N. 50 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 5 marzo 2012

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 5 marzo 2012 (della Regione Friuli-Venezia Giulia) . 
 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Aiuto
  alla crescita economica (Ace) - Previsione, per le societa' ed enti
  indicati nell'art. 73, comma 1, lett. a) e b), del  d.P.R.  n.  917
  del 1989, che, ai fini della determinazione del reddito complessivo
  netto dichiarato, e' ammesso in deduzione un importo corrispondente
  al rendimento nozionale del  nuovo  capitale  proprio,  secondo  le
  disposizioni dei commi 2 e 8 -  Calcolo  del  rendimento  nozionale
  proprio - Determinazione dell'aliquota percentuale per  il  calcolo
  del rendimento nozionale del nuovo capitale  proprio,  con  decreto
  del Ministro dell'economia, a partire dal quarto periodo  d'imposta
  e determinazione per il primo  triennio  di  applicazione,  in  via
  transitoria, dell'aliquota del 3 per  cento  -  Previsione  che  la
  parte del rendimento nozionale che supera  il  reddito  complessivo
  netto dichiarato e' computata in  aumento  dell'importo  deducibile
  dal reddito dei periodi di imposta successivi - Determinazione  del
  capitale proprio esistente alla chiusura dell'esercizio in corso al
  31 dicembre 2010 e relative variazioni in diminuzione -  Previsione
  che gli incrementi derivanti da conferimenti in denaro  rilevano  a
  partire  dalla  data   del   versamento;   che   quelli   derivanti
  dall'accantonamento di utili, a partire dall'inizio  dell'esercizio
  in cui le relative riserve sono formate; che i decrementi  rilevano
  a partire dall'inizio dell'esercizio in cui si sono verificati; che
  per le aziende e le societa' di  nuova  costituzione  si  considera
  incremento   tutto   il   patrimonio   conferito    -    Previsione
  dell'applicazione delle  predette  disposizioni  anche  al  reddito
  d'impresa di persone fisiche, societa'  in  nome  collettivo  e  in
  accomandita  semplice  in  regime  di  contabilita'   ordinaria   -
  Previsione che le  disposizioni  di  attuazione  sono  emanate  con
  decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, entro 30 giorni
  dall'entrata in vigore della legge di conversione,  e  che  con  lo
  stesso provvedimento possono essere stabilite  disposizioni  aventi
  finalita' antielusive - Agevolazioni fiscali riferite al costo  del
  lavoro,  nonche'  per  donne  e  giovani  -  Previsione,  ai   fini
  dell'Ires, della  deducibilita'  di  un  importo  pari  all'imposta
  regionale sulle attivita' produttive  determinata  ai  sensi  degli
  artt. 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del d.lgs. n. 446 del 1997, relativa  alla
  quota  imponibile  delle  spese  per  il  personale  dipendente  ed
  assimilato  -  Ricorso  della  Regione  Friuli-Venezia   Giulia   -
  Denunciata  violazione  dell'autonomia  finanziaria   regionale   -
  Denunciata   violazione   del   principio   di   uguaglianza    per
  irragionevolezza e per il  deteriore  trattamento  della  comunita'
  regionale rispetto alla comunita' nazionale  -  Denunciata  lesione
  del principio di leale collaborazione. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, artt. 1, commi
  1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8, e 2, commi 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma  terzo,  e  119;  Statuto
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54,
  63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23  gennaio  1965,
  n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,
  9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Disciplina  dell'IMUP  -  Previsione  della  riserva   allo   Stato
  sull'IMUP della quota  di  imposta  pari  alla  meta'  dell'importo
  calcolato sulla base imponibile di tutti gli immobili, ad eccezione
  dell'abitazione principale e delle relative pertinenze, nonche' dei
  fabbricati rurali ad uso strumentale, dell'aliquota di base di  cui
  al comma  6,  primo  periodo  -  Previsione  che  le  detrazioni  e
  riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si  applicano  alla
  quota di imposta riservata allo Stato - Previsione che le attivita'
  di accertamento e riscossione dell'imposta erariale sono svolte dal
  comune  al  quale  spettano  le  maggiori  somme  derivanti   dallo
  svolgimento delle attivita' medesime a titolo di imposta, interessi
  e sanzioni - Previsione che il fondo sperimentale  di  riequilibrio
  ed il fondo perequativo  ed  i  trasferimenti  erariali  dovuti  ai
  comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna variano  in
  ragione delle differenze di gettito stimato  ad  aliquota  di  base
  derivanti dalle disposizioni dell'articolo censurato e che, in caso
  di incapienza, ciascun comune versa all'entrata del bilancio  dello
  Stato le somme residue - Previsione che, con le procedure stabilite
  dall'art. 5 della legge n. 42 del 2009, le  Regioni  Friuli-Venezia
  Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome  di  Trento  e
  Bolzano, assicurano il recupero al bilancio  statale  del  predetto
  maggior gettito dei comuni ricadenti nel proprio territorio e  che,
  fino all'emanazione delle norme di attuazione di  cui  allo  stesso
  art. 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai  tributi,  e'
  accantonato un importo pari al maggior gettito di cui al precedente
  periodo - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia -  Denunciata
  violazione dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata  dallo
  Statuto per la sottrazione  di  risorse  finanziarie  ai  comuni  e
  l'attribuzione alle regioni  di  diverse  competenze  -  Denunciata
  violazione  del  principio  di   eguaglianza   relativamente   alla
  disciplina del fondo  sperimentale  di  riequilibrio  e  del  fondo
  perequativo. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 13. 
- Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma  terzo,  e  119;  Statuto
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54,
  63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23  gennaio  1965,
  n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,
  9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Istituzione del tributo  comunale  sui  rifiuti  e  sui  servizi  -
  Previsione che, a decorrere dall'anno 2013, il  fondo  sperimentale
  di riequilibrio ed il fondo perequativo ed i trasferimenti erariali
  dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della  Regione  Sardegna
  sono ridotti in misura corrispondente al  gettito  derivante  dalla
  maggiorazione standard di cui al comma 13 dell'articolo censurato -
  Previsione  che  in  caso  di  incapienza  ciascun   comune   versa
  all'entrata del bilancio dello Stato le  somme  residue  -  Ricorso
  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -   Denunciata   violazione
  dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo Statuto. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 14, comma
  13-bis. 
- Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma  terzo,  e  119;  Statuto
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54,
  63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23  gennaio  1965,
  n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,
  9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Disposizioni per la tassazione di auto di  lusso,  imbarcazioni  ed
  aerei - Istituzione di una tassa annuale di stazionamento - Ricorso
  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -   Denunciata   violazione
  dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo  Statuto  -
  Denunciata  violazione  della  sfera  di  competenza  regionale  in
  materia di ordinamento degli  enti  locali  e  di  finanza  locale,
  mediante istituzione di una tassa sul turismo. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 16, commi
  2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10. 
- Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma  terzo,  e  119;  Statuto
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54,
  63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23  gennaio  1965,
  n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,
  9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e contabilita' pubblica - Enti locali - Disposizioni urgenti
  per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti  pubblici
  - Previsione che i comuni con popolazione  non  superiore  a  5.000
  abitanti, ricadenti nel territorio di ciascuna provincia,  affidano
  obbligatoriamente   ad    un'unica    centrale    di    committenza
  l'acquisizione di lavori, servizi  e  forniture  nell'ambito  delle
  unioni dei comuni, di cui all'art. 32 del T.U. n. 267 del 2000, ove
  esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra  i
  comuni medesimi  -  Riduzione  dei  costi  di  funzionamento  delle
  Province - Modificazione, a tal fine, dell'assetto delle funzioni e
  degli organi di governo dell'ente  Provincia  -  Attribuzione  alle
  Province di  sole  funzioni  di  indirizzo  e  coordinamento  delle
  attivita' dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con  legge
  statale o regionale - Individuazione del Presidente e del Consiglio
  Provinciale come unici organi della Provincia - Trasformazione  del
  Consiglio provinciale in organo composto  da  dieci  membri  eletti
  dagli organi elettivi dei comuni - Elezione del Presidente da parte
  dello stesso Consiglio provinciale secondo modalita' stabilite  con
  successiva legge statale - Obbligo per lo Stato e per le Regioni di
  trasferire ai Comuni entro il 31 dicembre 2012 le  funzioni  (gia')
  provinciali, salva  l'acquisizione  delle  stesse  da  parte  delle
  Regioni sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione
  e adeguatezza - Attribuzione allo Stato di  poteri  sostitutivi  in
  caso di inadempimento regionale  -  Obbligo  dello  Stato  e  delle
  Regioni di trasferire le risorse umane, finanziarie  e  strumentali
  per l'esercizio delle funzioni trasferite - Riserva al  legislatore
  statale del potere di  fissare  la  decorrenza  del  nuovo  assetto
  istituzionale dell'ente locale - Assegnazione di un termine di  sei
  mesi alle Regioni a statuto speciale per l'adeguamento  alla  nuova
  disciplina - Possibilita' per i Comuni di istituire unioni o organi
  di  raccordo  per  l'esercizio  di  specifici  compiti  o  funzioni
  amministrative, garantendo l'invarianza della spesa - Ricorso della
  Regione Friuli-Venezia Giulia -  Denunciata,  in  via  preliminare,
  illegittimita' costituzionale di tutte  le  disposizioni  impugnate
  per  l'assenza  dei  presupposti  della  necessita'  ed  urgenza  -
  Denunciato declassamento della Provincia da ente costituzionalmente
  autonomo  esponenziale  della  collettivita'  locale,  ad  ente  di
  secondo livello con mere funzioni di  coordinamento  dei  Comuni  -
  Denunciata  violazione  della  competenza  esclusiva  regionale  in
  materia di ordinamento degli enti locali, a tutela delle  autonomie
  locali e del decentramento amministrativo. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 23, commi
  4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis e 22. 
- Costituzione, artt. 5, 77, 114, 117, commi primo, secondo e  sesto,
  118,  commi  primo  e  secondo,  e  119;  Statuto   della   Regione
  Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, lett. 1-bis, 11, 54, e 59;  decreto
  del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n.  114,  art.  4;
  decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,  9,  14  e  18;
  decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Concorso  alla  manovra  degli  Enti  territoriali   ed   ulteriori
  riduzioni di spesa - Previsione che l'aliquota di cui al  comma  1,
  si applica anche alle Regioni a Statuto speciale  e  alle  Province
  autonome di Trento e Bolzano - Previsione  che,  con  le  procedure
  previste dall'art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le  Regioni
  a statuto speciale e le  Province  autonome  di  Trento  e  Bolzano
  assicurano, a decorrere dall'anno 2012, un  concorso  alla  finanza
  pubblica di 860 milioni di euro annui - Previsione,  altresi',  che
  con le medesime procedure le Regioni Valle d'Aosta e Friuli-Venezia
  Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano, assicurano  alla
  finanza pubblica un concorso di 60 milioni di euro annui, da  parte
  di comuni ricadenti nel proprio territorio - Previsione  che,  fino
  all'emanazione delle norme di attuazione di cui  al  predetto  art.
  27, l'importo complessivo di 920 milioni di  euro  e'  accantonato,
  proporzionalmente alla media degli impegni  finali  registrata  per
  ciascuna autonomia nel triennio 2007-2009 a valere sulle  quote  di
  compartecipazione  ai  tributi  erariali  e  che  per  la   Regione
  Siciliana si tiene conto della rideterminazione del fondo sanitario
  nazionale  per  effetto  del  comma  2  -  Ricorso  della   Regione
  Friuli-Venezia Giulia - Denunciata ulteriore rilevante  sottrazione
  di risorse ed attribuzione di oneri alle Regioni speciali  ed  alle
  Province  autonome,  in  contrasto  con   il   regime   finanziario
  disciplinato dallo Statuto - Denunciata violazione della competenza
  regionale in materia sanitaria e di trasporti - Denunciata  lesione
  del principio di ragionevolezza. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 28, comma
  3. 
- Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma  terzo,  e  119;  Statuto
  della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54,
  63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23  gennaio  1965,
  n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt.  2,
  9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Esercizi commerciali - Eliminazione per  le  attivita'  commerciali
  dei limiti agli orari di  apertura  e  di  chiusura  ed  abolizione
  dell'obbligo della chiusura domenicale  e  festiva,  nonche'  della
  mezza giornata di  chiusura  infrasettimanale  -  Previsione  quale
  principio generale dell'ordinamento della liberta' di  apertura  di
  nuovi esercizi commerciali senza limiti  o  prescrizioni  di  alcun
  genere, tranne  quelli  connessi  alla  tutela  della  salute,  dei
  lavoratori e dell'ambiente, con l'onere per le Regioni e  gli  enti
  locali di adeguare i loro ordinamenti entro il termine di 90 giorni
  dall'entrata in vigore della legge di conversione -  Ricorso  della
  Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione del principio
  di uguaglianza, sotto il profilo dell'irragionevolezza - Denunciata
  violazione della sfera di competenza regionale esclusiva in materia
  di esercizi commerciali e loro ubicazione. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 31. 
- Costituzione, artt. 3, 117, commi secondo, terzo e quarto,  e  118,
  primo comma; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt.  4,
  5, 8, 48, 49, 51,  54,  63  e  65;  decreto  del  Presidente  della
  Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto  legislativo  2
  gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e  18;  decreto  legislativo  23
  dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  crescita, l'equita' ed  il  consolidamento  dei  conti  pubblici  -
  Previsione  che  le  maggiori  entrate  erariali,   derivanti   dal
  decreto-legge impugnato, siano riservate all'Erario, per un periodo
  di cinque anni, per essere destinate alle esigenze  prioritarie  di
  raggiungimento degli obiettivi di finanza  pubblica  concordati  in
  sede europea - Previsione che con apposito  decreto  del  Ministero
  dell'economia e  delle  finanze  sono  stabilite  le  modalita'  di
  individuazione   del   maggior   gettito,    attraverso    separata
  contabilizzazione - Previsione, altresi', che,  ferme  restando  le
  disposizioni degli  artt.  13,  14  e  28,  nonche'  quelle  recate
  dall'articolo impugnato, con le norme statutarie, sono definiti  le
  modalita'  di  applicazione  e  gli  effetti  finanziari  del  D.L.
  impugnato per le Regioni a statuto speciale e per  le  Province  di
  Trento e Bolzano - Ricorso della Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -
  Denunciata    lesione    dell'autonomia    finanziaria    regionale
  disciplinata dallo Statuto. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 48. 
- Costituzione,  artt.  3,  117  e   119;   Statuto   della   Regione
  Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49,  51,  54,  63  e  65;
  decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio  1965,  n.  114,
  art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14  e
  18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. 
(GU n.16 del 18-4-2012 )
    Ricorso  della  Regione  Friuli-Venezia   Giulia,   (cod.   fisc.
80014930327; P. IVA 00526040324)  in  persona  del  Presidente  della
Giunta regionale  pro-tempore  dott.  Renzo  Tondo,  autorizzato  con
deliberazione della Giunta regionale n.  236  del  17  febbraio  2012
(doc. 1), rappresentata e difesa - come  da  procura  a  margine  del
presente atto - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova,  (cod.
fisc. FLCGDM45C06L736E) con domicilio eletto in Roma presso l'Ufficio
di rappresentanza della Regione, in Piazza Colonna,  355,  contro  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  per  la  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, commi da  i  a  8;  2,
commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto
periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo; 16, commi da  2  a
10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3; 31,  comma  1;  48
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni  urgenti  per
la crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici,
convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n.  214.
pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, per violazione: 
        degli  articoli  3,  53,  97,  117,  co.  3,  e   119   della
Costituzione; 
        degli artt. 4, 5, 8. 48, 49, 51, 54, 63 e  65  dello  Statuto
speciale . adottato con 1. cost. n. 1 del 1963; 
        degli artt. 2, 9, 14 e 18 d. lgs 9/1997, dell'art. 4 d.  lgs.
114/1965 e dell'art. 1 d. 1gs. 265/2011; 
        del principio di leale collaborazione, 
    per i profili e nei modi di seguito illustrati. 
 
                                FATTO 
 
    Il d.l. 201/2011, come risultante dalla legge di  conversione  n.
214/2011, contiene disposizioni di vario tipo, distribuite in quattro
titoli: Sviluppo ed equita', Rafforzamento  del  sistema  finanziario
nazionale  e  internazionale,  Consolidamento  dei  conti   pubblici,
Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza. 
    Tutte sono rivolte - come rivela lo stesso soprannome di  decreto
"salva Italia" che il Governo ha attribuito ad esso - a  produrre  un
risultato utile all'economia del Paese: e la  Regione  Friuli-Venezia
Giulia, come parte del Paese, non puo' che augurarsi  che  le  misure
producano i risultati sperati. 
    Allo  sforzo  collettivo  necessario  al  conseguimento  di  tali
risultati essa non intende certo sottrarsi. 
    Al tempo stesso, tuttavia, essa non puo'  rinunciare  a  chiedere
che ogni contributo ad essa richiesto sia  richiesto  legittimamente,
nel quadro e nel rispetto delle  regole  che  disciplinano  sotto  il
profilo finanziario - come sotto ogni altro profilo - i rapporti  con
lo Stato. 
    Ed essa ritiene che nei punti che formano oggetto della  presente
impugnazione le regole costituzionali e statutarie di  tali  rapporti
non siano rispettate. 
    Vengono qui in considerazione alcune disposizioni  dei  Titoli  I
("Sviluppo ed equita'"), III ("Consolidamento dei conti pubblici")  e
IV ("Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza"). 
    Quanto al Titolo I, si tratta dell'art. 1,  Aiuto  alla  crescita
economica, e dell'art. 2, Agevolazioni fiscali riferite al costo  del
lavoro nonche' per donne e giovani. 
    Quanto  al  Titolo  III,  si   tratta   dell'art.   13,   recante
Anticipazione sperimentale dell'imposta municipale propria, dell'art.
14, recante Istituzione  del  tributo  comunale  sui  rifiuti  e  sui
servizi, e dell'art. 16, Disposizioni per la tassazione  di  auto  di
lusso, imbarcazioni ed aerei (tutti facenti parte  del  Capo  secondo
Disposizioni in materia di maggiori entrate). 
    Si tratta poi dell'art. 23, Riduzione dei costi di  funzionamento
delle Autorita' di Governo, del CNEL, delle Autorita' indipendenti  e
delle Province, facente parte del Capo  terzo  (Riduzioni  di  spesa.
Costi degli apparati), nonche' dell'art. 28,  recante  Concorso  alla
manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di  spese,  che
forma ed esaurisce il capo  VI  (Concorso  alla  manovra  degli  Enti
territoriali). 
    Quanto al Titolo IV si tratta dell'art. 31, Esercizi  commerciali
(facente  parte  del  capo  I,  Liberalizzazioni),  e  dell'art.  48,
Clausola di finalizzazione, che ricade nel Capo  IV,  Misure  per  lo
sviluppo infrastrutturale. 
    Ad avviso della Regione Friuli-Venezia  Giulia,  le  disposizioni
succitate risultano lesive delle proprie prerogative costituzionali e
statutarie per le seguenti ragioni di 
 
                               DIRITTO 
 
    1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi da 1 a  8,  e
dell'art. 2, commi 1 e 2. 
    L'art. 1, comma l, del d.l. 201/2011 prevede deduzioni che  vanno
ad abbassare il reddito imponibile ai fini dell'imposta  sul  reddito
delle societa' (Ires), degli altri enti di cui allo stesso comma 1, e
sul  "reddito  d'impresa  di  persone  fisiche,  societa'   in   nome
collettivo e  in  accomandita  semplice  in  regime  di  contabilita'
ordinaria" (v. il comma 7), e cio' "in considerazione della  esigenza
di rilanciare Io sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla
crescita  mediante  una  riduzione  della  imposizione  sui   redditi
derivanti dal finanziamento con  capitale  di  rischio,  nonche'  per
ridurre lo squilibrio del trattamento  fiscale  tra  imprese  che  si
finanziano con debito ed  imprese  che  si  finanziano  con  capitale
proprio,  e  rafforzare,  quindi,  la  struttura  patrimoniale  delle
imprese e del sistema produttivo italiano". 
    Dal canto suo, l'art. 2  prevede  che  sia  deducibile,  ai  fini
dell'Ires, "un importo pari  all'imposta  regionale  sulle  attivita'
produttive determinata ai sensi degli articoli 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del
decreto legislativo 15 dicembre 1997, n.  446,  relativa  alla  quota
imponibile delle spese per  il  personale  dipendente  e  assimilato"
(comma 1). 
    Il comma 2 prevede  deduzioni  nella  determinazione  della  base
imponibile a fini Irap, collegate all'assunzione di donne e giovani. 
    Dunque, le norme succitate producono l'effetto  di  diminuire  il
gettito dell'Ires, dell'Irpef  e  dell'Irap,  cioe'  di  imposte  che
spettano o pro quota o interamente alla Regione. 
    Quest'ultimo e', notoriamente, il caso dell'Irap (v. il  d.  lgs.
446/1997 e la 1. FVG 4/2000). Quanto alle compartecipazioni spettanti
a questa Regione, e' da ricordare che lo Statuto, dopo aver stabilito
che "la Regione ha una propria finanza, coordinata con  quella  dello
Stato, in armonia con i principi della  solidarieta'  nazionale,  nei
modi stabiliti dagli  articoli  seguenti"  (art.  48),  aggiunge  che
"spettano alla Regione le seguenti quote  fisse  delle  sottoindicate
entrate tributarie erariali riscosse  nel  territorio  della  Regione
stessa: 1) sei decimi del  gettito  dell'imposta  sul  reddito  delle
persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del  gettito  dell'imposta
sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle
ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del  d.P.R.  29
settembre 1973, n. 600,  ed  all'art.  25-bis  aggiunto  allo  stesso
decreto" (art. 49). 
    Le norme censurate, dunque, incidono sull'Irap e  sui  meccanismi
di compartecipazione previsti dallo  Statuto,  che  rappresentano  la
fondamentale forma di finanziamento della Regione, la  quale  subisce
cosi' una rilevante riduzione di  entrate,  senza  che  sia  previsto
alcun meccanismo compensativo. 
    Si noti che, al contrario, le deduzioni relative a lrpef  e  Ires
non pregiudicano la finanza delle Regioni ordinarie, che  non  godono
della compartecipazione a quelle imposte, e la finanza delle  Regioni
ordinarie non e' pregiudicata neppure dalla deduzione  Irap:  invero,
considerata la modalita' di finanziamento della  spesa  sanitaria  in
tali Regioni (v. D. Lgs. 56/2000), la diminuzione  del  gettito  Irap
viene compensata da un corrispondente aumento della compartecipazione
Iva, con garanzia di integrale finanziamento  della  spesa  sanitaria
regionale. 
    Cio' che la Regione contesta non e' la previsione di deduzioni in
se',  ma  tale  previsione  in  quanto  non   accompagnata   da   una
compensazione a favore delle Regioni speciali,  cioe'  in  quanto  il
d.l. 201/2011 non provvede a riequilibrare le entrate regionali. 
    E' ben noto che il d.l.  201/2011  contiene,  accanto  ad  alcune
norme volte a favorire lo sviluppo (come  quelle  sopra  illustrate),
altre norme volte ad aumentare le entrate tributarie.  Pero',  l'art.
48 - come piu' ampiamente si dira' - dispone che "le maggiori entrate
erariali derivanti dal presente decreto sono,  riservate  all'Erario,
per un periodo di cinque anni, per  essere  destinate  alle  esigenze
prioritarie di raggiungimento degli  obiettivi  di  finanza  pubblica
concordati in sede europea,  anche  alla  luce  della  eccezionalita'
della situazione economica  internazionale".  Dunque,  qualora  dalle
norme  tributarie  del  d.l.  201/2011  dovessero  derivare   effetti
economici   favorevoli   per   questa   Regione    (a    titolo    di
compartecipazione ai tributi erariali),  essi  sarebbero  "annullati"
(almeno) per cinque anni. 
    Cio' significa che, mentre l'effetto  di  riduzione  del  gettito
fiscale determinato dagli artt. 1 e 2 va  anche  a  detrimento  della
Regione Friuli-Venezia Giulia, le maggiori entrate  risultanti  dalle
altre norme vanno a esclusivo beneficio statale, con neutralizzazione
dell'art. 49 St. 
    Per  la  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  (e  le  altre   Regioni
speciali), dunque, la manovra e' a senso unico, e si traduce  in  una
pura  e  semplice  riduzione  di  entrata,  non  compensata   affatto
dall'aumento di imposte al  cui  gettito  pure  la  Regione  dovrebbe
partecipare. 
    Ne risulta violato, in primo luogo, il principio  di  uguaglianza
(e di ragionevolezza) di cui all'art. 3, comma primo, Cost., sia  con
riferimento all'uguaglianza tra enti che in relazione all'uguaglianza
tra comunita' territoriali (ed in definitiva tra le  persone  che  le
istituzioni di tale comunita' rappresentano):  essendo  evidente  che
l'istituzione   rappresentativa   della   comunita'   regionale   del
Friuli-Venezia Giulia  "partecipa"  al  peso  della  riduzione  delle
imposte dirette in misura piu' rilevante del  resto  della  comunita'
nazionale (come si e' visto).  Inoltre,  benche'  i  cittadini  della
Regione - come tutti gli altri  -  paghino  l'aumento  delle  imposte
previsto dalle altre norme del di. 201/2011, tale aumento di  entrata
non si traduce affatto in un corrispondente aumento  della  capacita'
di spesa della Regione. 
    La Regione e' legittimata a far valere la violazione dell'art. 3,
perche' si tratta della parita' di' trattamento fra Regioni e perche'
essa si riflette in lesione dell'autonomia finanziaria regionale. 
    La mancata attribuzione alla Regione di risorse compensative,  ed
anzi la espressa riserva allo Stato di quelle  maggiori  entrate  che
naturalmente avrebbero compensato il minor gettito, con  la  semplice
applicazione delle regole  statutarie,  violano  altresi'  l'art.  63
dello Statuto e l'insieme delle disposizioni del titolo IV. L'art. 63
prevede, in primo luogo, che sulle proposte di  legge  costituzionale
di modifica dello Statuto il Consiglio regionale esprima  il  proprio
parere (co. 3). Esso contiene poi una disposizione specifica  per  le
disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV: queste "possono  essere
modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun  membro  delle
Camere, del Governo e della Regione" ma, "in ogni  caso,  sentita  la
Regione". 
    Ora, la ricorrente Regione e' ben consapevole che non si  e'  qui
di fronte ad una formale modificazione delle disposizioni statutarie,
ma non puo' essere dubbio che l'effetto degli artt. 1 e 2 equivale in
tutto e per tutto ad una riduzione  della  quota  di  partecipazione.
Infatti la riduzione del gettito non e' qui la  semplice  conseguenza
del ciclo economico, in relazione al quale  il  gettito  puo'  essere
maggiore o minore, in condizione di uguaglianza tra tutti coloro  che
ne sono destinatari: al contrario, la riduzione e' qui la conseguenza
di una consapevole decisione di governo. La previsione  di  ulteriori
deduzioni a danno delle  sole  Regioni  speciali,  con  contemporanea
espressa esclusione del riequilibrio a favore della Regione, e con la
riserva delle entrate al solo Stato, equivale ad una alterazione  del
rapporto tra  finanza  statale  e  finanza  regionale  quale  fissato
dall'art. 49 dello Statuto. La mancata attivazione di  una  procedura
di consultazione comporta  ad  avviso  della  ricorrente  Regione  la
violazione dell'art. 63  dello  Statuto  e  del  principio  di  leale
collaborazione. 
    Inoltre, le norme in questione  violano  anche  il  principio  di
corrispondenza  tra  entrate  e  funzioni,  implicito   nel   sistema
statutario (v. l'art. 50, in base al quale "per  provvedere  a  scopi
determinati,  che  non  rientrano  nelle   funzioni   normali   della
Regione,..lo  Stato  assegna  alla  stessa,  con  legge,   contributi
speciali")  ed  espresso   nell'art.   119,   comma   quarto,   della
Costituzione. E'evidente infatti che la dimensione quantitativa delle
entrate  regionali  era  stata  predisposta   in   correlazione   con
l'ampiezza delle funzioni proprie della  stessa  Regione,  e  che  un
"taglio" delle risorse a sua disposizione comporta lo squilibrio  tra
queste e le funzioni. Nel  presente  periodo  di  crisi  finanziaria,
senz'altro tutte le  componenti  della  Repubblica  sono  chiamate  a
collaborare, ma - per la Regione Friuli-Venezia Giulia, cio' e'  gia'
avvenuto con  le  diverse  manovre  finanziarie  (v.  l'art.  14  di.
78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011  e  l'art.  1,  co.  8,  d.l.
138/2011) e con le norme di cui all'art. 1, co. 151 ss., 1. 220/2010. 
    Questa Regione e'  consapevole  che  all'accoglimento  della  sua
domanda sotto il profilo ora indicato potrebbe ostare  il  precedente
rappresentato dalla sent. 155/2006, relativa alla 1. 311/2004,  nella
quale si legge che,  "a  seguito  di  manovre  di  finanza  pubblica,
possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilita' finanziaria
delle  Regioni,  purche'  esse  non  siano  tali  da  comportare  uno
squilibrio  incompatibile  con  le  complessive  esigenze  di   spesa
regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi  finanziari
dei quali la Regione stessa  dispone  per  l'adempimento  dei  propri
compiti". Questa Regione, pero', non si puo' esimere dal  far  notare
che, da un lato, la prova richiesta da codesta Corte e' una  probatio
diabolica, dall'altro l'onere della prova dovrebbe incombere  su  chi
opera il taglio, non su chi lo subisce. 
    Si puo' presupporre, cioe', che lo Stato abbia riconosciuto  alla
Regione le risorse finanziarie adeguate  alle  sue  funzioni  e  che,
percio', un "taglio" di risorse possa avvenire solo  in  presenza  di
determinati presupposti. Lo Stato non puo' diminuire  unilateralmente
le risorse senza alcuna valutazione di adeguatezza finanziaria, cioe'
di una diminuita necessita' finanziaria della Regione. Il  necessario
collegamento con la dimensione effettiva della finanza delle  Regioni
speciali e con le "funzioni da esse effettivamente esercitate" emerge
anche dall'art. 27, co. 2,1. 42/2009. 
    2) Illegittimita' costituzionale  dell'art.  13,  commi  11,  14,
lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo 
    A) Premessa. Il passaggio alla nuova  imposta  e  la  sottrazione
delle risorse al sistema locale. 
    L'art.  13  regola  l'Anticipazione   sperimentale   dell'imposta
municipale propria, stabilendo (comma 1) che  l'istituzione  di  tale
imposta "e' anticipata, in via sperimentale,  a  decorrere  dall'anno
2012, ed e' applicata in tutti i comuni del territorio nazionale fino
al 2014 in base agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14  marzo
2011,  n.  23,  in  quanto  compatibili,  ed  alle  disposizioni  che
seguono",  e   che   conseguentemente,   "l'applicazione   a   regime
dell'imposta municipale propria e' fissata al 2015". 
    Il riferimento a "tutti i comuni del territorio nazionale" induce
a ritenere che l'art.  13  intenda  applicarsi  anche  nella  regione
Friuli-Venezia Giulia. 
    L'art. 8, co. 1, d. lgs. 23/2011, richiamato dall'art. 13,  comma
1, ora citato, stabilisce che l'imposta municipale propria  istituita
dallo stesso articolo "sostituisce, per  la  componente  immobiliare,
l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali
dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non  locati,
e l'imposta comunale sugli immobili". 
    Dunque, l'Imup sostituisce - oltre  all'ICI,  gia'  destinata  ai
Comuni - imposte  destinate  alla  Regione:  o  per  seidecimi,  come
l'Irpef relativa ai redditi fondiari degli immobili non locati  (art.
49 Statuto) o interamente, come le addizionali regionale  e  comunale
relative ai redditi fondiari degli immobili non locati  e  l'Ici:  va
infatti ricordato che, in base all'art. 51, co. 2, St.,  "il  gettito
relativo a tributi propri e  a  compartecipazioni  e  addizionali  su
tributi erariali che le leggi dello  Stato  attribuiscano  agli  enti
locali spetta alla Regione  con  riferimento  agli  enti  locali  del
proprio territorio, ferma restando la neutralita' finanziaria per  il
bilancio dello Stato". Del resto, la Regione e' competente in materia
di finanza locale, ai sensi degli artt. 51 e  54  St.  e  9  d.  Igs.
9/1997. 
    Peraltro, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe titolo per
contestare la  trasformazione  di  determinati  tributi  erariali  in
tributi  locali:   lo   Statuto   assicura   determinate   quote   di
compartecipazione su  diversi  tributi  erariali,  ma  non  prescrive
l'esistenza in particolare di determinati tributi erariali: e  se  lo
Stato vi rinuncia, in favore della finanza  comunale,  tale  rinuncia
vale anche per la quota spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia. 
    Sennonche', tale conclusione opera sino a che  le  risorse  siano
realmente attribuite ai comuni, come avviene  nel  disegno  normativo
originario dell'IMUP ai sensi degli artt. 8 e 9 d. lgs. 23/2011.  Ove
invece il reddito dell'imposta "municipale" sia assegnato allo Stato,
ne risulta un complessivo impoverimento del sistema locale: dietro la
"municipalizzazione",  infatti,  vi  e'  sempre  l'imposta  erariale,
soltanto  che  il  suo   gettito   viene   sottratto   alla   Regione
Friuli-Venezia Giulia,  con  evidente  sostanziale  violazione  degli
artt. 49 e 51 dello Statuto. 
    E proprio questo accade con le nuove disposizioni  dell'art.  13,
comma 11. Esse, infatti, prevedono la riserva allo Stato di una quota
dell'Imup. 
    Ecco il testo della disposizione: 
        "E'riservata allo Stato la quota di imposta pari  alla  meta'
dell'importo calcolato applicando alla base imponibile di  tutti  gli
immobili, ad eccezione dell'abitazione principale  e  delle  relative
pertinenze di cui al comma 7, nonche' dei fabbricati  rurali  ad  uso
strumentale di cui al comma 8, l'aliquota di base di cui al comma  6,
primo periodo. La quota di imposta risultante e' versata  allo  Stato
contestualmente  all'imposta  municipale   propria.   Le   detrazioni
previste dal presente articolo, nonche' le detrazioni e le  riduzioni
di aliquota deliberate dai comuni non  si  applicano  alla  quota  di
imposta riservata allo  Stato  di  cui  al  periodo  precedente.  Per
l'accertamento,  la  riscossione,  i  rimborsi,  le   sanzioni,   gli
interessi ed il contenzioso si applicano le disposizioni  vigenti  in
materia di imposta municipale propria. Le attivita' di accertamento e
riscossione dell'imposta erariale sono svolte  dal  comune  al  quale
spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette
attivita'  a  titolo  di  imposta,  interessi  e  sanzioni"   (enfasi
aggiunta). 
    In realta', pero', dal comma 17 dell'art. 13 risulta che lo Stato
non solo si trattiene la meta' "riservata" dell'importo,  ma  intende
appropriarsi  di  tutto  il  maggior  gettito,  cioe'  ogni   importo
eccedente  le  entrate  che  affluivano  ai  comuni   della   regione
Friuli-Venezia Giulia in base alle norme previgenti: ed intende farlo
acquisendo tali fondi dalla Regione. 
    Infatti, il comma 17, terzo periodo, dispone - in relazione  alle
autonomie speciali competenti in materia di finanza locale - che "con
le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009,  n.
42, le regioni Friuli-Venezia Giulia  e  Valle  d'Aosta,  nonche'  le
Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il  recupero  al
bilancio statale del predetto  maggior  gettito  stimato  dei  comuni
ricadenti nel proprio territorio". Ed il quarto periodo precisa  che,
"fino all'emanazione delle norme di attuazione  di  cui  allo  stesso
articolo 27, a valere sulle quote  di  compartecipazione  ai  tributi
erariali, e' accantonato un importo pari al maggior  gettito  stimato
di cui al precedente periodo". Il quinto periodo, infine, prevede che
"l'importo  complessivo  della  riduzione  del  recupero  di  cui  al
presente comma e' pari per l'anno 2012 a 1.627 milioni di  curo,  per
l'anno 2013 a 1.762,4 milioni di euro  e  per  l'anno  2014  a  2.162
milioni di euro". 
    Ora, benche' il riferimento alla "riduzione del recupero"  appaia
privo  di  senso,  sembra  da  ritenere   che   i   numeri   indicati
rappresentino  la  quantificazione  del  "recupero"  a  carico  della
autonomie speciali. 
    Dunque,  lo  Stato  ha  provveduto  a  ristrutturare  le  imposte
"immobiliari" e a rideterminare le basi imponibili, ma - nel  periodo
2012-2014 - i maggiori incassi derivanti da  questa  operazione  sono
interamente destinati  allo  Stato,  il  quale  in  parte  li  riceve
direttamente dai contribuenti in base alla riserva di  cui  al  comma
11, in parte li riceve dalla Regione con i meccanismi di "recupero" o
"accantonamento" di cui al comma 17. 
    Si noti che il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere
inteso nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato
con l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con  l'importo  dei
tributi sostituiti percepiti dai Comuni (cioe', l'Ici 2011). Se cosi'
fosse, il taglio delle risorse assumerebbe  un  carattere  del  tutto
particolare rispetto alla  Regione  Friuli-Venezia  Giulia.  Infatti,
delle tre componenti sostituite dall'/mup (cioe'  1'Irpef  fondiaria,
le  addizionali  regionale   e   comunali   e   l'ICI),   l'ICI   era
precedentemente riscossa direttamente dai comuni (anche se  destinata
alla Regione, dopo le modifiche apportate all'art. 51  St.  dalla  1.
220/2010), mentre sia le risorse derivanti dall'Irpef  fondiaria  che
quelle  derivanti  dalle  addizionali  spettavano  alla  Regione.  Ne
risulta che - concentrata  la  fiscalita'  nell'Imup  -  il  "maggior
gettito stimato  dei  comuni"  della  Regione  sara'  particolarmente
elevato,  comprendendo  anche  il  gettito  dei  tributi  che   prima
costituivano entrate della Regione. 
    In entrambi i casi, tributi spettanti  al  sistema  regionale  in
base allo Statuto e alle norme di  attuazione  sono  illegittimamente
avocati allo Stato, come di seguito si illustra. 
    B) Illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui
riserva allo Stato meta' dell'Importo Imup. 
    Poste le premesse appena illustrate, viene in  considerazione  in
primo luogo l'illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte
in cui considera tributo erariale la quota del  50%  dell'Imup  e  la
riserva allo Stato. 
    L'art. 49 dello  Statuto  speciale  dispone  che  "spettano  alla
Regione  le  seguenti  quote  fisse   delle   sottoindicate   entrate
tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa:  1)
sei  decimi  del  gettito  dell'imposta  sul  reddito  delle  persone
fisiche". L'art. 51, co. 2,  come  gia'  visto,  stabilisce  che  "il
gettito relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali
su tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli  enti
locali spetta alla Regione  con  riferimento  agli  enti  locali  del
proprio territorio". 
    Dunque, alla Regione spettano i 6/10 dell'Irpef e le  addizionali
Irpef (regionale e comunali). L'art. 13  sostituisce  l'Imup  a  tali
imposte (per la quota fondiaria) ma l'operazione si  rivela  elusiva,
fittizia, perche' il comma 11 riporta  le  somme  in  questione  allo
Stato. Non basta,  pero',  un  semplice  cambio  di  "etichetta"  del
tributo per eludere il sistema statutario.  Il  comma  11  viola  gli
artt. 49, n. 1, e  51,  co.  2,  perche'  avoca  allo  Stato  risorse
riscosse a titolo di tributo erariale (come ammette lo  stesso  comma
11, ultimo periodo) e che  sostanzialmente  corrispondono  a  tributi
spettanti alla Regione (pro quota o interamente). 
    Qualora, invece, si volesse  valorizzare  lo  status  di  tributo
locale dell'Imup, allora l'art. 13, co. 11, violerebbe l'art. 51, co.
2, la' dove dispone che "il gettito relativo a tributi propri...  che
le leggi dello Stato  attribuiscano  agli  enti  locali  spetta  alla
Regione con riferimento agli enti  locali  del  proprio  territorio".
L'Imup e' un tributo attribuito agli  enti  locali  ma  il  comma  11
riserva meta' del gettito allo Stato, in contrasto con l'art. 51, co.
2, St. 
    La fondatezza della censura sopra  esposta  non  potrebbe  essere
contestata facendo valere la clausola di possibile riserva all'erario
statale prevista dalle norme di attuazione (art.  4  dPR  114/1965  e
art. 6, co. 2, d. 1gs. 8/1997): su questo  punto,  pero',  si  rinvia
alla censura relativa alla norma generale di  cui  all'art.  48  ("Le
maggiori  entrate  erariali  derivanti  dal  presente  decreto   sono
riservate all'Erario, per un  periodo  di  cinque  anni,  per  essere
destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi
di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della
eccezionalita' della situazione economica internazionale"), che  pare
applicabile anche alle risorse attribuite allo  Stato  dall'art.  13,
co. 11. 
    C) In particolare, ancora illegittimita' costituzionale del comma
11, nella parte in cui riserva ai comuni le attivita' di accertamento
e riscossione e assegna ai Comuni le maggiori entrate connesse a tali
attivita'. 
    Oltre che per la riserva allo Stato, l'art. 13, co.  11,  risulta
lesivo anche per quel che dispone l'ultimo periodo di  esso,  secondo
cui "le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale
sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme  derivanti
dallo svolgimento delle  suddette  attivita'  a  titolo  di  imposta,
interessi e sanzioni". 
    L'art.   53   St.   stabilisce   che   "la   regione    collabora
all'accertamento delle imposte erariali sui redditi dei soggetti  con
domicilio fiscale nel suo territorio" (co.  1)  e  che  "le  predette
intese [fra Regione e Ministro] definiscono i necessari  indirizzi  e
obiettivi  strategici  relativi  all'attivita'  di  accertamento  dei
tributi nel territorio della Regione, la quale e' svolta attraverso i
conseguenti accordi operativi con le Agenzie fiscali" (co. 4) Dunque,
l'ultimo periodo del comma 11 viola l'art. 53, co. 4, St.,  regolando
direttamente un'attivita' di accertamento di  tributi  (la  quota  di
IMUP avente natura erariale) nel territorio regionale. 
    Inoltre, la norma in questione viola gli ara. 49 e 51, co. 2, St.
la' dove attribuisce ai comuni "le  maggiori  somme  derivanti  dallo
svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e
sanzioni". Infatti, si tratta di somme che spettano alla Regione  sia
che si valorizzi la corrispondenza con l'Irpef  fondiaria  e  con  le
addizionali (v. l'art. 49 e  l'art.  51,  co.  2,  St.)  sia  che  si
valorizzi lo status di tributo locale (v. art. 51, co. 2): su cio' v.
sopra, punto B). 
    Non  si  tratta,  cioe',  di  maggiori   entrate   che   derivano
dall'aumento delle aliquote o dall'introduzione di nuovi tributi,  ma
semplicemente  di  entrate  che  derivano   da   un   piu'   rigoroso
accertamento degli obblighi tributari preesistenti,  il  cui  gettito
deve seguire la destinazione impressa dallo Statuto e non puo' essere
discrezionalmente attribuito dallo Stato. 
    La fondatezza di tale censura e' confermata anche dalla  sentenza
di codesta  Coste  costituzionale  n.  152/2011,  che  ha  dichiarato
costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 6, del d.l. n. 40  del
2010, "nella parte in cui stabilisce che  le  entrate  derivanti  dal
recupero  dei  crediti  d'imposta  «sono  riversate  all'entrata  del
bilancio dello Stato  e  restano  acquisite  all'erario»,  anche  con
riferimento a crediti d'imposta  inerenti  a  tributi  che  avrebbero
dovuto essere riscossi nel territorio della  Regione  siciliana".  La
sentenza precisa che "e' alla Regione siciliana...  che  spetta,  non
solo provvedere al detto recupero, ma anche acquisire il  gettito  da
esso derivante, posto che tale gettito, lungi dal  costituire  frutto
di  una  nuova  entrata  tributaria  erariale,  non  e'   altro   che
l'equivalente del gettito del tributo previsto (al di fuori dei  casi
nei quali e' concesso il credito d'imposta), che compete alla Regione
sulla base e nei limiti dell'art. 2 del d.P.R. n. 1074 del 1965". 
    La medesima sent. 152/2011 ha poi annullato l'art. 3, co.  2-bis,
d.l. 40/2010, in quanto "la previsione della esclusiva destinazione a
fondi erariali del gettito derivante dalla definizione agevolata  di'
tali controversie inerenti alla contestazione di tributi erariali che
avrebbero dovuto essere riscossi nel territorio regionale si pone  in
contrasto  con  il  principio  di  cui  all'art.  2  delle  norme  di
attuazione, non potendo peraltro neppure  ritenersi  che  le  entrate
derivanti dalla richiamata definizione agevolata  delle  controversie
tributarie siano "entrate nuove". 
    D) Illegittimita' costituzionale del comma 14, lett.  a),  e  del
comma 17, terzo, quarto e quinto periodo. 
    Il comma 14, lett. a) dell'art. 13 abroga l'art. 1 d.l.  93/2008,
che introduceva l'esenzione ICI per la prima  casa  e,  al  comma  4,
stabiliva   quanto   segue:   "La   minore   imposta    che    deriva
dall'applicazione dei commi 1, 2 e 3, pari a 1.700 milioni di euro  a
decorrere  dall'anno  2008,  e'  rimborsata  ai  singoli  comuni,  in
aggiunta a quella  prevista  dal  comma  2-bis  dell'articolo  8  del
decreto legislativo n. 504  del  1992,  introdotto  dall'articolo  1,
comma 5, della legge 24 dicembre 2007, n. 244.  A  tale  fine,  nello
stato di previsione del Ministero dell'interno  l'apposito  fondo  e'
integrato di un importo pari a quanto  sopra  stabilito  a  decorrere
dall'anno 2008. Relativamente alle regioni  a  statuto  speciale,  ad
eccezione delle regioni Sardegna e Sicilia, ed alle province autonome
di Trento e di Balzano, i rimborsi  sono  in  ogni  caso  disposti  a
favore dei citati enti, che provvedono all'attribuzione  delle  quote
dovute ai comuni compresi  nei  loro  territori  nel  rispetto  degli
statuti speciali e delle relative norme di attuazione". 
    L'art.  13,  co.  17,  primo  periodo,  d.l.  201/2011  (qui  non
impugnato, in quanto non riguarda la Regione Friuli-Venezia  Giulia.)
dispone che "il fondo sperimentale di riequilibrio, come  determinato
ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 14  marzo  2011,  n.
23, e il fondo perequativo, come determinato ai  sensi  dell'articolo
13  del  medesimo  decreto  legislativo  n.  23  del   2011,   ed   i
trasferimenti erariali dovuti ai comuni  della  Regione  Siciliana  e
della Regione  Sardegna  variano  in  ragione  delle  differenze  del
gettito stimato ad aliquota di base derivanti dalle  disposizioni  di
cui al presente articolo"; si aggiunge che  "in  caso  di  incapienza
ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello  Stato  le  somme
residue". Tale disposizione e' scritta in modo oscuro (i fondi  ed  i
trasferimenti "variano", i comuni versano "le somme residue"): ma  in
definitiva sembra significare  che  o  attraverso  la  riduzione  dei
trasferimenti dallo Stato o (se la riduzione  non  basta)  attraverso
trasferimenti dagli stessi Comuni, lo Stato incamera tutto  cio'  che
per effetto delle nuove regole ai Comuni affluisca in misura maggiore
di prima. 
    Per  la  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  -  come  per  le  altre
autonomie speciali aventi competenza in materia di finanza  locale  -
vale invece, come sopra visto, l'art. 13, co. 17, terzo  periodo:  il
quale  dispone  direttamente   che   "con   le   procedure   previste
dall'articolo 27 della  legge  5  maggio  2009,  n.  42,  le  regioni
Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le  Province  autonome
di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero  al  bilancio  statale
del predetto maggior gettito stimato dei comuni ricadenti nel proprio
territorio". Il quarto periodo  aggiunge  che,  "fino  all'emanazione
delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo  27,  a  valere
sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e'  accantonato
un importo pari al maggior  gettito  stimato  di  cui  al  precedente
periodo". 
    Dunque, lo Stato non solo trattiene la parte  erariale  dell'Imup
(in base al comma 11), ma vorrebbe  incamerare  dalla  Regione  anche
l'imposta comunale, per tutto  l'importo  eccedente  le  entrate  che
affluivano ai comuni in base alle norme previgenti. Come si  e'  gia'
notato, il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere  inteso
nel senso che l'importo Imup 2012 non debba  essere  confrontato  con
l'importo 2011 dei tributi  sostituiti  ma  solo  con  l'importo  dei
tributi comunali sostituiti (cioe', l'Ici 2011). Se cosi'  fosse,  la
Regione e i suoi enti locali risulterebbero depauperati: 
        dei sei decimi dell'Irpef sui redditi immobiliari, soppressi; 
        delle  addizionali  regionale  e   comunale   precedentemente
previste (la seconda era destinata alla Regione in luogo dei comuni); 
    Inoltre, il comma 17 potrebbe essere interpretato anche nel senso
che dal gettito precedente sia esclusa  la  somma  che  perveniva  ai
comuni (tramite la Regione) ai sensi dell'art. 1, co. 4, di. 98/2008,
sopra citato. Se cosi' fosse, ne risulterebbe un ulteriore  rilevante
depauperamento del sistema regionale. 
    In questi  termini,  la  fittizia  comunalizzazione  dei  tributi
immobiliari si traduce nel transito delle corrispondenti risorse  dal
bilancio  regionale  al  bilancio  statale.  La  Regione,  che  prima
"integrava" la finanza locale avvalendosi delle predette risorse, ora
ne e' priva ma dovra' comunque far fronte alle necessita' finanziarie
dei comuni (art. 54 St. e art. 9, co. 2, d. lgs. 9/1997), e  dovrebbe
contestualmente  versare  allo  Stato  proprie  risorse   in   misura
corrispondente alle maggiori entrate dei Comuni, o comunque in misura
corrispondente  a  quella  a  priori  determinata   dalla   impugnata
disposizione (quinto periodo). 
    In  un  sistema  nel  quale  la  Regione  ha  la  responsabilita'
complessiva della finanza locale,  la  sottrazione  ai  comuni  delle
risorse  derivanti  dalle  imposte  ad  essi  destinate   costituisce
contemporaneamente una lesione dell'autonomia finanziaria regionale. 
    In ogni modo, il terzo e quarto periodo  del  comma  17,  dunque,
violano l'art. 49 St. e gli artt. 4 dPR 114/1965 e 6, co. 2, d.  lgs.
8/1997 perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di  spettanza
regionale, al di fuori dei casi previsti. 
    Cio' e' vero sia nel caso in cui  si  ritenga  che  il  comma  17
produca  l'effetto  di  avocare  allo  Stato  le  risorse  che  prima
spettavano alla  Regione  a  titolo  di  compartecipazione  all'Irpef
fondiaria (art. 49 St.) e di addizionali regionale e  comunale  (art.
51, co. 2), sia nel caso in cui si ritenga che  la  Regione  dovrebbe
assicurare il recupero allo Stato del maggior gettito con le  proprie
risorse ordinarie, per cui il comma  17  produce  l'effetto  di  "far
tornare" nelle casse statali risorse spettanti alla Regione e ad essa
affluite in attuazione delle regole finanziarie poste dallo Statuto e
dalle norme di attuazione (co. 17, terzo periodo). 
    Ancora, il comma 17, terzo e quarto periodo, viola gli artt. 63 e
65 St., proprio perche' pretende di derogare agli artt. 49 e 51 St. e
al dPR 114/1965 con una fonte primaria "ordinaria". 
    L'art. 65 St.  e'  violato  anche  perche'  il  comma  17,  terzo
periodo, pretende di vincolare  unilateralmente  il  contenuto  delle
nonne di attuazione. 
    Inoltre, il comma 14, lett. a) ed il comma  17,  terzo  e  quarto
periodo, violano l'autonomia finanziaria regionale (assicurata  dagli
articoli 48 e 49 Statuto, e dall'art. 119, commi 1, 2, e 4, Cost.) in
quanto producono l'effetto di infliggere un nuovo, rilevante "taglio"
di risorse al sistema regionale. 
    Su questo punto si rinvia alle considerazioni svolte nel presente
atto a proposito dell'art. 28,  co.  3.  Si  puo',  pero',  gia'  qui
indicare, in sintesi, che  le  norme  in  questione  producono,  come
abbiamo visto, l'effetto di  "espropriare"  la  Regione  e  gli  enti
locali delle risorse corrispondenti  ai  6/10  dell'Irpef  fondiaria,
alle addizionali regionale e comunali e a quelle che  l'art.  1  d.1.
93/2008 (ora abrogato) attribuiva ai comuni (tramite la Regione)  per
compensare l'esenzione Ici sulla prima casa. Si tratta di  una  quota
rilevante di risorse, la cui eliminazione si aggiunge ai  tagli  gia'
operati con l'art. 14 d.l. 78/2010, l'art. 20, co. 5,  d.l.  98/2011,
l'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e l'art. 1, comma 156, primo  periodo,
della legge 220/2010. 
    Le risorse  "avocate"  dalle  norme  qui  impugnate  (soprattutto
quelle compensative dell'Ici  sulla  prima  casa)  erano  dirette  al
finanziamento delle "funzioni normali" dei comuni, per  cui  la  loro
sottrazione produce gravi squilibri e incide sulla finanza  regionale
(v. l'art. 54 St. e l'art. 9 d.  lgs.  9/1997).  Lo  Stato  non  puo'
revocare quote cosi' rilevanti di risorse senza alcuna compensazione.
Il principio di "neutralita' finanziaria" (riconosciuto dallo  stesso
legislatore statale all'art.  1,  co.  159,  l.  220/2010,  cui  deve
attribuirsi valore  interpretativo  dello  Statuto:  "Qualora  con  i
decreti legislativi di attuazione della legge 5 maggio 2009,  n.  42,
siano istituite sul territorio nazionale nuove forme di  imposizione,
in  sostituzione  totale  o  parziale  di  tributi  vigenti,  con  le
procedure previste dall'articolo 27 della medesima legge  n.  42  del
2009, e' rivisto l'ordinamento  finanziario  della  regione  autonoma
Friuli-Venezia  Giulia  al  fine   di   assicurare   la   neutralita'
finanziaria dei predetti decreti nei confronti dei  vari  livelli  di
governo") e' stravolto dalle norme qui  impugnate,  che  regolano  un
nuovo tributo, sostituendolo a tributi preesistenti, con il risultato
di spostare risorse dal sistema regionale allo Stato. 
    E' anche violato il principio consensuale che domina  i  rapporti
finanziari tra Stato  e  Regioni  speciali  (v.  le  sentt.  82/2007,
353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010; v. sempre  il  motivo  relativo
all'art. 28, co. 4), perche'  lo  Stato  ha  proceduto  a  sovvertire
l'assetto   della   finanza   regionale   e   comunale   del    tutto
unilateralmente, anzi violando le norme (come il succitato  principio
di neutralita' finanziaria) concordate con la Regione (l'art. 1,  co.
159, 1. 220/2010 recepisce l'art. 11 del Protocollo di intesa Tondo -
Tremonti'). 
    Infine, e' da sottolineare  che  le  norme  impugnate  colpiscono
essenzialmente le Regioni speciali, sia perche' solo esse  dispongono
delle compartecipazioni e delle addizionali  locali,  sia  perche'  i
comuni  delle  regioni  ordinarie  non  perdono  la   "compensazione"
dell'Ici sulla prima casa (che e' confluita nel fondo sperimentale di
riequilibrio). Di qui la violazione  dell'art.  3  Cost.,  con  ovvie
ripercussioni sull'autonomia finanziaria della Regione e  degli  enti
locali situati nel suo territorio. 
    Una menzione separata e specifica richiede  l'illegittimita'  del
quarto periodo del comma 17 che  prevede  lo  "accantonamento"  delle
quote di compartecipazione previste dall'art. 49 Statuto. 
    Va  rilevato,  infatti,  che  tale   "accantonamento"   contrasta
anch'esso frontalmente con l'art. 49 dello  Statuto  e  con  l'intero
sistema finanziario della  Regione  da  esso  istituito.  E'evidente,
infatti, che le risorse che lo Statuto prevede come entrate regionali
sono cosi' stabilite perche' esse vengano  utilizzate  dalla  Regione
per lo svolgimento delle sue funzioni costituzionali, e  non  perche'
esse vengano "accantonate". L'istituto dell'accantonamento non ha nel
sistema statutario cittadinanza alcuna. 
    Inoltre, l'illegittimita' del  trasferimento  previsto  determina
anche l'illegittimita' dell'accantonamento disposto nella prospettiva
del trasferimento. 
    Specifica illegittimita' colpisce poi il quinto periodo del comma
17, che stabilisce in un ammontare fisso e determinato l'importo  del
"recupero", stimandolo a priori con  criteri  del  tutto  oscuri.  Si
tratta di una norma irragionevole, che prevede un importo fisso senza
contemplare alcun meccanismo di conguaglio  o  rimborso  in  caso  di
inesattezza.   L'irragionevolezza,    naturalmente,    si    riflette
sull'autonomia finanziaria della Regione,  tenuta  ad  assicurare  il
"recupero". 
    Inoltre e'  violato  il  gia'  citato  principio  consensuale  in
materia di finanza delle Regioni speciali, perche' la  norma  avrebbe
dovuto  prevedere  una  determinazione  concordata  dell'importo   in
questione. 
    3) Illegittimita'  costituzionale  dell'art.  14,  comma  13-bis,
terzo e quarto periodo 
    L'art. 14, comma 1, d.1. 201/2011 stabilisce che "a decorrere dal
1° gennaio 2013  e'  istituito  in  tutti  i  comuni  del  territorio
nazionale il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a  copertura
dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani  e  dei
rifiuti assimilati avviati allo  smaltimento,  svolto  in  regime  di
privativa dai comuni, e dei costi relativi  ai  servizi  indivisibili
dei comuni". Il comma 8 dispone che "il  tributo  e'  corrisposto  in
base a tariffa" ed i  commi  successivi  regolano  la  determinazione
della tariffa (il comma 12 rinvia, a tal fine, ad un regolamento). 
    Il comma 13 statuisce che "alla tariffa determinata in base  alle
disposizioni di cui ai commi da 8 a 12, si applica una  maggiorazione
pari a 0,30 euro per metro quadrato, a copertura dei  costi  relativi
ai  servizi  indivisibili  dei   comuni,   i   quali   possono,   con
deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento la misura
della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche  graduandola  in  ragione
della tipologia dell'immobile e della zona ove e' ubicato". 
    Tali commi riguardano il regime generale del tributo, e non  sono
oggetto di impugnazione. 
    Oggetto di impugnazione e' invece - per la parte che interessa la
Regione Friuli-Venezia Giulia - il comma  13-bis,  il  quale  dispone
quanto segue: 
        "a  decorrere  dall'anno  2013  il  fondo   sperimentale   di
riequilibrio, come determinato ai sensi dell'articolo 2  del  decreto
legislativo 14 marzo 2011,  n.  23,  e  il  fondo  perequativo,  come
determinato  ai  sensi  dell'articolo   13   del   medesimo   decreto
legislativo n. 23 del 2011, ed i  trasferimenti  erariali  dovuti  ai
comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna sono  ridotti
in misura corrispondente al  gettito  derivante  dalla  maggiorazione
standard di cui al  comma  13  del  presente  articolo.  In  caso  di
incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello  Stato
le somme residue. Con le procedure previste  dall'articolo  27  della
legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e  Valle
d'Aosta, nonche'  le  Province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano,
assicurano il recupero  al  bilancio  statale  del  predetto  maggior
gettito  dei  comuni   ricadenti   nel   proprio   territorio.   Fino
all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso  articolo
27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e'
accantonato un importo pari al maggior gettito di cui  al  precedente
periodo". Dunque, in base al terzo e quarto periodo dell'art.  13-bis
la Regione Friuli-Venezia Giulia dovrebbe versare al  bilancio  dello
Stato - a "compenso" di maggiori entrate dei  Comuni  -  risorse  dal
proprio bilancio. 
    Come si vede, si tratta di disposizioni simili a  quelle  di  cui
all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo, sopra censurate, con  la
differenza che, nel caso del  tributo  comunale  sui  rifiuti  e  sui
servizi, il recupero  al  bilancio  statale  della  maggiorazione  e'
previsto in modo stabile. 
    Vanno richiamati, dunque, i motivi gia'  svolti  con  riferimento
all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo. 
    Per tali trasferimenti al bilancio dello  Stato  di  entrate  che
spettano alla Regione a termini di Statuto non vi e' alcun fondamento
statutario, ma vi  e'  invece  violazione  dello  Statuto:  il  quale
assegna determinate entrate alla Regione affinche' essa  ne  disponga
per l'esercizio  delle  proprie  funzioni,  e  non  per  versarle  al
bilancio dello Stato. 
    Per il concorso ai bisogni  della  finanza  pubblica  sono  stati
previsti appositi meccanismi (concordati con l'Accordo  di  Roma  del
2010) dall'art. 1, commi 152 ss., 1. 220/2010, mentre l'art. 14,  co.
13-bis, terzo e quarto periodo, stravolge  unilateralmente  l'assetto
dei rapporti tra Stato e Regione  in  materia  finanziaria  disegnato
dallo Statuto. Il terzo e quarto periodo del  comma  13-bis,  dunque,
violano gli artt. 48 e 49 St. e l'art. 4 dPR 114/1965 (su di esso  v.
l'ultimo motivo) perche' pretendono di avocare allo Stato risorse  di
spettanza regionale, al di  fuori  dei  casi  previsti.  Infatti,  la
Regione  dovrebbe   assicurare   il   recupero   allo   Stato   della
maggiorazione standard con le proprie risorse ordinarie, per  cui  il
comma impugnato  produce  l'effetto  di  "far  tornare"  nelle  casse
statali risorse affluite alla  Regione  in  attuazione  delle  regole
finanziarie poste dallo Statuto e  dalle  norme  di  attuazione  (co.
13-bis, terzo periodo). 
    Ancora, essi violano gli artt.  63  e  65  St.,  proprio  perche'
pretendono di derogare agli artt. 49 e al dPR 114/1965 con una  fonte
primaria "ordinaria". 
    L'art. 65 St. e' violato anche perche'  il  comma  13-bis,  terzo
periodo, pretende di vincolare  unilateralmente  il  contenuto  delle
norme di attuazione. 
    Come gia' osservato per  l'art.  13,  comma  17,  e'  poi  palese
l'illegittimita' del quarto periodo del  comma  13-bis  dell'art.  14
che, prevedendo l'accantonamento delle entrate regionali sulle  quote
di   compartecipazione   previste   dall'art.   49   St.,   contrasta
frontalmente con tale norma e con  il  sistema  finanziario  previsto
dallo Statuto, per le stesse ragioni sopra enunciate. 
    4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, commi da 2 a 10 
    L'art. 16, co. 2, d.l. 201/2011 dispone che "dal 1°  maggio  2012
le unita' da diporto che stazionino  in  porti  marittimi  nazionali,
navighino  o  siano  ancorate  in  acque  pubbliche,  anche   se   in
concessione a privati, sono soggette al pagamento della tassa annuale
di stazionamento, calcolata per ogni giorno". Il comma 3 prevede  una
riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate  esclusivamente
dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,
nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia".  In
base al comma 4, "la tassa non si applica.  alle  unita'  di  cui  al
comma 2 che si trovino in un'area di rimessaggio e per  i  giorni  di
effettiva permanenza in rimessaggio". Il comma 7 individua i soggetti
tenuti al pagamento della tassa e precisa che "il gettito della tassa
di cui al comma 2 affluisce all'entrata del bilancio dello Stato". 
    In primo luogo, e'  opportuno  soffermarsi  sulla  qualificazione
giuridica del tributo. Diversi elementi  inducono  a  riconoscere  ad
esso la natura di  tassa  a  fronte  dell'utilizzazione  di  un  bene
pubblico. 
    In primo luogo, lo stesso legislatore  usa  la  denominazione  di
"tassa", che,  storicamente,  e'  il  tributo  che  si  paga  per  la
fruizione di un servizio o di un bene pubblico. La  denominazione  di
"tassa di stazionamento" e', dunque, coerente, perche' evidenzia  che
l'oggetto del tributo e' l'occupazione di uno spazio  o  comunque  il
transito sul bene pubblico acqua. 
    Inoltre, e' significativo il fatto che oggetto  della  tassazione
siano le unita' da diporto anche straniere e non iscritte in pubblici
registri italiani, contrariamente a quanto previsto,  implicitamente,
per gli autoveicoli di cui  al  comma 1  ed  esplicitamente  per  gli
aeromobili nei commi 11 e seguenti. 
    Ancora, la circostanza che la tassa non sia dovuta per il periodo
di  rimessaggio  ricollega  direttamente   l'imposizione   tributaria
all'utilizzo del bene pubblico acqua e non  alla  presenza  del  bene
"unita' da diporto" nel patrimonio del soggetto. 
    Premesso cio', e' necessario ricordare le  prerogative  regionali
in relazione alle  acque  pubbliche.  In  base  all'art.  1  d.  lgs.
265/2001, "sono  trasferiti  alla  regione  Friuli-Venezia  Giulia...
tutti i beni dello Stato appartenenti al demanio idrico, comprese  le
acque pubbliche, gli alvei e  le  pertinenze,  i  laghi  e  le  opere
idrauliche, situati nel  territorio  regionale,  con  esclusione  del
fiume Judrio, nel tratto, classificato di  prima  categoria,  nonche'
dei fiumi Tagliamento e Livenza, nei tratti che fanno da confine  con
la regione Veneto" (co. 1). Il comma 2 aggiunge che "sono  trasferiti
alla regione tutti  i  beni  dello  Stato  e  relative  pertinenze...
situati nella laguna di Marano-Grado". La regione "esercita tutte  le
attribuzioni inerenti alla titolarita' dei beni trasferiti  ai  sensi
dei commi 1 e 2" (co. 3). L'art. 5, co. 5, dispone che "i proventi  e
le spese derivanti dalla gestione dei beni trasferiti  spettano  alla
regione a decorrere dalla data di consegna". 
    L'art. 9, co. 2 d. lgs. 111/2004, poi, trasferisce  alla  Regione
"tutte  le  funzioni  amministrative,  salvo   quelle   espressamente
mantenute allo Stato dall'articolo 11, in  materia  di..  navigazione
interna  e  porti  regionali,  comprese  le  funzioni  relative  alle
concessioni dei beni  del  demanio  della  navigazione  interna,  del
demanio marittimo,  di  zone  del  mare  territoriale  per  finalita'
diverse da quelle  di  approvvigionamento  energetico".  Il  comma  5
aggiunge che "i proventi e le  spese  derivanti  dalla  gestione  del
demanio  marittimo  e  della  navigazione  interna.   spettano   alla
Regione". 
    L'art. 11, co. 1, conferma che allo  Stato  restano  soltanto  le
funzioni  relative  "oo)  all'utilizzazione  del   pubblico   demanio
marittimo e delle zone del mare territoriale  di  competenza  statale
per finalita' di approvvigionamento energetico". 
    La Regione, dunque, e' titolare dei beni del demanio idrico e  di
quelli relativi  alla  laguna  di  Marano-Grado  ed  e'  titolare  in
sostanza di tutte le funzioni amministrative relative ai porti e agli
altri beni del demanio marittimo. 
    Poste tali premesse, l'art. 16 appare  dunque  illegittimo  -  in
primo luogo - nella parte in cui non esclude tutti i beni del demanio
idrico e la laguna di Marano-Grado dall'applicazione della  tassa  di
stazionamento, per violazione degli artt. 48 e  51,  co. 1  St.  (che
garantiscono l'autonomia finanziaria e patrimoniale  della  Regione)e
dell'art. 1   d.   lgs.   265/2001   (sopra   illustrato),    perche'
l'istituzione, da parte dello Stato, di  una  tassa  statale  per  la
fruizione  di  un  bene  del  demanio  regionale  viola   l'autonomia
finanziaria e patrimoniale della Regione. 
    Ove l'istituzione della tassa apparisse legittima,  non  potrebbe
non apparire illegittima la destinazione al bilancio dello Stato.  In
effetti, l'art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 265 del 2001 riserva  alla
Regione "i proventi e le spese  derivanti  dalla  gestione  dei  beni
trasferiti spettano": e tra essi non possono  non  includersi  quelli
derivanti dalle imposizioni relative specificamente alla fruizione di
essi. 
    Inoltre, l'art. 16 e' illegittimo perche' prevede una  tassa  che
colpisce la fruizione di beni del demanio marittimo (cioe' di beni la
cui gestione amministrativa  spetta  alla  Regione,  con  i  relativi
proventi: art. 9, co. 5, d. lgs. 111/2004) senza prevedere  un  ruolo
della Regione nella regolamentazione della tassa. Se  il  presupposto
del tributo dev'essere riconosciuto, come si e' visto,  nell'uso  del
bene pubblico, nella disciplina di  esso  dovrebbe  essere  coinvolto
l'ente che, in virtu' delle norme di  attuazione,  ha  la  competenza
legislativa ed amministrativa sulla gestione del bene stesso. 
    Infine, l'art. 16, co. 3, appare illegittimo perche' prevede  una
riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate  esclusivamente
dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione,
nei comuni ubicati nelle isole minori e  nella  Laguna  di  Venezia",
senza estendere eguale regime  ai  comuni  ubicati  nella  laguna  di
Marano-Grado. La norma distingue irragionevolmente fra situazioni del
tutto assimilabili, e  la  violazione  dell'art.  3  si  riflette  in
lesione dell'autonomia finanziaria regionale, trattandosi di beni del
demanio regionale. Inoltre, la Regione e'  anche  legittimata  a  far
valere  la  violazione  del  principio  di  eguaglianza  quale   ente
esponenziale (art. 5 Cost.) della  comunita'  stanziata  sul  proprio
territorio (per un precedente v. sent. 276/1991). 
    5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 4. 
    L'art. 23, co. 4, aggiunge il comma 3-bis  all'art.  33  d.  lgs.
163/2006, stabilendo che "i Comuni con popolazione  non  superiore  a
5.000  abitanti  ricadenti  nel  territorio  di  ciascuna   Provincia
affidano  obbligatoriamente  ad  un'unica  centrale  di   committenza
l'acquisizione di  lavori,  servizi  e  forniture  nell'ambito  delle
unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di  cui  al
decreto legislativo 18 agosto 2000, n.  267,  ove  esistenti,  ovvero
costituendo un apposito accordo consortile tra i  comuni  medesimi  e
avvalendosi dei competenti uffici". 
    Tale disposizione dovrebbe  essere  intesa  in  collegamento  con
l'art. 4, co. 5, d. lgs. 163/2006 ("Le regioni a statuto  speciale  e
le  province  autonome  di  Trento  e  Bolzano  adeguano  la  propria
legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti e  nelle
relative norme  di  attuazione")  e,  dunque,  in  senso  conforme  a
costituzione, cioe' nel senso che non si applica a questa Regione. 
    Essa, pero', potrebbe essere  anche  interpretata  nel  senso  di
volersi applicare in tutto il territorio nazionale e,  in  tal  caso,
sarebbe lesiva delle prerogative costituzionali della Regione. 
    La  norma,  infatti,  rientra   prevalentemente   nella   materia
"organizzazione amministrativa degli  enti  locali"  e,  poi,  incide
anche  sulla  materia  "finanza  locale",  avendo   come   scopo   la
razionalizzazione della spesa degli enti locali. Nella prima  materia
la Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata  di  potesta'  legislativa
primaria ai sensi dell'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto. Con la  legge
regionale 9 gennaio 2006, n. 1, sono  stati  dettati  i  "Principi  e
norme fondamentali del sistema Regione -  autonomie  locali"  e,  tra
l'altro, sono stati disciplinati l'esercizio coordinato di funzioni e
la gestione associata di servizi tra  enti  locali,  individuando  le
forme collaborative tra gli enti locali della regione. 
    Anche nella seconda materia  la  Regione  e'  titolare  di  ampia
competenza statutaria in base agli artt. 51  e  54  dello  Statuto  e
all'art. 9 d. lgs. 9/1997.  In  particolare,  il  comma 1  di  questa
disposizione statuisce  che  "spetta  alla  regione  disciplinare  la
finanza    locale,    l'ordinamento    finanziario    e    contabile,
l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali". 
    La norma censurata, per il suo carattere  dettagliato,  non  puo'
rappresentare un limite alle competenze regionali  appena  illustrate
e,  percio',  essa  sarebbe  illegittima   qualora   pretendesse   di
applicarsi ai  comuni  della  regione  Friuli-Venezia  Giulia.  Essa,
infatti,  non  si  limita  a  prescrivere  ai  comuni  piccoli  forme
organizzative idonee a determinare un risparmio nella conclusione dei
contratti pubblici, ma prevede direttamente la soglia di  popolazione
e le forme associative per l'individuazione della centrale  unica  di
committenza. 
    Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d.  1gs.
9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la  regione  finanzia  gli  enti
locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1,  co.  154,
1.  220/2010  ha  statuito  quanto  segue:   "la   regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti  e
organismi strumentali, le  aziende  sanitarie  e  gli  altri  enti  e
organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla  regione  medesima
in via ordinaria e prevalente costituiscono  nel  loro  complesso  il
«sistema regionale integrato». Gli obiettivi  sui  saldi  di  finanza
pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la  regione  sono
realizzati attraverso il  sistema  regionale  integrato.  La  regione
risponde  nei  confronti  dello  Stato  del  mancato  rispetto  degli
obiettivi di cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi aggiunto
che "spetta alla  regione  individuare,  con  riferimento  agli  enti
locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi  per
ciascun ente  e  le  modalita'  necessarie  al  raggiungimento  degli
obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo  Stato  per
il periodo di' riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che
"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno  non
trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti  il
sistema regionale integrato". 
    Da tali norme risulta che lo Stato deve  limitarsi  a  concordare
con la Regione i'  vincoli  finanziari,  lasciando  alla  Regione  il
compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri  e  degli
enti locali del proprio territorio. 
    E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a
limitare  una  voce  di  spesa  degli   enti   locali,   laddove   il
finanziamento di questi e' a carico del bilancio  regionale  (v.,  ad
es., la sent. 341/09, punto 6: lo Stato non ha "ha titolo per dettare
norme di coordinamento finanziario che definiscano  le  modalita'  di
contenimento di una spesa  sanitaria  che  e'  interamente  sostenuta
dalla Provincia autonoma di Trento") 
    6) Illegittimita' costituzionale dell'art.  23,  commi  da  14  a
20-bis. Violazione degli articoli 5, 114, 117 commi primo, secondo  e
sesto, 118, commi primo e secondo, e 119 cost. nonche'  dell'art.  4,
lett. 1 bis, dell'art. 11 e dell'art.  59  dello  Statuto  regionale.
Violazione dell'art. 54 St. e del d. lgs. 9/1997. 
    L'art.  23,  nei  commi  da  14  a  20,  contiene  una  serie  di
disposizioni che alterano radicalmente l'organizzazione e le funzioni
delle Province. Dichiaratamente, esse fanno  parte  di  un  programma
che, al punto di  arrivo,  prevede  la  soppressione  delle  Province
mediante legge costituzionale. 
    In particolare e' disposto che: 
        "Spettano  alla  provincia  esclusivamente  le  funzioni   di
indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie
e nei limiti indicati con  legge  statale  o  regionale,  secondo  le
rispettive competenze" (comma 14); 
        "Sono  organi  di  governo  della  Provincia   il   Consiglio
provinciale ed il Presidente della Provincia. Tali organi  durano  in
carica cinque anni" (comma 15); 
         "Il consiglio provinciale e' composto da non piu'  di  dieci
componenti eletti dagli organi  elettivi  dei  comuni  ricadenti  nel
territorio della Provincia. Le modalita' di elezione  sono  stabilite
con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012" (comma 16); 
         "Il Presidente  della  Provincia  e'  eletto  dal  Consiglio
provinciale tra i suoi  componenti  secondo  le  modalita'  stabilite
dalla legge statale di cui al comma 16" (comma 17); 
        "Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo  Stato  e  le
Regioni,  con  propria  legge,  secondo  le  rispettive   competenze,
provvedono a trasferire ai Comuni, entro  il  31  dicembre  2012,  le
funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo  che,
per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle
Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta',  differenziazione
ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento  delle  funzioni  da
parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012,  si  provvede  in  via
sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno  2003,  n.
131, con legge dello Stato" (comma 18). 
        "Lo Stato e le Regioni,  secondo  le  rispettive  competenze,
provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie
e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite,  assicurando
nell'ambito  delle  medesime  risorse  il  necessario   supporto   di
segreteria per l'operativita' degli organi  della  provincia"  (comma
19); 
         "Agli organi provinciali che devono essere  rinnovati  entro
il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013, l'articolo 141
del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli  enti  locali,  di
cui al decreto legislativo 18  agosto  2000,  n.  267,  e  successive
modificazioni. Gli organi provinciali  che  devono  essere  rinnovati
successivamente al 31 dicembre  2012  restano  in  carica  fino  alla
scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al  primo  e  al  secondo
periodo del presente comma, si procede all'elezione dei nuovi  organi
provinciali di cui ai commi 16 e 17" (comma 20). 
    Le  disposizioni  ora  citate   dispongono   direttamente   delle
Province,  per  gli  aspetti  indicati,  nelle  Regioni   a   statuto
ordinario. Le Regioni speciali  -  pur  titolari  tutte  di  potesta'
legislativa primaria in materia di enti locali - non sono lasciate al
di fuori di questo processo. Infatti, il comma 20  bis  dell'art.  23
precisa  che  "le  regioni  a  statuto  speciale  adeguano  i  propri
ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a  20  entro  sei
mesi dalla data di entrata in vigore del presente  decreto"  (dispone
inoltre - senza che qui la cosa  rilevi  -  che  le  disposizioni  in
questione "non trovano  applicazione  per  le  province  autonome  di
Trento e di Bolzano"). 
    Se e quando il destino delle Province verra' deciso  mediante  lo
strumento appropriato della legge  di  revisione  costituzionale,  la
Regione Friuli-Venezia Giulia - che si riserva di prendere  parte  al
relativo dibattito con i propri strumenti ordinamentali - non  potra'
che prendere atto di tali decisioni. 
    Essa ritiene tuttavia che  -  sino  a  che  tali  scelte  vengano
compiute - le disposizioni dettate in proposito dai commi da 14 a  20
siano sotto molti profili costituzionalmente illegittime, sia per  il
fatto di essere contenute in un decreto-legge sia nei loro  specifici
contenuti, per violazione delle disposizioni  costituzionali  di  cui
agli artt. 5, 114, 117 e 118 Cost., e che la disposizione di  cui  al
comma 20 bis sia costituzionalmente illegittima, sia in quanto impone
alla Regione un dovere di adeguamento a tali  contenuti  illegittimi,
sia - se pure tali contenuti fossero in se'  legittimi  -  in  quanto
impone un dovere di adeguamento al di la' di quanto doveroso ai sensi
dell'art. 4, n. 1 bis, dello Statuto. 
    Di seguito verranno illustrate tali illegittimita', sotto tutti i
profili. La Regione ricorre per se', in quanto la legge  dello  Stato
impedisce il legittimo esercizio delle  sue  competenze,  ma  ricorre
anche  in  quanto  portatrice   degli   interessi   delle   comunita'
provinciali del proprio territorio. 
    a. In via preliminare: illegittimita' costituzionale di tutte  le
disposizioni impugnate per violazione dell'art. 77 Cost. 
    I commi da 14 a 20 sono inseriti in un decreto-legge  ma,  com'e'
evidente, non sono affatto sorretti dai presupposti costituzionali di
cui all'art. 77 cost. ("casi straordinari di necessita' e  urgenza"),
in quanto si tratta di norme  che  operano  una  riforma  strutturale
delle funzioni e degli organi delle Province, e che sono destinate  a
produrre i propri effetti finanziari solo in un futuro non  prossimo.
Lo Stato, dunque, avrebbe potuto e dovuto  adottare  tali  norme  con
l'ordinario procedimento legislativo. Per stessa ammissione contenuta
nella  relazione  tecnica  al  decreto  (doc.  2),  trattasi  di   un
"intervento  di  carattere  strutturale  con   riguardo   all'assetto
istituzionale delle Province", che, per  sua  natura,  non  ha  alcun
carattere di urgenza, tanto che rinvia alla  successiva  legislazione
ordinaria l'assetto delle funzioni e la disciplina degli  organi.  Si
consideri, poi, che le nuove disposizioni introdotte si applicheranno
ai rinnovi elettorali successivi alla data del 31 dicembre 2012. 
    Inoltre, dalle norme impugnate non conseguono immediati  risparmi
di spesa. Sempre dalla relazione tecnica risulta che "il risparmio di
spesa associabile al complesso normativa in esame  -  65  milioni  di
euro lordi - e' destinato a prodursi  dal  2013  e  peraltro  in  via
prudenziale non viene  considerato  in  quanto  verra'  registrato  a
consuntivo". 
    La Regione e' legittimata a denunciare la violazione dell'art. 77
cost. perche' essa si ripercuote  su  una  sua  sfera  di  competenza
(ordinamento  degli  enti  locali),  nel  senso   che   la   potesta'
legislativa regionale viene vincolata in modo illegittimo e,  per  di
piu', la procedura accelerata di approvazione delle nonne ha impedito
alla Regione di far valere il proprio punto di  vista  (si  veda,  di
recente, la sent. 22/2012). 
    b. Illegittimita' costituzionale dei commi 14, 18 e 19. 
    Secondo il comma 14 - come esposto  -  "spettano  alla  provincia
esclusivamente le funzioni di  indirizzo  e  di  coordinamento  delle
attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti  indicati  con  legge
statale o regionale, secondo le rispettive competenze" (comma 14). 
    Tale disposizione, nella parte in cui limita  le  funzioni  della
Provincia a quelle di "indirizzo e di coordinamento  delle  attivita'
dei  comuni",  viola,  ad  avviso  della   Regione,   la   disciplina
costituzionale in materia di funzioni degli enti  locali,  in  quanto
enti costitutivi della Repubblica (oltre al fondamentale principio di
cui all'art. 5: "la Repubblica... riconosce e promuove  le  autonomie
locali"). Da tale  disciplina,  infatti,  risulta  con  evidenza  che
ognuno di tali enti  compositivi  ha  funzioni  proprie  di  autonomo
soddisfacimento   degli   interessi    pubblici    della    comunita'
rappresentata, e non puo' essere ridotto ad  una  mera  struttura  di
coordinamento di funzioni altrui. 
    Cio' risulta in particolare: 
        dall'articolo 114, comma secondo cui "i Comuni, le  Province,
le Citta' metropolitane e le Regioni sono enti  autonomi  con  propri
statuti, poteri e funzioni"; 
        dall'art. 117, comma secondo, lett. p), dalla  quale  risulta
da un lato che alle Province (come agli altri enti) spetta di  vedere
definite dalla legge statale le  funzioni  fondamentali,  che  sembra
chiaro non possano essere ridotte alla mera funzione di  indirizzo  e
coordinamento di funzioni altrui; 
        dall'art. 117, comma sesto, secondo cui  le  Province  "hanno
potesta' regolamentare in ordine alla disciplina  dell'organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (mentre nel  nuovo
sistema   mancherebbe   il   possibile   oggetto    della    potesta'
regolamentare); 
        dall'art. 118, comma 1, che prevede che alle Province vengano
attribuite "per assicurarne l'esercizio unitario" le funzioni che non
possano essere svolte dai Comuni,  e  d'altronde  non  richiedano  di
essere svolte dalla Regione o dallo Stato  in  base  ai  principi  di
sussidiarieta'   e   di   adeguatezza   (con   conseguente   evidente
illegittimita' di una disciplina di  legge  ordinaria  che  a  priori
limiti le funzioni della Provincia a quelle di coordinamento); 
        dall'art. 118, comma  secondo  il  quale  le  Province  "sono
titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con
legge statale o regionale, secondo le  rispettive  competenze":  dove
l'aggettivo proprie  esclude  che  si  tratti  di  mere  funzioni  di
coordinamento, e  la  previsione  di  funzioni  conferite  con  legge
regionale vale  evidentemente  ad  escludere  che  la  legge  statale
ordinaria possa impedire alle Regioni di fare quanto prescritto dalla
Costituzione; 
        dell'art. 119 cost.  le  cui  varie  disposizioni  suppongono
anch'esse un ente dotato, al pari degli altri enti compositivi  della
Repubblica, di funzioni proprie da finanziare in termini adeguati. 
    In definitiva, la  eliminazione  di  qualunque  funzione  propria
della Provincia, e la sua riduzione ad un ente di presunto  indirizzo
e  di  coordinamento  dei  comuni,   contraddice   sia   le   singole
disposizioni costituzionali citate, sia il disegno complessivo che da
esse emerge. 
    L'illegittimita' del comma 14 si riverbera  sulla  corrispondente
illegittimita' dei commi  18  e  19,  che  contengono  in  definitiva
disposizioni attuative del comma 14. Il comma 18 riguarda le funzioni
attualmente conferite alle Province dalla normativa vigente, che  con
legge regionale dovrebbero essere riportate ai  Comuni,  oppure  alla
stessa Regione, entro il 31 dicembre 2012. 
    In questo modo la legge statale chiama la legge regionale a  fare
esattamente il contrario di quanto la Regione dovrebbe fare  in  base
alla Costituzione: anziche' attribuire alle Province le  funzioni  in
base ai principi di sussidiarieta' ed adeguatezza, togliere  ad  esse
le funzioni che in base a tali principi esse svolgono, per assegnarle
a livelli che si suppongono meno adatti. 
    Essendo  illegittimo  il  dovere  cosi  imposto   alle   Regioni,
altrettanto illegittimo e' anche il potere sostitutivo  previsto  dal
secondo periodo del comma 18 per il "caso  di  mancato  trasferimento
delle funzioni da parte delle Regioni" entro il termine. 
    La stessa illegittimita' colpisce poi il comma 19,  che  completa
il disegno di sottrazione delle funzioni  sul  piano  delle  "risorse
umane, finanziarie e strumentali". che ovviamente dovrebbero  seguire
il trasferimento delle funzioni. 
    c. Illegittimita' costituzionale dei commi 15, 16 e 17. 
    I commi 15, 16 e 17 modificano gli  organi  delle  Province,  per
renderli coerenti con le funzioni  che  il  comma  14  le  chiama  ad
esercitare. 
    In quanto questo ne e' lo scopo, ed in quanto essi completano sul
piano organizzativo il disegno perseguito sul piano  delle  funzioni,
l'illegittimita' della sottrazione delle funzioni colpisce  anche  il
disegno organizzativo che ne e' la conseguenza. 
    Ma gli stessi commi presentano anche autonome illegittimita', per
violazione diretta delle norme costituzionali. 
    La prima  illegittimita'  consiste  ad  avviso  della  ricorrente
Regione nella  recisione  da  parte  del  comma  15  del  legame  tra
cittadini e istituzione provinciale, che si  realizza  attraverso  la
soppressione della elezione popolare sia  del  Presidente  che  dello
stesso Consiglio provinciale. 
    Non sembra dubbio, infatti, che  nel  disegno  costituzionale  la
Provincia debba essere  direttamente  rappresentativa  della  propria
comunita' popolare di riferimento, e non soltanto  delle  istituzioni
comunali del suo territorio. 
    "Costituire" la Repubblica, ai sensi del  primo  comma  dell'art.
114 Cost., significa che ciascuno di tali enti ne e'  una  "autonoma"
espressione, in base  alle  regole  generali  della  autonomia.  Cio'
risulta confermato dal comma secondo, secondo il quale esse sono enti
autonomi con propri statuti, poteri e  funzioni  secondo  i  principi
costituzionali). Esse  sono  parte  della  Repubblica,  e  godono  di
autonomia, proprio in quanto condividono la  natura  di  entita'  che
rappresentano il popolo, per la relativa porzione di territorio. 
    Del resto, gia' la versione originaria del Titolo V  della  Parte
seconda della Costituzione aveva confermato la  Provincia  nella  sua
configurazione storica di  ente  locale  rappresentativo  del  popolo
insediato nel suo territorio. 
    Come si vedra', quanto qui considerato e' pienamente  confermato,
sul piano internazionale, dalla Carta europea delle autonomie locali,
che risulta anch'essa violata. 
    Una volta ritenuta l'illegittimita' della  derivazione  indiretta
del Consiglio provinciale, risulta illegittimo,  per  violazione  del
principio di ragionevolezza, sia l'individuazione in dieci del numero
massimo dei consiglieri - numero che rende impossibile  una  adeguata
rappresentanza  del  territorio  provinciale   -   sia   la   mancata
individuazione,  tra  gli  organi  della  Provincia,   della   Giunta
provinciale, dato che la  soppressione  puo'  avere  senso  solo  nel
quadro di un ente privo di funzioni. 
    d. Illegittimita' dei commi 14, 16  e  17  per  violazione  della
Carta europea delle autonomie locali. 
    Come e' ben noto, l'art. 117,  primo  comma,  della  Costituzione
sancisce che "la potesta' legislativa e'  esercitata  dallo  Stato  e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione,  nonche'  dei  vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali". 
    Tra gli atti che determinano obblighi  internazionali  vi  e'  la
Carta europea delle autonomie locali, resa esecutiva con 1.  439  del
1989. 
    Posto che non puo' essere messo in dubbio che la  Provincia,  per
come e' disegnata dalla Costituzione, costituisca "autonomia  locale"
ai sensi della Carta europea, occorre qui ricordare che l'art.  3  di
essa sancisce, sul piano  dell'azione,  che  "per  autonomia  locale,
s'intende il diritto e le capacita' effettiva, per  le  collettivita'
locali, di regolamentare ed  amministrare  nell'ambito  della  legge,
sotto la loro responsabilita', e  a  favore  delle  popolazioni,  una
parte importante di affari pubblici". 
    Ne risulta che  il  comma  14,  assegnando  alle  Provincia  solo
funzioni di coordinamento dei Comuni, e nessuna funzione autonoma  di
amministrazione, viola l'art. 3, comma 1, della Carta. 
    Inoltre, il comma 2 dell'art. 3 stabilisce che "tale  diritto  e'
esercitato da Consigli e Assemblee  costituiti  da  membri  eletti  a
suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in  grado
di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti".  Ne
risulta che  il  comma  16,  che  stabilisce  che  i  componenti  del
Consiglio provinciale sono eletti dai Comuni, anziche'  "a  suffragio
libero, segreto, paritario, diretto e universale",  viola  l'art.  3,
comma 2, della Carta. 
    e. Violazione dell'art. 4, dell'art. 1l, dell'art. 54 e dell'art.
59 dello Statuto regionale; violazione dell'art. 2 d. lgs. 9/1997. 
    Il comma 20-bis dell'art. 23 riguarda - per quanto qui  interessa
- la posizione delle Regioni a statuto speciale nei  confronti  delle
disposizioni dei commi da 14 a 20, e dispone  che  esse  "adeguano  i
propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro
sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto". 
    Se,   come   sopra   argomentato,    tali    disposizioni    sono
costituzionalmente illegittime, e' ovviamente  illegittimo  anche  il
dovere di adeguamento cosi' posto. 
    Ma il comma 20-bis appare illegittimo anche al di la'  di  questa
constatazione. Infatti, avendo la Regione Friuli-Venezia Giulia (come
del resto le altre Regioni speciali) potesta'  legislativa  primaria,
la sua legislazione e' soggetta soltanto ai limiti fissati  dall'art.
4 dello Statuto, escluso ogni  dovere  di  generico  "adeguamento"  a
specifiche disposizioni di legge ordinaria. 
    Risulta  poi  specificamente  violato  l'art. 11   dello   stesso
Statuto, secondo il quale "la Regione  esercita  normalmente  le  sue
funzioni amministrative delegandole alle Province ed  ai  Comuni,  ai
loro consorzi ed agli altri  enti  locali,  o  avvalendosi  dei  loro
uffici".  E'evidente,  infatti,  che  tale  disposizione  implica  la
facolta' (e il dovere) della Regione di delegare  "normalmente"  alle
Province parte delle proprie  funzioni  amministrative,  e  che  tale
facolta' di delega non puo' in alcun modo essere riferita  alla  sola
funzione di indirizzo e coordinamento dei comuni. 
    Ugualmente risulta violato l'art. 59 dello  Statuto,  secondo  il
quale le Province (al pari  dei  Comuni)  della  Regione  "sono  Enti
autonomi ed hanno ordinamenti e funzioni stabilite dalle leggi  dello
Stato e della Regione". Esso e' stato attuato con l'art.  2  d.  lgs.
9/1997, in base al quale "la regione, nel rispetto degli articoli 5 e
128 della Costituzione, nonche'  dell'articolo  4  dello  statuto  di
autonomia, fissa i principi dell'ordinamento locale e ne determina le
funzioni, per favorire la piena  realizzazione  dell'autonomia  degli
enti  locali".  Tali  disposizioni,  che  riprendono  in   parte   le
definizioni costituzionali (con le loro  implicazioni,  che  si  sono
sopra esposte), comportano il potere della  Regione  di  definire  le
funzioni delle Province, al di fuori di ogni possibile limitazione al
solo ruolo di indirizzo e coordinamento dei Comuni. 
    E'violato poi anche l'art. 54 St. ("Allo  scopo  di  adeguare  le
finanze delle Province e dei Comuni al raggiungimento delle finalita'
ed all'esercizio delle funzioni stabilite dalle leggi,  il  Consiglio
regionale puo' assegnare ad essi annualmente una quota delle  entrate
della Regione"), dal quale risulta che alle Province devono  spettare
anche funzioni gestionali e non solo di coordinamento. 
    f. Violazione dell'art. 54 St. e dell'art. 9 d. lgs. 9/1997 
    Le norme in questione (in particolare, i commi 14, 15 e 16) sono,
infine, illegittime per ragioni analoghe a quelle esposte  alla  fine
del punto precedente, cioe' per violazione delle norme  statutarie  e
di attuazione che attribuiscono alla Regione il compito di finanziare
gli enti locali, cosi' come integrate dall'art. 1, co. 154 e 155,  1.
220/2010. In sintesi (e rinviando  al  punto  5,  ultima  parte),  e'
illegittimo che lo Stato vada direttamente a limitare la spesa  degli
enti locali, laddove il finanziamento  di  questi  e'  a  carico  del
bilancio regionale. 
    7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 22 
    L'art. 23, co. 22,  dispone  che  "la  titolarita'  di  qualsiasi
carica, ufficio o organo di natura elettiva di un  ente  territoriale
non previsto dalla Costituzione e' a titolo esclusivamente  onorifico
e non puo' essere fonte di alcuna forma di remunerazione,  indennita'
o gettone di presenza, con esclusione dei comuni di cui  all'articolo
2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre  2009,  n.  191,  e
successive  modificazioni".   In   sede   di   conversione,   dunque,
l'applicazione della norma e' stata esclusa  per  i  "comuni  di  cui
all'articolo 2, comma 186, lettera b) della legge 23  dicembre  2009,
n. 191, e successive modificazioni". Si tratta  delle  circoscrizioni
nei Comuni di dimensione superiore ai 250.000 abitanti. 
    Per l'assenza di  una  clausola  di  salvaguardia,  il  comma  22
potrebbe essere inteso nel senso di  volersi  applicare  anche  nelle
regioni speciali. In tal caso, esso sarebbe lesivo  delle  competenze
costituzionali della Regione in materia  di  ordinamento  degli  enti
locali e di finanza  locale,  per  ragioni  analoghe  a  quelle  gia'
esposte con riferimento all'art. 23, co. 4. 
    La  norma,  infatti,  rientra   prevalentemente   nella   materia
"ordinamento degli enti locali" e, poi, incide  anche  sulla  materia
"finanza locale", avendo come scopo la razionalizzazione della  spesa
degli enti locali. Nella  prima  materia  la  Regione  Friuli-Venezia
Giulia e' dotata di potesta' legislativa primaria ai sensi  dell'art.
4, n. 1-bis, dello Statuto. Le norme  di  attuazione  adottate  nella
stessa  materia  hanno  poi  precisato  che  "spetta   alla   regione
disciplinare lo status degli amministratori locali" (art. 14 d.  lgs.
9/1997). 
    Con l'art. 3, co. 13, 1.r. 13/2002 la Regione ha disposto che "la
misura  delle  indennita'   e   dei   gettoni   di   presenza   degli
amministratori degli Enti locali  e'  determinata  con  deliberazione
della Giunta regionale, su proposta dell'Assessore per  le  autonomie
locali, d'intesa con il Consiglio delle autonomie locali". L'art. 12,
co. 2,1.r. 22/2010 ha  poi  stabilito  (a  fini  di  chiarezza,  dopo
l'emanazione del d.l. 78/2010) che "la misura delle indennita' e  dei
gettoni di presenza previsti a favore degli amministratori degli enti
locali continua ad essere disciplinata secondo  quanto  previsto  dal
comma 13 dell'articolo 3 della legge regionale  15  maggio  2002,  n.
13". Tale disposizione non e' stata impugnata dal Governo. 
    Anche nella materia della finanza locale la Regione  e'  titolare
di ampia competenza statutaria in base  agli  artt.  51  e  54  dello
Statuto e all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare,  il  comma 1  di
questa disposizione statuisce che "spetta alla  regione  disciplinare
la   finanza   locale,   l'ordinamento   finanziario   e   contabile,
l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali". 
    La norma censurata, per il suo carattere  dettagliato,  non  puo'
rappresentare un limite alle competenze regionali  appena  illustrate
e,  percio',  essa  sarebbe  illegittima   qualora   pretendesse   di
applicarsi nella regione Friuli-Venezia Giulia.  Essa,  infatti,  non
solo non  e'  idonea  a  concretare  uno  dei  limiti  alla  potesta'
legislativa primaria ma pone un limite  puntuale,  autoapplicativo  e
stabile ad una voce minuta di spesa e, percio', non possiede  nessuno
dei caratteri che, in base alla giurisprudenza  costituzionale,  sono
requisiti necessari dei "principi fondamentali di coordinamento della
finanza pubblica". L'art. 23, co. 22, dunque,  non  pone  un  vincolo
legittimo  neppure  in  relazione   alle   Regioni   ordinarie   (con
conseguente violazione dell'art. 117, co. 3, Cost.) e tanto meno puo'
condizionare  la  potesta'  primaria  della  Regione  in  materia  di
ordinamento degli enti  locali  e  l'ampia  potesta'  in  materia  di
finanza locale. 
    Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d.  lgs.
9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la  regione  finanzia  gli  enti
locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1,  co.  154,
1.  220/2010  ha  statuito  quanto  segue:   "la   regione   autonoma
Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti  e
organismi strumentali, le  aziende  sanitarie  e  gli  altri  enti  e
organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla  regione  medesima
in via ordinaria e prevalente costituiscono  nel  loro  complesso  il
«sistema regionale integrato». Gli obiettivi  sui  saldi  di  finanza
pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la  regione  sono
realizzati attraverso il  sistema  regionale  integrato.  La  regione
risponde  nei  confronti  dello  Stato  del  mancato  rispetto  degli
obiettivi di' cui  al  periodo  precedente".  Il  comma  155  ha  poi
aggiunto che "spetta alla regione individuare, con  riferimento  agli
enti locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi
per ciascun ente e le modalita' necessarie  al  raggiungimento  degli
obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo  Stato  per
il periodo di riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e  che
"le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno  non
trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti  il
sistema regionale integrato". 
    Da tali norme risulta che lo Stato deve  limitarsi  a  concordare
con la Regione  i  vincoli  finanziari,  lasciando  alla  Regione  il
compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri  e  degli
enti locali del proprio territorio. 
    E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a
limitare  una  voce  di  spesa  degli   enti   locali,   laddove   il
finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v.  sent.
341/2009, punto 6). 
    8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 28, comma 3 
    L'art. 28 ha ad oggetto  il  Concorso  alla  manovra  degli  Enti
territoriali e ulteriori riduzioni di spese. Il  comma  3  stabilisce
quanto segue: "Con le  procedure  previste  dall'articolo  27,  della
legge 5 maggio 2009, n. 42,  le  Regioni  a  statuto  speciale  e  le
Province  autonome  di  Trento  e  Bolzano  assicurano,  a  decorrere
dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di curo 860 milioni
annui.  Con  le  medesime  procedure  le  Regioni  Valle  d'Aosta   e
Friuli-Venezia Giulia e le Province  autonome  di  Trento  e  Bolzano
assicurano, a decorrere dall'anno  2012,  un  concorso  alla  finanza
pubblica di 60 milioni di euro annui, da parte dei  Comuni  ricadenti
nel proprio territorio. Fino all'emanazione delle norme di attuazione
di cui al predetto articolo 27, l'importo complessivo di 920  milioni
e' accantonato, proporzionalmente alla  media  degli  impegni  finali
registrata per ciascuna autonomia nel triennio  2007-2009,  a  valere
sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali". 
    Siamo, dunque, di fronte ad una ulteriore  rilevante  sottrazione
di risorse alle Regioni speciali, che si aggiunge a  quelle  previsti
dall'art.  14  d.l.  78/2010,  dall'art.  20,  co.  5,  di.  98/2011,
dall'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e, per  questa  Regione,  dalla  1.
220/2010. In piu', viene disposto un concorso  anche  "da  parte  dei
comuni" situati nei territori  delle  autonomie  speciali  dotate  di
competenza in materia di finanza locale.  Quest'ultimo  concorso,  in
realta', incide in sostanza sempre sulla Regione, e comunque anche il
concorso dei comuni inciderebbe pur sempre sulla  Regione,  in  forza
dell'art. 54 dello Statuto e dell'art. 9 del d. lgs. n. 9 del 1997. 
    Comunque, in base alla giurisprudenza costituzionale  le  Regioni
sono legittimate a difendere davanti  alla  Corte  anche  l'autonomia
finanziaria dei comuni  (v.  sentt.  298/2009,  278/10,  punto  14.1,
169/2007, punto 3, 95/2007, 417/2005, 196/2004, 533/2002). 
    La sottrazione di' risorse  qui  contestata  non  ha  in  effetti
alcuna base statutaria. 
    Al contrario,  le  disposizioni  dello  Statuto,  a  partire  dal
fondamentale art. 49, sono rivolte  ad  assicurare  alla  Regione  le
finanze necessarie all'esercizio delle funzioni: ed e' chiaro che  la
devoluzione statutaria di importanti percentuali dei tributi riscossi
nella regione non avrebbe alcun senso, se poi fosse  consentito  alla
legge ordinaria dello Stato di riportare all'erario tali risorse, per
di piu' con determinazione unilaterale e meramente potestativa. 
    Per di piu', come gia' ricordato, lo Stato ha gia' definito  (con
l'art. 1, commi 152 ss.  1.  220/2010)  i  modi  in  cui  la  Regione
Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della finanza pubblica,
con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma del 29 ottobre 2010. 
    I commi 154 e 155  dell'art. 1  l.  220/2010  attribuiscono  alla
Regione poteri di coordinamento finanziario con riferimento agli enti
locali, nel quadro della generale competenza legislativa regionale in
materia di finanza  locale  prevista  dagli  artt.  51  e  54  St.  e
dall'art. 9 d. lgs. 9/1997. 
    Con le disposizioni statutarie sopra ricordate  l'impugnato  art.
28, comma 3, si pone in insanabile conflitto. 
    Le  risorse   spettanti   alla   Regione   non   possono   essere
semplicemente "acquisite" dallo Stato. 
    Del resto, tutto il regime dei rapporti finanziari  fra  Stato  e
Regioni speciali e' dominato dal principio  dell'accordo,  pienamente
riconosciuto  nella  giurisprudenza  costituzionale:  v.  le   sentt.
82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010. 
    L'illegittimita' della disposizione  impugnata  non  puo'  essere
nascosta dal rinvio alle norme di attuazione dello Statuto. 
    In primo luogo, l'accantonamento previsto in attesa  delle  norme
di attuazione e'  gia'  autonomamente  lesivo,  traducendosi  in  una
sottrazione delle  risorse  disponibili  per  la  Regione  (v.  anche
argomenti esposti sopra). 
    In secondo luogo, quanto alle stesse norme di attuazione,  l'art.
49 e' modificabile solo con la procedura di cui all'art.  104  St.  e
non in sede  di  attuazione.  In  terzo  luogo,  l'art.  28,  co.  3,
determina (illegittimamente) un vincolo di contenuto per le norme  di
attuazione,  per  cui  il  rinvio  alla  fonte  "concertata"   appare
fittizio. Inoltre, "fino all'emanazione delle  norme  di  attuazione.
l'importo complessivo di 920 milioni e' accantonato. a  valere  sulle
quote di compartecipazione ai tributi erariali". Dunque, la riduzione
delle  risorse  e'  operata  direttamente   e   unilateralmente   dal
legislatore statale, in contrasto con lo Statuto e con  il  principio
consensuale che domina i rapporti tra Stato  e  Regioni  speciali  in
materia finanziaria (v. le sentt. sopra citate). 
    In definitiva, come detto, l'art. 28, co. 3, viola l'art. 49 St.,
perche' diminuisce l'importo  spettante  alla  Regione  a  titolo  di
compartecipazioni, in base alla suddetta norma statutaria. 
    Corrispondentemente, e' violato l'art. 63, quinto comma, St., che
richiede il consenso della Regione per la modifica  delle  norme  del
Titolo VI dello Statuto. 
    Infine, e' violato l'art. 65  St.,  perche'  una  fonte  primaria
pretende di vincolare il contenuto delle norme di attuazione. 
    Si noti che le censure sopra svolte valgono ugualmente alla quota
di 60 milioni di euro che lo Stato esige dalla Regione come "da parte
dei Comuni ricadenti nel proprio territorio". 
    Se la Regione, come esposto, ha il dovere di contribuire  con  le
proprie risorse alla finanza dei propri comuni, non fa  certo  invece
parte dei suoi compiti di fungere in relazione ad  essi  da  esattore
per conto dello Stato. Ne' lo Stato ha alcun titolo per esigere dalla
Regione Friuli-Venezia Giulia somme  che  esso  ritenga  a  qualunque
titolo dovute dai comuni. Si tratta  di  risorse  che  spettano  alla
Regione per Statuto, e  che  non  possono  essere  destinate  se  non
secondo le previsioni statutarie, che non sono suscettibili di essere
alterate dalla legge ordinaria dello Stato. 
    E', poi, ulteriormente e specificamente illegittimo e  lesivo  il
terzo periodo dell'art. 28, co. 3, la' dove prevede il  criterio  del
riparto  dell'accantonamento  ("proporzionalmente  alla  media  degli
impegni  finali  registrata  per  ciascuna  autonomia  nel   triennio
2007-2009").  Infatti,  tale  criterio  non  risulta  in  alcun  modo
pariteticamente concordato tra Stato e Regioni speciali, in contrasto
con il principio consensuale che - accanto allo  Statuto  ed  in  via
integrativa - regola le relazioni  finanziarie  tra  lo  Stato  e  la
Regione. 
    Infine, risulta illegittimo il quarto periodo dell'art.  28,  co.
3, secondo il  quale,  in  relazione  al  riparto  della  sottrazione
complessiva di risorse tra le diverse  autonomie  speciali,  "per  la
Regione Siciliana si tiene conto  della  rideterminazione  del  fondo
sanitario nazionale per effetto del comma 2". 
    Posto che il richiamato comma 2 stabilisce che "l'aliquota di cui
al comma 1" (cioe' l'aumento dell'aliquota di  base  dell'addizionale
regionale all'IRPEF, regolata dall'art. 6 d. lgs. 68/2011, da 0,9 % a
1,23 %) "si applica anche alle Regioni  a  statuto  speciale  e  alle
Province autonome  di  Trento  e  Bolzano",  la  disposizione  appare
particolarmente oscura. 
    Tuttavia, essa sembra interpretabile nel senso che la  quota  del
taglio previsto nell'art. 28, co. 3  (€ 860  milioni),  che  dovrebbe
essere addossata alla  Regione  Siciliana,  deve  essere  ridotta  in
corrispondenza alle minori risorse del Fondo sanitario destinate alla
Regione stessa. 
    Posto che di cio' si tratti, e' chiaro che, in  questo  modo,  si
altererebbe addirittura  in  peggio  per  la  ricorrente  Regione  il
criterio proporzionale fissato dal terzo periodo del  comma  3  e  si
addosserebbe irragionevolmente  alle  altre  autonomie  speciali  una
quota parte del finanziamento della  spesa  sanitaria  della  Regione
Siciliana. 
    Ne risulterebbe la violazione dell'art.  3  cost.  e  la  lesione
dell'autonomia finanziaria e amministrativa  della  Regione,  perche'
essa - oltre a finanziare la propria sanita' con il proprio  bilancio
- verrebbe chiamata a contribuire al finanziamento parziale di quella
siciliana (v., per l'ammissibilita' di una censura ex art.  3  Cost.,
ad es., la sent. 16/2010, punto 5.1), con  inevitabili  ripercussioni
sulle proprie funzioni amministrative e sulla  propria  autonomia  di
spesa. 
    La mancanza di base  statutaria  del  contributo  richiesti  alla
Regione e' base sufficiente  per  la  richiesta  di  declatatoria  di
illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata. 
    Per tuziorismo, la ricorrente  Regione  fa  valere  in  subordine
anche le seguenti considerazioni, fondate sul diverso  parametro  del
principio di corrispondenza tra autonomia  finanziaria  ed  esercizio
delle funzioni e su altri parametri. 
    In  effetti,  anche  se  la  autonomia  finanziaria  intesa  come
disponibilita'  di  risorse  sufficienti  ad  esercitare  le  proprie
attribuzioni costituzionali, e come effettiva capacita' di spesa,  va
valutata nel complesso, e che "contenimenti" transitori  delle  spese
non sono necessariamente incostituzionali (secondo quanto risulta  ad
esempio, in ordine ai vincoli  derivanti  dal  patto  di  stabilita',
dalla sent. 284/2009), tuttavia, se non si vuole  privare  l'articolo
119 cost. e, per il Friuli-Venezia  Giulia,  l'articolo  48  Statuto,
della capacita' di fungere da parametri di costituzionalita', occorre
riconoscere che singoli provvedimenti normativi (gli unici  contro  i
quali - ex articolo 127 cost. - la Regione  puo'  reagire,  ed  entro
termini  tassativi)  possano  essere  sindacati  e,  se   del   caso,
censurati, anche alla luce di altri singoli provvedimenti,  l'insieme
dei quali si dimostra lesivo dell'autonomia finanziaria regionale. 
    Nel caso, la Regione si trova nella condizione di  affermare  che
l'ulteriore "taglio" di risorse, in una con le riduzioni della  legge
220/2010, determina la incostituzionalita' dell'articolo 28, comma 3,
anche in quanto impone riduzioni  consistenti  alla  spesa,  tali  da
pregiudicare  l'assolvimento  delle  funzioni   pubbliche   ad   essa
attribuite, in violazione dell'articolo 119 cost. (v. soprattutto  il
principio di corrispondenza tra risorse e funzioni di cui al comma 4:
"Le  risorse  derivanti  dalle  fonti  di  cui  ai  commi  precedenti
consentono ai Comuni, alle Province, alle Citta' metropolitane e alle
Regioni  di  finanziare  integralmente  le  funzioni  pubbliche  loro
attribuite") e dell'articolo 48 Statuto, la cui  portata  si  precisa
anche attraverso la considerazione  sistematica  di  tutte  le  norme
costituzionali  e  statutarie  rilevanti   ai   fini   dell'autonomia
finanziaria. In questo senso, la lesione di  altri  parametri  -  che
subito si illustra - concorre a dimostrare anche la violazione  degli
articolo 119 cost. e 48 Statuto. 
    Violato e' in primo luogo l'articolo  116,  comma  1,  Cost.,  il
quale riconosce alle Regioni speciali forme e condizioni  particolari
di autonomia, che non possono non riguardare - data  la  formulazione
della disposizione - anche la autonomia finanziaria (seni. 82/2007). 
    L'art. 28, co. 3, lede la disposizione  in  quanto  riserva  alle
Regioni  speciali  -  e,  per  quanto  interessa  qui,  alla  Regione
Friuli-Venezia Giulia - un trattamento deteriore  rispetto  a  quanto
vale per le Regioni ordinarie. 
    L'irragionevolezza  del   trattamento   deteriore   si   apprezza
considerando che  queste  differenziazioni  operano  in  un  contesto
normativo stabile, quanto alle funzioni, per  le  Regioni  ordinarie,
mentre   e'   aumentato   il   concorso   specifico   della   Regione
Friuli-Venezia   Giulia   al   conseguimento   degli   obiettivi   di
perequazione e di  solidarieta'  e  all'assolvimento  degli  obblighi
derivanti dall'ordinamento europeo e dal patto di stabilita' interno.
Si  rammenta  qui  il  comma  152  dell'articolo  1  della  legge  di
stabilita' per il 2011 (1. 220/2010), secondo cui "nel  rispetto  dei
principi indicati nella legge 5  maggio  2009,  n.  42,  a  decorrere
dall'anno   2011,   la   regione   autonoma   Friuli-Venezia   Giulia
contribuisce all'attuazione del federalismo fiscale, nella misura  di
370 milioni di euro annui, mediante: a) il pagamento di una somma  in
favore dello Stato; b) ovvero la rinuncia alle  assegnazioni  statali
derivanti dalle leggi di settore, individuate nell'ambito del  tavolo
di confronto di cui all'articolo 27, comma 7, della citata  legge  n.
42 del 2009; c)  ovvero  l'attribuzione  di  funzioni  amministrative
attualmente esercitate dallo Stato, individuate mediante accordo  tra
il Governo e la regione, con oneri a carico  della  regione.  Con  le
modalita' previste dagli articoli 10  e  65  dello  Statuto  speciale
della regione Friuli-Venezia Giulia, di cui alla legge costituzionale
31 gennaio 1963, n. 1, lo Stato e la regione definiscono le  funzioni
da attribuire".  Il  trattamento  gravoso  riservato  alle  autonomie
speciali, e  tra  esse  alla  ricorrente  Regione,  non  puo'  essere
giustificato sulla base della considerazione della relativa  maggiore
ampiezza - rispetto alle Regioni ordinarie - delle  risorse  ad  esse
riservate.  Tale  maggiore  ampiezza  infatti  e'  il  frutto   delle
valutazioni dell'ordinamento costituzionale dello Stato, e  non  puo'
essere alterata se non seguendo le vie costituzionalmente prescritte:
le quali, del resto, esistono, come tra breve verra' illustrato. 
    L'articolo  49  Statuto  garantisce  alla  Regione  certezza   di
entrate, finalizzate ad  assicurarle  la  possibilita'  di  esercizio
delle  proprie  funzioni.  Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  le
disposizioni censurate ledono - in via indiretta ma  sicura  -  anche
tale parametro: non ha  senso  logico  che  vi  sia  per  la  Regione
garanzia costituzionale di determinate entrate (una garanzia  che  la
ricorrente Regione ha potuto far valere  con  successo,  ad  esempio,
nella controversia definita con  la  sent.  74/2009),  se  poi  fosse
consentito  allo  Stato  di  imporre  con  legge  ordinaria  massicce
riduzioni  della  spesa,  alla  quale  le  entrate   garantite   sono
finalizzate! 
    Di  fronte  a   tali   sostanziali   violazioni   dei   parametri
costituzionali, non varrebbe certo obiettare che tutte  le  autonomie
territoriali - Regioni speciali comprese - sono soggette ai  principi
di coordinamento della finanza pubblica,  inevitabilmente  fissati  a
livello nazionale, anche in adempimento di  obblighi  europei  (sent.
82/2007); che la attribuzione di quote fisse di tributi erariali puo'
condurre ad un incremento delle risorse  regionali,  in  funzione  di
manovre tributarie statali, senza che vi sia necessita'  -  da  parte
della Regione - di  nuove  risorse  per  nuove  funzioni,  o  per  un
migliore assolvimento di compiti precedenti (ma le entrate potrebbero
anche diminuire, per l'andamento negativo del ciclo economico.);  che
lo stesso articolo 49 Statuto, nel  momento  in  cui  riconosce  alla
Regione autonomia finanziaria, aggiunge subito che essa si svolge (si
deve  svolgere)  "in  armonia  con  i  principi  della   solidarieta'
nazionale". 
    Infatti, la  considerazione  di  tali  valori  deve  essa  stessa
manifestarsi  mediante   strumenti   costituzionalmente   ammissibili
nell'ordinamento. 
    Cosi, anzitutto, le  stesse  norme  di  attuazione  statutaria  -
radicate direttamente nel principio di solidarieta' nazionale  (sent.
75/1967) - consentono di eccettuare dalla attribuzione  alla  Regione
le nuove entrate tributarie statali il cui gettito sia destinato  con
apposite  leggi  alla  copertura  di  oneri  diretti   a   soddisfare
particolari  finalita'  contingenti  o  continuative   dello   Stato,
specificate nelle leggi medesime, a termini dell'articolo 4 d.P.R. 23
gennaio 1965, n. 114. Ma la legittimita' costituzionale della riserva
e' subordinata alla corretta destinazione di  tali  risorse  in  base
alla citata disposizione: il che nel caso presente non avviene,  come
si illustrera' oltre, in sede di contestazione dell'art. 48. 
    Inoltre,  le  stesse  disposizioni  statutarie  sulla   autonomia
finanziaria (articolo 49 compreso) possono sempre  essere  modificate
(come varie volte e' gia' accaduto) senza  ricorrere  alla  revisione
con legge costituzionale, purche'  vi  sia  il  coinvolgimento  della
Regione (articolo 63, comma 5, Statuto). 
    In termini generali, poi,  i  rapporti  finanziari  Stato-Regione
sono  ispirati  al  principio   della   determinazione   consensuale.
L'"obbligo generale  di  partecipazione  di  tutte  le  Regioni,  ivi
comprese quelle a statuto speciale, all'azione di  risanamento  della
finanza pubblica" - puntualizza la Corte con la sent. 82/2007 - "deve
essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia
finanziaria di cui godono le predette  Regioni,  in  forza  dei  loro
statuti. In tale prospettiva, come questa Corte ha avuto occasione di
affermare, la previsione normativa del  metodo  dell'accordo  tra  le
Regioni a statuto speciale  e  il  Ministero  dell'economia  e  delle
finanze, per la  determinazione  delle  spese  correnti  e  in  conto
capitale,  nonche'  dei   relativi   pagamenti,   deve   considerarsi
un'espressione  della   descritta   autonomia   finanziaria   e   del
contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei  limiti
alla spesa imposti dal cosiddetto "patto di stabilita'" (sentenza  n.
353 del 2004)". 
    Questo principio, sul  piano  della  legislazione  ordinaria,  ha
trovato fino ad ora varie concretizzazioni. E'sufficiente  richiamare
qui, per la sua portata sistematica, l'articolo  27,  1.42/2009,  che
rimette  alle  norme  di  attuazione  statutaria  la  attuazione  dei
principi del c.d. federalismo fiscale (tra i quali vi e' il  rispetto
del patto di stabilita' e dei vincoli  finanziari  europei),  tenendo
"conto della dimensione della finanza delle [...] regioni e  province
autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva,  delle  funzioni
da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri...". Le stesse
misure particolari dei ricordati commi 152 e 156 dell'articolo  1  1.
220/2010,  specificamente   concernenti   l'apporto   della   Regione
Friuli-Venezia Giulia al risanamento delle  finanze  pubbliche,  sono
state oggetto di confronto e discussione tra Governo e Regione. 
    Con il principio costituzionale di collaborazione si  pongono  in
contrasto  le  disposizioni  impugnate.  L'art.  28,  co.  3,  deroga
unilateralmente  all'Accordo  di   Roma   del   2010,   fra   l'altro
penalizzando irragionevolmente quelle Regioni speciali che nel 2009 e
nel 2010 avevano gia' concordato il loro  contributo  al  risanamento
finanziario, privandosi di notevoli risorse, rispetto  a  quelle  che
non hanno mai assunto simili impegni. 
    Ne risulta anche sotto questo ulteriore profilo  l'illegittimita'
costituzionale della disposizione impugnata. 
    9)  Illegittimita'  costituzionale   dell'art.   31,   comma   1.
Violazione  degli  artcoli  3  (Principio  di  ragionevolezza),  117,
secondo, terzo e quarto comma, nonche' 118, primo comma, Cost. 
    L'art. 31, comma 1, dispone quanto segue: 
        "In materia di esercizi commerciali, all'articolo 3, comma 1,
lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n.  223,  convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono  soppresse
le parole: "in via sperimentale" e dopo  le  parole  "dell'esercizio"
sono soppresse le seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli  elenchi
regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte". 
    Cosi' facendo, esso da un  lato  rende  permanente  (e  non  piu'
"sperimentale")  la  liberalizzazione  degli  orari  degli   esercizi
commerciali, dall'altro - sopprimendo  la  limitazione  ai  comuni  a
vocazione turistica  -  estende  la  liberalizzazione  agli  esercizi
commerciali di tutti i  Comuni,  e  dunque  di  tutto  il  territorio
nazionale. 
    A seguito della modifica introdotta, il  testo  dell'articolo  3,
comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006 e' quindi ora - per quanto
qui interessa - il seguente: 
        "Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario  in
materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci
e dei servizi ed al fine di  garantire  la  liberta'  di  concorrenza
secondo condizioni di pari opportunita' ed il  corretto  ed  uniforme
funzionamento del  mercato,  nonche'  di  assicurare  ai  consumatori
finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di  accessibilita'
all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi
dell'articolo  117,  comma  secondo,  lettere   e)   ed   m),   della
Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal  decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di  alimenti
e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: 
d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di  chiusura,  l'obbligo
della chiusura domenicale  e  festiva,  nonche'  quello  della  mezza
giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio". 
    L'art. 1, co. 1-bis, d.l. 223/2006 dispone che  "le  disposizioni
di cui al presente  decreto  si  applicano  alle  regioni  a  statuto
speciale  e  alle  province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano  in
conformita'  agli  statuti  speciali  e  alle   relative   norme   di
attuazione", ma dalla prima parte del comma l  si  puo'  ricavare  la
pretesa della norma di vincolare anche le Regioni speciali. 
    Si noti che ne' il d.l. n. 223 del 2006 ne' il d.l.  n.  201  del
2011 - pur prevalendo sulle precedenti disposizioni  incompatibili  -
abrogano specificamente le disposizioni precedentemente  dettate  dal
decreto legislativo 31 marzo 1998,  n.  114,  recante  Riforma  della
disciplina relativa al settore del commercio, a  norma  dell'articolo
4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59. 
    Le regole generali, valide per tutti  gli  esercizi  commerciali,
erano dettate all'articolo 11, orari di vendita: 
        "1. Gli orari di apertura e di  chiusura  al  pubblico  degli
esercizi  di  vendita  al  dettaglio   sono   rimessi   alla   libera
determinazione degli esercenti nel rispetto  delle  disposizioni  del
presente articolo e  dei  criteri  emanati  dai  comuni,  sentite  le
organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio  e
dei  lavoratori  dipendenti,  in  esecuzione   di   quanto   disposto
dall'articolo 36. comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142. 
        2. Fatto salvo quanto  disposto  al  comma  4,  gli  esercizi
commerciali  di  vendita  al  dettaglio  possono  restare  aperti  al
pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette  alle  ore
ventidue. Nel rispetto di tali limiti  l'esercente  puo'  liberamente
determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio  esercizio
non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere. 
        3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico  l'orario
di effettiva apertura  e  chiusura  del  proprio  esercizio  mediante
cartelli o altri mezzi idonei di informazione. 
        4. Gli esercizi di vendita al dettaglio Osservano la chiusura
domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni,
sentite le organizzazioni di cui al comma 1,  la  mezza  giornata  di
chiusura infrasettimanale. 
        5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui  al  comma  1,
individua i giorni e le zone del territorio nei quali  gli  esercenti
possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva.  Detti
giorni comprendono comunque quelli  del  mese  di  dicembre,  nonche'
ulteriori otto domeniche o festivita'  nel  corso  degli  altri  mesi
dell'anno". 
    Nella regolamentazione degli orari  di  apertura  e  chiusura  al
pubblico erano dunque fortemente coinvolti, da un  lato  i  Comuni  e
dall'altro le associazioni di categoria: e la  libera  determinazione
da parte dell'esercente - che pure era enunciata come principio - era
temperata da limiti direttamente derivanti dalla legge  statale,  che
in parte potevano essere derogati dai Comuni, sentite le associazioni
di categoria. 
    Una disciplina specifica era  invece  dettata  per  le  localita'
turistiche e le citta' d'arte dall'articolo 12,  comma  1,  il  quale
disponeva (o dispone, non essendo stato espressamente  abrogato)  che
"nei comuni  ad  economia  prevalentemente  turistica,  nelle  citta'
d'arte o nelle  zone  del  territorio  dei  medesimi,  gli  esercenti
determinano liberamente gli orari di apertura e di chiusura e possono
derogare dall'obbligo di cui all'articolo 11, comma 4". 
    Dopo la riforma del Titolo V, divenuta la materia  del  commercio
di competenza residuale  delle  Regioni,  la  legislazione  regionale
aveva apportato rilevanti modifiche al sistema del d. lgs. n. 114 del
1998, nel senso di una piu'  ampia  liberta'  degli  esercenti  nella
determinazione degli orari. 
    In particolare, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha  dettato  una
disciplina completa della materia con la 1. r. 5  dicembre  2005,  n.
29, recante Normativa organica in materia di attivita' commerciali  e
di somministrazione  di  alimenti  e  bevande.  Modifica  alla  legge
regionale 16 gennaio 2002, n. 2, Disciplina organica del turismo:  la
quale disciplina gli orari al Capo IV  del  Titolo  II,  dedicato  al
Commercio in sede fissa. 
    Tuttavia, la disciplina regionale ha sempre mantenuto  un  quadro
normativo di favore  per  la  libera  determinazione  dell'esercente,
bilanciato pero' dalla considerazione anche  degli  altri  valori  in
gioco, che anch'essi godono  di  tutela  costituzionale:  tutela  dei
lavoratori (artt. 4, 35 e 117,  comma  terzo),  tutela  della  salute
(artt. 32 e 117, co. 3), tutela di una ordinata convivenza  (art.  2)
e, sia consentito, tutela anche della liberta' religiosa (art. 19)  e
dell'interesse delle popolazioni -  e  degli  stessi  lavoratori  del
settore commerciale - a vivere certe giornate e certi  momenti  della
giornata in quel particolare clima civile  e  spirituale  che  deriva
dalla sospensione delle attivita' commerciali, e che costituisce esso
stesso un valore protetto. Tali  valori  rientrano  nelle  competenze
regionali, o espressamente (v. la sanita' e  la  tutela  del  lavoro:
art. 117, co. 3, Cost.) o in via residuale, o  come  generali  valori
costituzionali da rispettare in tutte le  materie  di  competenza,  a
partire ovviamente dalla disciplina del commercio. 
    Sia consentito di ricordare fin d'ora che in altri paesi  europei
tali valori hanno trovato riconoscimento in esplicite regole,  talora
addirittura al  livello  costituzionale:  l'art.  140  Grundgesetz  -
attraverso il  richiamo  dell'art.  139  della  Costituzione  dell'11
agosto 1919 (Costituzione di Weimar) - sancisce che "la domenica e  i
giorni festivi  riconosciuti  dallo  Stato  rimangono  protetti  come
giorni di riposo lavorativo e di elevazione spirituale" (Der  Sonntag
und  die  staatlich  anerkannten  Feiertage  bleiben  als  Tage   der
Arbeitsruhe und der seelischen Erhebung gesetzlich geschutzt),  e  su
tale base la Corte costituzionale tedesca ha fondato la  legittimita'
e la necessita' di  una  regolazione  restrittiva  dell'apertura  dei
negozi (sentenza del 9 giugno 2004). 
    La Commissione europea poi ha rilevato che «le choix d'un jour de
fermeture des commerces fait intervenir des considerations de  nature
historique, culturelle, touristique, sociale et  religieuse  relevant
de l'appreciation de chaque Etat  membre»  (citato  nel  progetto  di
legge presentato alla Presidenza  dell'Assemblee  nationale  francese
con  il  n.  3262  il   6   luglio   2006,   consultabile   al   sito
http://www.assemblee-nationale.fr/12/propositions/pion3262.asp). 
    La  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  e'  dotata   di   competenza
regionale piena in materia di commercio, ai sensi dell'art. 4, n.  6,
dello Statuto speciale o, qualora ritenuto piu' favorevole, dell'art.
117, co. 4, cost. (ex art. 10 1. cost. 3/2001): in quest'ultimo senso
v., proprio in relazione al Friuli-Venezia Giulia, la sent. 165/2007,
punto 4.3. 
    Essa ritiene che la totale liberalizzazione  degli  orari,  senza
alcuna considerazione dei valori costituzionali concorrenti, ecceda i
limiti della potesta' legislativa statale in materia di tutela  della
concorrenza,  violi  i  principi  di  proporzionalita'  e  i   valori
costituzionali cosi' trascurati ed  invada  invece  l'ambito  in  cui
spetta  alla  Regione  di'  dettare  una   disciplina   degli   orari
commerciali che tenga conto anche dei predetti valori concorrenti. 
    L'illustrazione  di  questo   assunto   richiede   una   ordinata
esposizione dei diversi punti. Che la materia degli orari dei  negozi
rientri  nella  potesta'  legislativa  delle  Regioni  non   richiede
particolari  dimostrazioni,   avendolo   piu'   volte   espressamente
confermato codesta ecc.ma Corte costituzionale. Con  la  sentenza  n.
150 del 2011, ad esempio, e' stato ricordato che "di recente, in piu'
occasioni, questa Corte ha affermato che la  disciplina  degli  orari
degli  esercizi  commerciali  rientra   nella   materia   «commercio»
(sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva
residuale delle Regioni, ai sensi  del  quarto  comma  dell'art.  117
Cost., e che «il decreto legislativo 31 marzo 1998, n.  114  (Riforma
della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art.
4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [.],  si  applica,  ai
sensi dell'art. 1, comma  2,  della  legge  5  giugno  2003,  n.  131
(Disposizioni per  l'adeguamento  dell'ordinamento  della  Repubblica
alla legge costituzionale 18  ottobre  2001,  n.  3),  soltanto  alle
Regioni che  non  abbiano  emanato  una  propria  legislazione  nella
suddetta materia» (sentenze n. 288 e n. 247 del  2010,  ordinanza  n.
199 del 2006)" (punto 5 in diritto). 
    La ricorrente Regione e' tuttavia  consapevole  che  questa  sola
constatazione non basta  a  fondare  l'illegittimita'  costituzionale
della normativa impugnata, in quanto occorre ancora dimostrare che lo
Stato non  possiede,  in  relazione  ad  essa,  un  legittimo  titolo
costituzionale di intervento. 
    Ed i titoli che  vengono  in  considerazione  sono  espressamente
enunciati dal testo in  cui  l'impugnata  disposizione  e'  inserita,
cioe' nell'art. 3, comma  1,  del  decreto-legge  n.  223  del  2006,
secondo il quale gli oggetti ai quali tale comma  si  riferisce  sono
disciplinati   "ai   sensi   delle   disposizioni    dell'ordinamento
comunitario  in  materia  di  tutela  della  concorrenza   e   libera
circolazione delle merci e dei servizi ed al  fine  di  garantire  la
liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il
corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare
ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni  di
accessibilita' all'acquisto di  prodotti  e  servizi  sul  territorio
nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere  e)  ed
m)". 
    Si  noti  che  l'inserimento  degli  orari  in  questo   contesto
normativo e' frutto di un ripensamento: tanto  e'  vero  che  proprio
dalla assenza di esso aveva tratto argomento la Corte nella  sentenza
n. 150 per confermare a contrario l'appartenenza della  materia  alla
disciplina del commercio. 
    In ogni modo, come la constatazione che la disciplina degli orari
appartiene alla materia del commercio non chiudeva  il  problema  del
rapporto con la tutela della concorrenza (avendo tale materia,  "dato
il suo carattere «finalistico», anche una  portata  piu'  generale  e
trasversale,  non  preventivamente  delimitabile,  che  deve   essere
valutata  in  concreto  al  momento  dell'esercizio  della   potesta'
legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie  di  loro
rispettiva  competenza":  ancora  sent.  150/2011,  punto  5),  cosi'
l'attrazione  degli  orari  tra  le   materie   "influenzate"   dalla
concorrenza non assolve automaticamente ogni intervento statale nella
materia del commercio. 
    Intanto, la stessa sentenza n. 150, gia'  piu'  volte  ricordata,
nel  valutare  la  legge  regionale  abruzzese  allora  sottoposta  a
scrutinio, ricordava (al punto piu' volte citato) che, "nel  caso  di
specie, la normativa regionale  sull'apertura  domenicale  e  festiva
degli esercizi commerciali per  la  vendita  al  dettaglio  non  solo
persegue  il  medesimo  obiettivo  di  apertura  al  mercato   e   di
eliminazione   di   barriere   e   vincoli   al   libero   esplicarsi
dell'attivita' economica che ha ispirato il d.lgs. n. 114  del  1998,
ma ne amplia la  portata  liberalizzatrice,  aumentando,  rispetto  a
quanto prevede l'art. 11 di tale decreto, il numero  di  giornate  in
cui e' consentita  l'apertura  domenicale  e  festiva,  contribuendo,
quindi, ad estendere l'area di libera scelta sia dei consumatori  che
delle imprese". E concludeva nel senso che la Regione Abruzzo, con le
norme impugnate, avesse "esercitato la propria competenza in  materia
di commercio, dettando una normativa che non  solo  non  si  pone  in
contrasto con gli obiettivi delle norme statali che  disciplinano  il
mercato, tutelano e promuovono la concorrenza, ma che  produce  anche
effetti pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta". 
    Il  punto  che  si  vuole  sottolineare,  ai  fini  del  giudizio
sull'art. 31, comma 1, e' che codesta  stessa  Corte  costituzionale,
nel valutare l'effetto  della  sostituzione  di  una  disciplina  che
consentiva  una  piu'  ampia  apertura  domenicale  rispetto  ad  una
disciplina piu' restrittiva, ne ha  bensi'  riconosciuto  un  effetto
proconcorrenziale, ma lo ha al tempo stesso qualificato che marginale
e indiretto. 
    In effetti, non si puo' negare  che  la  totale  liberalizzazione
degli orari dei negozi, e la sostanziale interdizione per le  Regioni
di dettare in relazione ad  essi  qualunque  regola  limitativa,  non
abbia nulla a che fare con la tutela della  concorrenza  intesa  come
parita' di condizione tra imprese nell'accesso al mercato:  dato  che
la disciplina degli orari vale allo stesso modo per tutte le  imprese
che si trovino nelle situazioni indicate dalle norme. 
    Proprio  percio',  del  resto,  e'  pacifico   che   il   diritto
dell'Unione europea non esclude affatto  una  ragionevole  disciplina
degli orari, che viene rimessa alla  sensibilita'  ed  alle  esigenze
degli Stati membri. Negli stati articolati le relative decisioni sono
in genere di competenza locale (in Svizzera, ad  esempio,  a  livello
cantonale, in  Germania  a  livello  di  Lander,  ferma  restando  la
limitazione costituzionale sopra ricordata). 
    Semmai, supponendosi  che  ad  un  maggiore  orario  di  apertura
corrisponda un maggior volume di commercio, l'orario dei negozi  puo'
avere a che fare con la  "concorrenza"  in  quel  senso  traslato  ed
indiretto per il quale - se la concorrenza promuove lo sviluppo -  la
promozione dello sviluppo diviene anche tutela della concorrenza. 
    E' evidente tuttavia che -  come  notato  da  codesta  Corte,  la
connessione con la concorrenza e' comunque scarsa: appunto, marginale
ed  indiretta.  Come  si  deduce  in  modo  evidente   dallo   stesso
disinteresse dell'Unione  europea  per  la  questione,  rimandata  ai
singoli Stati membri, e dalla  circostanza  stessa  che  negli  Stati
Uniti, provvisti di apposita commerce  clause  nella  Costituzione  e
pionieri nella tutela della concorrenza, sarebbero inimmaginabili sia
una regolazione federale dell'orario dei negozi, sia una interdizione
federale della possibilita' che gli Stati  stabiliscano  una  propria
disciplina. 
    E' dunque accertato che il collegamento tra orari  dei  negozi  e
tutela della concorrenza - se pure se ne  ritenga  l'esistenza  -  e'
debole, e riguarda in realta' non la concorrenza in senso proprio  ma
l'espansione delle attivita' economiche. 
    E' vero invece che, misurata sul terreno vero della  concorrenza,
la  supposta  misura  di  tutela,  per  il  suo  effetto  di   totale
deregolazione, si traduce in un fattore distorsivo della concorrenza,
in quanto scorrettamente avvantaggia gli operatori maggiori, che  per
la ampiezza e complessita' della loro organizzazione sono in grado di
mantenere l'apertura per sette giorni su sette e per  un  orario  non
limitato se non dalla convenienza, rispetto agli operatori  familiari
o comunque  minori,  che  per  limiti  di  personale  non  potrebbero
competere neppure sottoponendosi ad un  regime  di  autosfruttamento,
che del resto contraddirebbe il diritto costituzionale al riposo. 
    In questa situazione, la forzosa deregolamentazione operata dallo
Stato e la connessa interdizione di dettare qualunque disciplina  che
in termini di ragionevolezza bilanci il valore della promozione delle
attivita'  commerciali   con   gli   altri   valori   concorrenti   e
costituzionalmente tutelati, come sopra enunciati e come riconosciuti
anche in sede europea (e rientranti nelle competenze regionali,  come
sopra  visto),  viola  al  tempo  stesso  i  principi  e  le   regole
costituzionali che custodiscono tali valori, i principi di  autonomia
delle Regioni e delle comunita', come espressi dall'art. 117, co. 3 e
4, e dal principio  di  sussidiarieta'  (dato  che  si  impedisce  al
livello istituzionale piu' adeguato, che e' senz'altro quello locale,
di valutare caso per caso e periodo per periodo quale sia la migliore
regolazione degli orari), e la competenza legislativa  delle  Regioni
nella disciplina del commercio, che viene espropriata ed annullata in
una parte rilevante, senza una ragione  di  cogente  e  proporzionata
tutela del bene affidato alla  competenza  statale,  ed  impedita  di
svolgere la  propria  funzione  di  bilanciamento  del  valore  della
massima dilatazione delle contrattazioni commerciali  con  gli  altri
valori in gioco. 
    La norma in questione viola  persino  la  competenza  finalistica
statale in materia di  tutela  della  concorrenza,  se  e'  vero  che
compito di tale tutela e' di produrre una  regolazione  che  consenta
una competizione corretta tra le diverse imprese, e di  impedire  che
la mancanza di qualunque regola produca  la  sopravvivenza  dei  soli
operatori maggiori, a prescindere dalla qualita' della  loro  offerta
commerciale. 
    Sono  dunque  violati  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 Cost., gli articoli 117, secondo, terzo  e  quarto  comma,
nonche' l'art. 118, primo comma, Cost. 
    Illustrata  l'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione
impugnata sotto il profilo del rapporto  tra  competenza  legislativa
regionale nella disciplina del  commercio  e  competenza  legislativa
statale nella tutela della concorrenza, rimane da  osservare  che  la
normativa qui contestata non potrebbe essere giustificata neppure  ai
sensi dell'art. 117, comma secondo, lett.  m),  cioe'  come  presunto
"livello essenziale" delle "prestazioni concernenti i diritti  civili
e  sociali  che  devono  essere  garantiti  su  tutto  il  territorio
nazionale". 
    Non si tratta infatti di alcuna "prestazione", piu' di quanto non
lo sia qualunque altra regolazione; ed  e'  inoltre  evidente  che  i
diritti civili e  sociali  dei  cittadini  e  degli  interessati  non
subiscono alcuna lesione da una  ragionevole  disciplina  dell'orario
dei negozi, mentre al contrario li  puo'  ledere  una  situazione  di
totale  deregolamentazione,  che  semmai   preclude   una   razionale
organizzazione dei tempi dei propri acquisti. 
    10) Illegittimita' costituzionale dell'art. 48 
    L'art. 48 contiene una generale "clausola di finalizzazione". 
    In base al comma 1, "le maggiori entrate erariali  derivanti  dal
presente decreto sono riservate all'Erario, per un periodo di  cinque
anni,   per   essere   destinate   alle   esigenze   prioritarie   di
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede
europea,  anche  alla  luce  della  eccezionalita'  della  situazione
economica internazionale". Si prevede poi che "con  apposito  decreto
del Ministero  dell'economia  e  delle  finanze.  sono  stabilite  le
modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso  separata
contabilizzazione". 
    Il comma 1-bis aggiunge  che,  "ferme  restando  le  disposizioni
previste dagli articoli 13,  14  e  28,  nonche'  quelle  recate  dal
presente articolo,  con  le  norme  di  attuazione  statutaria.  sono
definiti le modalita' di applicazione e gli  effetti  finanziari  del
presente decreto per le regioni a statuto speciale e per le  province
autonome di Trento e di Bolzano". 
    Tale comma 1-bis, con il suo "rinvio" alle  norme  di  attuazione
dello statuto, ha l'apparenza di una clausola di  salvaguardia  delle
autonomie speciali e delle loro regole statutarie: ma al tempo stesso
la disposizione ribadisce la  diretta  applicazione  non  solo  degli
articoli 13, 14  e  28,  ma  anche  delle  disposizioni  "recate  dal
presente articolo": dunque, il regime di cui all'art. 48, co.  1,  si
riferisce anche alle entrate percepite nella  regione  Friuli-Venezia
Giulia. 
    Maggiori entrate erariali deriveranno, ad esempio,  dall'art.  10
(a seguito dell'emersione della base imponibile), dall'art.  15  (che
aumenta le aliquote di accisa  sui  carburanti),  dall'art.  16  (che
aumenta la tassa automobilistica per le auto di lusso e istituisce la
tassa  annuale  di  stazionamento  sulle  imbarcazioni  e   l'imposta
erariale sugli aeromobili privati),  dall'art.  18  (che  aumenta  le
aliquote Iva), dall'art. 19 (che aumenta l'imposta di bollo  relativa
a conti correnti e  strumenti  finanziari,  introduce  un'imposta  di
bollo  speciale  annuale  sulle  attivita'  finanziarie   che   hanno
beneficiato del c.d. scudo fiscale e un'imposta straordinaria per  le
stesse  attivita'  se  gia'  prelevate  dal  rapporto  di   deposito,
istituisce un'imposta sul valore degli immobili situati all'estero  e
istituisce un'imposta sul valore delle attivita' finanziarie detenute
all'estero dalle  persone  fisiche  residenti  nel  territorio  dello
Stato),  dall'art.   20   (in   materia   di   riallineamento   delle
partecipazioni) e dall'art. 24 (il cui comma 31 regola la  tassazione
delle  indennita'  di  fine  rapporto  di  importo   complessivamente
eccedente curo 1.000.000 e dei  compensi  e  indennita'  a  qualsiasi
titolo erogati agli amministratori delle societa' di capitali, ed  il
cui comma 31-bis aumenta il contributo  di  solidarieta'  sulle  c.d.
pensioni d'oro). 
    Ad avviso della ricorrente Regione la riserva  di  tali  maggiori
entrate all'erario e' illegittima per le ragioni di seguito esposte. 
    L'art. 49 dello Statuto attribuisce  alla  Regione  "le  seguenti
quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali  riscosse
nel territorio della  Regione  stessa:  1)  sei  decimi  del  gettito
dell'imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro  decimi  e
mezzo del gettito dell'imposta sul reddito delle persone  giuridiche;
3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt.
23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973,  n.  600,  ed  all'art.
25-bis aggiunto allo stesso decreto del Presidente  della  Repubblica
con l'art. 2, primo comma, del D.L. 30 dicembre 1982, n. 953.; 4) 9,1
decimi del gettito dell'imposta sul valore aggiunto,  esclusa  quella
relativa all'importazione, al netto dei rimborsi effettuati ai  sensi
dell'articolo 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive
modificazioni; 5)  nove  decimi  del  gettito  dell'imposta  erariale
sull'energia elettrica, consumata nella regione; 6) nove  decimi  del
gettito dei canoni per le concessioni idroelettriche; 7) nove  decimi
del gettito della quota  fiscale  dell'imposta  erariale  di  consumo
relativa ai  prodotti  dei  monopoli  dei  tabacchi  consumati  nella
regione; 7-bis) il 29,75 per  cento  del  gettito  dell'accisa  sulle
benzine ed il 30,34 per cento del  gettito  dell'accisa  sul  gasolio
consumati nella regione per uso autotrazione". 
    L'art. 48, co. 1,  dunque,  riservando  all'Erario  le  "maggiori
entrate   erariali   derivanti   dal   presente   decreto",   risulta
contrastante con l'art. 49 dello Statuto, che garantisce alla Regione
ben precise compartecipazioni a diversi  tributi  erariali  (ad  es.,
Irpef, Iva, accisa sulla benzina). 
    Ne' varrebbe replicare che, in base all'art.  4,  co.  1,  d.P.R.
114/1965, a certe condizioni e' ammessa  la  riserva  all'erario  del
"gettito  derivante  da  maggiorazioni  di  aliquote   o   da   altre
modificazioni in ordine ai tributi devoluti alla regione". 
    Tali  condizioni,  infatti,  non  ricorrono  nella  clausola   di
finalizzazione prevista dall'art. 48. 
    Infatti, i requisiti sono: a) la  destinazione  per  legge  "alla
copertura di nuove specifiche spese di  carattere  non  continuativo,
che non rientrano nelle materie  di  competenza  della  regione,  ivi
comprese quelle relative a calamita' naturali"»; b) la  delimitazione
temporale del gettito; c) la contabilizzazione distinta nel  bilancio
statale e la quantificabilita'. 
    Ora, ad avviso della Regione ricorrente risulta evidente  che  e'
assente il primo requisito sopra indicato, in quanto  l'art.  48  non
destina le maggiori entrate a "nuove specifiche spese": nel  caso  in
questione, infatti, ne' si tratta di "spese", ne' le situazioni  alle
quali si vuole far fronte sono "nuove" ne' "specifiche". 
    E' da ricordare  che  la  sent.  182/2010  fece  salva  la  norma
impugnata  in  quell'occasione   (l'art.   13-bis,   comma   8,   del
decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78) proprio in quanto essa destinava
il gettito dell'imposta "al finanziamento  della  ripresa  economica,
quali: il sostegno alle imprese, anche  attraverso  il  finanziamento
del fondo di garanzia e l'alleggerimento del carico  fiscale...;  gli
interventi sul mercato del lavoro, anche attraverso il  finanziamento
del fondo per l'occupazione...; il finanziamento  degli  investimenti
pubblici,  con  particolare  riguardo  alle  infrastrutture  e   alle
attivita' di ricerca e sviluppo...; il supporto  alle  famiglie,  con
misure di salvaguardia del potere d'acquisto, di tutela  dei  piccoli
risparmiatori,   di   risposta   all'emergenza    abitativa...;    il
finanziamento della cooperazione internazionale  allo  sviluppo.;  il
finanziamento delle opere di ricostruzione dell'Abruzzo". Si  tratta,
come si puo' vedere, di spese e finalita'  ben  diverse  dal  mero  e
generale  "raggiungimento  degli  obiettivi   di   finanza   pubblica
concordati in sede europea": e non puo' essere dubbio che i requisiti
posti dall'art. 4, co. 1, d.P.R. 114/1965, sono requisiti essenziali,
il cui rispetto non puo' essere legittimamente pretermesso. 
    Escluso che l'art. 48 possa trovare fondamento  nell'art.  4  dPR
114/1965, e' anche da escludere che esso possa ricondursi all'art. 6,
co.  2,  d.  lgs.  8/1997,  in  base  al  quale,  "nelle   more   del
completamento del processo di trasferimento e di delega  di  funzioni
dallo Stato alla regione,  qualora  la  quota  delle  spese  relative
all'esercizio delle funzioni delegate eventualmente  a  carico  della
regione ai sensi dell'articolo 4, comma 2, lettera b)[dPR  114/1965],
fosse insufficiente al raggiungimento degli obiettivi di  risanamento
della finanza pubblica, una quota del previsto incremento del gettito
tributario spettante alla regione - ad esclusione in ogni caso  degli
incrementi derivanti dall'evoluzione tendenziale ed  al  netto  delle
eventuali previsioni  di  riduzioni  di  gettito  -  derivante  dalle
manovre  correttive  di  finanza  pubblica   previste   dalla   legge
finanziaria e dai relativi  provvedimenti  collegati,  nonche'  dagli
altri provvedimenti legislativi aventi  le  medesime  finalita',  non
considerati  ai  fini  della  determinazione  dell'accordo   relativo
all'esercizio  finanziario  precedente,  puo'  essere  destinata   al
raggiungimento degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica
previsti dai predetti  provvedimenti,  tenuto  conto  altresi'  delle
spese  a  carico  della  regione  per  funzioni  trasferite  in  data
successiva al 1° gennaio 1997". 
    Ad  avviso  della  ricorrente  Regione  questa   norma   non   e'
applicabile alla disciplina qui contestata, in  quanto  essa  non  ha
portata  generale  ma  opera  in  relazione  allo  specifico  accordo
annuale, tra Governo e Regione, che  determinava  "l'eventuale  quota
che rimane a carico del bilancio  della  regione  -  per  l'esercizio
oggetto dell'accordo - delle  spese  derivanti  dall'esercizio  delle
funzioni statali delegate alla medesima, in  relazione  alle  manovre
correttive di finanza pubblica previste dalla legge finanziaria e dai
relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli  altri  provvedimenti
legislativi aventi le medesime finalita', da determinarsi nei  limiti
del  previsto  incremento  del  gettito  tributario  derivante  dalle
manovre  medesime,  ad  esclusione  in  ogni  caso  degli  incrementi
derivanti dall'evoluzione tendenziale ed  al  netto  delle  eventuali
previsioni di riduzione del gettito" (art. 4, co.  2,  lett.  b)  dPR
114/1965). 
    In ogni modo, anche qualora la disposizione di  cui  all'art.  6,
co. 2, d. lgs. 8/1997 fosse ritenuta applicabile, l'art.  48  non  vi
corrisponderebbe sia  per  l'unilateralita'  della  riserva  (essendo
chiaro che l'art. 6, co. 2, presuppone l'accordo: v. anche l'art.  6,
co. 3) sia perche' riserva all'Erario tutte le maggiori entrare e non
solo "una  quota  del  previsto  incremento  del  gettito  tributario
spettante alla regione". 
    Dunque, nella denegata ipotesi dell'applicabilita'  dell'art.  6,
co. 2, d. lgs. 8/1997, lo Stato avrebbe  pur  sempre  dovuto  cercare
l'accordo con la Regione, non  potendo  unilateralmente  alterare  le
regole sulle compartecipazioni. L'art.  48,  dunque,  violerebbe  pur
sempre il principio di leale collaborazione  e,  in  particolare,  il
principio consensuale che domina  le  relazioni  finanziarie  fra  lo
Stato e le Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984,
98/2000, 74/2009 e 133/2010). 
    In effetti, e' chiaramente illegittimo  che  lo  Stato,  con  una
fonte  primaria  unilateralmente  adottata,  alteri  in  modo   cosi'
rilevante l'assetto dei rapporti  finanziari  tra  Stato  e  Regione,
laddove il principio consensuale e' da tempo riconosciuto  in  questa
materia. 
    Infine, proprio perche' agli artt. 48 e 49 St. si e' derogato con
una  fonte  primaria  "ordinaria"  (nella  specie,  un  decreto-legge
convertito), l'art. 48 viola anche gli artt. 63,  commi 1  e  5  (che
prevedono  il  procedimento  di  revisione  costituzionale   per   le
modifiche  dello  Statuto  e  la  possibilita'  di   modificare   "le
disposizioni  contenute  nel  titolo  IV.  con  leggi  ordinarie,  su
proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione,
e, in ogni caso, sentita la Regione") e l'art. 65 (che disciplina  la
speciale procedura per l'adozione delle  norme  di  attuazione  dello
Statuto) dello Statuto speciale. 
    L'art.  48  altera  gravemente  e  unilateralmente  la  relazione
strutturale  che  intercorre   tra   il   tributo   erariale   e   la
compartecipazione statutaria regionale. Il legislatore costituzionale
ha posto a  presidio  dell'autonomia  finanziaria  della  Regione  il
meccanismo della compartecipazione ai tributi erariali che garantisce
l'approvvigionamento  finanziario  dell'ente   in   via   del   tutto
automatica.  L'attribuzione  del   gettito   e'   rimessa,   infatti,
esclusivamente   all'operare   della   percentuale    di    spettanza
statutariamente  prevista,  applicata   al   gettito   riscosso   nel
territorio regionale 
    L'art. 48 viola la struttura automatica  della  compartecipazione
escludendo  che  talune  innovazioni  fiscali  possano  tradursi   in
beneficio  per  l'entrata   della   Regione,   con   cio'   incidendo
sull'autonomia che di tale automatismo costituisce il portato. 
    La sent. 155/2006 di codesta Corte ha  statuito  che  la  Regione
Friuli-Venezia Giulia non  puo'  contestare  nuove  norme  tributarie
statali che, incidendo  su  tributi  erariali  ai  quali  la  Regione
compartecipa, comportino una riduzione del gettito  per  la  Regione.
Proprio l'automatismo insito nella compartecipazione implica  che  la
Regione debba subire gli effetti - entro certi limiti - delle novita'
normative statali che hanno riflessi finanziari riduttivi (e  infatti
anche il d.l. 201/2011 contiene norme che,  indirettamente,  incidono
negativamente sulla finanza regionale, come visto nel  punto  1).  Se
cosi' e', allora e' evidente  che  anche  i  vantaggi  economici  che
derivano dalla modifica di aliquote  o  da  altre  novita'  normative
concernenti i tributi erariali devono andare, pro quota, a  beneficio
della Regione, cosi' come prevede lo Statuto. 
    Il secondo periodo dell'art. 48, co. 1, dispone che "con apposito
decreto del Ministero dell'economia e delle finanze, da emanare entro
sessanta giorni dalla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione del presente decreto..., sono stabilite le  modalita'  di
individuazione   del    maggior    gettito,    attraverso    separata
contabilizzazione". Si tratta dunque di una norma  volta  a  regolare
l'attuazione del primo periodo: la quale, pertanto,  e'  affetta  dai
medesimi vizi sopra illustrati. 
    In  subordine,  essa  e'  poi   censurabile   specificamente   ed
autonomamente sotto  un  ulteriore  aspetto,  cioe'  per  la  mancata
previsione dell'intesa con questa Regione in relazione al decreto che
stabilisce  le  modalita'  di  individuazione  del  maggior  gettito.
infatti, poiche' si tratta di intervenire in relazione a risorse  che
spetterebbero alla Regione, in una  materia  dominata  dal  principio
consensuale, risulta specificamente illegittima, per  violazione  del
principio di  leale  collaborazione,  la  previsione  di  un  decreto
ministeriale, senza intesa con questa Regione. 
 
                                P.Q.M 
 
    Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso,
dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli articoli  1,  commi
da 1 a 8; 2, commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a),  e  17,  terzo,
quarto e quinto periodo; 14, comma 13-bis, terzo  e  quarto  periodo;
16, commi da 2 a 10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28,  comma  3;
31,  comma  1;  48  del  decreto-legge  6  dicembre  2011,  n.   201,
Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e  il  consolidamento
dei conti pubblici, convertito, con  modificazioni,  nella  legge  22
dicembre 2011, n. 214, nelle parti, nei termini  e  sotto  i  profili
esposti nel presente ricorso. 
        Padova, 23 febbraio 2012 
 
                          Prof. Avv. Falcon