N. 50 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 5 marzo 2012
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 5 marzo 2012 (della Regione Friuli-Venezia Giulia) . Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Aiuto alla crescita economica (Ace) - Previsione, per le societa' ed enti indicati nell'art. 73, comma 1, lett. a) e b), del d.P.R. n. 917 del 1989, che, ai fini della determinazione del reddito complessivo netto dichiarato, e' ammesso in deduzione un importo corrispondente al rendimento nozionale del nuovo capitale proprio, secondo le disposizioni dei commi 2 e 8 - Calcolo del rendimento nozionale proprio - Determinazione dell'aliquota percentuale per il calcolo del rendimento nozionale del nuovo capitale proprio, con decreto del Ministro dell'economia, a partire dal quarto periodo d'imposta e determinazione per il primo triennio di applicazione, in via transitoria, dell'aliquota del 3 per cento - Previsione che la parte del rendimento nozionale che supera il reddito complessivo netto dichiarato e' computata in aumento dell'importo deducibile dal reddito dei periodi di imposta successivi - Determinazione del capitale proprio esistente alla chiusura dell'esercizio in corso al 31 dicembre 2010 e relative variazioni in diminuzione - Previsione che gli incrementi derivanti da conferimenti in denaro rilevano a partire dalla data del versamento; che quelli derivanti dall'accantonamento di utili, a partire dall'inizio dell'esercizio in cui le relative riserve sono formate; che i decrementi rilevano a partire dall'inizio dell'esercizio in cui si sono verificati; che per le aziende e le societa' di nuova costituzione si considera incremento tutto il patrimonio conferito - Previsione dell'applicazione delle predette disposizioni anche al reddito d'impresa di persone fisiche, societa' in nome collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilita' ordinaria - Previsione che le disposizioni di attuazione sono emanate con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, entro 30 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione, e che con lo stesso provvedimento possono essere stabilite disposizioni aventi finalita' antielusive - Agevolazioni fiscali riferite al costo del lavoro, nonche' per donne e giovani - Previsione, ai fini dell'Ires, della deducibilita' di un importo pari all'imposta regionale sulle attivita' produttive determinata ai sensi degli artt. 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del d.lgs. n. 446 del 1997, relativa alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente ed assimilato - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria regionale - Denunciata violazione del principio di uguaglianza per irragionevolezza e per il deteriore trattamento della comunita' regionale rispetto alla comunita' nazionale - Denunciata lesione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, artt. 1, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8, e 2, commi 1 e 2. - Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma terzo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Disciplina dell'IMUP - Previsione della riserva allo Stato sull'IMUP della quota di imposta pari alla meta' dell'importo calcolato sulla base imponibile di tutti gli immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle relative pertinenze, nonche' dei fabbricati rurali ad uso strumentale, dell'aliquota di base di cui al comma 6, primo periodo - Previsione che le detrazioni e riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota di imposta riservata allo Stato - Previsione che le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle attivita' medesime a titolo di imposta, interessi e sanzioni - Previsione che il fondo sperimentale di riequilibrio ed il fondo perequativo ed i trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna variano in ragione delle differenze di gettito stimato ad aliquota di base derivanti dalle disposizioni dell'articolo censurato e che, in caso di incapienza, ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato le somme residue - Previsione che, con le procedure stabilite dall'art. 5 della legge n. 42 del 2009, le Regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome di Trento e Bolzano, assicurano il recupero al bilancio statale del predetto maggior gettito dei comuni ricadenti nel proprio territorio e che, fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso art. 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi, e' accantonato un importo pari al maggior gettito di cui al precedente periodo - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo Statuto per la sottrazione di risorse finanziarie ai comuni e l'attribuzione alle regioni di diverse competenze - Denunciata violazione del principio di eguaglianza relativamente alla disciplina del fondo sperimentale di riequilibrio e del fondo perequativo. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 13. - Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma terzo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Istituzione del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi - Previsione che, a decorrere dall'anno 2013, il fondo sperimentale di riequilibrio ed il fondo perequativo ed i trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna sono ridotti in misura corrispondente al gettito derivante dalla maggiorazione standard di cui al comma 13 dell'articolo censurato - Previsione che in caso di incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato le somme residue - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo Statuto. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 14, comma 13-bis. - Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma terzo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Disposizioni per la tassazione di auto di lusso, imbarcazioni ed aerei - Istituzione di una tassa annuale di stazionamento - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo Statuto - Denunciata violazione della sfera di competenza regionale in materia di ordinamento degli enti locali e di finanza locale, mediante istituzione di una tassa sul turismo. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 16, commi 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 e 10. - Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma terzo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Enti locali - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Previsione che i comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti, ricadenti nel territorio di ciascuna provincia, affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'art. 32 del T.U. n. 267 del 2000, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi - Riduzione dei costi di funzionamento delle Province - Modificazione, a tal fine, dell'assetto delle funzioni e degli organi di governo dell'ente Provincia - Attribuzione alle Province di sole funzioni di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale - Individuazione del Presidente e del Consiglio Provinciale come unici organi della Provincia - Trasformazione del Consiglio provinciale in organo composto da dieci membri eletti dagli organi elettivi dei comuni - Elezione del Presidente da parte dello stesso Consiglio provinciale secondo modalita' stabilite con successiva legge statale - Obbligo per lo Stato e per le Regioni di trasferire ai Comuni entro il 31 dicembre 2012 le funzioni (gia') provinciali, salva l'acquisizione delle stesse da parte delle Regioni sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza - Attribuzione allo Stato di poteri sostitutivi in caso di inadempimento regionale - Obbligo dello Stato e delle Regioni di trasferire le risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite - Riserva al legislatore statale del potere di fissare la decorrenza del nuovo assetto istituzionale dell'ente locale - Assegnazione di un termine di sei mesi alle Regioni a statuto speciale per l'adeguamento alla nuova disciplina - Possibilita' per i Comuni di istituire unioni o organi di raccordo per l'esercizio di specifici compiti o funzioni amministrative, garantendo l'invarianza della spesa - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata, in via preliminare, illegittimita' costituzionale di tutte le disposizioni impugnate per l'assenza dei presupposti della necessita' ed urgenza - Denunciato declassamento della Provincia da ente costituzionalmente autonomo esponenziale della collettivita' locale, ad ente di secondo livello con mere funzioni di coordinamento dei Comuni - Denunciata violazione della competenza esclusiva regionale in materia di ordinamento degli enti locali, a tutela delle autonomie locali e del decentramento amministrativo. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 23, commi 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20-bis e 22. - Costituzione, artt. 5, 77, 114, 117, commi primo, secondo e sesto, 118, commi primo e secondo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, lett. 1-bis, 11, 54, e 59; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Concorso alla manovra degli Enti territoriali ed ulteriori riduzioni di spesa - Previsione che l'aliquota di cui al comma 1, si applica anche alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano - Previsione che, con le procedure previste dall'art. 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano assicurano, a decorrere dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di 860 milioni di euro annui - Previsione, altresi', che con le medesime procedure le Regioni Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano, assicurano alla finanza pubblica un concorso di 60 milioni di euro annui, da parte di comuni ricadenti nel proprio territorio - Previsione che, fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui al predetto art. 27, l'importo complessivo di 920 milioni di euro e' accantonato, proporzionalmente alla media degli impegni finali registrata per ciascuna autonomia nel triennio 2007-2009 a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali e che per la Regione Siciliana si tiene conto della rideterminazione del fondo sanitario nazionale per effetto del comma 2 - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata ulteriore rilevante sottrazione di risorse ed attribuzione di oneri alle Regioni speciali ed alle Province autonome, in contrasto con il regime finanziario disciplinato dallo Statuto - Denunciata violazione della competenza regionale in materia sanitaria e di trasporti - Denunciata lesione del principio di ragionevolezza. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 28, comma 3. - Costituzione, artt. 3, 53, 97, 117, comma terzo, e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Esercizi commerciali - Eliminazione per le attivita' commerciali dei limiti agli orari di apertura e di chiusura ed abolizione dell'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' della mezza giornata di chiusura infrasettimanale - Previsione quale principio generale dell'ordinamento della liberta' di apertura di nuovi esercizi commerciali senza limiti o prescrizioni di alcun genere, tranne quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori e dell'ambiente, con l'onere per le Regioni e gli enti locali di adeguare i loro ordinamenti entro il termine di 90 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata violazione del principio di uguaglianza, sotto il profilo dell'irragionevolezza - Denunciata violazione della sfera di competenza regionale esclusiva in materia di esercizi commerciali e loro ubicazione. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 31. - Costituzione, artt. 3, 117, commi secondo, terzo e quarto, e 118, primo comma; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1. Bilancio e contabilita' pubblica - Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' ed il consolidamento dei conti pubblici - Previsione che le maggiori entrate erariali, derivanti dal decreto-legge impugnato, siano riservate all'Erario, per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea - Previsione che con apposito decreto del Ministero dell'economia e delle finanze sono stabilite le modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso separata contabilizzazione - Previsione, altresi', che, ferme restando le disposizioni degli artt. 13, 14 e 28, nonche' quelle recate dall'articolo impugnato, con le norme statutarie, sono definiti le modalita' di applicazione e gli effetti finanziari del D.L. impugnato per le Regioni a statuto speciale e per le Province di Trento e Bolzano - Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia - Denunciata lesione dell'autonomia finanziaria regionale disciplinata dallo Statuto. - Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 48. - Costituzione, artt. 3, 117 e 119; Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, artt. 4, 5, 8, 48, 49, 51, 54, 63 e 65; decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1965, n. 114, art. 4; decreto legislativo 2 gennaio 1997, n. 9, artt. 2, 9, 14 e 18; decreto legislativo 23 dicembre 2010, n. 265, art. 1.(GU n.16 del 18-4-2012 )
Ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia, (cod. fisc. 80014930327; P. IVA 00526040324) in persona del Presidente della Giunta regionale pro-tempore dott. Renzo Tondo, autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 236 del 17 febbraio 2012 (doc. 1), rappresentata e difesa - come da procura a margine del presente atto - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon di Padova, (cod. fisc. FLCGDM45C06L736E) con domicilio eletto in Roma presso l'Ufficio di rappresentanza della Regione, in Piazza Colonna, 355, contro il Presidente del Consiglio dei ministri per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'articolo 1, commi da i a 8; 2, commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo; 16, commi da 2 a 10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3; 31, comma 1; 48 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214. pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 2011, per violazione: degli articoli 3, 53, 97, 117, co. 3, e 119 della Costituzione; degli artt. 4, 5, 8. 48, 49, 51, 54, 63 e 65 dello Statuto speciale . adottato con 1. cost. n. 1 del 1963; degli artt. 2, 9, 14 e 18 d. lgs 9/1997, dell'art. 4 d. lgs. 114/1965 e dell'art. 1 d. 1gs. 265/2011; del principio di leale collaborazione, per i profili e nei modi di seguito illustrati. FATTO Il d.l. 201/2011, come risultante dalla legge di conversione n. 214/2011, contiene disposizioni di vario tipo, distribuite in quattro titoli: Sviluppo ed equita', Rafforzamento del sistema finanziario nazionale e internazionale, Consolidamento dei conti pubblici, Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza. Tutte sono rivolte - come rivela lo stesso soprannome di decreto "salva Italia" che il Governo ha attribuito ad esso - a produrre un risultato utile all'economia del Paese: e la Regione Friuli-Venezia Giulia, come parte del Paese, non puo' che augurarsi che le misure producano i risultati sperati. Allo sforzo collettivo necessario al conseguimento di tali risultati essa non intende certo sottrarsi. Al tempo stesso, tuttavia, essa non puo' rinunciare a chiedere che ogni contributo ad essa richiesto sia richiesto legittimamente, nel quadro e nel rispetto delle regole che disciplinano sotto il profilo finanziario - come sotto ogni altro profilo - i rapporti con lo Stato. Ed essa ritiene che nei punti che formano oggetto della presente impugnazione le regole costituzionali e statutarie di tali rapporti non siano rispettate. Vengono qui in considerazione alcune disposizioni dei Titoli I ("Sviluppo ed equita'"), III ("Consolidamento dei conti pubblici") e IV ("Disposizioni per la promozione e la tutela della concorrenza"). Quanto al Titolo I, si tratta dell'art. 1, Aiuto alla crescita economica, e dell'art. 2, Agevolazioni fiscali riferite al costo del lavoro nonche' per donne e giovani. Quanto al Titolo III, si tratta dell'art. 13, recante Anticipazione sperimentale dell'imposta municipale propria, dell'art. 14, recante Istituzione del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, e dell'art. 16, Disposizioni per la tassazione di auto di lusso, imbarcazioni ed aerei (tutti facenti parte del Capo secondo Disposizioni in materia di maggiori entrate). Si tratta poi dell'art. 23, Riduzione dei costi di funzionamento delle Autorita' di Governo, del CNEL, delle Autorita' indipendenti e delle Province, facente parte del Capo terzo (Riduzioni di spesa. Costi degli apparati), nonche' dell'art. 28, recante Concorso alla manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di spese, che forma ed esaurisce il capo VI (Concorso alla manovra degli Enti territoriali). Quanto al Titolo IV si tratta dell'art. 31, Esercizi commerciali (facente parte del capo I, Liberalizzazioni), e dell'art. 48, Clausola di finalizzazione, che ricade nel Capo IV, Misure per lo sviluppo infrastrutturale. Ad avviso della Regione Friuli-Venezia Giulia, le disposizioni succitate risultano lesive delle proprie prerogative costituzionali e statutarie per le seguenti ragioni di DIRITTO 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, commi da 1 a 8, e dell'art. 2, commi 1 e 2. L'art. 1, comma l, del d.l. 201/2011 prevede deduzioni che vanno ad abbassare il reddito imponibile ai fini dell'imposta sul reddito delle societa' (Ires), degli altri enti di cui allo stesso comma 1, e sul "reddito d'impresa di persone fisiche, societa' in nome collettivo e in accomandita semplice in regime di contabilita' ordinaria" (v. il comma 7), e cio' "in considerazione della esigenza di rilanciare Io sviluppo economico del Paese e fornire un aiuto alla crescita mediante una riduzione della imposizione sui redditi derivanti dal finanziamento con capitale di rischio, nonche' per ridurre lo squilibrio del trattamento fiscale tra imprese che si finanziano con debito ed imprese che si finanziano con capitale proprio, e rafforzare, quindi, la struttura patrimoniale delle imprese e del sistema produttivo italiano". Dal canto suo, l'art. 2 prevede che sia deducibile, ai fini dell'Ires, "un importo pari all'imposta regionale sulle attivita' produttive determinata ai sensi degli articoli 5, 5-bis, 6, 7 e 8 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, relativa alla quota imponibile delle spese per il personale dipendente e assimilato" (comma 1). Il comma 2 prevede deduzioni nella determinazione della base imponibile a fini Irap, collegate all'assunzione di donne e giovani. Dunque, le norme succitate producono l'effetto di diminuire il gettito dell'Ires, dell'Irpef e dell'Irap, cioe' di imposte che spettano o pro quota o interamente alla Regione. Quest'ultimo e', notoriamente, il caso dell'Irap (v. il d. lgs. 446/1997 e la 1. FVG 4/2000). Quanto alle compartecipazioni spettanti a questa Regione, e' da ricordare che lo Statuto, dopo aver stabilito che "la Regione ha una propria finanza, coordinata con quella dello Stato, in armonia con i principi della solidarieta' nazionale, nei modi stabiliti dagli articoli seguenti" (art. 48), aggiunge che "spettano alla Regione le seguenti quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa: 1) sei decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del gettito dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed all'art. 25-bis aggiunto allo stesso decreto" (art. 49). Le norme censurate, dunque, incidono sull'Irap e sui meccanismi di compartecipazione previsti dallo Statuto, che rappresentano la fondamentale forma di finanziamento della Regione, la quale subisce cosi' una rilevante riduzione di entrate, senza che sia previsto alcun meccanismo compensativo. Si noti che, al contrario, le deduzioni relative a lrpef e Ires non pregiudicano la finanza delle Regioni ordinarie, che non godono della compartecipazione a quelle imposte, e la finanza delle Regioni ordinarie non e' pregiudicata neppure dalla deduzione Irap: invero, considerata la modalita' di finanziamento della spesa sanitaria in tali Regioni (v. D. Lgs. 56/2000), la diminuzione del gettito Irap viene compensata da un corrispondente aumento della compartecipazione Iva, con garanzia di integrale finanziamento della spesa sanitaria regionale. Cio' che la Regione contesta non e' la previsione di deduzioni in se', ma tale previsione in quanto non accompagnata da una compensazione a favore delle Regioni speciali, cioe' in quanto il d.l. 201/2011 non provvede a riequilibrare le entrate regionali. E' ben noto che il d.l. 201/2011 contiene, accanto ad alcune norme volte a favorire lo sviluppo (come quelle sopra illustrate), altre norme volte ad aumentare le entrate tributarie. Pero', l'art. 48 - come piu' ampiamente si dira' - dispone che "le maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto sono, riservate all'Erario, per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalita' della situazione economica internazionale". Dunque, qualora dalle norme tributarie del d.l. 201/2011 dovessero derivare effetti economici favorevoli per questa Regione (a titolo di compartecipazione ai tributi erariali), essi sarebbero "annullati" (almeno) per cinque anni. Cio' significa che, mentre l'effetto di riduzione del gettito fiscale determinato dagli artt. 1 e 2 va anche a detrimento della Regione Friuli-Venezia Giulia, le maggiori entrate risultanti dalle altre norme vanno a esclusivo beneficio statale, con neutralizzazione dell'art. 49 St. Per la Regione Friuli-Venezia Giulia (e le altre Regioni speciali), dunque, la manovra e' a senso unico, e si traduce in una pura e semplice riduzione di entrata, non compensata affatto dall'aumento di imposte al cui gettito pure la Regione dovrebbe partecipare. Ne risulta violato, in primo luogo, il principio di uguaglianza (e di ragionevolezza) di cui all'art. 3, comma primo, Cost., sia con riferimento all'uguaglianza tra enti che in relazione all'uguaglianza tra comunita' territoriali (ed in definitiva tra le persone che le istituzioni di tale comunita' rappresentano): essendo evidente che l'istituzione rappresentativa della comunita' regionale del Friuli-Venezia Giulia "partecipa" al peso della riduzione delle imposte dirette in misura piu' rilevante del resto della comunita' nazionale (come si e' visto). Inoltre, benche' i cittadini della Regione - come tutti gli altri - paghino l'aumento delle imposte previsto dalle altre norme del di. 201/2011, tale aumento di entrata non si traduce affatto in un corrispondente aumento della capacita' di spesa della Regione. La Regione e' legittimata a far valere la violazione dell'art. 3, perche' si tratta della parita' di' trattamento fra Regioni e perche' essa si riflette in lesione dell'autonomia finanziaria regionale. La mancata attribuzione alla Regione di risorse compensative, ed anzi la espressa riserva allo Stato di quelle maggiori entrate che naturalmente avrebbero compensato il minor gettito, con la semplice applicazione delle regole statutarie, violano altresi' l'art. 63 dello Statuto e l'insieme delle disposizioni del titolo IV. L'art. 63 prevede, in primo luogo, che sulle proposte di legge costituzionale di modifica dello Statuto il Consiglio regionale esprima il proprio parere (co. 3). Esso contiene poi una disposizione specifica per le disposizioni finanziarie di cui al Titolo IV: queste "possono essere modificate con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione" ma, "in ogni caso, sentita la Regione". Ora, la ricorrente Regione e' ben consapevole che non si e' qui di fronte ad una formale modificazione delle disposizioni statutarie, ma non puo' essere dubbio che l'effetto degli artt. 1 e 2 equivale in tutto e per tutto ad una riduzione della quota di partecipazione. Infatti la riduzione del gettito non e' qui la semplice conseguenza del ciclo economico, in relazione al quale il gettito puo' essere maggiore o minore, in condizione di uguaglianza tra tutti coloro che ne sono destinatari: al contrario, la riduzione e' qui la conseguenza di una consapevole decisione di governo. La previsione di ulteriori deduzioni a danno delle sole Regioni speciali, con contemporanea espressa esclusione del riequilibrio a favore della Regione, e con la riserva delle entrate al solo Stato, equivale ad una alterazione del rapporto tra finanza statale e finanza regionale quale fissato dall'art. 49 dello Statuto. La mancata attivazione di una procedura di consultazione comporta ad avviso della ricorrente Regione la violazione dell'art. 63 dello Statuto e del principio di leale collaborazione. Inoltre, le norme in questione violano anche il principio di corrispondenza tra entrate e funzioni, implicito nel sistema statutario (v. l'art. 50, in base al quale "per provvedere a scopi determinati, che non rientrano nelle funzioni normali della Regione,..lo Stato assegna alla stessa, con legge, contributi speciali") ed espresso nell'art. 119, comma quarto, della Costituzione. E'evidente infatti che la dimensione quantitativa delle entrate regionali era stata predisposta in correlazione con l'ampiezza delle funzioni proprie della stessa Regione, e che un "taglio" delle risorse a sua disposizione comporta lo squilibrio tra queste e le funzioni. Nel presente periodo di crisi finanziaria, senz'altro tutte le componenti della Repubblica sono chiamate a collaborare, ma - per la Regione Friuli-Venezia Giulia, cio' e' gia' avvenuto con le diverse manovre finanziarie (v. l'art. 14 di. 78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011 e l'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011) e con le norme di cui all'art. 1, co. 151 ss., 1. 220/2010. Questa Regione e' consapevole che all'accoglimento della sua domanda sotto il profilo ora indicato potrebbe ostare il precedente rappresentato dalla sent. 155/2006, relativa alla 1. 311/2004, nella quale si legge che, "a seguito di manovre di finanza pubblica, possono anche determinarsi riduzioni nella disponibilita' finanziaria delle Regioni, purche' esse non siano tali da comportare uno squilibrio incompatibile con le complessive esigenze di spesa regionale e, in definitiva, rendano insufficienti i mezzi finanziari dei quali la Regione stessa dispone per l'adempimento dei propri compiti". Questa Regione, pero', non si puo' esimere dal far notare che, da un lato, la prova richiesta da codesta Corte e' una probatio diabolica, dall'altro l'onere della prova dovrebbe incombere su chi opera il taglio, non su chi lo subisce. Si puo' presupporre, cioe', che lo Stato abbia riconosciuto alla Regione le risorse finanziarie adeguate alle sue funzioni e che, percio', un "taglio" di risorse possa avvenire solo in presenza di determinati presupposti. Lo Stato non puo' diminuire unilateralmente le risorse senza alcuna valutazione di adeguatezza finanziaria, cioe' di una diminuita necessita' finanziaria della Regione. Il necessario collegamento con la dimensione effettiva della finanza delle Regioni speciali e con le "funzioni da esse effettivamente esercitate" emerge anche dall'art. 27, co. 2,1. 42/2009. 2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo A) Premessa. Il passaggio alla nuova imposta e la sottrazione delle risorse al sistema locale. L'art. 13 regola l'Anticipazione sperimentale dell'imposta municipale propria, stabilendo (comma 1) che l'istituzione di tale imposta "e' anticipata, in via sperimentale, a decorrere dall'anno 2012, ed e' applicata in tutti i comuni del territorio nazionale fino al 2014 in base agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, in quanto compatibili, ed alle disposizioni che seguono", e che conseguentemente, "l'applicazione a regime dell'imposta municipale propria e' fissata al 2015". Il riferimento a "tutti i comuni del territorio nazionale" induce a ritenere che l'art. 13 intenda applicarsi anche nella regione Friuli-Venezia Giulia. L'art. 8, co. 1, d. lgs. 23/2011, richiamato dall'art. 13, comma 1, ora citato, stabilisce che l'imposta municipale propria istituita dallo stesso articolo "sostituisce, per la componente immobiliare, l'imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addizionali dovute in relazione ai redditi fondiari relativi ai beni non locati, e l'imposta comunale sugli immobili". Dunque, l'Imup sostituisce - oltre all'ICI, gia' destinata ai Comuni - imposte destinate alla Regione: o per seidecimi, come l'Irpef relativa ai redditi fondiari degli immobili non locati (art. 49 Statuto) o interamente, come le addizionali regionale e comunale relative ai redditi fondiari degli immobili non locati e l'Ici: va infatti ricordato che, in base all'art. 51, co. 2, St., "il gettito relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali su tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli enti locali spetta alla Regione con riferimento agli enti locali del proprio territorio, ferma restando la neutralita' finanziaria per il bilancio dello Stato". Del resto, la Regione e' competente in materia di finanza locale, ai sensi degli artt. 51 e 54 St. e 9 d. Igs. 9/1997. Peraltro, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe titolo per contestare la trasformazione di determinati tributi erariali in tributi locali: lo Statuto assicura determinate quote di compartecipazione su diversi tributi erariali, ma non prescrive l'esistenza in particolare di determinati tributi erariali: e se lo Stato vi rinuncia, in favore della finanza comunale, tale rinuncia vale anche per la quota spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia. Sennonche', tale conclusione opera sino a che le risorse siano realmente attribuite ai comuni, come avviene nel disegno normativo originario dell'IMUP ai sensi degli artt. 8 e 9 d. lgs. 23/2011. Ove invece il reddito dell'imposta "municipale" sia assegnato allo Stato, ne risulta un complessivo impoverimento del sistema locale: dietro la "municipalizzazione", infatti, vi e' sempre l'imposta erariale, soltanto che il suo gettito viene sottratto alla Regione Friuli-Venezia Giulia, con evidente sostanziale violazione degli artt. 49 e 51 dello Statuto. E proprio questo accade con le nuove disposizioni dell'art. 13, comma 11. Esse, infatti, prevedono la riserva allo Stato di una quota dell'Imup. Ecco il testo della disposizione: "E'riservata allo Stato la quota di imposta pari alla meta' dell'importo calcolato applicando alla base imponibile di tutti gli immobili, ad eccezione dell'abitazione principale e delle relative pertinenze di cui al comma 7, nonche' dei fabbricati rurali ad uso strumentale di cui al comma 8, l'aliquota di base di cui al comma 6, primo periodo. La quota di imposta risultante e' versata allo Stato contestualmente all'imposta municipale propria. Le detrazioni previste dal presente articolo, nonche' le detrazioni e le riduzioni di aliquota deliberate dai comuni non si applicano alla quota di imposta riservata allo Stato di cui al periodo precedente. Per l'accertamento, la riscossione, i rimborsi, le sanzioni, gli interessi ed il contenzioso si applicano le disposizioni vigenti in materia di imposta municipale propria. Le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e sanzioni" (enfasi aggiunta). In realta', pero', dal comma 17 dell'art. 13 risulta che lo Stato non solo si trattiene la meta' "riservata" dell'importo, ma intende appropriarsi di tutto il maggior gettito, cioe' ogni importo eccedente le entrate che affluivano ai comuni della regione Friuli-Venezia Giulia in base alle norme previgenti: ed intende farlo acquisendo tali fondi dalla Regione. Infatti, il comma 17, terzo periodo, dispone - in relazione alle autonomie speciali competenti in materia di finanza locale - che "con le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero al bilancio statale del predetto maggior gettito stimato dei comuni ricadenti nel proprio territorio". Ed il quarto periodo precisa che, "fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e' accantonato un importo pari al maggior gettito stimato di cui al precedente periodo". Il quinto periodo, infine, prevede che "l'importo complessivo della riduzione del recupero di cui al presente comma e' pari per l'anno 2012 a 1.627 milioni di curo, per l'anno 2013 a 1.762,4 milioni di euro e per l'anno 2014 a 2.162 milioni di euro". Ora, benche' il riferimento alla "riduzione del recupero" appaia privo di senso, sembra da ritenere che i numeri indicati rappresentino la quantificazione del "recupero" a carico della autonomie speciali. Dunque, lo Stato ha provveduto a ristrutturare le imposte "immobiliari" e a rideterminare le basi imponibili, ma - nel periodo 2012-2014 - i maggiori incassi derivanti da questa operazione sono interamente destinati allo Stato, il quale in parte li riceve direttamente dai contribuenti in base alla riserva di cui al comma 11, in parte li riceve dalla Regione con i meccanismi di "recupero" o "accantonamento" di cui al comma 17. Si noti che il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere inteso nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato con l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con l'importo dei tributi sostituiti percepiti dai Comuni (cioe', l'Ici 2011). Se cosi' fosse, il taglio delle risorse assumerebbe un carattere del tutto particolare rispetto alla Regione Friuli-Venezia Giulia. Infatti, delle tre componenti sostituite dall'/mup (cioe' 1'Irpef fondiaria, le addizionali regionale e comunali e l'ICI), l'ICI era precedentemente riscossa direttamente dai comuni (anche se destinata alla Regione, dopo le modifiche apportate all'art. 51 St. dalla 1. 220/2010), mentre sia le risorse derivanti dall'Irpef fondiaria che quelle derivanti dalle addizionali spettavano alla Regione. Ne risulta che - concentrata la fiscalita' nell'Imup - il "maggior gettito stimato dei comuni" della Regione sara' particolarmente elevato, comprendendo anche il gettito dei tributi che prima costituivano entrate della Regione. In entrambi i casi, tributi spettanti al sistema regionale in base allo Statuto e alle norme di attuazione sono illegittimamente avocati allo Stato, come di seguito si illustra. B) Illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui riserva allo Stato meta' dell'Importo Imup. Poste le premesse appena illustrate, viene in considerazione in primo luogo l'illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui considera tributo erariale la quota del 50% dell'Imup e la riserva allo Stato. L'art. 49 dello Statuto speciale dispone che "spettano alla Regione le seguenti quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa: 1) sei decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle persone fisiche". L'art. 51, co. 2, come gia' visto, stabilisce che "il gettito relativo a tributi propri e a compartecipazioni e addizionali su tributi erariali che le leggi dello Stato attribuiscano agli enti locali spetta alla Regione con riferimento agli enti locali del proprio territorio". Dunque, alla Regione spettano i 6/10 dell'Irpef e le addizionali Irpef (regionale e comunali). L'art. 13 sostituisce l'Imup a tali imposte (per la quota fondiaria) ma l'operazione si rivela elusiva, fittizia, perche' il comma 11 riporta le somme in questione allo Stato. Non basta, pero', un semplice cambio di "etichetta" del tributo per eludere il sistema statutario. Il comma 11 viola gli artt. 49, n. 1, e 51, co. 2, perche' avoca allo Stato risorse riscosse a titolo di tributo erariale (come ammette lo stesso comma 11, ultimo periodo) e che sostanzialmente corrispondono a tributi spettanti alla Regione (pro quota o interamente). Qualora, invece, si volesse valorizzare lo status di tributo locale dell'Imup, allora l'art. 13, co. 11, violerebbe l'art. 51, co. 2, la' dove dispone che "il gettito relativo a tributi propri... che le leggi dello Stato attribuiscano agli enti locali spetta alla Regione con riferimento agli enti locali del proprio territorio". L'Imup e' un tributo attribuito agli enti locali ma il comma 11 riserva meta' del gettito allo Stato, in contrasto con l'art. 51, co. 2, St. La fondatezza della censura sopra esposta non potrebbe essere contestata facendo valere la clausola di possibile riserva all'erario statale prevista dalle norme di attuazione (art. 4 dPR 114/1965 e art. 6, co. 2, d. 1gs. 8/1997): su questo punto, pero', si rinvia alla censura relativa alla norma generale di cui all'art. 48 ("Le maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto sono riservate all'Erario, per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalita' della situazione economica internazionale"), che pare applicabile anche alle risorse attribuite allo Stato dall'art. 13, co. 11. C) In particolare, ancora illegittimita' costituzionale del comma 11, nella parte in cui riserva ai comuni le attivita' di accertamento e riscossione e assegna ai Comuni le maggiori entrate connesse a tali attivita'. Oltre che per la riserva allo Stato, l'art. 13, co. 11, risulta lesivo anche per quel che dispone l'ultimo periodo di esso, secondo cui "le attivita' di accertamento e riscossione dell'imposta erariale sono svolte dal comune al quale spettano le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e sanzioni". L'art. 53 St. stabilisce che "la regione collabora all'accertamento delle imposte erariali sui redditi dei soggetti con domicilio fiscale nel suo territorio" (co. 1) e che "le predette intese [fra Regione e Ministro] definiscono i necessari indirizzi e obiettivi strategici relativi all'attivita' di accertamento dei tributi nel territorio della Regione, la quale e' svolta attraverso i conseguenti accordi operativi con le Agenzie fiscali" (co. 4) Dunque, l'ultimo periodo del comma 11 viola l'art. 53, co. 4, St., regolando direttamente un'attivita' di accertamento di tributi (la quota di IMUP avente natura erariale) nel territorio regionale. Inoltre, la norma in questione viola gli ara. 49 e 51, co. 2, St. la' dove attribuisce ai comuni "le maggiori somme derivanti dallo svolgimento delle suddette attivita' a titolo di imposta, interessi e sanzioni". Infatti, si tratta di somme che spettano alla Regione sia che si valorizzi la corrispondenza con l'Irpef fondiaria e con le addizionali (v. l'art. 49 e l'art. 51, co. 2, St.) sia che si valorizzi lo status di tributo locale (v. art. 51, co. 2): su cio' v. sopra, punto B). Non si tratta, cioe', di maggiori entrate che derivano dall'aumento delle aliquote o dall'introduzione di nuovi tributi, ma semplicemente di entrate che derivano da un piu' rigoroso accertamento degli obblighi tributari preesistenti, il cui gettito deve seguire la destinazione impressa dallo Statuto e non puo' essere discrezionalmente attribuito dallo Stato. La fondatezza di tale censura e' confermata anche dalla sentenza di codesta Coste costituzionale n. 152/2011, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 1, comma 6, del d.l. n. 40 del 2010, "nella parte in cui stabilisce che le entrate derivanti dal recupero dei crediti d'imposta «sono riversate all'entrata del bilancio dello Stato e restano acquisite all'erario», anche con riferimento a crediti d'imposta inerenti a tributi che avrebbero dovuto essere riscossi nel territorio della Regione siciliana". La sentenza precisa che "e' alla Regione siciliana... che spetta, non solo provvedere al detto recupero, ma anche acquisire il gettito da esso derivante, posto che tale gettito, lungi dal costituire frutto di una nuova entrata tributaria erariale, non e' altro che l'equivalente del gettito del tributo previsto (al di fuori dei casi nei quali e' concesso il credito d'imposta), che compete alla Regione sulla base e nei limiti dell'art. 2 del d.P.R. n. 1074 del 1965". La medesima sent. 152/2011 ha poi annullato l'art. 3, co. 2-bis, d.l. 40/2010, in quanto "la previsione della esclusiva destinazione a fondi erariali del gettito derivante dalla definizione agevolata di' tali controversie inerenti alla contestazione di tributi erariali che avrebbero dovuto essere riscossi nel territorio regionale si pone in contrasto con il principio di cui all'art. 2 delle norme di attuazione, non potendo peraltro neppure ritenersi che le entrate derivanti dalla richiamata definizione agevolata delle controversie tributarie siano "entrate nuove". D) Illegittimita' costituzionale del comma 14, lett. a), e del comma 17, terzo, quarto e quinto periodo. Il comma 14, lett. a) dell'art. 13 abroga l'art. 1 d.l. 93/2008, che introduceva l'esenzione ICI per la prima casa e, al comma 4, stabiliva quanto segue: "La minore imposta che deriva dall'applicazione dei commi 1, 2 e 3, pari a 1.700 milioni di euro a decorrere dall'anno 2008, e' rimborsata ai singoli comuni, in aggiunta a quella prevista dal comma 2-bis dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 504 del 1992, introdotto dall'articolo 1, comma 5, della legge 24 dicembre 2007, n. 244. A tale fine, nello stato di previsione del Ministero dell'interno l'apposito fondo e' integrato di un importo pari a quanto sopra stabilito a decorrere dall'anno 2008. Relativamente alle regioni a statuto speciale, ad eccezione delle regioni Sardegna e Sicilia, ed alle province autonome di Trento e di Balzano, i rimborsi sono in ogni caso disposti a favore dei citati enti, che provvedono all'attribuzione delle quote dovute ai comuni compresi nei loro territori nel rispetto degli statuti speciali e delle relative norme di attuazione". L'art. 13, co. 17, primo periodo, d.l. 201/2011 (qui non impugnato, in quanto non riguarda la Regione Friuli-Venezia Giulia.) dispone che "il fondo sperimentale di riequilibrio, come determinato ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, e il fondo perequativo, come determinato ai sensi dell'articolo 13 del medesimo decreto legislativo n. 23 del 2011, ed i trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna variano in ragione delle differenze del gettito stimato ad aliquota di base derivanti dalle disposizioni di cui al presente articolo"; si aggiunge che "in caso di incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato le somme residue". Tale disposizione e' scritta in modo oscuro (i fondi ed i trasferimenti "variano", i comuni versano "le somme residue"): ma in definitiva sembra significare che o attraverso la riduzione dei trasferimenti dallo Stato o (se la riduzione non basta) attraverso trasferimenti dagli stessi Comuni, lo Stato incamera tutto cio' che per effetto delle nuove regole ai Comuni affluisca in misura maggiore di prima. Per la Regione Friuli-Venezia Giulia - come per le altre autonomie speciali aventi competenza in materia di finanza locale - vale invece, come sopra visto, l'art. 13, co. 17, terzo periodo: il quale dispone direttamente che "con le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero al bilancio statale del predetto maggior gettito stimato dei comuni ricadenti nel proprio territorio". Il quarto periodo aggiunge che, "fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e' accantonato un importo pari al maggior gettito stimato di cui al precedente periodo". Dunque, lo Stato non solo trattiene la parte erariale dell'Imup (in base al comma 11), ma vorrebbe incamerare dalla Regione anche l'imposta comunale, per tutto l'importo eccedente le entrate che affluivano ai comuni in base alle norme previgenti. Come si e' gia' notato, il comma 17 e' formulato in modo tale da poter essere inteso nel senso che l'importo Imup 2012 non debba essere confrontato con l'importo 2011 dei tributi sostituiti ma solo con l'importo dei tributi comunali sostituiti (cioe', l'Ici 2011). Se cosi' fosse, la Regione e i suoi enti locali risulterebbero depauperati: dei sei decimi dell'Irpef sui redditi immobiliari, soppressi; delle addizionali regionale e comunale precedentemente previste (la seconda era destinata alla Regione in luogo dei comuni); Inoltre, il comma 17 potrebbe essere interpretato anche nel senso che dal gettito precedente sia esclusa la somma che perveniva ai comuni (tramite la Regione) ai sensi dell'art. 1, co. 4, di. 98/2008, sopra citato. Se cosi' fosse, ne risulterebbe un ulteriore rilevante depauperamento del sistema regionale. In questi termini, la fittizia comunalizzazione dei tributi immobiliari si traduce nel transito delle corrispondenti risorse dal bilancio regionale al bilancio statale. La Regione, che prima "integrava" la finanza locale avvalendosi delle predette risorse, ora ne e' priva ma dovra' comunque far fronte alle necessita' finanziarie dei comuni (art. 54 St. e art. 9, co. 2, d. lgs. 9/1997), e dovrebbe contestualmente versare allo Stato proprie risorse in misura corrispondente alle maggiori entrate dei Comuni, o comunque in misura corrispondente a quella a priori determinata dalla impugnata disposizione (quinto periodo). In un sistema nel quale la Regione ha la responsabilita' complessiva della finanza locale, la sottrazione ai comuni delle risorse derivanti dalle imposte ad essi destinate costituisce contemporaneamente una lesione dell'autonomia finanziaria regionale. In ogni modo, il terzo e quarto periodo del comma 17, dunque, violano l'art. 49 St. e gli artt. 4 dPR 114/1965 e 6, co. 2, d. lgs. 8/1997 perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di spettanza regionale, al di fuori dei casi previsti. Cio' e' vero sia nel caso in cui si ritenga che il comma 17 produca l'effetto di avocare allo Stato le risorse che prima spettavano alla Regione a titolo di compartecipazione all'Irpef fondiaria (art. 49 St.) e di addizionali regionale e comunale (art. 51, co. 2), sia nel caso in cui si ritenga che la Regione dovrebbe assicurare il recupero allo Stato del maggior gettito con le proprie risorse ordinarie, per cui il comma 17 produce l'effetto di "far tornare" nelle casse statali risorse spettanti alla Regione e ad essa affluite in attuazione delle regole finanziarie poste dallo Statuto e dalle norme di attuazione (co. 17, terzo periodo). Ancora, il comma 17, terzo e quarto periodo, viola gli artt. 63 e 65 St., proprio perche' pretende di derogare agli artt. 49 e 51 St. e al dPR 114/1965 con una fonte primaria "ordinaria". L'art. 65 St. e' violato anche perche' il comma 17, terzo periodo, pretende di vincolare unilateralmente il contenuto delle nonne di attuazione. Inoltre, il comma 14, lett. a) ed il comma 17, terzo e quarto periodo, violano l'autonomia finanziaria regionale (assicurata dagli articoli 48 e 49 Statuto, e dall'art. 119, commi 1, 2, e 4, Cost.) in quanto producono l'effetto di infliggere un nuovo, rilevante "taglio" di risorse al sistema regionale. Su questo punto si rinvia alle considerazioni svolte nel presente atto a proposito dell'art. 28, co. 3. Si puo', pero', gia' qui indicare, in sintesi, che le norme in questione producono, come abbiamo visto, l'effetto di "espropriare" la Regione e gli enti locali delle risorse corrispondenti ai 6/10 dell'Irpef fondiaria, alle addizionali regionale e comunali e a quelle che l'art. 1 d.1. 93/2008 (ora abrogato) attribuiva ai comuni (tramite la Regione) per compensare l'esenzione Ici sulla prima casa. Si tratta di una quota rilevante di risorse, la cui eliminazione si aggiunge ai tagli gia' operati con l'art. 14 d.l. 78/2010, l'art. 20, co. 5, d.l. 98/2011, l'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e l'art. 1, comma 156, primo periodo, della legge 220/2010. Le risorse "avocate" dalle norme qui impugnate (soprattutto quelle compensative dell'Ici sulla prima casa) erano dirette al finanziamento delle "funzioni normali" dei comuni, per cui la loro sottrazione produce gravi squilibri e incide sulla finanza regionale (v. l'art. 54 St. e l'art. 9 d. lgs. 9/1997). Lo Stato non puo' revocare quote cosi' rilevanti di risorse senza alcuna compensazione. Il principio di "neutralita' finanziaria" (riconosciuto dallo stesso legislatore statale all'art. 1, co. 159, l. 220/2010, cui deve attribuirsi valore interpretativo dello Statuto: "Qualora con i decreti legislativi di attuazione della legge 5 maggio 2009, n. 42, siano istituite sul territorio nazionale nuove forme di imposizione, in sostituzione totale o parziale di tributi vigenti, con le procedure previste dall'articolo 27 della medesima legge n. 42 del 2009, e' rivisto l'ordinamento finanziario della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia al fine di assicurare la neutralita' finanziaria dei predetti decreti nei confronti dei vari livelli di governo") e' stravolto dalle norme qui impugnate, che regolano un nuovo tributo, sostituendolo a tributi preesistenti, con il risultato di spostare risorse dal sistema regionale allo Stato. E' anche violato il principio consensuale che domina i rapporti finanziari tra Stato e Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010; v. sempre il motivo relativo all'art. 28, co. 4), perche' lo Stato ha proceduto a sovvertire l'assetto della finanza regionale e comunale del tutto unilateralmente, anzi violando le norme (come il succitato principio di neutralita' finanziaria) concordate con la Regione (l'art. 1, co. 159, 1. 220/2010 recepisce l'art. 11 del Protocollo di intesa Tondo - Tremonti'). Infine, e' da sottolineare che le norme impugnate colpiscono essenzialmente le Regioni speciali, sia perche' solo esse dispongono delle compartecipazioni e delle addizionali locali, sia perche' i comuni delle regioni ordinarie non perdono la "compensazione" dell'Ici sulla prima casa (che e' confluita nel fondo sperimentale di riequilibrio). Di qui la violazione dell'art. 3 Cost., con ovvie ripercussioni sull'autonomia finanziaria della Regione e degli enti locali situati nel suo territorio. Una menzione separata e specifica richiede l'illegittimita' del quarto periodo del comma 17 che prevede lo "accantonamento" delle quote di compartecipazione previste dall'art. 49 Statuto. Va rilevato, infatti, che tale "accantonamento" contrasta anch'esso frontalmente con l'art. 49 dello Statuto e con l'intero sistema finanziario della Regione da esso istituito. E'evidente, infatti, che le risorse che lo Statuto prevede come entrate regionali sono cosi' stabilite perche' esse vengano utilizzate dalla Regione per lo svolgimento delle sue funzioni costituzionali, e non perche' esse vengano "accantonate". L'istituto dell'accantonamento non ha nel sistema statutario cittadinanza alcuna. Inoltre, l'illegittimita' del trasferimento previsto determina anche l'illegittimita' dell'accantonamento disposto nella prospettiva del trasferimento. Specifica illegittimita' colpisce poi il quinto periodo del comma 17, che stabilisce in un ammontare fisso e determinato l'importo del "recupero", stimandolo a priori con criteri del tutto oscuri. Si tratta di una norma irragionevole, che prevede un importo fisso senza contemplare alcun meccanismo di conguaglio o rimborso in caso di inesattezza. L'irragionevolezza, naturalmente, si riflette sull'autonomia finanziaria della Regione, tenuta ad assicurare il "recupero". Inoltre e' violato il gia' citato principio consensuale in materia di finanza delle Regioni speciali, perche' la norma avrebbe dovuto prevedere una determinazione concordata dell'importo in questione. 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo L'art. 14, comma 1, d.1. 201/2011 stabilisce che "a decorrere dal 1° gennaio 2013 e' istituito in tutti i comuni del territorio nazionale il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa dai comuni, e dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni". Il comma 8 dispone che "il tributo e' corrisposto in base a tariffa" ed i commi successivi regolano la determinazione della tariffa (il comma 12 rinvia, a tal fine, ad un regolamento). Il comma 13 statuisce che "alla tariffa determinata in base alle disposizioni di cui ai commi da 8 a 12, si applica una maggiorazione pari a 0,30 euro per metro quadrato, a copertura dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni, i quali possono, con deliberazione del consiglio comunale, modificare in aumento la misura della maggiorazione fino a 0,40 euro, anche graduandola in ragione della tipologia dell'immobile e della zona ove e' ubicato". Tali commi riguardano il regime generale del tributo, e non sono oggetto di impugnazione. Oggetto di impugnazione e' invece - per la parte che interessa la Regione Friuli-Venezia Giulia - il comma 13-bis, il quale dispone quanto segue: "a decorrere dall'anno 2013 il fondo sperimentale di riequilibrio, come determinato ai sensi dell'articolo 2 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, e il fondo perequativo, come determinato ai sensi dell'articolo 13 del medesimo decreto legislativo n. 23 del 2011, ed i trasferimenti erariali dovuti ai comuni della Regione Siciliana e della Regione Sardegna sono ridotti in misura corrispondente al gettito derivante dalla maggiorazione standard di cui al comma 13 del presente articolo. In caso di incapienza ciascun comune versa all'entrata del bilancio dello Stato le somme residue. Con le procedure previste dall'articolo 27 della legge 5 maggio 2009, n. 42, le regioni Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, nonche' le Province autonome di Trento e di Bolzano, assicurano il recupero al bilancio statale del predetto maggior gettito dei comuni ricadenti nel proprio territorio. Fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui allo stesso articolo 27, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali, e' accantonato un importo pari al maggior gettito di cui al precedente periodo". Dunque, in base al terzo e quarto periodo dell'art. 13-bis la Regione Friuli-Venezia Giulia dovrebbe versare al bilancio dello Stato - a "compenso" di maggiori entrate dei Comuni - risorse dal proprio bilancio. Come si vede, si tratta di disposizioni simili a quelle di cui all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo, sopra censurate, con la differenza che, nel caso del tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, il recupero al bilancio statale della maggiorazione e' previsto in modo stabile. Vanno richiamati, dunque, i motivi gia' svolti con riferimento all'art. 13, co. 17, terzo e quarto periodo. Per tali trasferimenti al bilancio dello Stato di entrate che spettano alla Regione a termini di Statuto non vi e' alcun fondamento statutario, ma vi e' invece violazione dello Statuto: il quale assegna determinate entrate alla Regione affinche' essa ne disponga per l'esercizio delle proprie funzioni, e non per versarle al bilancio dello Stato. Per il concorso ai bisogni della finanza pubblica sono stati previsti appositi meccanismi (concordati con l'Accordo di Roma del 2010) dall'art. 1, commi 152 ss., 1. 220/2010, mentre l'art. 14, co. 13-bis, terzo e quarto periodo, stravolge unilateralmente l'assetto dei rapporti tra Stato e Regione in materia finanziaria disegnato dallo Statuto. Il terzo e quarto periodo del comma 13-bis, dunque, violano gli artt. 48 e 49 St. e l'art. 4 dPR 114/1965 (su di esso v. l'ultimo motivo) perche' pretendono di avocare allo Stato risorse di spettanza regionale, al di fuori dei casi previsti. Infatti, la Regione dovrebbe assicurare il recupero allo Stato della maggiorazione standard con le proprie risorse ordinarie, per cui il comma impugnato produce l'effetto di "far tornare" nelle casse statali risorse affluite alla Regione in attuazione delle regole finanziarie poste dallo Statuto e dalle norme di attuazione (co. 13-bis, terzo periodo). Ancora, essi violano gli artt. 63 e 65 St., proprio perche' pretendono di derogare agli artt. 49 e al dPR 114/1965 con una fonte primaria "ordinaria". L'art. 65 St. e' violato anche perche' il comma 13-bis, terzo periodo, pretende di vincolare unilateralmente il contenuto delle norme di attuazione. Come gia' osservato per l'art. 13, comma 17, e' poi palese l'illegittimita' del quarto periodo del comma 13-bis dell'art. 14 che, prevedendo l'accantonamento delle entrate regionali sulle quote di compartecipazione previste dall'art. 49 St., contrasta frontalmente con tale norma e con il sistema finanziario previsto dallo Statuto, per le stesse ragioni sopra enunciate. 4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, commi da 2 a 10 L'art. 16, co. 2, d.l. 201/2011 dispone che "dal 1° maggio 2012 le unita' da diporto che stazionino in porti marittimi nazionali, navighino o siano ancorate in acque pubbliche, anche se in concessione a privati, sono soggette al pagamento della tassa annuale di stazionamento, calcolata per ogni giorno". Il comma 3 prevede una riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate esclusivamente dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione, nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia". In base al comma 4, "la tassa non si applica. alle unita' di cui al comma 2 che si trovino in un'area di rimessaggio e per i giorni di effettiva permanenza in rimessaggio". Il comma 7 individua i soggetti tenuti al pagamento della tassa e precisa che "il gettito della tassa di cui al comma 2 affluisce all'entrata del bilancio dello Stato". In primo luogo, e' opportuno soffermarsi sulla qualificazione giuridica del tributo. Diversi elementi inducono a riconoscere ad esso la natura di tassa a fronte dell'utilizzazione di un bene pubblico. In primo luogo, lo stesso legislatore usa la denominazione di "tassa", che, storicamente, e' il tributo che si paga per la fruizione di un servizio o di un bene pubblico. La denominazione di "tassa di stazionamento" e', dunque, coerente, perche' evidenzia che l'oggetto del tributo e' l'occupazione di uno spazio o comunque il transito sul bene pubblico acqua. Inoltre, e' significativo il fatto che oggetto della tassazione siano le unita' da diporto anche straniere e non iscritte in pubblici registri italiani, contrariamente a quanto previsto, implicitamente, per gli autoveicoli di cui al comma 1 ed esplicitamente per gli aeromobili nei commi 11 e seguenti. Ancora, la circostanza che la tassa non sia dovuta per il periodo di rimessaggio ricollega direttamente l'imposizione tributaria all'utilizzo del bene pubblico acqua e non alla presenza del bene "unita' da diporto" nel patrimonio del soggetto. Premesso cio', e' necessario ricordare le prerogative regionali in relazione alle acque pubbliche. In base all'art. 1 d. lgs. 265/2001, "sono trasferiti alla regione Friuli-Venezia Giulia... tutti i beni dello Stato appartenenti al demanio idrico, comprese le acque pubbliche, gli alvei e le pertinenze, i laghi e le opere idrauliche, situati nel territorio regionale, con esclusione del fiume Judrio, nel tratto, classificato di prima categoria, nonche' dei fiumi Tagliamento e Livenza, nei tratti che fanno da confine con la regione Veneto" (co. 1). Il comma 2 aggiunge che "sono trasferiti alla regione tutti i beni dello Stato e relative pertinenze... situati nella laguna di Marano-Grado". La regione "esercita tutte le attribuzioni inerenti alla titolarita' dei beni trasferiti ai sensi dei commi 1 e 2" (co. 3). L'art. 5, co. 5, dispone che "i proventi e le spese derivanti dalla gestione dei beni trasferiti spettano alla regione a decorrere dalla data di consegna". L'art. 9, co. 2 d. lgs. 111/2004, poi, trasferisce alla Regione "tutte le funzioni amministrative, salvo quelle espressamente mantenute allo Stato dall'articolo 11, in materia di.. navigazione interna e porti regionali, comprese le funzioni relative alle concessioni dei beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo, di zone del mare territoriale per finalita' diverse da quelle di approvvigionamento energetico". Il comma 5 aggiunge che "i proventi e le spese derivanti dalla gestione del demanio marittimo e della navigazione interna. spettano alla Regione". L'art. 11, co. 1, conferma che allo Stato restano soltanto le funzioni relative "oo) all'utilizzazione del pubblico demanio marittimo e delle zone del mare territoriale di competenza statale per finalita' di approvvigionamento energetico". La Regione, dunque, e' titolare dei beni del demanio idrico e di quelli relativi alla laguna di Marano-Grado ed e' titolare in sostanza di tutte le funzioni amministrative relative ai porti e agli altri beni del demanio marittimo. Poste tali premesse, l'art. 16 appare dunque illegittimo - in primo luogo - nella parte in cui non esclude tutti i beni del demanio idrico e la laguna di Marano-Grado dall'applicazione della tassa di stazionamento, per violazione degli artt. 48 e 51, co. 1 St. (che garantiscono l'autonomia finanziaria e patrimoniale della Regione)e dell'art. 1 d. lgs. 265/2001 (sopra illustrato), perche' l'istituzione, da parte dello Stato, di una tassa statale per la fruizione di un bene del demanio regionale viola l'autonomia finanziaria e patrimoniale della Regione. Ove l'istituzione della tassa apparisse legittima, non potrebbe non apparire illegittima la destinazione al bilancio dello Stato. In effetti, l'art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 265 del 2001 riserva alla Regione "i proventi e le spese derivanti dalla gestione dei beni trasferiti spettano": e tra essi non possono non includersi quelli derivanti dalle imposizioni relative specificamente alla fruizione di essi. Inoltre, l'art. 16 e' illegittimo perche' prevede una tassa che colpisce la fruizione di beni del demanio marittimo (cioe' di beni la cui gestione amministrativa spetta alla Regione, con i relativi proventi: art. 9, co. 5, d. lgs. 111/2004) senza prevedere un ruolo della Regione nella regolamentazione della tassa. Se il presupposto del tributo dev'essere riconosciuto, come si e' visto, nell'uso del bene pubblico, nella disciplina di esso dovrebbe essere coinvolto l'ente che, in virtu' delle norme di attuazione, ha la competenza legislativa ed amministrativa sulla gestione del bene stesso. Infine, l'art. 16, co. 3, appare illegittimo perche' prevede una riduzione della tassa per le imbarcazioni "utilizzate esclusivamente dai proprietari residenti, come propri ordinari mezzi di locomozione, nei comuni ubicati nelle isole minori e nella Laguna di Venezia", senza estendere eguale regime ai comuni ubicati nella laguna di Marano-Grado. La norma distingue irragionevolmente fra situazioni del tutto assimilabili, e la violazione dell'art. 3 si riflette in lesione dell'autonomia finanziaria regionale, trattandosi di beni del demanio regionale. Inoltre, la Regione e' anche legittimata a far valere la violazione del principio di eguaglianza quale ente esponenziale (art. 5 Cost.) della comunita' stanziata sul proprio territorio (per un precedente v. sent. 276/1991). 5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 4. L'art. 23, co. 4, aggiunge il comma 3-bis all'art. 33 d. lgs. 163/2006, stabilendo che "i Comuni con popolazione non superiore a 5.000 abitanti ricadenti nel territorio di ciascuna Provincia affidano obbligatoriamente ad un'unica centrale di committenza l'acquisizione di lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni dei comuni, di cui all'articolo 32 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici". Tale disposizione dovrebbe essere intesa in collegamento con l'art. 4, co. 5, d. lgs. 163/2006 ("Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti e nelle relative norme di attuazione") e, dunque, in senso conforme a costituzione, cioe' nel senso che non si applica a questa Regione. Essa, pero', potrebbe essere anche interpretata nel senso di volersi applicare in tutto il territorio nazionale e, in tal caso, sarebbe lesiva delle prerogative costituzionali della Regione. La norma, infatti, rientra prevalentemente nella materia "organizzazione amministrativa degli enti locali" e, poi, incide anche sulla materia "finanza locale", avendo come scopo la razionalizzazione della spesa degli enti locali. Nella prima materia la Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata di potesta' legislativa primaria ai sensi dell'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto. Con la legge regionale 9 gennaio 2006, n. 1, sono stati dettati i "Principi e norme fondamentali del sistema Regione - autonomie locali" e, tra l'altro, sono stati disciplinati l'esercizio coordinato di funzioni e la gestione associata di servizi tra enti locali, individuando le forme collaborative tra gli enti locali della regione. Anche nella seconda materia la Regione e' titolare di ampia competenza statutaria in base agli artt. 51 e 54 dello Statuto e all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare, il comma 1 di questa disposizione statuisce che "spetta alla regione disciplinare la finanza locale, l'ordinamento finanziario e contabile, l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali". La norma censurata, per il suo carattere dettagliato, non puo' rappresentare un limite alle competenze regionali appena illustrate e, percio', essa sarebbe illegittima qualora pretendesse di applicarsi ai comuni della regione Friuli-Venezia Giulia. Essa, infatti, non si limita a prescrivere ai comuni piccoli forme organizzative idonee a determinare un risparmio nella conclusione dei contratti pubblici, ma prevede direttamente la soglia di popolazione e le forme associative per l'individuazione della centrale unica di committenza. Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d. 1gs. 9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la regione finanzia gli enti locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1, co. 154, 1. 220/2010 ha statuito quanto segue: "la regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti e organismi strumentali, le aziende sanitarie e gli altri enti e organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla regione medesima in via ordinaria e prevalente costituiscono nel loro complesso il «sistema regionale integrato». Gli obiettivi sui saldi di finanza pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la regione sono realizzati attraverso il sistema regionale integrato. La regione risponde nei confronti dello Stato del mancato rispetto degli obiettivi di cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi aggiunto che "spetta alla regione individuare, con riferimento agli enti locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi per ciascun ente e le modalita' necessarie al raggiungimento degli obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo Stato per il periodo di' riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che "le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno non trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti il sistema regionale integrato". Da tali norme risulta che lo Stato deve limitarsi a concordare con la Regione i' vincoli finanziari, lasciando alla Regione il compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri e degli enti locali del proprio territorio. E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a limitare una voce di spesa degli enti locali, laddove il finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v., ad es., la sent. 341/09, punto 6: lo Stato non ha "ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario che definiscano le modalita' di contenimento di una spesa sanitaria che e' interamente sostenuta dalla Provincia autonoma di Trento") 6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, commi da 14 a 20-bis. Violazione degli articoli 5, 114, 117 commi primo, secondo e sesto, 118, commi primo e secondo, e 119 cost. nonche' dell'art. 4, lett. 1 bis, dell'art. 11 e dell'art. 59 dello Statuto regionale. Violazione dell'art. 54 St. e del d. lgs. 9/1997. L'art. 23, nei commi da 14 a 20, contiene una serie di disposizioni che alterano radicalmente l'organizzazione e le funzioni delle Province. Dichiaratamente, esse fanno parte di un programma che, al punto di arrivo, prevede la soppressione delle Province mediante legge costituzionale. In particolare e' disposto che: "Spettano alla provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze" (comma 14); "Sono organi di governo della Provincia il Consiglio provinciale ed il Presidente della Provincia. Tali organi durano in carica cinque anni" (comma 15); "Il consiglio provinciale e' composto da non piu' di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalita' di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 30 aprile 2012" (comma 16); "Il Presidente della Provincia e' eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti secondo le modalita' stabilite dalla legge statale di cui al comma 16" (comma 17); "Fatte salve le funzioni di cui al comma 14, lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza. In caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni entro il 31 dicembre 2012, si provvede in via sostitutiva, ai sensi dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, con legge dello Stato" (comma 18). "Lo Stato e le Regioni, secondo le rispettive competenze, provvedono altresi' al trasferimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito delle medesime risorse il necessario supporto di segreteria per l'operativita' degli organi della provincia" (comma 19); "Agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013, l'articolo 141 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni. Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all'elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17" (comma 20). Le disposizioni ora citate dispongono direttamente delle Province, per gli aspetti indicati, nelle Regioni a statuto ordinario. Le Regioni speciali - pur titolari tutte di potesta' legislativa primaria in materia di enti locali - non sono lasciate al di fuori di questo processo. Infatti, il comma 20 bis dell'art. 23 precisa che "le regioni a statuto speciale adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto" (dispone inoltre - senza che qui la cosa rilevi - che le disposizioni in questione "non trovano applicazione per le province autonome di Trento e di Bolzano"). Se e quando il destino delle Province verra' deciso mediante lo strumento appropriato della legge di revisione costituzionale, la Regione Friuli-Venezia Giulia - che si riserva di prendere parte al relativo dibattito con i propri strumenti ordinamentali - non potra' che prendere atto di tali decisioni. Essa ritiene tuttavia che - sino a che tali scelte vengano compiute - le disposizioni dettate in proposito dai commi da 14 a 20 siano sotto molti profili costituzionalmente illegittime, sia per il fatto di essere contenute in un decreto-legge sia nei loro specifici contenuti, per violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 5, 114, 117 e 118 Cost., e che la disposizione di cui al comma 20 bis sia costituzionalmente illegittima, sia in quanto impone alla Regione un dovere di adeguamento a tali contenuti illegittimi, sia - se pure tali contenuti fossero in se' legittimi - in quanto impone un dovere di adeguamento al di la' di quanto doveroso ai sensi dell'art. 4, n. 1 bis, dello Statuto. Di seguito verranno illustrate tali illegittimita', sotto tutti i profili. La Regione ricorre per se', in quanto la legge dello Stato impedisce il legittimo esercizio delle sue competenze, ma ricorre anche in quanto portatrice degli interessi delle comunita' provinciali del proprio territorio. a. In via preliminare: illegittimita' costituzionale di tutte le disposizioni impugnate per violazione dell'art. 77 Cost. I commi da 14 a 20 sono inseriti in un decreto-legge ma, com'e' evidente, non sono affatto sorretti dai presupposti costituzionali di cui all'art. 77 cost. ("casi straordinari di necessita' e urgenza"), in quanto si tratta di norme che operano una riforma strutturale delle funzioni e degli organi delle Province, e che sono destinate a produrre i propri effetti finanziari solo in un futuro non prossimo. Lo Stato, dunque, avrebbe potuto e dovuto adottare tali norme con l'ordinario procedimento legislativo. Per stessa ammissione contenuta nella relazione tecnica al decreto (doc. 2), trattasi di un "intervento di carattere strutturale con riguardo all'assetto istituzionale delle Province", che, per sua natura, non ha alcun carattere di urgenza, tanto che rinvia alla successiva legislazione ordinaria l'assetto delle funzioni e la disciplina degli organi. Si consideri, poi, che le nuove disposizioni introdotte si applicheranno ai rinnovi elettorali successivi alla data del 31 dicembre 2012. Inoltre, dalle norme impugnate non conseguono immediati risparmi di spesa. Sempre dalla relazione tecnica risulta che "il risparmio di spesa associabile al complesso normativa in esame - 65 milioni di euro lordi - e' destinato a prodursi dal 2013 e peraltro in via prudenziale non viene considerato in quanto verra' registrato a consuntivo". La Regione e' legittimata a denunciare la violazione dell'art. 77 cost. perche' essa si ripercuote su una sua sfera di competenza (ordinamento degli enti locali), nel senso che la potesta' legislativa regionale viene vincolata in modo illegittimo e, per di piu', la procedura accelerata di approvazione delle nonne ha impedito alla Regione di far valere il proprio punto di vista (si veda, di recente, la sent. 22/2012). b. Illegittimita' costituzionale dei commi 14, 18 e 19. Secondo il comma 14 - come esposto - "spettano alla provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze" (comma 14). Tale disposizione, nella parte in cui limita le funzioni della Provincia a quelle di "indirizzo e di coordinamento delle attivita' dei comuni", viola, ad avviso della Regione, la disciplina costituzionale in materia di funzioni degli enti locali, in quanto enti costitutivi della Repubblica (oltre al fondamentale principio di cui all'art. 5: "la Repubblica... riconosce e promuove le autonomie locali"). Da tale disciplina, infatti, risulta con evidenza che ognuno di tali enti compositivi ha funzioni proprie di autonomo soddisfacimento degli interessi pubblici della comunita' rappresentata, e non puo' essere ridotto ad una mera struttura di coordinamento di funzioni altrui. Cio' risulta in particolare: dall'articolo 114, comma secondo cui "i Comuni, le Province, le Citta' metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni"; dall'art. 117, comma secondo, lett. p), dalla quale risulta da un lato che alle Province (come agli altri enti) spetta di vedere definite dalla legge statale le funzioni fondamentali, che sembra chiaro non possano essere ridotte alla mera funzione di indirizzo e coordinamento di funzioni altrui; dall'art. 117, comma sesto, secondo cui le Province "hanno potesta' regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (mentre nel nuovo sistema mancherebbe il possibile oggetto della potesta' regolamentare); dall'art. 118, comma 1, che prevede che alle Province vengano attribuite "per assicurarne l'esercizio unitario" le funzioni che non possano essere svolte dai Comuni, e d'altronde non richiedano di essere svolte dalla Regione o dallo Stato in base ai principi di sussidiarieta' e di adeguatezza (con conseguente evidente illegittimita' di una disciplina di legge ordinaria che a priori limiti le funzioni della Provincia a quelle di coordinamento); dall'art. 118, comma secondo il quale le Province "sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze": dove l'aggettivo proprie esclude che si tratti di mere funzioni di coordinamento, e la previsione di funzioni conferite con legge regionale vale evidentemente ad escludere che la legge statale ordinaria possa impedire alle Regioni di fare quanto prescritto dalla Costituzione; dell'art. 119 cost. le cui varie disposizioni suppongono anch'esse un ente dotato, al pari degli altri enti compositivi della Repubblica, di funzioni proprie da finanziare in termini adeguati. In definitiva, la eliminazione di qualunque funzione propria della Provincia, e la sua riduzione ad un ente di presunto indirizzo e di coordinamento dei comuni, contraddice sia le singole disposizioni costituzionali citate, sia il disegno complessivo che da esse emerge. L'illegittimita' del comma 14 si riverbera sulla corrispondente illegittimita' dei commi 18 e 19, che contengono in definitiva disposizioni attuative del comma 14. Il comma 18 riguarda le funzioni attualmente conferite alle Province dalla normativa vigente, che con legge regionale dovrebbero essere riportate ai Comuni, oppure alla stessa Regione, entro il 31 dicembre 2012. In questo modo la legge statale chiama la legge regionale a fare esattamente il contrario di quanto la Regione dovrebbe fare in base alla Costituzione: anziche' attribuire alle Province le funzioni in base ai principi di sussidiarieta' ed adeguatezza, togliere ad esse le funzioni che in base a tali principi esse svolgono, per assegnarle a livelli che si suppongono meno adatti. Essendo illegittimo il dovere cosi imposto alle Regioni, altrettanto illegittimo e' anche il potere sostitutivo previsto dal secondo periodo del comma 18 per il "caso di mancato trasferimento delle funzioni da parte delle Regioni" entro il termine. La stessa illegittimita' colpisce poi il comma 19, che completa il disegno di sottrazione delle funzioni sul piano delle "risorse umane, finanziarie e strumentali". che ovviamente dovrebbero seguire il trasferimento delle funzioni. c. Illegittimita' costituzionale dei commi 15, 16 e 17. I commi 15, 16 e 17 modificano gli organi delle Province, per renderli coerenti con le funzioni che il comma 14 le chiama ad esercitare. In quanto questo ne e' lo scopo, ed in quanto essi completano sul piano organizzativo il disegno perseguito sul piano delle funzioni, l'illegittimita' della sottrazione delle funzioni colpisce anche il disegno organizzativo che ne e' la conseguenza. Ma gli stessi commi presentano anche autonome illegittimita', per violazione diretta delle norme costituzionali. La prima illegittimita' consiste ad avviso della ricorrente Regione nella recisione da parte del comma 15 del legame tra cittadini e istituzione provinciale, che si realizza attraverso la soppressione della elezione popolare sia del Presidente che dello stesso Consiglio provinciale. Non sembra dubbio, infatti, che nel disegno costituzionale la Provincia debba essere direttamente rappresentativa della propria comunita' popolare di riferimento, e non soltanto delle istituzioni comunali del suo territorio. "Costituire" la Repubblica, ai sensi del primo comma dell'art. 114 Cost., significa che ciascuno di tali enti ne e' una "autonoma" espressione, in base alle regole generali della autonomia. Cio' risulta confermato dal comma secondo, secondo il quale esse sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi costituzionali). Esse sono parte della Repubblica, e godono di autonomia, proprio in quanto condividono la natura di entita' che rappresentano il popolo, per la relativa porzione di territorio. Del resto, gia' la versione originaria del Titolo V della Parte seconda della Costituzione aveva confermato la Provincia nella sua configurazione storica di ente locale rappresentativo del popolo insediato nel suo territorio. Come si vedra', quanto qui considerato e' pienamente confermato, sul piano internazionale, dalla Carta europea delle autonomie locali, che risulta anch'essa violata. Una volta ritenuta l'illegittimita' della derivazione indiretta del Consiglio provinciale, risulta illegittimo, per violazione del principio di ragionevolezza, sia l'individuazione in dieci del numero massimo dei consiglieri - numero che rende impossibile una adeguata rappresentanza del territorio provinciale - sia la mancata individuazione, tra gli organi della Provincia, della Giunta provinciale, dato che la soppressione puo' avere senso solo nel quadro di un ente privo di funzioni. d. Illegittimita' dei commi 14, 16 e 17 per violazione della Carta europea delle autonomie locali. Come e' ben noto, l'art. 117, primo comma, della Costituzione sancisce che "la potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Tra gli atti che determinano obblighi internazionali vi e' la Carta europea delle autonomie locali, resa esecutiva con 1. 439 del 1989. Posto che non puo' essere messo in dubbio che la Provincia, per come e' disegnata dalla Costituzione, costituisca "autonomia locale" ai sensi della Carta europea, occorre qui ricordare che l'art. 3 di essa sancisce, sul piano dell'azione, che "per autonomia locale, s'intende il diritto e le capacita' effettiva, per le collettivita' locali, di regolamentare ed amministrare nell'ambito della legge, sotto la loro responsabilita', e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici". Ne risulta che il comma 14, assegnando alle Provincia solo funzioni di coordinamento dei Comuni, e nessuna funzione autonoma di amministrazione, viola l'art. 3, comma 1, della Carta. Inoltre, il comma 2 dell'art. 3 stabilisce che "tale diritto e' esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti". Ne risulta che il comma 16, che stabilisce che i componenti del Consiglio provinciale sono eletti dai Comuni, anziche' "a suffragio libero, segreto, paritario, diretto e universale", viola l'art. 3, comma 2, della Carta. e. Violazione dell'art. 4, dell'art. 1l, dell'art. 54 e dell'art. 59 dello Statuto regionale; violazione dell'art. 2 d. lgs. 9/1997. Il comma 20-bis dell'art. 23 riguarda - per quanto qui interessa - la posizione delle Regioni a statuto speciale nei confronti delle disposizioni dei commi da 14 a 20, e dispone che esse "adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni di cui ai commi da 14 a 20 entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto". Se, come sopra argomentato, tali disposizioni sono costituzionalmente illegittime, e' ovviamente illegittimo anche il dovere di adeguamento cosi' posto. Ma il comma 20-bis appare illegittimo anche al di la' di questa constatazione. Infatti, avendo la Regione Friuli-Venezia Giulia (come del resto le altre Regioni speciali) potesta' legislativa primaria, la sua legislazione e' soggetta soltanto ai limiti fissati dall'art. 4 dello Statuto, escluso ogni dovere di generico "adeguamento" a specifiche disposizioni di legge ordinaria. Risulta poi specificamente violato l'art. 11 dello stesso Statuto, secondo il quale "la Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province ed ai Comuni, ai loro consorzi ed agli altri enti locali, o avvalendosi dei loro uffici". E'evidente, infatti, che tale disposizione implica la facolta' (e il dovere) della Regione di delegare "normalmente" alle Province parte delle proprie funzioni amministrative, e che tale facolta' di delega non puo' in alcun modo essere riferita alla sola funzione di indirizzo e coordinamento dei comuni. Ugualmente risulta violato l'art. 59 dello Statuto, secondo il quale le Province (al pari dei Comuni) della Regione "sono Enti autonomi ed hanno ordinamenti e funzioni stabilite dalle leggi dello Stato e della Regione". Esso e' stato attuato con l'art. 2 d. lgs. 9/1997, in base al quale "la regione, nel rispetto degli articoli 5 e 128 della Costituzione, nonche' dell'articolo 4 dello statuto di autonomia, fissa i principi dell'ordinamento locale e ne determina le funzioni, per favorire la piena realizzazione dell'autonomia degli enti locali". Tali disposizioni, che riprendono in parte le definizioni costituzionali (con le loro implicazioni, che si sono sopra esposte), comportano il potere della Regione di definire le funzioni delle Province, al di fuori di ogni possibile limitazione al solo ruolo di indirizzo e coordinamento dei Comuni. E'violato poi anche l'art. 54 St. ("Allo scopo di adeguare le finanze delle Province e dei Comuni al raggiungimento delle finalita' ed all'esercizio delle funzioni stabilite dalle leggi, il Consiglio regionale puo' assegnare ad essi annualmente una quota delle entrate della Regione"), dal quale risulta che alle Province devono spettare anche funzioni gestionali e non solo di coordinamento. f. Violazione dell'art. 54 St. e dell'art. 9 d. lgs. 9/1997 Le norme in questione (in particolare, i commi 14, 15 e 16) sono, infine, illegittime per ragioni analoghe a quelle esposte alla fine del punto precedente, cioe' per violazione delle norme statutarie e di attuazione che attribuiscono alla Regione il compito di finanziare gli enti locali, cosi' come integrate dall'art. 1, co. 154 e 155, 1. 220/2010. In sintesi (e rinviando al punto 5, ultima parte), e' illegittimo che lo Stato vada direttamente a limitare la spesa degli enti locali, laddove il finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale. 7) Illegittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 22 L'art. 23, co. 22, dispone che "la titolarita' di qualsiasi carica, ufficio o organo di natura elettiva di un ente territoriale non previsto dalla Costituzione e' a titolo esclusivamente onorifico e non puo' essere fonte di alcuna forma di remunerazione, indennita' o gettone di presenza, con esclusione dei comuni di cui all'articolo 2, comma 186, lettera b), della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni". In sede di conversione, dunque, l'applicazione della norma e' stata esclusa per i "comuni di cui all'articolo 2, comma 186, lettera b) della legge 23 dicembre 2009, n. 191, e successive modificazioni". Si tratta delle circoscrizioni nei Comuni di dimensione superiore ai 250.000 abitanti. Per l'assenza di una clausola di salvaguardia, il comma 22 potrebbe essere inteso nel senso di volersi applicare anche nelle regioni speciali. In tal caso, esso sarebbe lesivo delle competenze costituzionali della Regione in materia di ordinamento degli enti locali e di finanza locale, per ragioni analoghe a quelle gia' esposte con riferimento all'art. 23, co. 4. La norma, infatti, rientra prevalentemente nella materia "ordinamento degli enti locali" e, poi, incide anche sulla materia "finanza locale", avendo come scopo la razionalizzazione della spesa degli enti locali. Nella prima materia la Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata di potesta' legislativa primaria ai sensi dell'art. 4, n. 1-bis, dello Statuto. Le norme di attuazione adottate nella stessa materia hanno poi precisato che "spetta alla regione disciplinare lo status degli amministratori locali" (art. 14 d. lgs. 9/1997). Con l'art. 3, co. 13, 1.r. 13/2002 la Regione ha disposto che "la misura delle indennita' e dei gettoni di presenza degli amministratori degli Enti locali e' determinata con deliberazione della Giunta regionale, su proposta dell'Assessore per le autonomie locali, d'intesa con il Consiglio delle autonomie locali". L'art. 12, co. 2,1.r. 22/2010 ha poi stabilito (a fini di chiarezza, dopo l'emanazione del d.l. 78/2010) che "la misura delle indennita' e dei gettoni di presenza previsti a favore degli amministratori degli enti locali continua ad essere disciplinata secondo quanto previsto dal comma 13 dell'articolo 3 della legge regionale 15 maggio 2002, n. 13". Tale disposizione non e' stata impugnata dal Governo. Anche nella materia della finanza locale la Regione e' titolare di ampia competenza statutaria in base agli artt. 51 e 54 dello Statuto e all'art. 9 d. lgs. 9/1997. In particolare, il comma 1 di questa disposizione statuisce che "spetta alla regione disciplinare la finanza locale, l'ordinamento finanziario e contabile, l'amministrazione del patrimonio e i contratti degli enti locali". La norma censurata, per il suo carattere dettagliato, non puo' rappresentare un limite alle competenze regionali appena illustrate e, percio', essa sarebbe illegittima qualora pretendesse di applicarsi nella regione Friuli-Venezia Giulia. Essa, infatti, non solo non e' idonea a concretare uno dei limiti alla potesta' legislativa primaria ma pone un limite puntuale, autoapplicativo e stabile ad una voce minuta di spesa e, percio', non possiede nessuno dei caratteri che, in base alla giurisprudenza costituzionale, sono requisiti necessari dei "principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica". L'art. 23, co. 22, dunque, non pone un vincolo legittimo neppure in relazione alle Regioni ordinarie (con conseguente violazione dell'art. 117, co. 3, Cost.) e tanto meno puo' condizionare la potesta' primaria della Regione in materia di ordinamento degli enti locali e l'ampia potesta' in materia di finanza locale. Inoltre, e' da osservare che, in base all'art. 9, co. 2, d. lgs. 9/1997 (attuativo dell'art. 54 St), "la regione finanzia gli enti locali con oneri a carico del proprio bilancio". L'art. 1, co. 154, 1. 220/2010 ha statuito quanto segue: "la regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, gli enti locali del territorio, i suoi enti e organismi strumentali, le aziende sanitarie e gli altri enti e organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla regione medesima in via ordinaria e prevalente costituiscono nel loro complesso il «sistema regionale integrato». Gli obiettivi sui saldi di finanza pubblica complessivamente concordati tra lo Stato e la regione sono realizzati attraverso il sistema regionale integrato. La regione risponde nei confronti dello Stato del mancato rispetto degli obiettivi di' cui al periodo precedente". Il comma 155 ha poi aggiunto che "spetta alla regione individuare, con riferimento agli enti locali costituenti il sistema regionale integrato, gli obiettivi per ciascun ente e le modalita' necessarie al raggiungimento degli obiettivi complessivi di volta in volta concordati con lo Stato per il periodo di riferimento, compreso il sistema sanzionatorio", e che "le disposizioni statali relative al patto di stabilita' interno non trovano applicazione con riferimento agli enti locali costituenti il sistema regionale integrato". Da tali norme risulta che lo Stato deve limitarsi a concordare con la Regione i vincoli finanziari, lasciando alla Regione il compito di regolare i rispettivi obblighi finanziari propri e degli enti locali del proprio territorio. E' illegittimo, in altre parole, che lo Stato vada direttamente a limitare una voce di spesa degli enti locali, laddove il finanziamento di questi e' a carico del bilancio regionale (v. sent. 341/2009, punto 6). 8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 28, comma 3 L'art. 28 ha ad oggetto il Concorso alla manovra degli Enti territoriali e ulteriori riduzioni di spese. Il comma 3 stabilisce quanto segue: "Con le procedure previste dall'articolo 27, della legge 5 maggio 2009, n. 42, le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano assicurano, a decorrere dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di curo 860 milioni annui. Con le medesime procedure le Regioni Valle d'Aosta e Friuli-Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e Bolzano assicurano, a decorrere dall'anno 2012, un concorso alla finanza pubblica di 60 milioni di euro annui, da parte dei Comuni ricadenti nel proprio territorio. Fino all'emanazione delle norme di attuazione di cui al predetto articolo 27, l'importo complessivo di 920 milioni e' accantonato, proporzionalmente alla media degli impegni finali registrata per ciascuna autonomia nel triennio 2007-2009, a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali". Siamo, dunque, di fronte ad una ulteriore rilevante sottrazione di risorse alle Regioni speciali, che si aggiunge a quelle previsti dall'art. 14 d.l. 78/2010, dall'art. 20, co. 5, di. 98/2011, dall'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 e, per questa Regione, dalla 1. 220/2010. In piu', viene disposto un concorso anche "da parte dei comuni" situati nei territori delle autonomie speciali dotate di competenza in materia di finanza locale. Quest'ultimo concorso, in realta', incide in sostanza sempre sulla Regione, e comunque anche il concorso dei comuni inciderebbe pur sempre sulla Regione, in forza dell'art. 54 dello Statuto e dell'art. 9 del d. lgs. n. 9 del 1997. Comunque, in base alla giurisprudenza costituzionale le Regioni sono legittimate a difendere davanti alla Corte anche l'autonomia finanziaria dei comuni (v. sentt. 298/2009, 278/10, punto 14.1, 169/2007, punto 3, 95/2007, 417/2005, 196/2004, 533/2002). La sottrazione di' risorse qui contestata non ha in effetti alcuna base statutaria. Al contrario, le disposizioni dello Statuto, a partire dal fondamentale art. 49, sono rivolte ad assicurare alla Regione le finanze necessarie all'esercizio delle funzioni: ed e' chiaro che la devoluzione statutaria di importanti percentuali dei tributi riscossi nella regione non avrebbe alcun senso, se poi fosse consentito alla legge ordinaria dello Stato di riportare all'erario tali risorse, per di piu' con determinazione unilaterale e meramente potestativa. Per di piu', come gia' ricordato, lo Stato ha gia' definito (con l'art. 1, commi 152 ss. 1. 220/2010) i modi in cui la Regione Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della finanza pubblica, con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma del 29 ottobre 2010. I commi 154 e 155 dell'art. 1 l. 220/2010 attribuiscono alla Regione poteri di coordinamento finanziario con riferimento agli enti locali, nel quadro della generale competenza legislativa regionale in materia di finanza locale prevista dagli artt. 51 e 54 St. e dall'art. 9 d. lgs. 9/1997. Con le disposizioni statutarie sopra ricordate l'impugnato art. 28, comma 3, si pone in insanabile conflitto. Le risorse spettanti alla Regione non possono essere semplicemente "acquisite" dallo Stato. Del resto, tutto il regime dei rapporti finanziari fra Stato e Regioni speciali e' dominato dal principio dell'accordo, pienamente riconosciuto nella giurisprudenza costituzionale: v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010. L'illegittimita' della disposizione impugnata non puo' essere nascosta dal rinvio alle norme di attuazione dello Statuto. In primo luogo, l'accantonamento previsto in attesa delle norme di attuazione e' gia' autonomamente lesivo, traducendosi in una sottrazione delle risorse disponibili per la Regione (v. anche argomenti esposti sopra). In secondo luogo, quanto alle stesse norme di attuazione, l'art. 49 e' modificabile solo con la procedura di cui all'art. 104 St. e non in sede di attuazione. In terzo luogo, l'art. 28, co. 3, determina (illegittimamente) un vincolo di contenuto per le norme di attuazione, per cui il rinvio alla fonte "concertata" appare fittizio. Inoltre, "fino all'emanazione delle norme di attuazione. l'importo complessivo di 920 milioni e' accantonato. a valere sulle quote di compartecipazione ai tributi erariali". Dunque, la riduzione delle risorse e' operata direttamente e unilateralmente dal legislatore statale, in contrasto con lo Statuto e con il principio consensuale che domina i rapporti tra Stato e Regioni speciali in materia finanziaria (v. le sentt. sopra citate). In definitiva, come detto, l'art. 28, co. 3, viola l'art. 49 St., perche' diminuisce l'importo spettante alla Regione a titolo di compartecipazioni, in base alla suddetta norma statutaria. Corrispondentemente, e' violato l'art. 63, quinto comma, St., che richiede il consenso della Regione per la modifica delle norme del Titolo VI dello Statuto. Infine, e' violato l'art. 65 St., perche' una fonte primaria pretende di vincolare il contenuto delle norme di attuazione. Si noti che le censure sopra svolte valgono ugualmente alla quota di 60 milioni di euro che lo Stato esige dalla Regione come "da parte dei Comuni ricadenti nel proprio territorio". Se la Regione, come esposto, ha il dovere di contribuire con le proprie risorse alla finanza dei propri comuni, non fa certo invece parte dei suoi compiti di fungere in relazione ad essi da esattore per conto dello Stato. Ne' lo Stato ha alcun titolo per esigere dalla Regione Friuli-Venezia Giulia somme che esso ritenga a qualunque titolo dovute dai comuni. Si tratta di risorse che spettano alla Regione per Statuto, e che non possono essere destinate se non secondo le previsioni statutarie, che non sono suscettibili di essere alterate dalla legge ordinaria dello Stato. E', poi, ulteriormente e specificamente illegittimo e lesivo il terzo periodo dell'art. 28, co. 3, la' dove prevede il criterio del riparto dell'accantonamento ("proporzionalmente alla media degli impegni finali registrata per ciascuna autonomia nel triennio 2007-2009"). Infatti, tale criterio non risulta in alcun modo pariteticamente concordato tra Stato e Regioni speciali, in contrasto con il principio consensuale che - accanto allo Statuto ed in via integrativa - regola le relazioni finanziarie tra lo Stato e la Regione. Infine, risulta illegittimo il quarto periodo dell'art. 28, co. 3, secondo il quale, in relazione al riparto della sottrazione complessiva di risorse tra le diverse autonomie speciali, "per la Regione Siciliana si tiene conto della rideterminazione del fondo sanitario nazionale per effetto del comma 2". Posto che il richiamato comma 2 stabilisce che "l'aliquota di cui al comma 1" (cioe' l'aumento dell'aliquota di base dell'addizionale regionale all'IRPEF, regolata dall'art. 6 d. lgs. 68/2011, da 0,9 % a 1,23 %) "si applica anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano", la disposizione appare particolarmente oscura. Tuttavia, essa sembra interpretabile nel senso che la quota del taglio previsto nell'art. 28, co. 3 (€ 860 milioni), che dovrebbe essere addossata alla Regione Siciliana, deve essere ridotta in corrispondenza alle minori risorse del Fondo sanitario destinate alla Regione stessa. Posto che di cio' si tratti, e' chiaro che, in questo modo, si altererebbe addirittura in peggio per la ricorrente Regione il criterio proporzionale fissato dal terzo periodo del comma 3 e si addosserebbe irragionevolmente alle altre autonomie speciali una quota parte del finanziamento della spesa sanitaria della Regione Siciliana. Ne risulterebbe la violazione dell'art. 3 cost. e la lesione dell'autonomia finanziaria e amministrativa della Regione, perche' essa - oltre a finanziare la propria sanita' con il proprio bilancio - verrebbe chiamata a contribuire al finanziamento parziale di quella siciliana (v., per l'ammissibilita' di una censura ex art. 3 Cost., ad es., la sent. 16/2010, punto 5.1), con inevitabili ripercussioni sulle proprie funzioni amministrative e sulla propria autonomia di spesa. La mancanza di base statutaria del contributo richiesti alla Regione e' base sufficiente per la richiesta di declatatoria di illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata. Per tuziorismo, la ricorrente Regione fa valere in subordine anche le seguenti considerazioni, fondate sul diverso parametro del principio di corrispondenza tra autonomia finanziaria ed esercizio delle funzioni e su altri parametri. In effetti, anche se la autonomia finanziaria intesa come disponibilita' di risorse sufficienti ad esercitare le proprie attribuzioni costituzionali, e come effettiva capacita' di spesa, va valutata nel complesso, e che "contenimenti" transitori delle spese non sono necessariamente incostituzionali (secondo quanto risulta ad esempio, in ordine ai vincoli derivanti dal patto di stabilita', dalla sent. 284/2009), tuttavia, se non si vuole privare l'articolo 119 cost. e, per il Friuli-Venezia Giulia, l'articolo 48 Statuto, della capacita' di fungere da parametri di costituzionalita', occorre riconoscere che singoli provvedimenti normativi (gli unici contro i quali - ex articolo 127 cost. - la Regione puo' reagire, ed entro termini tassativi) possano essere sindacati e, se del caso, censurati, anche alla luce di altri singoli provvedimenti, l'insieme dei quali si dimostra lesivo dell'autonomia finanziaria regionale. Nel caso, la Regione si trova nella condizione di affermare che l'ulteriore "taglio" di risorse, in una con le riduzioni della legge 220/2010, determina la incostituzionalita' dell'articolo 28, comma 3, anche in quanto impone riduzioni consistenti alla spesa, tali da pregiudicare l'assolvimento delle funzioni pubbliche ad essa attribuite, in violazione dell'articolo 119 cost. (v. soprattutto il principio di corrispondenza tra risorse e funzioni di cui al comma 4: "Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Citta' metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite") e dell'articolo 48 Statuto, la cui portata si precisa anche attraverso la considerazione sistematica di tutte le norme costituzionali e statutarie rilevanti ai fini dell'autonomia finanziaria. In questo senso, la lesione di altri parametri - che subito si illustra - concorre a dimostrare anche la violazione degli articolo 119 cost. e 48 Statuto. Violato e' in primo luogo l'articolo 116, comma 1, Cost., il quale riconosce alle Regioni speciali forme e condizioni particolari di autonomia, che non possono non riguardare - data la formulazione della disposizione - anche la autonomia finanziaria (seni. 82/2007). L'art. 28, co. 3, lede la disposizione in quanto riserva alle Regioni speciali - e, per quanto interessa qui, alla Regione Friuli-Venezia Giulia - un trattamento deteriore rispetto a quanto vale per le Regioni ordinarie. L'irragionevolezza del trattamento deteriore si apprezza considerando che queste differenziazioni operano in un contesto normativo stabile, quanto alle funzioni, per le Regioni ordinarie, mentre e' aumentato il concorso specifico della Regione Friuli-Venezia Giulia al conseguimento degli obiettivi di perequazione e di solidarieta' e all'assolvimento degli obblighi derivanti dall'ordinamento europeo e dal patto di stabilita' interno. Si rammenta qui il comma 152 dell'articolo 1 della legge di stabilita' per il 2011 (1. 220/2010), secondo cui "nel rispetto dei principi indicati nella legge 5 maggio 2009, n. 42, a decorrere dall'anno 2011, la regione autonoma Friuli-Venezia Giulia contribuisce all'attuazione del federalismo fiscale, nella misura di 370 milioni di euro annui, mediante: a) il pagamento di una somma in favore dello Stato; b) ovvero la rinuncia alle assegnazioni statali derivanti dalle leggi di settore, individuate nell'ambito del tavolo di confronto di cui all'articolo 27, comma 7, della citata legge n. 42 del 2009; c) ovvero l'attribuzione di funzioni amministrative attualmente esercitate dallo Stato, individuate mediante accordo tra il Governo e la regione, con oneri a carico della regione. Con le modalita' previste dagli articoli 10 e 65 dello Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, di cui alla legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, lo Stato e la regione definiscono le funzioni da attribuire". Il trattamento gravoso riservato alle autonomie speciali, e tra esse alla ricorrente Regione, non puo' essere giustificato sulla base della considerazione della relativa maggiore ampiezza - rispetto alle Regioni ordinarie - delle risorse ad esse riservate. Tale maggiore ampiezza infatti e' il frutto delle valutazioni dell'ordinamento costituzionale dello Stato, e non puo' essere alterata se non seguendo le vie costituzionalmente prescritte: le quali, del resto, esistono, come tra breve verra' illustrato. L'articolo 49 Statuto garantisce alla Regione certezza di entrate, finalizzate ad assicurarle la possibilita' di esercizio delle proprie funzioni. Ad avviso della ricorrente Regione le disposizioni censurate ledono - in via indiretta ma sicura - anche tale parametro: non ha senso logico che vi sia per la Regione garanzia costituzionale di determinate entrate (una garanzia che la ricorrente Regione ha potuto far valere con successo, ad esempio, nella controversia definita con la sent. 74/2009), se poi fosse consentito allo Stato di imporre con legge ordinaria massicce riduzioni della spesa, alla quale le entrate garantite sono finalizzate! Di fronte a tali sostanziali violazioni dei parametri costituzionali, non varrebbe certo obiettare che tutte le autonomie territoriali - Regioni speciali comprese - sono soggette ai principi di coordinamento della finanza pubblica, inevitabilmente fissati a livello nazionale, anche in adempimento di obblighi europei (sent. 82/2007); che la attribuzione di quote fisse di tributi erariali puo' condurre ad un incremento delle risorse regionali, in funzione di manovre tributarie statali, senza che vi sia necessita' - da parte della Regione - di nuove risorse per nuove funzioni, o per un migliore assolvimento di compiti precedenti (ma le entrate potrebbero anche diminuire, per l'andamento negativo del ciclo economico.); che lo stesso articolo 49 Statuto, nel momento in cui riconosce alla Regione autonomia finanziaria, aggiunge subito che essa si svolge (si deve svolgere) "in armonia con i principi della solidarieta' nazionale". Infatti, la considerazione di tali valori deve essa stessa manifestarsi mediante strumenti costituzionalmente ammissibili nell'ordinamento. Cosi, anzitutto, le stesse norme di attuazione statutaria - radicate direttamente nel principio di solidarieta' nazionale (sent. 75/1967) - consentono di eccettuare dalla attribuzione alla Regione le nuove entrate tributarie statali il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalita' contingenti o continuative dello Stato, specificate nelle leggi medesime, a termini dell'articolo 4 d.P.R. 23 gennaio 1965, n. 114. Ma la legittimita' costituzionale della riserva e' subordinata alla corretta destinazione di tali risorse in base alla citata disposizione: il che nel caso presente non avviene, come si illustrera' oltre, in sede di contestazione dell'art. 48. Inoltre, le stesse disposizioni statutarie sulla autonomia finanziaria (articolo 49 compreso) possono sempre essere modificate (come varie volte e' gia' accaduto) senza ricorrere alla revisione con legge costituzionale, purche' vi sia il coinvolgimento della Regione (articolo 63, comma 5, Statuto). In termini generali, poi, i rapporti finanziari Stato-Regione sono ispirati al principio della determinazione consensuale. L'"obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, all'azione di risanamento della finanza pubblica" - puntualizza la Corte con la sent. 82/2007 - "deve essere contemperato e coordinato con la speciale autonomia in materia finanziaria di cui godono le predette Regioni, in forza dei loro statuti. In tale prospettiva, come questa Corte ha avuto occasione di affermare, la previsione normativa del metodo dell'accordo tra le Regioni a statuto speciale e il Ministero dell'economia e delle finanze, per la determinazione delle spese correnti e in conto capitale, nonche' dei relativi pagamenti, deve considerarsi un'espressione della descritta autonomia finanziaria e del contemperamento di tale principio con quello del rispetto dei limiti alla spesa imposti dal cosiddetto "patto di stabilita'" (sentenza n. 353 del 2004)". Questo principio, sul piano della legislazione ordinaria, ha trovato fino ad ora varie concretizzazioni. E'sufficiente richiamare qui, per la sua portata sistematica, l'articolo 27, 1.42/2009, che rimette alle norme di attuazione statutaria la attuazione dei principi del c.d. federalismo fiscale (tra i quali vi e' il rispetto del patto di stabilita' e dei vincoli finanziari europei), tenendo "conto della dimensione della finanza delle [...] regioni e province autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva, delle funzioni da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri...". Le stesse misure particolari dei ricordati commi 152 e 156 dell'articolo 1 1. 220/2010, specificamente concernenti l'apporto della Regione Friuli-Venezia Giulia al risanamento delle finanze pubbliche, sono state oggetto di confronto e discussione tra Governo e Regione. Con il principio costituzionale di collaborazione si pongono in contrasto le disposizioni impugnate. L'art. 28, co. 3, deroga unilateralmente all'Accordo di Roma del 2010, fra l'altro penalizzando irragionevolmente quelle Regioni speciali che nel 2009 e nel 2010 avevano gia' concordato il loro contributo al risanamento finanziario, privandosi di notevoli risorse, rispetto a quelle che non hanno mai assunto simili impegni. Ne risulta anche sotto questo ulteriore profilo l'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata. 9) Illegittimita' costituzionale dell'art. 31, comma 1. Violazione degli artcoli 3 (Principio di ragionevolezza), 117, secondo, terzo e quarto comma, nonche' 118, primo comma, Cost. L'art. 31, comma 1, dispone quanto segue: "In materia di esercizi commerciali, all'articolo 3, comma 1, lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sono soppresse le parole: "in via sperimentale" e dopo le parole "dell'esercizio" sono soppresse le seguenti "ubicato nei comuni inclusi negli elenchi regionali delle localita' turistiche o citta' d'arte". Cosi' facendo, esso da un lato rende permanente (e non piu' "sperimentale") la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, dall'altro - sopprimendo la limitazione ai comuni a vocazione turistica - estende la liberalizzazione agli esercizi commerciali di tutti i Comuni, e dunque di tutto il territorio nazionale. A seguito della modifica introdotta, il testo dell'articolo 3, comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006 e' quindi ora - per quanto qui interessa - il seguente: "Ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione, le attivita' commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni: d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonche' quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio". L'art. 1, co. 1-bis, d.l. 223/2006 dispone che "le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformita' agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione", ma dalla prima parte del comma l si puo' ricavare la pretesa della norma di vincolare anche le Regioni speciali. Si noti che ne' il d.l. n. 223 del 2006 ne' il d.l. n. 201 del 2011 - pur prevalendo sulle precedenti disposizioni incompatibili - abrogano specificamente le disposizioni precedentemente dettate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, recante Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59. Le regole generali, valide per tutti gli esercizi commerciali, erano dettate all'articolo 11, orari di vendita: "1. Gli orari di apertura e di chiusura al pubblico degli esercizi di vendita al dettaglio sono rimessi alla libera determinazione degli esercenti nel rispetto delle disposizioni del presente articolo e dei criteri emanati dai comuni, sentite le organizzazioni locali dei consumatori, delle imprese del commercio e dei lavoratori dipendenti, in esecuzione di quanto disposto dall'articolo 36. comma 3, della legge 8 giugno 1990, n. 142. 2. Fatto salvo quanto disposto al comma 4, gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio possono restare aperti al pubblico in tutti i giorni della settimana dalle ore sette alle ore ventidue. Nel rispetto di tali limiti l'esercente puo' liberamente determinare l'orario di apertura e di chiusura del proprio esercizio non superando comunque il limite delle tredici ore giornaliere. 3. L'esercente e' tenuto a rendere noto al pubblico l'orario di effettiva apertura e chiusura del proprio esercizio mediante cartelli o altri mezzi idonei di informazione. 4. Gli esercizi di vendita al dettaglio Osservano la chiusura domenicale e festiva dell'esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di chiusura infrasettimanale. 5. Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all'obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonche' ulteriori otto domeniche o festivita' nel corso degli altri mesi dell'anno". Nella regolamentazione degli orari di apertura e chiusura al pubblico erano dunque fortemente coinvolti, da un lato i Comuni e dall'altro le associazioni di categoria: e la libera determinazione da parte dell'esercente - che pure era enunciata come principio - era temperata da limiti direttamente derivanti dalla legge statale, che in parte potevano essere derogati dai Comuni, sentite le associazioni di categoria. Una disciplina specifica era invece dettata per le localita' turistiche e le citta' d'arte dall'articolo 12, comma 1, il quale disponeva (o dispone, non essendo stato espressamente abrogato) che "nei comuni ad economia prevalentemente turistica, nelle citta' d'arte o nelle zone del territorio dei medesimi, gli esercenti determinano liberamente gli orari di apertura e di chiusura e possono derogare dall'obbligo di cui all'articolo 11, comma 4". Dopo la riforma del Titolo V, divenuta la materia del commercio di competenza residuale delle Regioni, la legislazione regionale aveva apportato rilevanti modifiche al sistema del d. lgs. n. 114 del 1998, nel senso di una piu' ampia liberta' degli esercenti nella determinazione degli orari. In particolare, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha dettato una disciplina completa della materia con la 1. r. 5 dicembre 2005, n. 29, recante Normativa organica in materia di attivita' commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2, Disciplina organica del turismo: la quale disciplina gli orari al Capo IV del Titolo II, dedicato al Commercio in sede fissa. Tuttavia, la disciplina regionale ha sempre mantenuto un quadro normativo di favore per la libera determinazione dell'esercente, bilanciato pero' dalla considerazione anche degli altri valori in gioco, che anch'essi godono di tutela costituzionale: tutela dei lavoratori (artt. 4, 35 e 117, comma terzo), tutela della salute (artt. 32 e 117, co. 3), tutela di una ordinata convivenza (art. 2) e, sia consentito, tutela anche della liberta' religiosa (art. 19) e dell'interesse delle popolazioni - e degli stessi lavoratori del settore commerciale - a vivere certe giornate e certi momenti della giornata in quel particolare clima civile e spirituale che deriva dalla sospensione delle attivita' commerciali, e che costituisce esso stesso un valore protetto. Tali valori rientrano nelle competenze regionali, o espressamente (v. la sanita' e la tutela del lavoro: art. 117, co. 3, Cost.) o in via residuale, o come generali valori costituzionali da rispettare in tutte le materie di competenza, a partire ovviamente dalla disciplina del commercio. Sia consentito di ricordare fin d'ora che in altri paesi europei tali valori hanno trovato riconoscimento in esplicite regole, talora addirittura al livello costituzionale: l'art. 140 Grundgesetz - attraverso il richiamo dell'art. 139 della Costituzione dell'11 agosto 1919 (Costituzione di Weimar) - sancisce che "la domenica e i giorni festivi riconosciuti dallo Stato rimangono protetti come giorni di riposo lavorativo e di elevazione spirituale" (Der Sonntag und die staatlich anerkannten Feiertage bleiben als Tage der Arbeitsruhe und der seelischen Erhebung gesetzlich geschutzt), e su tale base la Corte costituzionale tedesca ha fondato la legittimita' e la necessita' di una regolazione restrittiva dell'apertura dei negozi (sentenza del 9 giugno 2004). La Commissione europea poi ha rilevato che «le choix d'un jour de fermeture des commerces fait intervenir des considerations de nature historique, culturelle, touristique, sociale et religieuse relevant de l'appreciation de chaque Etat membre» (citato nel progetto di legge presentato alla Presidenza dell'Assemblee nationale francese con il n. 3262 il 6 luglio 2006, consultabile al sito http://www.assemblee-nationale.fr/12/propositions/pion3262.asp). La Regione Friuli-Venezia Giulia e' dotata di competenza regionale piena in materia di commercio, ai sensi dell'art. 4, n. 6, dello Statuto speciale o, qualora ritenuto piu' favorevole, dell'art. 117, co. 4, cost. (ex art. 10 1. cost. 3/2001): in quest'ultimo senso v., proprio in relazione al Friuli-Venezia Giulia, la sent. 165/2007, punto 4.3. Essa ritiene che la totale liberalizzazione degli orari, senza alcuna considerazione dei valori costituzionali concorrenti, ecceda i limiti della potesta' legislativa statale in materia di tutela della concorrenza, violi i principi di proporzionalita' e i valori costituzionali cosi' trascurati ed invada invece l'ambito in cui spetta alla Regione di' dettare una disciplina degli orari commerciali che tenga conto anche dei predetti valori concorrenti. L'illustrazione di questo assunto richiede una ordinata esposizione dei diversi punti. Che la materia degli orari dei negozi rientri nella potesta' legislativa delle Regioni non richiede particolari dimostrazioni, avendolo piu' volte espressamente confermato codesta ecc.ma Corte costituzionale. Con la sentenza n. 150 del 2011, ad esempio, e' stato ricordato che "di recente, in piu' occasioni, questa Corte ha affermato che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia «commercio» (sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost., e che «il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), [.], si applica, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia» (sentenze n. 288 e n. 247 del 2010, ordinanza n. 199 del 2006)" (punto 5 in diritto). La ricorrente Regione e' tuttavia consapevole che questa sola constatazione non basta a fondare l'illegittimita' costituzionale della normativa impugnata, in quanto occorre ancora dimostrare che lo Stato non possiede, in relazione ad essa, un legittimo titolo costituzionale di intervento. Ed i titoli che vengono in considerazione sono espressamente enunciati dal testo in cui l'impugnata disposizione e' inserita, cioe' nell'art. 3, comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006, secondo il quale gli oggetti ai quali tale comma si riferisce sono disciplinati "ai sensi delle disposizioni dell'ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la liberta' di concorrenza secondo condizioni di pari opportunita' ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonche' di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilita' all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell'articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m)". Si noti che l'inserimento degli orari in questo contesto normativo e' frutto di un ripensamento: tanto e' vero che proprio dalla assenza di esso aveva tratto argomento la Corte nella sentenza n. 150 per confermare a contrario l'appartenenza della materia alla disciplina del commercio. In ogni modo, come la constatazione che la disciplina degli orari appartiene alla materia del commercio non chiudeva il problema del rapporto con la tutela della concorrenza (avendo tale materia, "dato il suo carattere «finalistico», anche una portata piu' generale e trasversale, non preventivamente delimitabile, che deve essere valutata in concreto al momento dell'esercizio della potesta' legislativa sia dello Stato che delle Regioni nelle materie di loro rispettiva competenza": ancora sent. 150/2011, punto 5), cosi' l'attrazione degli orari tra le materie "influenzate" dalla concorrenza non assolve automaticamente ogni intervento statale nella materia del commercio. Intanto, la stessa sentenza n. 150, gia' piu' volte ricordata, nel valutare la legge regionale abruzzese allora sottoposta a scrutinio, ricordava (al punto piu' volte citato) che, "nel caso di specie, la normativa regionale sull'apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali per la vendita al dettaglio non solo persegue il medesimo obiettivo di apertura al mercato e di eliminazione di barriere e vincoli al libero esplicarsi dell'attivita' economica che ha ispirato il d.lgs. n. 114 del 1998, ma ne amplia la portata liberalizzatrice, aumentando, rispetto a quanto prevede l'art. 11 di tale decreto, il numero di giornate in cui e' consentita l'apertura domenicale e festiva, contribuendo, quindi, ad estendere l'area di libera scelta sia dei consumatori che delle imprese". E concludeva nel senso che la Regione Abruzzo, con le norme impugnate, avesse "esercitato la propria competenza in materia di commercio, dettando una normativa che non solo non si pone in contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza, ma che produce anche effetti pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta". Il punto che si vuole sottolineare, ai fini del giudizio sull'art. 31, comma 1, e' che codesta stessa Corte costituzionale, nel valutare l'effetto della sostituzione di una disciplina che consentiva una piu' ampia apertura domenicale rispetto ad una disciplina piu' restrittiva, ne ha bensi' riconosciuto un effetto proconcorrenziale, ma lo ha al tempo stesso qualificato che marginale e indiretto. In effetti, non si puo' negare che la totale liberalizzazione degli orari dei negozi, e la sostanziale interdizione per le Regioni di dettare in relazione ad essi qualunque regola limitativa, non abbia nulla a che fare con la tutela della concorrenza intesa come parita' di condizione tra imprese nell'accesso al mercato: dato che la disciplina degli orari vale allo stesso modo per tutte le imprese che si trovino nelle situazioni indicate dalle norme. Proprio percio', del resto, e' pacifico che il diritto dell'Unione europea non esclude affatto una ragionevole disciplina degli orari, che viene rimessa alla sensibilita' ed alle esigenze degli Stati membri. Negli stati articolati le relative decisioni sono in genere di competenza locale (in Svizzera, ad esempio, a livello cantonale, in Germania a livello di Lander, ferma restando la limitazione costituzionale sopra ricordata). Semmai, supponendosi che ad un maggiore orario di apertura corrisponda un maggior volume di commercio, l'orario dei negozi puo' avere a che fare con la "concorrenza" in quel senso traslato ed indiretto per il quale - se la concorrenza promuove lo sviluppo - la promozione dello sviluppo diviene anche tutela della concorrenza. E' evidente tuttavia che - come notato da codesta Corte, la connessione con la concorrenza e' comunque scarsa: appunto, marginale ed indiretta. Come si deduce in modo evidente dallo stesso disinteresse dell'Unione europea per la questione, rimandata ai singoli Stati membri, e dalla circostanza stessa che negli Stati Uniti, provvisti di apposita commerce clause nella Costituzione e pionieri nella tutela della concorrenza, sarebbero inimmaginabili sia una regolazione federale dell'orario dei negozi, sia una interdizione federale della possibilita' che gli Stati stabiliscano una propria disciplina. E' dunque accertato che il collegamento tra orari dei negozi e tutela della concorrenza - se pure se ne ritenga l'esistenza - e' debole, e riguarda in realta' non la concorrenza in senso proprio ma l'espansione delle attivita' economiche. E' vero invece che, misurata sul terreno vero della concorrenza, la supposta misura di tutela, per il suo effetto di totale deregolazione, si traduce in un fattore distorsivo della concorrenza, in quanto scorrettamente avvantaggia gli operatori maggiori, che per la ampiezza e complessita' della loro organizzazione sono in grado di mantenere l'apertura per sette giorni su sette e per un orario non limitato se non dalla convenienza, rispetto agli operatori familiari o comunque minori, che per limiti di personale non potrebbero competere neppure sottoponendosi ad un regime di autosfruttamento, che del resto contraddirebbe il diritto costituzionale al riposo. In questa situazione, la forzosa deregolamentazione operata dallo Stato e la connessa interdizione di dettare qualunque disciplina che in termini di ragionevolezza bilanci il valore della promozione delle attivita' commerciali con gli altri valori concorrenti e costituzionalmente tutelati, come sopra enunciati e come riconosciuti anche in sede europea (e rientranti nelle competenze regionali, come sopra visto), viola al tempo stesso i principi e le regole costituzionali che custodiscono tali valori, i principi di autonomia delle Regioni e delle comunita', come espressi dall'art. 117, co. 3 e 4, e dal principio di sussidiarieta' (dato che si impedisce al livello istituzionale piu' adeguato, che e' senz'altro quello locale, di valutare caso per caso e periodo per periodo quale sia la migliore regolazione degli orari), e la competenza legislativa delle Regioni nella disciplina del commercio, che viene espropriata ed annullata in una parte rilevante, senza una ragione di cogente e proporzionata tutela del bene affidato alla competenza statale, ed impedita di svolgere la propria funzione di bilanciamento del valore della massima dilatazione delle contrattazioni commerciali con gli altri valori in gioco. La norma in questione viola persino la competenza finalistica statale in materia di tutela della concorrenza, se e' vero che compito di tale tutela e' di produrre una regolazione che consenta una competizione corretta tra le diverse imprese, e di impedire che la mancanza di qualunque regola produca la sopravvivenza dei soli operatori maggiori, a prescindere dalla qualita' della loro offerta commerciale. Sono dunque violati il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., gli articoli 117, secondo, terzo e quarto comma, nonche' l'art. 118, primo comma, Cost. Illustrata l'illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata sotto il profilo del rapporto tra competenza legislativa regionale nella disciplina del commercio e competenza legislativa statale nella tutela della concorrenza, rimane da osservare che la normativa qui contestata non potrebbe essere giustificata neppure ai sensi dell'art. 117, comma secondo, lett. m), cioe' come presunto "livello essenziale" delle "prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale". Non si tratta infatti di alcuna "prestazione", piu' di quanto non lo sia qualunque altra regolazione; ed e' inoltre evidente che i diritti civili e sociali dei cittadini e degli interessati non subiscono alcuna lesione da una ragionevole disciplina dell'orario dei negozi, mentre al contrario li puo' ledere una situazione di totale deregolamentazione, che semmai preclude una razionale organizzazione dei tempi dei propri acquisti. 10) Illegittimita' costituzionale dell'art. 48 L'art. 48 contiene una generale "clausola di finalizzazione". In base al comma 1, "le maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto sono riservate all'Erario, per un periodo di cinque anni, per essere destinate alle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche alla luce della eccezionalita' della situazione economica internazionale". Si prevede poi che "con apposito decreto del Ministero dell'economia e delle finanze. sono stabilite le modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso separata contabilizzazione". Il comma 1-bis aggiunge che, "ferme restando le disposizioni previste dagli articoli 13, 14 e 28, nonche' quelle recate dal presente articolo, con le norme di attuazione statutaria. sono definiti le modalita' di applicazione e gli effetti finanziari del presente decreto per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e di Bolzano". Tale comma 1-bis, con il suo "rinvio" alle norme di attuazione dello statuto, ha l'apparenza di una clausola di salvaguardia delle autonomie speciali e delle loro regole statutarie: ma al tempo stesso la disposizione ribadisce la diretta applicazione non solo degli articoli 13, 14 e 28, ma anche delle disposizioni "recate dal presente articolo": dunque, il regime di cui all'art. 48, co. 1, si riferisce anche alle entrate percepite nella regione Friuli-Venezia Giulia. Maggiori entrate erariali deriveranno, ad esempio, dall'art. 10 (a seguito dell'emersione della base imponibile), dall'art. 15 (che aumenta le aliquote di accisa sui carburanti), dall'art. 16 (che aumenta la tassa automobilistica per le auto di lusso e istituisce la tassa annuale di stazionamento sulle imbarcazioni e l'imposta erariale sugli aeromobili privati), dall'art. 18 (che aumenta le aliquote Iva), dall'art. 19 (che aumenta l'imposta di bollo relativa a conti correnti e strumenti finanziari, introduce un'imposta di bollo speciale annuale sulle attivita' finanziarie che hanno beneficiato del c.d. scudo fiscale e un'imposta straordinaria per le stesse attivita' se gia' prelevate dal rapporto di deposito, istituisce un'imposta sul valore degli immobili situati all'estero e istituisce un'imposta sul valore delle attivita' finanziarie detenute all'estero dalle persone fisiche residenti nel territorio dello Stato), dall'art. 20 (in materia di riallineamento delle partecipazioni) e dall'art. 24 (il cui comma 31 regola la tassazione delle indennita' di fine rapporto di importo complessivamente eccedente curo 1.000.000 e dei compensi e indennita' a qualsiasi titolo erogati agli amministratori delle societa' di capitali, ed il cui comma 31-bis aumenta il contributo di solidarieta' sulle c.d. pensioni d'oro). Ad avviso della ricorrente Regione la riserva di tali maggiori entrate all'erario e' illegittima per le ragioni di seguito esposte. L'art. 49 dello Statuto attribuisce alla Regione "le seguenti quote fisse delle sottoindicate entrate tributarie erariali riscosse nel territorio della Regione stessa: 1) sei decimi del gettito dell'imposta sul reddito delle persone fisiche; 2) quattro decimi e mezzo del gettito dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche; 3) sei decimi del gettito delle ritenute alla fonte di cui agli artt. 23, 24, 25 e 29 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed all'art. 25-bis aggiunto allo stesso decreto del Presidente della Repubblica con l'art. 2, primo comma, del D.L. 30 dicembre 1982, n. 953.; 4) 9,1 decimi del gettito dell'imposta sul valore aggiunto, esclusa quella relativa all'importazione, al netto dei rimborsi effettuati ai sensi dell'articolo 38-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni; 5) nove decimi del gettito dell'imposta erariale sull'energia elettrica, consumata nella regione; 6) nove decimi del gettito dei canoni per le concessioni idroelettriche; 7) nove decimi del gettito della quota fiscale dell'imposta erariale di consumo relativa ai prodotti dei monopoli dei tabacchi consumati nella regione; 7-bis) il 29,75 per cento del gettito dell'accisa sulle benzine ed il 30,34 per cento del gettito dell'accisa sul gasolio consumati nella regione per uso autotrazione". L'art. 48, co. 1, dunque, riservando all'Erario le "maggiori entrate erariali derivanti dal presente decreto", risulta contrastante con l'art. 49 dello Statuto, che garantisce alla Regione ben precise compartecipazioni a diversi tributi erariali (ad es., Irpef, Iva, accisa sulla benzina). Ne' varrebbe replicare che, in base all'art. 4, co. 1, d.P.R. 114/1965, a certe condizioni e' ammessa la riserva all'erario del "gettito derivante da maggiorazioni di aliquote o da altre modificazioni in ordine ai tributi devoluti alla regione". Tali condizioni, infatti, non ricorrono nella clausola di finalizzazione prevista dall'art. 48. Infatti, i requisiti sono: a) la destinazione per legge "alla copertura di nuove specifiche spese di carattere non continuativo, che non rientrano nelle materie di competenza della regione, ivi comprese quelle relative a calamita' naturali"»; b) la delimitazione temporale del gettito; c) la contabilizzazione distinta nel bilancio statale e la quantificabilita'. Ora, ad avviso della Regione ricorrente risulta evidente che e' assente il primo requisito sopra indicato, in quanto l'art. 48 non destina le maggiori entrate a "nuove specifiche spese": nel caso in questione, infatti, ne' si tratta di "spese", ne' le situazioni alle quali si vuole far fronte sono "nuove" ne' "specifiche". E' da ricordare che la sent. 182/2010 fece salva la norma impugnata in quell'occasione (l'art. 13-bis, comma 8, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78) proprio in quanto essa destinava il gettito dell'imposta "al finanziamento della ripresa economica, quali: il sostegno alle imprese, anche attraverso il finanziamento del fondo di garanzia e l'alleggerimento del carico fiscale...; gli interventi sul mercato del lavoro, anche attraverso il finanziamento del fondo per l'occupazione...; il finanziamento degli investimenti pubblici, con particolare riguardo alle infrastrutture e alle attivita' di ricerca e sviluppo...; il supporto alle famiglie, con misure di salvaguardia del potere d'acquisto, di tutela dei piccoli risparmiatori, di risposta all'emergenza abitativa...; il finanziamento della cooperazione internazionale allo sviluppo.; il finanziamento delle opere di ricostruzione dell'Abruzzo". Si tratta, come si puo' vedere, di spese e finalita' ben diverse dal mero e generale "raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea": e non puo' essere dubbio che i requisiti posti dall'art. 4, co. 1, d.P.R. 114/1965, sono requisiti essenziali, il cui rispetto non puo' essere legittimamente pretermesso. Escluso che l'art. 48 possa trovare fondamento nell'art. 4 dPR 114/1965, e' anche da escludere che esso possa ricondursi all'art. 6, co. 2, d. lgs. 8/1997, in base al quale, "nelle more del completamento del processo di trasferimento e di delega di funzioni dallo Stato alla regione, qualora la quota delle spese relative all'esercizio delle funzioni delegate eventualmente a carico della regione ai sensi dell'articolo 4, comma 2, lettera b)[dPR 114/1965], fosse insufficiente al raggiungimento degli obiettivi di risanamento della finanza pubblica, una quota del previsto incremento del gettito tributario spettante alla regione - ad esclusione in ogni caso degli incrementi derivanti dall'evoluzione tendenziale ed al netto delle eventuali previsioni di riduzioni di gettito - derivante dalle manovre correttive di finanza pubblica previste dalla legge finanziaria e dai relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli altri provvedimenti legislativi aventi le medesime finalita', non considerati ai fini della determinazione dell'accordo relativo all'esercizio finanziario precedente, puo' essere destinata al raggiungimento degli obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica previsti dai predetti provvedimenti, tenuto conto altresi' delle spese a carico della regione per funzioni trasferite in data successiva al 1° gennaio 1997". Ad avviso della ricorrente Regione questa norma non e' applicabile alla disciplina qui contestata, in quanto essa non ha portata generale ma opera in relazione allo specifico accordo annuale, tra Governo e Regione, che determinava "l'eventuale quota che rimane a carico del bilancio della regione - per l'esercizio oggetto dell'accordo - delle spese derivanti dall'esercizio delle funzioni statali delegate alla medesima, in relazione alle manovre correttive di finanza pubblica previste dalla legge finanziaria e dai relativi provvedimenti collegati, nonche' dagli altri provvedimenti legislativi aventi le medesime finalita', da determinarsi nei limiti del previsto incremento del gettito tributario derivante dalle manovre medesime, ad esclusione in ogni caso degli incrementi derivanti dall'evoluzione tendenziale ed al netto delle eventuali previsioni di riduzione del gettito" (art. 4, co. 2, lett. b) dPR 114/1965). In ogni modo, anche qualora la disposizione di cui all'art. 6, co. 2, d. lgs. 8/1997 fosse ritenuta applicabile, l'art. 48 non vi corrisponderebbe sia per l'unilateralita' della riserva (essendo chiaro che l'art. 6, co. 2, presuppone l'accordo: v. anche l'art. 6, co. 3) sia perche' riserva all'Erario tutte le maggiori entrare e non solo "una quota del previsto incremento del gettito tributario spettante alla regione". Dunque, nella denegata ipotesi dell'applicabilita' dell'art. 6, co. 2, d. lgs. 8/1997, lo Stato avrebbe pur sempre dovuto cercare l'accordo con la Regione, non potendo unilateralmente alterare le regole sulle compartecipazioni. L'art. 48, dunque, violerebbe pur sempre il principio di leale collaborazione e, in particolare, il principio consensuale che domina le relazioni finanziarie fra lo Stato e le Regioni speciali (v. le sentt. 82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 74/2009 e 133/2010). In effetti, e' chiaramente illegittimo che lo Stato, con una fonte primaria unilateralmente adottata, alteri in modo cosi' rilevante l'assetto dei rapporti finanziari tra Stato e Regione, laddove il principio consensuale e' da tempo riconosciuto in questa materia. Infine, proprio perche' agli artt. 48 e 49 St. si e' derogato con una fonte primaria "ordinaria" (nella specie, un decreto-legge convertito), l'art. 48 viola anche gli artt. 63, commi 1 e 5 (che prevedono il procedimento di revisione costituzionale per le modifiche dello Statuto e la possibilita' di modificare "le disposizioni contenute nel titolo IV. con leggi ordinarie, su proposta di ciascun membro delle Camere, del Governo e della Regione, e, in ogni caso, sentita la Regione") e l'art. 65 (che disciplina la speciale procedura per l'adozione delle norme di attuazione dello Statuto) dello Statuto speciale. L'art. 48 altera gravemente e unilateralmente la relazione strutturale che intercorre tra il tributo erariale e la compartecipazione statutaria regionale. Il legislatore costituzionale ha posto a presidio dell'autonomia finanziaria della Regione il meccanismo della compartecipazione ai tributi erariali che garantisce l'approvvigionamento finanziario dell'ente in via del tutto automatica. L'attribuzione del gettito e' rimessa, infatti, esclusivamente all'operare della percentuale di spettanza statutariamente prevista, applicata al gettito riscosso nel territorio regionale L'art. 48 viola la struttura automatica della compartecipazione escludendo che talune innovazioni fiscali possano tradursi in beneficio per l'entrata della Regione, con cio' incidendo sull'autonomia che di tale automatismo costituisce il portato. La sent. 155/2006 di codesta Corte ha statuito che la Regione Friuli-Venezia Giulia non puo' contestare nuove norme tributarie statali che, incidendo su tributi erariali ai quali la Regione compartecipa, comportino una riduzione del gettito per la Regione. Proprio l'automatismo insito nella compartecipazione implica che la Regione debba subire gli effetti - entro certi limiti - delle novita' normative statali che hanno riflessi finanziari riduttivi (e infatti anche il d.l. 201/2011 contiene norme che, indirettamente, incidono negativamente sulla finanza regionale, come visto nel punto 1). Se cosi' e', allora e' evidente che anche i vantaggi economici che derivano dalla modifica di aliquote o da altre novita' normative concernenti i tributi erariali devono andare, pro quota, a beneficio della Regione, cosi' come prevede lo Statuto. Il secondo periodo dell'art. 48, co. 1, dispone che "con apposito decreto del Ministero dell'economia e delle finanze, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto..., sono stabilite le modalita' di individuazione del maggior gettito, attraverso separata contabilizzazione". Si tratta dunque di una norma volta a regolare l'attuazione del primo periodo: la quale, pertanto, e' affetta dai medesimi vizi sopra illustrati. In subordine, essa e' poi censurabile specificamente ed autonomamente sotto un ulteriore aspetto, cioe' per la mancata previsione dell'intesa con questa Regione in relazione al decreto che stabilisce le modalita' di individuazione del maggior gettito. infatti, poiche' si tratta di intervenire in relazione a risorse che spetterebbero alla Regione, in una materia dominata dal principio consensuale, risulta specificamente illegittima, per violazione del principio di leale collaborazione, la previsione di un decreto ministeriale, senza intesa con questa Regione.
P.Q.M Voglia codesta ecc.ma Corte costituzionale accogliere il ricorso, dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli articoli 1, commi da 1 a 8; 2, commi 1 e 2; 13, commi 11, 14, lett. a), e 17, terzo, quarto e quinto periodo; 14, comma 13-bis, terzo e quarto periodo; 16, commi da 2 a 10; 23, commi 4, da 14 a 20-bis e 22; 28, comma 3; 31, comma 1; 48 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, Disposizioni urgenti per la crescita, l'equita' e il consolidamento dei conti pubblici, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, nelle parti, nei termini e sotto i profili esposti nel presente ricorso. Padova, 23 febbraio 2012 Prof. Avv. Falcon