, per i dubbi che potrebbero essere sollevati in proposito, il tema della legittimazione della Regione a farlo valere. Infatti, come codesta ecc.ma Corte ha piu' volte avuto modo di affermare, «le Regioni non sono legittimate a far valere nei ricorsi in via principale gli ipotetici vizi nella formazione di una fonte primaria statale, se non "quando essi si risolvano in violazioni o menomazioni delle competenze" regionali (in particolare le sentenze n. 398 del 1998; fra le molte analoghe anche le sentenze n. 383 e n. 50 del 2005)», perche' puo' essere fatto valere il contrasto «con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza legislativa soltanto se esso si risolva in una esclusione o limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illogicita' o di violazione di principi costituzionali che non ridondino in lesione delle sfere di competenza regionale (tra le molte, sentenze n. 383 e n. 50 del 2005; n. 287 del 2004).» (la citazione e' tratta dalla sent.n. 116/2006). L'unico interesse che le Regioni sono legittimate a far valere e', infatti, «quello alla salvaguardia del riparto delle competenze delineato dalla Costituzione; esse, pertanto, hanno titolo a denunciare soltanto le violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, in via diretta ed immediata, sulle prerogative costituzionali loro riconosciute dalla Costituzione» (sent. n. 216/2008). Benche' questa consolidata giurisprudenza abbia finora impedito alle Regioni di poter far valere i vizi «formali» degli atti legislativi, la Corte non ha mai dichiarato questa preclusione nei confronti del soggetto Regione in quanto tale, ma in relazione alla particolare (e particolarmente restrittiva) definizione dell'interesse ad agire. Come sottolinea la sentenza da ultimo citata, perche' tale interesse sia ritenuto ammissibile e' richiesto che «l'iniziativa assunta dalle Regioni ricorrenti sia oggettivamente diretta a conseguire l'utilita' propria», in quanto la sussistenza dell'interesse ad agire puo' essere postulata «soltanto quando esso presenti le caratteristiche della concretezza e dell'attualita', consistendo in quella utilita' diretta ed immediata che il soggetto che agisce puo' ottenere con il provvedimento richiesto al giudice». Tuttavia, l'«utilita' propria, diretta e immediata» non puo' essere fatta coincidere con la difesa della specifica attribuzione legislativa assegnata alla Regione, dal momento che la violazione di questa costituirebbe un vulnus al riparto costituzionale delle competenze denunciatile per se' stesso, senza che venga in rilievo la specifica forma dell'atto legislativo che ne e' responsabile. Le «prerogative costituzionali» delle Regioni debbono pertanto estendersi, ad avviso della Regione, anche al loro status costituzionale e al ruolo ad esse assegnato nel processi decisionali. E lo stesso deve dirsi anche per i Comuni, quali enti che primariamente «costituiscono» la Repubblica ai sensi dell'art. 114 della Costituzione, che ugualmente la violazione della regola del procedimento legislativo ordinario ha privato della possibilita' di far valere la propria voce. Inoltre, la questione della legittimita' di anticipare, con misure di urgenza, interventi di natura ordinamentale, che dovrebbero, invece, essere affrontati nel quadro di un riordino organico del sistema dei livelli territoriali di governo, si pone ormai in termini acuti, oltre che dal punto di vista del «buon governo» del sistema repubblicano, anche nell'assetto delle relazioni costituzionali che intercorrono tra Stato e Regioni, le quali, per costante affermazione della Corte costituzionale, devono ispirarsi al principio di leale collaborazione. Ed e' evidente che, nello stesso arco temporale fissato dal comma 9 dell'art. 16, si sarebbe potuto giungere ad un testo meditato e condiviso di riforma, dagli effetti assai piu' vasti e benefici, sia sotto il profilo della funzionalita' dell'Amministrazione nel suo complesso, che del contenimento dei costi finanziari. E' quanto denuncia il documento approvato il 24 giugno 2010, dalla Conferenza delle Regioni, il quale, in relazione alla successione di decreti-legge e di altri provvedimenti che si sono accavallati nel corso di quest'ultimo anno, osservava che: «Oltre alla preoccupazione di una disarticolazione del quadro istituzionale, se non corroborato da un quadro strutturale organico di riforme, e' anche abbastanza preoccupante che provvedimenti di riforma strutturale, come il disegno di legge c.d. Calderoli (C 3118) e il disegno di legge in materia di semplificazione e carta dei doveri della P.A. (C. 3209), attualmente all'esame del Parlamento, risultino progressivamente svuotati mediante l'anticipazione di singole parti in essi contenute nella manovra appena approvata dal Governo. Ci si riferisce, in particolare, all'art. 14, commi da 25 a 31 (contenenti disposizioni in materia di funzioni fondamentali dei comuni). Senza considerare quanto incida, o possa incidere, questa manovra, sulla stessa legge n. 42/2009 e, soprattutto, sulla sua concreta attuazione. Questo approccio metodologico, anche solo da un punto di vista tecnico, potrebbe mettere a rischio la realizzabilita' concreta dei disegni complessivi di riforma, e sconfessa il metodo che sinora ha caratterizzato le relazioni istituzionali tra i diversi livelli di Governo, improntate al principio di leale collaborazione; un metodo che si regge su precise fondamenta normative (d.lgs. n. 281/1997), tuttora in vigore ed espressione di principi costantemente ribaditi dalla Corte costituzionale.» Le Regioni, alla pari dei rappresentanti delle Associazioni degli enti locali, sono state coinvolte in defatiganti procedure di negoziazione, che avrebbero dovuto portare ad un riassetto chiaro ed equilibrato, come da tutti auspicato, dei poteri locali e delle relazioni, anche finanziarie, tra Stato, Regioni e autonomie territoriali. E' evidente che esse sono del tutto inutili se poi al Governo e' consentito di procedere unilateralmente a modificare tratti fondamentali del quadro istituzionale con caotici e unilaterali provvedimenti ordinamentali (dalla legge finanziaria di fine anno, legge n. 191/2009 e dal decreto-legge ad essa collegato, convertito con legge n. 42/2010, al successivo inserimento di molta parte delle residue disposizioni nella c.d. Manovra estiva 2010, ovvero nel d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, fino alle c.d. Manovre estive 2011, ossia il d.l. 98/2011 convertito con legge 111/2011 e il d.l. 138/2011 convertito dalla legge 148/2011) e soprattutto con quelli emanati in forma di decreti-legge, che, come si e' piu' sopra evidenziato, sono del tutto ingiustificabili, sia per quanto riguarda l'urgenza del provvedere, sia per l'effettiva congruita' delle misure rispetto al fine dichiarato. Ora, ad avviso della Regione ricorrente deve essere affermato che cio' viene a ledere non soltanto un generico quadro di buoni rapporti tra Stato e Regioni, ma anche tutti quei vincoli procedurali che le stesse leggi di delega normalmente prevedono per dare attuazione al principio di leale collaborazione. Per questi motivi, la ricorrente Regione ritiene di essere legittimata a far valere, in relazione alle disposizioni ordinamentali di cui all'art. 16, la violazione dell'art. 77 Cost., per quanto riguarda la carenza dei presupposti della necessita' e dell'urgenza, nonche' per violazione degli artt. 114 (ruolo costituzionale delle Regioni) e 118, comma 1, (come espressione del piu' generale principio di sussidiarieta'), ed infine dell'art. 5 Cost., come implicito riconoscimento del principio di leale collaborazione. 2. Illegittimita' costituzionale dei commi da 1 a 16 per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, primo, secondo comma, lett. p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost., nonche' per violazione del principio di non discriminazione, ragionevolezza e di buon andamento, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. L'art. 16, nei commi da 1 a 16, prevede che: a decorrere dalla data fissata dal comma 9, i Comuni con popolazione fino a 1000 abitanti debbano esercitare obbligatoriamente in forma associata tutte le funzioni amministrative e tutti i servizi pubblici loro spettanti tramite una Unione, disciplinata dall'art. 32 del TUEL e dalle norme puntuali, e ampiamente innovative, contenute nei citati commi dell'art. 16; di queste Unioni potranno far parte anche Comuni superiori a 1000 abitanti, che possono esercitare attraverso di esse le funzioni fondamentali o, a loro scelta, tutte le funzioni o servizi loro attribuiti; a queste Unioni spetta «per conto dei Comuni che ne sono membri, la programmazione finanziaria e la gestione contabile con riferimento alle funzioni esercitate per mezzo dell'Unione», disponendosi poi che «i Comuni concorrono alla predisposizione del bilancio di previsione dell'Unione» soltanto «mediante l'adozione di un documento programmatico, nell'ambito del piano generale di indirizzo deliberato dall'Unione» (comma 4); l'Unione succede, a tutti gli effetti, nei rapporti giuridici in essere che siano inerenti alle funzioni e ai servizi ad essa affidati, nonche' nei relativi rapporti finanziari derivanti dal bilancio; dal momento dell'istituzione dell'Unione, per tutti i Comuni (compresi quelli con popolazione superiore che svolgano, mediante l'Unione, tutte le loro funzioni) decadono le Giunte, ed unici organi sono il Sindaco e il Consiglio, a cui residuano «esclusivamente i poteri di indirizzo»; l'Unione e' dotata di propri organi ed, in particolare, di un Consiglio composto dai Sindaci e da un certo numero dei Consiglieri dei Comuni membri, i quali eleggono il Presidente che, a sua volta, nomina la Giunta (in seguito il legislatore statale potra' prevedere l'elezione a suffragio universale e diretto di questi organi: commi 10 e 11). I commi 12, 13, 14, 15 inoltre disciplinano minutamente composizione, funzioni, durata in carica ed emolumenti degli organi delle Unioni; i Comuni inferiori a 1000 abitanti possono derogare all'obbligo di esercitare, tramite l'Unione, tutte le loro funzioni e i loro servizi, solo se adottano altra forma associativa, quale la convenzione di cui all'art. 30 TUEL, fermo restando che anche in questo caso devono gestire tutte le funzioni e i servizi ad essi attribuiti tramite la convenzione. Ad avviso della ricorrente Regione, l'intera disciplina sopra sintetizzata, risulta viziata da illegittimita' costituzionale per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma, 117, secondo comma, lettera p), e quarto comma, 118 e 133, secondo comma, Cost. nonche' per violazione del principio di ragionevolezza e di buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.. Conviene qui in primo luogo riassumere le disposizioni costituzionali che riguardano i Comuni, e le competenze che in relazione ad essi spettano allo Stato e alle Regioni. Non occorre ricordare che secondo l'art. 114, primo comma, della Costituzione i Comuni, insieme alle Province, alle Citta' metropolitane, alle Regioni ed allo Stato costituiscono la Repubblica. Inoltre, ai sensi del secondo comma, essi «sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione». Secondo l'art. 118, comma primo, ai Comuni spettano le funzioni amministrative, nel quadro del principio di sussidiarieta', e secondo il comma terzo essi hanno funzioni proprie, oltre a quelle conferite ad essi dalla Regione e dallo Stato. Secondo l'art. 117, comma secondo, lett. p), spetta alla legge statale definire le funzioni fondamentali dei Comuni, ed inoltre spetta ad essa la competenza in materia di legislazione elettorale e organi di governo. Invece, spetta alle Regione, ai sensi dell'art. 133, primo comma, della Costituzione, «istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni», sentite le popolazioni interessate. E pure alla competenza regionale spetta, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., la disciplina di ogni altro aspetti delle istituzioni comunali, in quanto non si tratti di aspetti riservati alla loro stessa autonomia. Questo quadro di garanzie costituzionali delle autonomie locali e questo riparto di competenze va ovviamente tenuto presente anche nell'affrontare il problema - che certo la Regione non ignora (avendo intrapreso essa stessa, sempre in accordo con gli enti locali, rilevanti iniziative istituzionali rivolte a risolverlo) della insufficiente dimensione di molti dei Comuni italiani. Si tratta di un problema complesso, che non puo' essere risolto in modo sbrigativo e per via traversa - come fa la disciplina qui impugnata (si conferma qui la gia' lamentata drammatica inadeguatezza dello strumento della decretazione d'urgenza), mediante lo svuotamento istituzionale dei comuni con popolazione inferiore a 1000 abitanti, privandoli delle funzioni, strutture e risorse finanziarie e disponendo la loro pratica sostituzione con un ente nuovo, l'Unione, nella quale finisce per «sciogliersi» ogni comune la cui popolazione non superi la soglia indicata: un ente che ovviamente non compare nella tipologia costituzionale degli enti costituivi della Repubblica e privo di legittimazione democratica diretta, come e' stato rilevato, nel corso dei lavori preparatori, sia dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, che dalla Commissione parlamentare per le Questioni Regionali che, nel parere reso sul disegno di legge di conversione del d.l. 138/2011, suggeriva «l'opportunita' di sopprimere l'articolo 16». In effetti, altro e' promuovere entita' associative attraverso le quali i Comuni associati possano meglio esercitare alcune delle proprie funzioni, fermo restando il nucleo centrale della loro consistenza funzionale e strutturale di Comuni, altro e' ridurre i Comuni a mere strutture di rappresentanza, da aggregare in altro ente che - senza essere esso stesso «Comune», con le proprie caratteristiche di immediata espressione della democrazia al livello locale - dei Comuni originari assorbe pressoche' integralmente le funzioni, le strutture e le risorse. Quanto alle funzioni, infatti, la disposizione qui censurata priva i Comuni interessati di tutte le funzioni amministrative e di gestione dei servizi pubblici. Quanto all'organizzazione, se e' vero che la legge di conversione ha evitato la drastica soppressione dello stesso consiglio comunale accanto a quella mantenuta della Giunta, e' anche vero che tali consigli comunali restano come semplici organi d'indirizzo ai quali «competono esclusivamente poteri di indirizzo nei confronti del consiglio dell'Unione» ( comma 9). Gli stessi sindaci dei Comuni diventano semplici rappresentanti nel consiglio dell'Unione, mentre le funzioni di Sindaco vengono assunte, a termini del comma 12, dal presidente dell'Unione. Paradossalmente, privati delle funzioni di vertice del Comune, i Sindaci si caratterizzano ormai soprattutto per l'esercizio delle funzioni relative ai servizi statali di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000. Insomma, e' palese che il disegno proprio delle disposizioni dell'art. 16, nei commi da 1 a 16, e' di sostituire nella sostanza i Comuni di piccola dimensione con le Unioni. Questo disegno, tuttavia, contrasta con le garanzie che la Costituzione offre a tutti i Comuni, e costituisce un aggiramento delle apposite procedure e competenze che essa stabilisce per la creazione di nuovi comuni e per il mutamento delle circoscrizioni comunali. In altre parole, le disposizioni impugnate costituiscono non solo superamento dei poteri statali previsti dall'art. 117, comma secondo, ma anche e prima di tutto violazione dell'art. 133 Cost. Solo in apparenza il legislatore statale dispone di organi e funzioni degli enti locali, perche', in realta', quello che ne viene alterata e' la stessa mappa dell'autonomia comunale, che e' costituzionalmente garantita dalle peculiari procedure appositamente apprestate dall'art. 133. Infatti, i Comuni sotto i 1000 abitanti vengono svuotati di ogni loro attribuzione e delle risorse umane e strumentali, e persino della titolarita' dei rapporti giuridici relativi alle funzioni amministrative, tutte trasferite all'Unione. Cio' significa che dei vecchi comuni resta solo l'involucro; di fatto, essi sono svuotati e ridotti a poco piu' che circoscrizioni elettorali dell'Unione di cui fanno parte. Come codesta Corte ha osservato nella sent. n. 2/2004 a proposito degli Statuti regionali, le disposizioni costituzionali vanno interpretate rispettandone lo spirito, oltre che la lettera: se questo fondamentale principio vale per gli Statuti regionali, vale di certo anche per il legislatore ordinario. Mal si concilia con lo «spirito» dell'art. 133 Cost. una legge che lasci delle circoscrizioni comunali soltanto le indicazioni segnaletiche, perche' l'esercizio delle funzioni amministrative e' stato, d'imperio, traslocato altrove. Come sopra accennato, non si vuole certo negare che un riassetto delle autonomie locali sia necessario, ma non lo si puo' operare con strumenti impropri e improvvisati nella fretta, paralizzando, oltretutto, il lavoro di elaborazione condivisa che da tempo si stava sviluppando nelle sedi istituzionali disponibili. Il complesso normativo costituito dall'art. 16, commi da 1 a 16, non e' dunque compatibile con i principi costituzionali sopra esposti: ne' con il riconoscimento, che e' espressamente fatto, della natura costitutiva dei Comuni nella costruzione della Repubblica, ne' con i principi di autonomia statutaria, organizzativo-regolamentare e finanziaria, ne' con i principi piu' specifici dell'art. 118 Cost., per quanto riguarda le funzioni fondamentali e le funzioni proprie dei Comuni, che - come insegna codesta Corte (sent. n. 43/2004) - sono «definite dalla legge, sulla base di criteri oggi assistiti da garanzia costituzionale». Lo stesso principio di sussidiarieta' subisce una violazione, in quanto la «differenziazione» dei Comuni e delle loro funzioni non puo' essere disgiunta da una considerazione, in concreto, della capacita' amministrativa e di gestione che distingue gli enti minori in ogni diversa realta' del Paese, e non puo' ridursi alla privazione delle funzioni dei Comuni minori. Inoltre, risulta violata la Carta europea delle autonomie locali, ratificata dall'Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439. 11 contrasto e' evidente, in particolare, con l'art. 3, che nel definire il Concetto di autonomia locale non solo precisa che «per autonomia locale, s'intende il diritto e la capacita' effettiva, per le collettivita' locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la loro responsabilita', e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (comma 1), ma sottolinea anche che «tale diritto e' esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti». Dunque, il trasferimento coattivo delle funzioni, strutture e risorse relative a tutte le funzioni amministrative e di gestione dei pubblici servizi dei Comuni minori ad amministrazioni di secondo grado viola anche gli impegni liberamente assunti dall'Italia nel quadro europeo, e con cio' l'art. 117, primo comma, della Costituzione. Si noti, tra l'altro, che in concreto molto spesso i comuni con popolazione non superiore a 1000 abitanti non sono contigui, sicche' essi debbono partecipare ad Unioni che comprendono Comuni che affidano all'Unione solo alcune delle proprie funzioni, mantenendo per il resto (ed ovviamente) la pienezza della propria natura di Comuni: sicche' la situazione istituzionale risulta anche fortemente asimmetrica e diseguale, con il solo comune minore che perde nella sostanza la propria natura di vero Comune, a favore di una Unione che per tutti gli altri comuni rimane un'organizzazione settoriale. In altre parole la stessa Unione non ha la stessa natura per tutti i comuni componenti, dato che per la maggior parte essa resta una organizzazione funzionale di servizio, mentre per il Comune fino a 1000 abitanti essa in realta' subentra nel ruolo di vero Comune. Ad avviso della Regione sotto questo profilo risultano violati, oltre che l'art. 114, anche gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto soluzione discriminatrice, priva di ragionevolezza ed in contrasto con il principio di buon andamento dell'amministrazione. Oltre alle regole costituzionali in materia di autonomia comunale, le disposizioni impugnate violano le competenze residuali delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali. Infatti, come confermato da codesta Corte costituzionale nella sent. n. 456/2005 (ivi il riferimento specifico era alla disciplina delle Comunita' montane), nello stabilire la competenza statale, l'art. 117, secondo comma, lettera p), «fa espresso riferimento ai Comuni, alle Province e alle Citta' metropolitane e l'indicazione deve ritenersi tassativa». Dunque, la potesta' legislativa dello Stato si ferma all'ordinamento degli enti locali, e non si estende alle loro forme associative (cfr. anche la sent. n. 27/2010), ne' a quel «caso speciale di Unioni di Comuni» (cfr. Corte cost. n. 456/2005) quali sono, appunto, le Comunita' montane, enti non dotati di «autonomia costituzionalmente garantita» (sent. n. 397/2006). In effetti, la giurisprudenza costituzionale ha in diverse occasioni confermato l'incompetenza del legislatore statale ad intervenire in un ambito, quello delle forme associative, riconducibile alla potesta' legislativa regionale residuale (sentenze nn. 244 e 456 del 2005, n. 387 del 2006, n. 237/2009, n. 27/2010 e n. 326/2010). Di conseguenza, l'intera disciplina della speciale Unione prevista dai commi da I a 16, a maggiore ragione per il suo carattere dettagliato e minuzioso, appare costituzionalmente illegittima per lesione della competenze residuale delle Regioni in materia di associazionismo tra enti locali. Questo profilo e' particolarmente rilevante nella Regione Emilia-Romagna, che a favore dell'associazionismo ha svolto una forte azione di incentivazione, adottando specifiche norme legislative che in questi anni hanno accompagnato un esteso fenomeno di associazionismo intercomunale, ottenendo risultati considerevoli. L'obiettivo perseguito con un'intensa attivita' legislativa, amministrativa, finanziaria e politica nel corso di piu' di un decennio e' stato finalizzata a promuovere proprio l'esercizio associato di dette funzioni/servizi, in virtu' della maggiore efficienza ed ottimizzazione delle risorse assicurate da tali formule organizzative; cioe' per conseguire quegli stessi obiettivi che ora il decreto-legge pretende di ottenere con un tratto di penna. Da ultimo, e in subordine, va censurata la specifica incostituzionalita' di talune disposizioni dell'art. 16 che prevedono poteri regolativi e amministrativi statali nella applicazione della normativa impugnata. Cosi' il comma 4 dispone, tra l'altro, che «con regolamento» da adottare ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400 «su proposta del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro per le riforme per il federalismo, sono disciplinati il procedimento amministrativo-contabile di formazione e di variazione del documento programmatico, i poteri di vigilanza sulla sua attuazione e la successione nei rapporti amministrativo-contabili tra ciascun comune e l'unione». Ad avviso della ricorrente Regione, si tratta di un potere che in nessun modo e' riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di individuazione della funzioni fondamentali, o ad alcuna altra materia di competenza statale. Si tratta invece della disciplina dei rapporti tra i Comuni e l'entita' associativa, rapporti che - per la parte che non ricade nella stessa autonomia comunale - compete alla Regione ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost. Di conseguenza, non vi e' potere regolamentare statale, a termini dell'art. 117, comma sesto, Cost. In ulteriore subordine, ove dovesse ammettersi una competenza statale, risulta violato il principio di leale collaborazione, non essendo prevista ne' l'intesa con la Regione interessata ne' l'intesa con la Conferenza unificata. Ugualmente, risulta illegittimo il comma 16, per violazione del principio di leale collaborazione, per avere il legislatore statale completamente pretermesso le Regioni nella valutazione - demandata in via esclusiva al Ministro degli Interni - in ordine al conseguimento, da parte dei Comuni gia' coinvolti in forme associative di cui all'art. 30 del T.U.E.L., dei «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione, mediante convenzione, delle rispettive attribuzioni». E' eclatante la circostanza che gli effetti delle leggi regionali sull'associazionismo vengano a dipendere da una valutazione unilaterale e centralizzata del Ministero degli Interni, senza alcun coinvolgimento delle Regioni stesse, in violazione dell'art. 117, comma 4. E' evidente, altresi', la violazione dell'art. 114, in quanto detta disposizione introduce un controllo statale sulla efficacia ed efficienza della gestione delle forme associative diverse dalle unioni, in violazione dell'autonomia riconosciuta agli enti territoriali dall'attuale testo dell'art. 114, come modificato dalla riforma del titolo V.
P.Q.M. Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'illegittimita' costituzionale delle impugnate disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011 n. 138, come convertito nella legge n. 148 del 2011, nelle parti, nei termini e sotto i profili esposti nel presente ricorso. Padova-Bologna-Roma, 14 novembre 2011 Prof. avv. Falcon - Prof. Avv. Mastragostino - Avv. Manzi Allegati: 1) Deliberazione della Giunta regionale 14 novembre 2011, n. 1645. 2) Procura speciale rogata dal notaio dott. Michele Zerbini del Collegio di Bologna il 14 novembre 2011, repertorio n. 412557