N. 153 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 23 novembre 2011

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 23 novembre 2011 (della Regione Campania). 
 
Regioni (in genere) -  Consiglieri  regionali  -  Determinazione  del
  numero  massimo  dei  consiglieri  e  degli  assessori   regionali,
  previsione  di  un  limite  massimo  degli   emolumenti   e   delle
  indennita', commisurazione del trattamento economico alla effettiva
  partecipazione  ai   lavori   del   Consiglio,   introduzione   del
  trattamento previdenziale contributivo, istituzione e disciplina di
  un organo regionale denominato "Collegio dei revisori dei conti"  -
  Obbligo per le Regioni di adeguamento entro i termini  stabiliti  -
  Elemento per la valutazione della  c.d.  "virtuosita'"  degli  enti
  territoriali, secondo il meccanismo  introdotto  dall'art.  20  del
  d.l. n. 98/2011 - Lamentata interferenza nell'ambito della potesta'
  statutaria e della autonomia finanziaria e organizzativa regionale,
  lamentata introduzione di norme di dettaglio in luogo di  obiettivi
  di   finanza   pubblica,   irragionevolezza   del   sistema   della
  composizione a scalare dei componenti dei consigli e  delle  giunte
  in base a piu' classi di dimensione  demografica  -  Ricorso  della
  Regione Campania - Denunciata violazione della potesta'  statutaria
  regionale,  violazione  della  competenza   legislativa   regionale
  concorrente,  nella  materia  del   coordinamento   della   finanza
  pubblica, e residuale, violazione del principio  di  corrispondenza
  tra funzioni decentrate e risorse, irragionevolezza. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, art. 14. 
- Costituzione, artt. 3, 117, commi terzo e quarto, 119, 122 e 123. 
Enti locali - Unioni di comuni  -  Comuni  fino  a  1000  abitanti  -
  Esercizio necessario di tutte le funzioni, incluse quelle  delegate
  o  attribuite  dalle  Regioni,  attraverso  la  forma   associativa
  dell'Unione dotata  di  propri  organi  e  potesta'  statutaria,  e
  titolare  di  rapporti  giuridici  e   di   risorse   -   Lamentata
  interferenza   nell'ambito   della    autonomia    finanziaria    e
  organizzativa  regionale,  lamentata  introduzione  di   norme   di
  dettaglio in luogo di obiettivi di finanza pubblica,  in  subordine
  interferenza    nell'ambito    dell'esercizio    delle     funzioni
  amministrative  regionali  -  Ricorso  della  Regione  Campania   -
  Denunciata  violazione  della  competenza   legislativa   regionale
  residuale e  concorrente  nella  materia  del  coordinamento  della
  finanza  pubblica,  esorbitanza  dello   Stato   dalla   competenza
  esclusiva in materia di forma di governo  e  funzioni  fondamentali
  degli enti locali, violazione del principio di  corrispondenza  tra
  funzioni   decentrate   e   risorse,   lesione   della   competenza
  amministrativa   della   Regione   nonche'    dei    principi    di
  sussidiarieta', adeguatezza e differenziazione. 
- Decreto-legge   13   agosto   2011,   n.   138,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 14 settembre  2011,  n.  148,  art.  16,
  comma 1. 
- Costituzione, artt. 117, commi secondo, lett. p), terzo  e  quarto,
  118 e 119. 
(GU n.3 del 18-1-2012 )
     Ricorso della Regione Campania (c.f.  80011990636),  in  persona
del Presidente della Giunta regionale pro tempore, On. Dott.  Stefano
Caldoro, rappresentata e difesa, ai sensi delle delibere della Giunta
regionale n. 598 del 29 ottobre 2011 e n. 617 dell'11 novembre  2011,
giusta  procura  a  margine   del   presente   atto,   unitamente   e
disgiuntamente,  dall'Avv.  Maria  D'Elia  (c.f.   DLEMRA53H42F839H),
dell'Avvocatura regionale, e dal Prof.  Avv.  Beniamino  Caravita  di
Toritto (c.f. CRVBMN54D19HS01A), del libero  foro,  ed  elettivamente
domiciliata presso l'Ufficio di rappresentanza della Regione Campania
sito in Roma alla Via Poli, n. 29 (fax  06/42001646;  pec  abilitata:
cdta@legalmail.it); 
    Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro  tempore  per
la dichiarazione di illegittimita' costituzionale degli articoli 14 e
16, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con
modificazioni nella legge  14  settembre  2011,  n.  148,  avente  ad
oggetto «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione  finanziaria
e per lo sviluppo»,  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  -  serie
generale, n. 216 del 16 settembre 2011, per violazione degli articoli
117, commi 2, lett. p), 3 e 4, 118, commi 1 e 2, 119, 122,  123  e  3
della Costituzione. 
 
                                Fatto 
 
    Con d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, il Governo ha inteso adottare
una serie di disposizioni per la stabilizzazione finanziaria e per il
contenimento della spesa pubblica al fine di garantire la  stabilita'
del Paese  con  riferimento  alla  eccezionale  situazione  di  crisi
economica internazionale e di instabilita' dei mercati, anche al fine
di rispettare gli impegni assunti in sede di Unione Europea,  nonche'
di adottare misure dirette a favorire lo sviluppo e la competitivita'
del paese e il sostegno all'occupazione. Il  decreto  costituisce  un
intervento normativo di vasta portata, diviso in quattro titoli:  nel
primo sono comprese disposizioni per la stabilizzazione  finanziaria,
nel secondo norme in materia di liberalizzazioni,  privatizzazioni  e
altre misure per incentivare Io sviluppo, nel terzo titolo  misure  a
sostegno dell'occupazione e, infine, nel quarto titolo trovano spazio
norme relative alla riduzione dei costi degli apparati istituzionali. 
    Il  decreto-legge  n.  138  e'  stato  convertito,  con  numerose
modificazioni, dalla legge 14  settembre  2011,  n.  148,  pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale - serie generale, n. 216  del  16  settembre
2011. 
    In particolare, tra i vari emendamenti  apportati  all'originaria
formulazione, la suddetta legge di conversione ha  modificato  l'art.
14, avente  ad  oggetto  «Riduzione  del  numero  dei  consiglieri  e
assessori regionali e relative indennita'. Misure premiali». 
    In  ragione  di  finalita'  di  conseguimento   degli   obiettivi
stabiliti nell'ambito del coordinamento della finanza pubblica,  tale
disposizione condiziona la collocazione delle Regioni nella classe di
enti territoriali piu' virtuosa prevista dall'art. 20, comma  3,  del
d.l. n. 98/2011 (convertito dalla legge n. 111/2011), all'adeguamento
dei rispettivi ordinamenti ad una serie di particolari parametri. 
    Il richiamato art. 20, comma 3, del d.l. n. 98/2011 ha  previsto,
nell'ambito della definizione del nuovo Patto di stabilita'  interno,
una serie di meccanismi premiali in favore  degli  enti  territoriali
che conseguano determinati parametri di virtuosita', con  particolare
riferimento alla ripartizione del concorso alla  realizzazione  degli
obiettivi di finanza pubblica fissati. 
    Al  fianco  dei  suddetti  parametri  di  virtuosita',   inerenti
precipuamente   al   conseguimento    di    obiettivi    di    natura
economico-finanziaria, quali ad  esempio  la  convergenza  tra  spesa
storica e costi e fabbisogni  standard,  il  rispetto  del  patto  di
stabilita', ovvero l'autonomia finanziaria, l'art.  14  del  d.l.  n.
138/2011, come modificato dalla legge di conversione n. 148/2011,  ha
introdotto una serie di ulteriori parametri, la  cui  portata  -  sia
consentito osservare  fin  da  subito  -  trascende  da  un  contesto
specificamente finanziario. 
    In particolare, ai fini del  godimento  dei  meccanismi  premiali
previsti dal citato art. 20,  oltre  al  rispetto  delle  indicazioni
previste  da  tale  disposizione,  le   Regioni   sono   ora   tenute
all'adeguamento  dei  propri  ordinamenti   ai   seguenti   ulteriori
parametri: 
        a) previsione di un numero massimo di consiglieri  regionali,
escluso il Presidente della Giunta, non superiore a 20 per le Regioni
con popolazione fino ad un milione di abitanti; a 30 con  popolazione
fino a due milioni; a 40 con popolazione fino a quattro milioni; a 50
con popolazione fino a sei milioni; a 70 con popolazione fino ad otto
milioni; a 80 con popolazione superiore ad otto milioni di  abitanti.
La riduzione del numero dei consiglieri regionali deve avvenire entro
sei mesi dall'entrata in vigore del decreto-legge ed essere  efficace
dalla prima legislatura regionale successiva a quella  in  corso.  Le
Regioni che, abbiano un numero  di  consiglieri  inferiore  a  quello
previsto dal decreto, non possono aumentarlo; 
        b) previsione di un numero massimo di assessori non superiore
ad  un  quinto  del  numero  dei  consiglieri   (con   arrotondamento
all'unita' superiore). La riduzione deve  essere  operata  entro  sei
mesi dall'entrata in vigore della  disposizione  ed  essere  efficace
dalla prima legislatura regionale successiva a quella in corso; 
        c) riduzione degli  emolumenti  e  delle  utilita',  comunque
denominati, a  favore  dei  consiglieri  regionali  entro  il  limite
dell'indennita' massima spettante  ai  membri  del  Parlamento,  come
rideterminata dall'art. 13 del medesimo d.l. n. 138/2011,  a  partire
dal 1° gennaio 2012; 
        d) commisurazione del trattamento economico  dei  consiglieri
regionali  all'effettiva  partecipazione  ai  lavori  del   Consiglio
regionale; 
        e) istituzione, dal 1°  gennaio  2012,  di  un  Collegio  dei
revisori dei conti,  quale  organo  di  vigilanza  sulla  regolarita'
contabile, finanziaria ed economica della gestione regionale, che, ai
fini del coordinamento della finanza pubblica, opera in raccordo  con
le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti; 
        f) passaggio, entro sei mesi  dall'entrata  in  vigore  della
disposizione  e  con  efficacia  dalla  prima  legislatura  regionale
successiva a quella in corso, al sistema  previdenziale  contributivo
per i consiglieri regionali. 
    Interessato da numerose modificazioni da  parte  della  legge  di
conversione n. 148/2011 e' stato anche l'art. 16, il  quale  contiene
misure volte alla riduzione dei costi  relativi  alla  rappresentanza
politica nei comuni e  alla  razionalizzazione  dell'esercizio  delle
funzioni comunali, nell'affermato perseguimento  delle  finalita'  di
conseguimento  degli  obiettivi  di  finanza  pubblica,  di  ottimale
coordinamento della finanza pubblica,  di  contenimento  delle  spese
degli enti territoriali e  di  migliore  svolgimento  delle  funzioni
amministrative e dei servizi pubblici. 
    Il comma 1 della previsione in oggetto dispone che,  a  decorrere
dalla  proclamazione   degli   eletti   negli   organi   di   governo
successivamente al 13 agosto 2012, i Comuni con popolazione inferiore
a  1.000  abitanti  -  salvo  quelli  il  cui   territorio   coincida
integralmente con quello di una o piu' isole, nonche'  il  Comune  di
Campione d'Italia - esercitano obbligatoriamente in  forma  associata
tutte le funzioni amministrative e tutti  i  servizi  pubblici,  loro
spettanti sulla base della legislazione vigente,  mediante  un'unione
di Comuni ai sensi dell'art. 32  d.lgs.  n.  267/2000.  I  successivi
commi, da 2 a 16,  disciplinano  puntualmente  l'unione  obbligatoria
prevista dal comma 1. 
    Le  richiamate  disposizioni  del  decreto  violano   l'autonomia
regionale nella determinazione della propria forma  di  governo  e  i
principi costituzionali in materia di  coordinamento  finanziario,  i
quali, pur attribuendo allo Stato un  consistente  potere  di  guida,
garantiscono al tempo stesso - all'interno di quel potere di guida  -
le autonome determinazioni di ciascuna Regione  nell'esercizio  della
propria autonomia di spesa. L'art. 14 e l'art. 16, comma 1, del  d.l.
n. 138/2011, convertito con modificazioni dalla  legge  n.  148/2011,
risultano quindi gravemente lesivi delle  prerogative  della  Regione
Campania,   in   quanto   viziati   da    manifesta    illegittimita'
costituzionale per i seguenti motivi di 
 
                               Diritto 
 
    Premessa. 
    Una tesi tradizionale, diffusa, affascinante,  ma  fortunatamente
mai accolta, afferma che la vera fonte del decreto-legge non  sia  da
ritrovare nell'art. 77 Cost., bensi' direttamente nell'emergenza come
situazione che  legittima  interventi  normativi  extra  ordinem.  In
questa ricostruzione la legge di conversione assume il ruolo di  bill
di indennita', che scarica il Governo dalla responsabilita' derivante
da provvedimenti assunti anche ultra vires. 
    Pur respinto dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza,
questo modello ogni tanto riemerge nella prassi politica: l'emergenza
legittimerebbe interventi extra ordinem e ultra vires, che  sarebbero
poi «salvati» dalla  legge  parlamentare,  nonostante  la  violazione
delle regole costituzionali. 
    Nonostante  la  suggestione,  questo  modello  va  respinto.  Pur
ipotizzando che un tal genere di argomentazioni possa trovare  spazio
di discussione teorica con riferimento, ad esempio, ai  requisiti  di
necessita' ed urgenza, la cui eventuale mancanza potrebbe essere  poi
«sanata» dall'assunzione  di  responsabilita'  politica  operata  dal
parlamento con l'approvazione della legge di conversione, giammai  un
siffatto  modo  di  argomentare  potrebbe  giustificare  la  radicale
violazione di principi costituzionali, che di certo non  puo'  essere
«ratificata» da alcuna legge di conversione. 
    Ed e' per far valere il rispetto di tali principi costituzionali,
relativi alle prerogative di  autonomia  regionale,  che  la  Regione
Campania ha deciso di impugnare il d.l. n. 138/2011. 
1. - Illegittimita'  dell'art.  14  e  dell'art.  16,  comma  1,  del
decreto-legge n. 138 del 2011,  convertito  con  modificazioni  dalla
legge di conversione n. 148 del 2011, per contrasto con gli  articoli
117, commi 3 e 4, e 119 Cost. 
    In via del tutto preliminare, sia  consentito  precisare  che  la
formulazione apparentemente facoltizzante del combinato  disposto  di
cui all'art. 14, comma 1, d.l. n. 138/2011 e all'art. 20, commi  2  e
3, d.l. n. 98 del 2011, non attenua,  in  alcun  modo,  la  lesivita'
delle competenze regionali costituzionalmente  garantite.  Del  tutto
errato sarebbe ritenere che l'art. 14,  comma  1,  lascia  libere  le
Regioni di adeguarsi ai parametri ivi previsti. La non adesione delle
Regioni a tali previsioni  -  infatti  -  determinerebbe  il  mancato
godimento  delle  cd.  misure  premiali  e  si   tradurrebbe   quindi
nell'obbligo per le Regioni di farsi carico di oneri straordinari per
il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, nonostante  il
possesso di indici di virtuosita' che gia' da  soli  testimoniano  il
contributo dato al conseguimento di tali obiettivi. 
    Piu' nello specifico, la  disposizione  impugnata,  aggravando  i
parametri gia' previsti dall'art. 20 del d.l. n. 98  del  2011  (come
convertito dalla legge n.  111  del  2011),  obbliga  («debbono»)  le
Regioni gia'  in  possesso  di  ampi  requisiti  di  «virtuosita'»  -
precedentemente individuati dal legislatore nazionale  (nel  d.l.  n.
98/2011)  come  idonei  ad  «esonerare»  dalla  «realizzazione  degli
obiettivi di finanza pubblica fissati, a  decorrere  dall'anno  2012,
dal comma 5, nonche' dall'articolo 14 del  decreto-legge  n.  78  del
2010» (art. 20, comma  3,  d.l.  n.  98/2011)  -  ad  adottare  nuove
stringenti misure che incidono in modo illegittimo non solo  su  voci
di spesa, ma sull'ordinamento e sulla forma di governo delle  Regioni
stesse, in modo gravemente lesivo dell'autonomia che la  Costituzione
assegna loro. 
    Parimenti, con riferimento  al  successivo  art.  16,  l'invocato
richiamo  alla  finalita'  di  «assicurare  il  conseguimento   degli
obiettivi di finanza pubblica, l'ottimale coordinamento della finanza
pubblica, il contenimento delle spese degli enti  territoriali  e  il
migliore svolgimento delle  funzioni  amministrative  e  dei  servizi
pubblici» non puo' certo ritenersi elemento sufficiente ad  escludere
la manifesta violazione delle competenze regionali costituzionalmente
riconosciute. 
    Invero, del tutto palese e' la violazione da parte dell'art. 14 e
dell'art. 16, comma 1, del riparto di competenze di cui all'art. 117,
commi 3  (in  relazione  alla  materia  di  legislazione  concorrente
«armonizzazione dei bilanci pubblici e  coordinamento  della  finanza
pubblica») e 4 (in  relazione  alle  competenze  regionali  esclusive
residuali). 
    E' opportuno da subito  affermare  che  il  titolo  competenziale
ripetutamente invocato dal legislatore statale, gia'  a  partire  dal
preambolo  del  decreto   («disposizioni   per   la   stabilizzazione
finanziaria e per il contenimento della spesa  pubblica»),  non  vale
certamente a rendere conforme l'intervento legislativo qui contestato
ai parametri costituzionali impropriamente evocati. Come chiarito  da
codesta ecc.ma Corte, infatti, «e'  costante  l'orientamento  secondo
cui,  ai  fini  del  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,   la
qualificazione legislativa non vale  ad  attribuire  alle  norme  una
natura diversa da quella ad esse propria, quale  risulta  dalla  loro
oggettiva sostanza» (sent. n.  169  del  2007  e  le  ivi  richiamate
sentenze  n.  447  del  2006  e  n.  482  del  1995);  inoltre   «per
l'individuazione della materia alla quale devono essere  ascritte  le
disposizioni oggetto di censure, non assume rilievo la qualificazione
che  di  esse  da'  il  legislatore,  ma  occorre  fare   riferimento
all'oggetto ed alla disciplina delle medesime» (sent. n. 237 del 2009
e le ivi citate sentt. n. 430 e n. 165 del 2007). 
    Cio'  chiarito,  occorre  osservare  come  la  giurisprudenza  di
codesta ecc.ma Corte abbia, nel tempo, costantemente affermato che la
finalita' del contenimento  della  spesa  pubblica  corrente  rientra
nella finalita' generale del coordinamento finanziario (sentt. n.  27
e n. 156 del 2010, n. 237 e n. 284 del 2009, n.  159  e  n.  289  del
2008, n. 417 del 2005 e n. 4 del 2004). Pertanto sono stati  ritenuti
legittimi interventi del legislatore statale volti  ad  imporre  alle
regioni vincoli alle politiche di bilancio - anche se  indirettamente
incidenti  sull'autonomia  regionale  di  spesa  -  per  ragioni   di
coordinamento finanziario a salvaguardia, attraverso il  contenimento
della spesa corrente, dell'equilibrio unitario della finanza pubblica
complessiva,  in  connessione  con  il  perseguimento  di   obiettivi
nazionali, condizionati anche da obblighi comunitari (cfr. sentt.  n.
237 e n. 284 del 2009).  Altresi'  chiara,  nella  giurisprudenza  di
Codesta Ecc.ma Corte, e' l'esistenza nell'ordinamento di un  «obbligo
generale di tutte le  Regioni  (...)  di  contribuire  all'azione  di
risanamento della finanza pubblica» (sent. n. 289 del 2008, e le  ivi
richiamate sentt. n. 190 del 2008, n. 82 e n. 169 del 2007). 
    Di conseguenza,  in  linea  generale  puo'  osservarsi  come  sia
riservata alla potesta' statale  la  sola  previsione  di  un  limite
complessivo di spesa che faccia salva un'ampia discrezionalita' degli
enti territoriali nell'allocazione delle risorse tra i diversi ambiti
e obiettivi di spesa e nella scelta, ai fini del rispetto dei  limiti
di spesa, di eventuali tagli. 
    Di contro, e' pacificamente preclusa la possibilita' di vincolare
le regioni all'adozione di  misure  analitiche  e  di  dettaglio  che
illegittimamente comprimerebbero l'autonomia  finanziaria  di  queste
ultime. 
    In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha chiarito espressamente  che
«norme statali che fissano limiti alla spesa delle  Regioni  e  degli
enti   locali   possono   qualificarsi   principi   fondamentali   di
coordinamento  della   finanza   pubblica   alla   seguente   duplice
condizione: in primo luogo, che si  limitino  a  porre  obiettivi  di
riequilibrio della medesima,  intesi  nel  senso  di  un  transitorio
contenimento  complessivo,  anche  se  non  generale,   della   spesa
corrente; in secondo luogo,  che  non  prevedano  in  modo  esaustivo
strumenti o modalita' per il perseguimento  dei  suddetti  obiettivi»
(sent. n. 237 del 2009, citata; nello stesso senso, sent. n. 341  del
2009). 
    Conformemente ai principi appena richiamati, la sent. n.  27  del
2010, pur salvando dalla declaratoria di  incostituzionalita'  l'art.
76,  comma  6-bis,  d.l.  n.  112/2008,  convertito  dalla  legge  n.
113/2008, che disponeva la riduzione dei trasferimenti erariali  alle
comunita' montane per gli anni 2009-2011, ritenendo  che  tale  norma
fosse  effettivamente  espressione  di  principi  fondamentali  della
materia  del  coordinamento  della  finanza  pubblica,  ha  viceversa
stabilito che la previsione di un criterio quantitativo  rigido  (nel
caso di specie altimetrico), quale strumento  di  individuazione  dei
soggetti per i quali attuare la riduzione dei trasferimenti suddetti,
esorbita  dai  limiti  della   competenza   statale   di   principio,
contrastando pertanto con il riparto di competenze previsto dall'art.
117, comma 3, Cost. 
    Sotto diverso profilo, la Corte, con sent. n. 289  del  2008,  ha
giudicato la legittimita' dell'art. 22, comma 1,  d.l.  n.  223/2006,
che ha previsto la riduzione del 10% degli stanziamenti per i consumi
intermedi degli enti pubblici  non  territoriali  relativi  al  2006,
ritenendo che in tal caso il legislatore statale abbia legittimamente
perseguito  «generali  obiettivi  di   riequilibrio   della   finanza
pubblica, incidendo temporaneamente su una complessiva e  non  minuta
voce di spesa», lasciando al contempo liberi gli enti destinatari  di
individuare le misure necessarie  al  contenimento  della  spesa  per
consumi intermedi. 
    Peraltro, dall'esame della giurisprudenza  costituzionale  sembra
possibile  desumere  alcune  ulteriori   indicazioni   di   rilevante
significato per quanto qui di interesse. 
    In particolare, con la citata sent.  n.  289  del  2008,  codesta
ecc.ma Corte  ha  avuto  modo  di  pronunciarsi  sulla  questione  di
legittimita' costituzionale proposta  dalla  Regione  Veneto  avverso
l'art. 29 del d.l. n. 223/2006, il quale prevedeva, a  decorrere  dal
2006, la riduzione del 30% della spesa complessiva sostenuta nel 2005
dalle amministrazioni pubbliche per  il  funzionamento  degli  organi
collegiali, disponendo l'adozione di una serie di misure dettagliate.
Codesta  ecc.ma  Corte  ha  dichiarato  inammissibile   la   suddetta
questione in quanto l'articolo censurato prevedeva  espressamente  la
non diretta applicazione delle disposizioni  suddette  alle  Regioni,
rispetto alle quali le disposizioni stesse costituivano  principi  di
coordinamento della  finanza  pubblica.  In  tal  senso,  il  giudice
costituzionale ha espressamente affermato che «i precetti specifici e
puntuali previsti dalla disposizione denunciata  non  si  riferiscono
alle Regioni, le quali, mentre  sono  tenute  a  rispettare  il  solo
obiettivo finanziario globale da essa  disposto,  sono  libere  nello
stabilire strumenti e modalita'  per  il  conseguimento  dello  scopo
divisato dal legislatore statale». 
    E', pertanto, del tutto palese  che  disposizioni  puntuali  come
quelle di cui all'art. 14, comma 1, che prescrivono: 
        a) la riduzione del numero dei Consiglieri Regionali  secondo
parametri stabiliti dal decreto in  base  al  numero  degli  abitanti
della Regione; 
        b) la corrispondente riduzione del numero degli assessori; 
        c) la riduzione degli emolumenti  dei  Consiglieri  regionali
entro il limite  dell'indennita'  massima  spettante  ai  membri  del
Parlamento; 
        d) la correlazione tra  indennita'  dei  Consiglieri  e  loro
effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio; 
        e) la istituzione di un Collegio dei revisori dei Conti; 
        f) il passaggio al sistema previdenziale contributivo  per  i
Consiglieri Regionali, non stabiliscono certo principi, ma  piuttosto
indicano misure rigidamente  predefinite  che  non  lasciano  margine
alcuno  alle  Regioni  in   ordine   alle   modalita'   di   autonomo
conseguimento degli obiettivi. Dall'analisi delle singole previsioni,
emerge con chiarezza che le stesse non risultano compatibili  con  la
duplice condizione cui la giurisprudenza costituzionale subordina  la
riconducibilita' di una norma statale a  principio  di  coordinamento
della finanza pubblica. 
    In  primo  luogo,  le  misure  disciplinate   non   si   limitano
all'individuazione di obiettivi  volti  al  transitorio  contenimento
complessivo della spesa corrente, in quanto non risulta  indicato  un
limite temporale di efficacia delle singole riduzioni  di  spesa.  In
secondo luogo, non e' soddisfatto neanche il requisito relativo  alla
garanzia  della  discrezionalita'  regionale   nella   scelta   degli
strumenti e delle modalita' di perseguimento degli obiettivi posti  a
livello statale: l'applicazione delle misure  di  contenimento  della
spesa pubblica, infatti, non e' certamente modulabile da parte  delle
singole Regioni. 
    Orbene, alla stregua del costante insegnamento di codesta  ecc.ma
Corte, tali misure non potrebbero che intendersi applicabili solo con
riferimento ai limiti di spesa, e dovrebbero invece  lasciare  libere
le Regioni  di  individuare  gli  strumenti  mediante  i  quali  dare
attuazione alla riduzione della spesa corrente rispetto  agli  organi
di governo e agli apparati amministrativi di propria competenza. 
    Emerge con immediata evidenza l'impossibilita' di ritenere che le
norme  predette  possano  integrare   i   caratteri   del   principio
fondamentale,  stante  la  profonda   incisione   delle   prerogative
costituzionali delle Regioni, peggiorata  dalle  gravose  conseguenze
derivanti dal mancato rispetto delle regole  richiamate.  Proprio  la
previsione  di  effetti  fortemente  pregiudizievoli  a  danno  della
finanza regionale finisce per accrescere il livello di vincolativita'
delle   misure   di   contenimento   della   spesa   degli   apparati
amministrativi  nei  confronti   delle   Regioni,   riverberando   in
violazione dell'art. 117, comma 3,  Cost.,  nonche'  in  lesione  del
principio di corrispondenza tra le funzioni decentrate e  le  risorse
necessarie a consentire di far fronte  all'esercizio  delle  funzioni
stesse, sancito dall'art. 119, comma 4, Cost. 
    A fronte di questo  ampio  richiamo  ai  principi  costituzionali
elaborati dalla giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte,  non  residua
dubbio alcuno sulla necessita' che le disposizioni  di  principio  in
materia di coordinamento della finanza pubblica  debbano  prescrivere
solo criteri e obiettivi, ma mai porre vincoli specifici  e  puntuali
(sent. n. 159/2008). La legge statale non puo' dunque  «prevedere  in
modo  esaustivo  strumenti  o  modalita'  per  il  perseguimento  dei
suddetti obiettivi» (ex multis, sent. n. 297/2009). Proprio  il  piu'
volte evocato caso relativo alla disciplina delle  Comunita'  montane
ha messo in evidenza quali principi di  coordinamento  della  finanza
pubblica le previsioni statali secondo le quali le  Regioni  «tengono
conto», tra  l'altro,  dei  principi  di  riduzione  del  numero  dei
componenti  degli  organi  rappresentativi  e  di   riduzione   delle
indennita' ad essi spettanti, limitandosi a  fornire  al  legislatore
regionale solo alcuni «indicatori» non vincolanti. Spetta, dunque, ad
ogni Regione contribuire al  contenimento  della  spesa  secondo  una
valutazione operata in piena autonomia (sent. n. 237/2009). Molto  di
recente, infine, Codesta ecc.ma Corte ha,  ancora  piu'  chiaramente,
dichiarato l'illegittimita'  di  una  norma  statale  per  violazione
dell'art. 117, comma 3, Cost., in quanto contenente  «una  disciplina
di dettaglio  ed  autoapplicativa  che  non  puo'  essere  ricondotta
all'alveo dei principi fondamentali della materia  del  coordinamento
della finanza pubblica,  giacche'  non  lascia  alle  Regioni  alcuno
spazio di autonoma scelta» (Corte cost. n. 91 del 2011). 
    Del tutto evidente appare, quindi, il contrasto  delle  censurate
disposizioni con gli articoli 117, commi 3 e 4, e 119 Cost. 
2. - Illegittimita' costituzionale dell'art. 14 del d.l. n.  138  del
2011, convertito con  modificazioni  dalla  legge  n.  148/2011,  per
contrasto con gli artt. 122 e 123 Cost., nonche' con l'art. 3 Cost. 
    2.1. L'art. 14 del d.l. n. 138/2011, convertito con modificazioni
dalla  legge   n.   148/2011,   appare   inoltre   costituzionalmente
illegittimo in quanto, condizionando la possibilita' per  le  Regioni
di vedersi collocate nella classe di enti territoriali piu'  virtuosa
ex art.  20,  comma  3,  del  d.l.  n.  98/2011  all'adeguamento  dei
rispettivi ordinamenti ai parametri elencati, finisce  in  fatto  per
imporre alle stesse, laddove intendano godere delle  connesse  misure
premiali, la riduzione o comunque  il  contenimento  del  numero  dei
consiglieri  regionali  entro  determinate  soglie  rapportate   alla
popolazione residente nel territorio regionale, nonche' la  riduzione
del numero degli assessori regionali. Anche a voler  per  il  momento
tralasciare la palese irragionevolezza ed  inidoneita'  dei  suddetti
parametri rispetto  all'asserito  perseguimento  delle  finalita'  di
contenimento della spesa pubblica, non v'e'  chi  non  veda  come  la
disposizione  statale  censurata  incida  gravemente  sulla  potesta'
riconosciuta a ciascuna Regione di disciplinare in  maniera  autonoma
la propria forma di governo mediante l'adozione del proprio Statuto. 
    Sia consentito rammentare come, a  seguito  della  riformulazione
avvenuta a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione,  il
primo comma dell'art. 123 sancisca ora  espressamente  che  «ciascuna
Regione ha uno statuto  che,  in  armonia  con  la  Costituzione,  ne
determina  la  forma  di  governo  e  i  principi   fondamentali   di
organizzazione e funzionamento». 
    Di contro, non essendo piu' prevista l'approvazione dello Statuto
con  legge  della  Repubblica,  ai  sensi  dell'art.  122  Cost.   la
competenza  del  legislatore  statale  in  materia   di   ordinamento
regionale e' ora limitata  alla  sola  predisposizione  dei  principi
fondamentali  in  ordine  al  sistema  di  elezione  e  ai  casi   di
ineleggibilita'  e  di  incompatibilita'   regionali,   ovvero   alla
definizione della durata degli organi  elettivi.  Nessuno  spazio  e'
invece riconosciuto allo Stato in merito  alla  individuazione  della
forma di governo regionale, stante l'assoluta ed esclusiva competenza
dello Statuto sul punto. 
    Del resto, la costante giurisprudenza costituzionale ha da  tempo
riconosciuto  «il  carattere  fondamentale  della  fonte  statutaria,
comprovato dal procedimento aggravato previsto dall'art.  123,  commi
secondo e terzo, della Costituzione» (Corte cost.,  sent.  n.  4  del
2010). A cio' si  aggiunga  che  la  disposizione  costituzionale  da
ultimo richiamata ha espressamente individuato una serie  di  vere  e
proprie riserve normative a favore della fonte statutaria,  sottratte
alla disciplina da parte della legge sia statale che regionale, ed in
particolare alla legislazione in materia elettorale (in tal senso, ex
plurimis, Corte cost., sentt. n. 188 del 2007, n. 272 e 2 del 2004, e
n. 196 del 2003). 
    Come espressamente  ribadito  da  codesta  ecc.ma  Corte  in  una
recentissima  pronuncia,  «nell'ambito  di  tali  riserve  normative,
rientra la determinazione del numero dei  membri  del  Consiglio,  in
quanto la composizione dell'organo legislativo regionale  rappresenta
una fondamentale "scelta politica sottesa alla  determinazione  della
'forma di governo' della Regione"» (sent. n. 188 del 2011, e  la  ivi
richiamata sent. n. 3 del 2006). 
    Se, dunque, l'individuazione del numero dei consiglieri regionali
va senza  dubbio  ricondotta  nell'alveo  delle  decisioni  correlate
all'esercizio  da  parte  della  Regione  della   propria   autonomia
politico-costituzionale nella  definizione  della  forma  di  governo
regionale, e' immediatamente evidente come  la  disposizione  statale
censurata arrechi un gravissimo vulnus a tale autonomia  nel  momento
in  cui  impone  alla  Regione  stessa  di  ridurre  il  numero   dei
consiglieri regionali, condizionando a tale intervento  la  fruizione
di misure premiali di rilievo essenziale per l'economia regionale. 
    Le considerazioni appena svolte valgono, altresi',  a  comprovare
l'illegittimita'  dell'individuazione  del   numero   massimo   degli
assessori regionali da parte dell'art. 14, comma  1,  lett.  b),  del
menzionato d.l.  n.  138/2011.  Atteso  che,  come  si  desume  dalla
giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, la determinazione del
numero dei componenti di un organo necessario della Regione non  puo'
che attenere indissolubilmente all'atteggiarsi della forma di governo
della Regione stessa, anche la fissazione del numero dei membri della
Giunta regionale non puo' che rientrare  nella  competenza  esclusiva
dello Statuto di autonomia. 
    Del resto, siffatta conclusione trova conferma nell'art. 121, che
annovera tra gli organi necessari  della  Regione  anche  la  Giunta,
nonche' nell'art.  122,  comma  5,  Cost.,  che  al  secondo  periodo
espressamente prevede che i componenti della Giunta siano nominati  e
revocati dal Presidente della stessa. Di contro, il  primo  comma  di
tale ultimo articolo limita la potesta' legislativa statale alla sola
predisposizione   dei   principi   fondamentali   in    materia    di
ineleggibilita' e incompatibilita' dei membri di tale  organo  (oltre
che del Presidente e dei consiglieri regionali). 
    Orbene, per quanto riguarda la Regione  Campania,  nell'esercizio
della  potesta'  di  autonoma  definizione  della  forma  di  governo
regionale ad esso riconosciuta, lo Statuto ha previsto  espressamente
all'art. 27 che «il Consiglio regionale e' costituito, oltre che  dal
Presidente della Giunta, da sessanta consiglieri». Parimenti,  l'art.
50, comma 2, ha fissato a dodici il numero degli assessori regionali,
ai quali si aggiunge il Presidente della Giunta. 
    In applicazione delle prescrizioni recate dall'art. 14, comma  1,
del d.l. n. 138/2011, convertito con  modificazioni  dalla  legge  n.
148/2011, il numero dei componenti dei  due  organi  regionali  viene
ridotto in maniera drastica. 
    In  particolare,  avendo  la  Regione  Campania  una  popolazione
residente di  5.824.662  abitanti,  il  Consiglio  regionale  campano
subisce una riduzione del 30% del numero dei suoi attuali componenti,
passando da sessanta a cinquanta  consiglieri,  oltre  al  Presidente
della Regione. 
    Ai sensi della lettera b) del citato art. 14, comma 1, invece, la
composizione  della  Giunta  regionale  passa  dai  dodici  assessori
attualmente in carica a dieci, numero corrispondente a un quinto  dei
membri del Consiglio regionale cosi' come determinati a  norma  della
precedente lettera a) della disposizione statale censurata. 
    Da quanto appena osservato, non v'e' chi non veda come l'art.  14
del menzionato decreto-legge  incida  in  maniera  illegittima  sulla
sfera di autonomia attribuita alla Regione  dall'art.  123  Cost.  Ne
deriva  la  manifesta  incompatibilita'  con  il  disposto  di   tale
previsione costituzionale,  da  cui  non  potra'  che  discendere  la
declaratoria di illegittimita' della norma statale. 
    2.2. Le individuate norme,  violando  gli  assetti  competenziali
scolpiti dalle norme costituzionali evocate, si pongono  altresi'  in
evidente violazione del  principio  di  ragionevolezza  e  quindi  in
diretto contrasto con I'art. 3 Cost. 
    Ed infatti il sistema della composizione a scalare dei componenti
dei consigli e delle giunte in  base  a  piu'  classi  di  dimensione
demografica  (che  puo'  funzionare  nell'ambito  di  una  norma   di
carattere  imperativo,  come  I'art.  2  della  legge   n.   108/68),
trasformato in «parametro» produce effetti irragionevoli  e  comunque
di forte squilibrio  in  rapporto  alla  densita'  delle  popolazioni
residenti nelle varie regioni. 
    In base agli obiettivi dichiarati, vale  a  dire  lo  sbandierato
«conseguimento   degli   obiettivi    stabiliti    nell'ambito    del
coordinamento della finanza pubblica», non si ravvisa la  ragione  in
base alla quale viene ridotta la composizione dei consigli  di  tutte
le classi demografiche regionali salvo la piu' ampia (Lombardia) e la
frazione che comprende le regioni tra  i  due  e  i  tre  milioni  di
abitanti (Calabria), che  preservano  pertanto  la  loro  consistenza
originaria  (secondo  la  legge  n.  108/68)  e  sono  esonerate  dal
contribuire   al   perseguimento   dei   medesimi   obiettivi.   Poco
comprensibile appare, inoltre,  la  creazione  di  una  nuova  classe
demografica, che non trova riscontro  pratico  alcuno  nella  realta'
delle Regioni italiane, e quindi vuota, per le Regioni tra  i  sei  e
gli otto milioni di abitanti (la Campania ha una popolazione di  poco
inferiore ai sei milioni di abitanti). 
    Ancora meno ragionevole appare che  l'ordine  delle  Regioni  per
popolazione risulti alterato all'esito  dei  non  chiariti  e  dunque
misteriosi  criteri  di  ponderazione  utilizzati  dal  decreto.   La
Toscana, ad  esempio,  che  e'  nona  nell'ordine  della  popolazione
residente diventa addirittura sesta nel rapporto rappresentativo:  un
consigliere ogni 93.253 abitanti, chiedendole di essere un  po'  piu'
virtuosa di Piemonte, Emilia  Romagna  e  Puglia.  Lo  stesso  accade
all'Umbria cui e' chiesto un sovrappiu' di  virtuosita'  rispetto  ad
Abruzzo, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige! 
    Tali elementi di  fatto,  costituiscono  con  tutta  evidenza  un
chiaro sintomo di irragionevolezza e concorrono, al pari delle  altre
evidenziate violazioni  di  norme  e  principi  costituzionali,  alla
ulteriore illegittimita' delle norme evidenziate per contrasto con il
principio di ragionevolezza e quindi per contrasto con I'art. 3 Cost. 
3. - Illegittimita' dell'art. 16, comma 1, del d.l. n. 138 del  2011,
convertito con modificazioni dalla legge n. 148/2011,  per  contrasto
con gli articoli 117, commi 2, lett. p) e 4, e con l'art. 118 Cost. 
    3.1. Il d.l.  n.  138/2011,  convertito  in  legge  n.  148/2011,
risulta altresi' viziato da illegittimita' costituzionale nella parte
in cui, al primo  comma  dell'art.  16,  dispone  che  i  Comuni  con
popolazione fino a 1.000  abitanti  esercitano  obbligatoriamente  in
forma associata tutte le funzioni amministrative e  tutti  i  servizi
pubblici  loro  spettanti  sulla  base  della  legislazione   vigente
mediante un'unione di Comuni ai sensi  dell'art.  32  del  d.lgs.  n.
267/2000 (T.U. Enti locali). 
    La    disposizione    statale    impugnata,    infatti,    incide
illegittimamente  sulla  sfera  di  competenze  legislative  che   la
Costituzione riserva alle Regione  in  materia  di  disciplina  delle
forme associative degli Enti locali presenti sul proprio territorio. 
    Ne', del resto,  ad  escludere  l'illegittimita'  dell'intervento
normativo  censurato  potrebbe  invocarsi  la  competenza   esclusiva
statale  ex  art.  117,  comma  2,  lettera  p),  Cost.,  relativa  a
«legislazione elettorale, organi di governo e  funzioni  fondamentali
di Comuni, Province e Citta' metropolitane». Codesta ecc.ma Corte  ha
da tempo chiarito come il suddetto titolo competenziale debba  essere
inteso nel senso che il  riferimento  deve  ritenersi  tassativamente
rivolto agli Enti locali elencati  all'art.  114  Cost.,  cosi'  come
tassativo e' il contesto  oggettivo  interessato,  che  si  sostanzia
esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale,  della  forma
di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. 
    Di  contro,  al  di  fuori   dell'ambito   materiale   come   ora
circoscritto, la regolamentazione degli Enti locali  deve  essere  di
certo ricondotta nella competenza residuale  delle  Regioni  ex  art.
117, comma 4, Cost. Cio' anche al fine di garantire  la  possibilita'
che la singola Regione,  nel  ruolo  di  ente  rappresentativo  delle
diverse   istanze   presenti   sul   proprio   territorio,   provveda
all'adozione di previsioni  differenziate  che  tengano  in  adeguata
considerazione le esigenze espresse dalla comunita'  di  riferimento,
in  osservanza  dei  principi  di   sussidiarieta',   adeguatezza   e
differenziazione consacrati nell'art. 118, comma 1, Cost. 
    Tali   considerazioni    trovano    conferma    nella    costante
giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in  merito
alla disciplina delle comunita' montane. E' opportuno precisare  come
alle  stesse  sia  stata  attribuita  la  natura  giuridica  di  ente
autonomo, quali proiezione dei Comuni facenti capo  ad  esse,  ovvero
quali «unioni di comuni, enti locali costituiti fra comuni  montani»,
(Corte cost., sent. n. 244 del 2005, richiamata da ultimo dalla sent.
n. 27 del 2010). 
    In tal senso, codesta ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare che
la  disciplina  delle  comunita'  montane  rientra  nella  competenza
residuale delle Regioni (si vedano, in particolare, le sentt. n.  237
del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005). 
    Il riconoscimento della  predetta  potesta'  regionale  esclusiva
trova, in particolare, fondamento nel fatto che tali comunita' devono
essere   identificate   come   autonomie   sub-regionali    meramente
strumentali e non gia' rientranti tra gli enti necessari  sulla  base
di norme costituzionali; alla luce di cio', pertanto, «rientra  nella
potesta' legislativa delle Regioni disporne anche, eventualmente,  la
soppressione» (Corte cost., sent. n. 27 del 2010, citata,  e  le  ivi
richiamate sentt. n. 237 del 2009, citata, e n. 229 del 2001). 
    Orbene, non v'e' chi non veda come  i  principi  affermati  dalla
giurisprudenza  di  codesta  ecc.ma  Corte   nelle   pronunce   sopra
richiamate trovino immediata applicabilita'  alla  normativa  statale
della cui legittimita' costituzionale qui si sospetta.  Se  la  ratio
della competenza regionale  in  materia  di  comunita'  montane  deve
essere   rinvenuta   nel   carattere    non    essenziale    e    non
costituzionalmente indefettibile delle  stesse,  non  puo'  dubitarsi
allora come nella suddetta competenza vada, altresi',  ricondotta  la
disciplina delle forme associative di Comuni e, in particolare, delle
unioni. Peraltro, e' appena il  caso  di  rammentare  che  lo  stesso
d.lgs. n. 267/2000, all'art. 32, ha espressamente affermato  che  «le
unioni di comuni sono enti locali costituiti da due o piu' comuni  di
norma  contermini,  allo  scopo  di  esercitare  congiuntamente   una
pluralita' di funzioni di loro competenza», e che all'art.  33  viene
riservata alle  Regioni  l'individuazione  dei  livelli  ottimali  di
esercizio delle funzioni ai fini di favorirne l'esercizio  associato,
con previsione in capo alle stesse  dell'esercizio  di  un  eventuale
potere   sostitutivo   per   il   caso   di   inerzia   dei    comuni
nell'individuazione di soggetti, forme e metodologie per  l'esercizio
in forma associata delle funzioni. 
    Cosi' correttamente ricostruito il riparto  di  attribuzioni  tra
Stato e Regioni in materia, risulta netto  il  contrasto  del  citato
art. 16 d.l. n. 138/2011 con il dettato  costituzionale,  derivandone
di conseguenza la manifesta  violazione  delle  competenze  normative
regionali. 
    3.2. In via subordinata, nella denegata e non creduta ipotesi  in
cui codesta ecc.ma Corte non ritenesse di  riconoscere  la  manifesta
violazione della  competenza  residuale  della  Regione  Campania  in
merito alla disciplina delle forme  associative  degli  enti  locali,
l'impugnato art. 16 risulta in ogni caso collidere con le  previsioni
recate dall'art. 118, in combinato disposto con l'art. 117 Cost. 
    In particolare, nella misura in cui la norma statale prescrive ai
Comuni interessati  l'esercizio  «in  forma  associata  di  tutte  le
funzioni amministrative e di tutti i servizi pubblici loro  spettanti
sulla base della legislazione vigente», essa viola in maniera  palese
il riparto costituzionale di potesta' legislative tra Stato e Regioni
in materia di disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative
da parte degli enti locali. 
    Sia consentito rammentare come, ai  sensi  dell'art.  118  Cost.,
nella  formulazione  successiva  alla  riforma  del  Titolo  V  della
Costituzione, sono attribuite in via di principio ai Comuni tutte  le
funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscano,
salvo la possibilita' che le stesse siano conferite, sulla  base  dei
principi  di  sussidiarieta',  differenziazione  e  adeguatezza,   ai
livelli di governo superiori,  al  fine  di  garantirne  il  migliore
esercizio. 
    Pare, altresi', opportuno ribadire che, in forza del citato  art.
117, comma 2, lett. p), Cost., la  competenza  legislativa  esclusiva
dello Stato inerisce ora alla  determinazione  delle  sole  «funzioni
fondamentali» di Comuni, Province e Citta' metropolitane. 
    Nell'interpretare  il  rapporto   tra   le   rinnovate   potesta'
legislative regionali risultanti dall'art. 117, come riformato  dalla
L. cost. n. 3/2001, e l'art.  118  Cost.,  codesta  ecc.ma  Corte  ha
chiaramente affermato che «quale che debba ritenersi il rapporto  fra
le "funzioni fondamentali" degli enti locali di cui all'articolo 117,
secondo comma, lettera p), e le "funzioni proprie"  di  cui  a  detto
articolo 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la  legge,
statale  o  regionale,  in  relazione  al  riparto  delle  competenze
legislative, a operare la concreta collocazione  delle  funzioni,  in
conformita' alla generale attribuzione costituzionale ai Comuni o  in
deroga ad essa per esigenze di "esercizio unitario", a livello  sovra
comunale» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). 
    Pertanto, alla luce  dei  principi  desumibili  dalla  richiamata
giurisprudenza, non e' revocabile in dubbio come la competenza  della
Regione  in  materia  di  disciplina  dell'esercizio  delle  funzioni
amministrative sussista ogni qualvolta le funzioni stesse interessino
ambiti  materiali  di  diretta  pertinenza  regionale  (esclusiva   o
concorrente). 
    Di contro, la  censurata  disposizione  statale  ha  inteso  fare
riferimento indistinto a tutte le funzioni amministrative attualmente
esercitate dai Comuni  interessati.  Cosi'  facendo,  il  legislatore
statale ha sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in  ambiti
materiali  regionali,  violando   in   tal   modo   le   attribuzioni
costituzionalmente garantite alla Regione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Chiede che codesta ecc.ma Corte,  in  accoglimento  del  presente
ricorso, voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
14 e dell'art. 16, comma 1, nei sensi e nei  limiti  specificati  nel
testo del ricorso, per violazione degli articoli 117, commi 2,  lett.
p), 3 e 4, 118, commi 1 e 2, 119, 122, 123 e 3 della Costituzione. 
        Roma-Napoli, addi' 15 novembre 2011 
 
            Prof. avv. Caravita di Toritto - Avv. D'Elia