N. 83 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 29 maggio 2012
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 29 maggio 2012 (della Regione Veneto). Iniziativa economica privata - Concorrenza - Liberalizzazione delle attivita' economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese - Principi e regole stabiliti a tal fine dall'art. 1, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge n. 1 del 2012 - Obbligo per le Regioni di adeguarsi ad essi entro il 31 dicembre 2012 - Previsione che l'adeguamento costituisce elemento per la valutazione della "virtuosita'" degli stessi enti, ai sensi dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge n. 98 del 2011 - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata esorbitanza dalla normazione di principio in materia di coordinamento della finanza pubblica - Menomazione dell'autonomia legislativa regionale non riconducibile alla liberta' di iniziativa economica e di concorrenza, ne' al principio di concorrenza sancito dal Trattato dell'Unione europea - Compressione del ruolo comunitario delle Regioni - Difetto dei requisiti (di ragionevolezza, proporzionalita' e adeguatezza) per l'esercizio della potesta' esclusiva dello Stato nella materia "tutela della concorrenza" - Inosservanza del riparto di potesta' regolamentare tra Stato e Regioni - Violazione del principio di leale collaborazione - Compressione dell'autonomia regionale nell'esercizio delle funzioni amministrative e violazione del principio di buon andamento - Introduzione di una forma di controllo sull'attivita' regionale, attraverso la c.d. valutazione di virtuosita' - Contrasto con il principio autonomistico, con il principio di equiordinazione degli enti costitutivi della Repubblica, nonche' con l'abolizione dei controlli di legittimita' sugli atti amministrativi di Regioni ed enti locali - Difetto di chiarezza, univocita' e intelligibilita' delle disposizioni statali elevate a parametro di "virtuosita'" degli enti territoriali - Menomazione dell'autonomia finanziaria delle Regioni - Violazione di principi posti dalla legge delega in materia di federalismo fiscale. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 1, comma 4, come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27. - Costituzione, artt. 3, 5, 97, 114, 117, commi primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto, 118 e 119; legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, art. 9, comma 2; legge 5 maggio 2009, n. 42, artt. 1, comma 1, e 2, comma 2, lett. ll) e lett. z). Enti locali - Servizi pubblici locali - Procedure di affidamento ad evidenza pubblica - Previsione secondo cui l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione dell'offerta - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata indicazione dettagliata di uno dei criteri in base ai quali la gara viene aggiudicata - Intervento ingiustificato e non proporzionato rispetto alla tutela della concorrenza - Violazione del principio di ragionevolezza - Compressione dell'autonomia regionale nell'esercizio delle funzioni amministrative. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 25, comma 1, lett. a), come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui introduce l'art. 3-bis, comma 2, nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148. - Costituzione, artt. 3, 117 e 118. Enti locali - Servizi pubblici locali - Procedure di affidamento ad evidenza pubblica - Previsione secondo cui, a decorrere dal 2013, l'applicazione di esse da parte di Regioni, Province e Comuni costituisce elemento di valutazione della "virtuosita'" degli stessi enti, ai sensi dell'art. 20, comma 2, del decreto-legge n. 98 del 2011 - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata introduzione di una forma di controllo sull'attivita' regionale, attraverso la c.d. valutazione di virtuosita' - Contrasto con la disciplina comunitaria (la quale non esclude la possibilita' dell'affidamento in house) - Esorbitanza dalla potesta' statale esclusiva in materia di "tutela della concorrenza" (per manifesta sproporzione rispetto al fine) - Irragionevolezza sotto piu' profili - Violazione dell'autonomia regionale nell'esercizio delle funzioni amministrative - Contrasto con i principi di sussidiarieta' e di buon andamento - Contraddittorieta' rispetto ad altre disposizioni della stessa normativa. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 25, comma 1, lett. a), come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui introduce l'art. 3-bis, comma 3, nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148. - Costituzione, artt. 97, 117, commi primo e secondo, lett. e), e 118. Enti locali - Servizi pubblici locali - Finanziamenti concessi a valere su risorse pubbliche statali - Prevista attribuzione prioritariamente agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l'Autorita' di regolazione competente abbia verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall'Autorita' stessa - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata non riconducibilita' dei predetti finanziamenti ai tipi di fondi consentiti dalle previsioni costituzionali - Violazione dell'autonomia finanziaria regionale - Lesione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 25, comma 1, lett. a), come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui introduce l'art. 3-bis, comma 4, nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148. - Costituzione, art. 119 (commi secondo, terzo, quarto e quinto). Enti locali - Servizi pubblici locali - Assoggettamento delle societa' affidatarie in house al patto di stabilita' interno secondo le modalita' definite dal decreto ministeriale previsto dall'articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008 - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata sostanziale riproposizione di disposizione parzialmente caducata dalla sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale e poi interamente abrogata in esito al referendum popolare del 12-13 giugno 2011 - Riconducibilita' dell'intervento alla materia "coordinamento della finanza pubblica" e conseguente violazione della potesta' regolamentare attribuita alle Regioni nelle materie di competenza legislativa concorrente - Richiesta di eventuale estensione dell'oggetto del giudizio, mediante autorimessione delle questioni incidentali di costituzionalita' delle disposizioni (art. 18, comma 2-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008; art. 4, comma 14, del decreto-legge n. 138 del 2011) costituenti gli "antecedenti storici" di quella oggi impugnata. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 25, comma 1, lett. a), come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui introduce l'art. 3-bis, comma 5, nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148. - Costituzione, art. 117, commi terzo (, quarto) e sesto. Bilancio e contabilita' pubblica - Sistema di "tesoreria mista" per le Regioni e gli enti locali (art. 7 del decreto legislativo n. 279 del 1997) - Sospensione dal 24 gennaio 2012 al 31 dicembre 2014 - Reintroduzione, nello stesso periodo, del regime di tesoreria unica di cui all'art. 1 della legge n. 720 del 1984 - Obblighi per i tesorieri o cassieri dei predetti enti di versare sulle contabilita' speciali fruttifere della tesoreria statale le liquidita' depositate presso di essi (per meta' entro il 29 febbraio e per la parte restante entro il 16 aprile 2012); di smobilizzare entro il 30 giugno 2012 gli investimenti finanziari individuati con successivo decreto ministeriale; e di adeguare, dal 17 aprile 2012, la propria operativita' al ripristinato regime di tesoreria unica, continuando ad adottare fino ad allora i criteri gestionali in uso - Possibilita' per le parti del contratto di tesoreria locale di rinegoziarne i termini o di recedere da esso - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata incompatibilita' del ripristinato regime rispetto all'assetto delle competenze dello Stato e delle Regioni voluto dalla riforma del titolo V della Costituzione - Lacunosita', irragionevolezza e inadeguatezza dell'intervento legislativo rispetto agli scopi dichiarati - Mancanza di una seria e completa disciplina transitoria e di attuazione - Violazione del canone di buona amministrazione - Compressione della liberta' economica e della liberta' contrattuale in assenza di ragioni di utilita' "economico-sociale" - Adozione di norme statali di dettaglio nella materia "coordinamento della finanza pubblica", in violazione delle potesta' legislativa e regolamentare spettanti alle Regioni - Lesione dell'autonomia amministrativa regionale e locale, nonche' dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza - Violazione sotto piu' profili dell'autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni - Contrasto con i principi fissati dalla legge delega sul federalismo fiscale - Violazione del principio di leale collaborazione - Difetto dei presupposti e delle garanzie costituzionalmente richiesti per l'esercizio del potere sostitutivo del Governo - Sostanziale "espropriazione" di risorse proprie delle Regioni e degli enti locali - Mancata indicazione dei mezzi di copertura delle nuove o maggiori spese derivanti dal temporaneo ripristino della tesoreria unica - Alterazione permanente dell'equilibrio delle autonomie, mediante il susseguirsi di discipline dichiaratamente straordinarie e derogatorie - Istanza di sospensione dell'esecuzione delle norme impugnate. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 35, commi 8, 9, 10 e 13, come risultanti a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27. - Costituzione, artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 117 [commi terzo e sesto], 118, 119 e 120, comma secondo; legge 5 maggio 2009, n. 42, art. 2, comma 2, lett. b), c), p), dd), ii), ll); legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 35, come sostituito dall'art. 9 della legge 5 giugno 2003, n. 131. Trasporto pubblico - Liberalizzazione del settore dei trasporti - Istituzione dell'Autorita' di regolazione dei trasporti - Natura, composizione e funzioni dell'organo - Attribuzione ad esso del potere di fissare i criteri delle tariffe nonche' di competenze specifiche sugli schemi di bandi di gara e sugli schemi di concessione - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata incidenza sulle competenze regionali in materia di trasporto pubblico locale - Difetto di proporzionalita' e adeguatezza rispetto alle esigenze di tutela della concorrenza - Lesione dei principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza - Violazione del principio di leale collaborazione e dell'autonomia finanziaria regionale. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 36, comma 1, lett. a), come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27 [sostitutivo dei commi 1 e 2 e aggiuntivo dei commi 1-bis e 1-ter nell'art. 37 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214]. - Costituzione, artt. 117, 118 e 119. Demanio e patrimonio dello Stato e delle Regioni - Dismissione di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola - Destinazione delle risorse derivanti dalle operazioni - Obbligo per gli enti territoriali di destinarle alla riduzione del proprio debito pubblico e, in assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente, al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata adozione di disposizioni statali specifiche e autoapplicative in materia di coordinamento della finanza pubblica - Incidenza sull'autonomia di spesa della Regione - Lesione della proprieta' pubblica - Contrasto con i principi relativi al patrimonio degli enti territoriali, stabiliti dalla legge delega sul federalismo fiscale e dal decreto sul c.d. federalismo demaniale - Compromissione della potesta' di esercizio autonomo delle funzioni amministrative - Violazione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, art. 66, comma 9, come risultante a seguito della legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27. - Costituzione, artt. 117, 118 e 119; legge 5 maggio 2009, n. 42, artt. 1, comma 1, 2, comma 2, lett. a), e 19; decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, art. 2, comma 4.(GU n.26 del 27-6-2012 )
Ricorso della Regione Veneto (c.f. 80007580279 e p.i. 02392630279), in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale, autorizzato mediante deliberazione della Giunta stessa del 7 maggio 2012, n. 773, rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del presente atto, dagli avv.ti prof. Mario Bertolissi del Foro di Padova (c.f. BRTMRA48T28L483I, pec: mario.bertolissi@ordineavvocatipadova.it), Ezio Zanon dell'Avvocatura regionale (c.f. ZNNZEI57L07B563K, pec: ezio.zanon@coavenezia.it), Daniela Palumbo della Direzione Affari legislativi (c.f. PLMDNL57D69A266Q) e Luigi Manzi del Foro di Roma (c.f. MNZLGU34E15H501Y), presso quest'ultimo domiciliata in Roma, alla via Federico Confalonieri, n. 5; Contro il Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege, in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, per la declaratoria di illegittimita' costituzionale degli articoli: 1, comma 4; 25, comma 1, lett. a); 35, comma 8, 9, 10, 13; 36, comma 1, lett. a); 66, comma 9, decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivita')», cosi' come risultanti dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27, in Suppl. ordinario n. 53 alla Gazz. Uff., 24 marzo 2012, n. 71; per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 114, 117, 118, 119, 120 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, comma 2, Cost., dell'art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3/2001 e dei parametri interposti di cui alla legge 5 maggio 2009, n. 42 e al d.lgs. n. 85/2010; F a t t o In data 24 gennaio 2012 veniva pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 19, S.O. n. 18, il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, meglio conosciuto come «decreto Monti», relativo alle cosiddette «liberalizzazioni». Nell'ambito del citato provvedimento normativo, la Regione Veneto individuava alcune disposizioni (segnatamente i commi 8, 9 e 10 dell'art. 35) lesive di proprie prerogative costituzionalmente sancite e tutelate, nonche' numerosi profili di contrasto con il dettato costituzionale, che ridondavano in altrettante lesioni dell'autonomia regionale e degli enti locali, Province e Comuni. Per questo, promuoveva avanti codesta Ecc.ma Corte un giudizio di legittimita' costituzionale in via principale, con contestuale istanza di misura cautelare, inserito al ruolo con il n. 60/2012. In pendenza del citato giudizio, il Parlamento nazionale interveniva, convertendo, con modificazioni, il summenzionato decreto-legge, con legge 24 marzo 2012, n. 27. Il complesso delle disposizioni normative risultante dalla conversione in legge non e' immune da censure di legittimita' costituzionale. Tali doglianze la Regione Veneto solleva, mediante l'odierno ricorso, con riferimento ai seguenti profili di D i r i t t o 1. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge n. 27/2012. La Regione lamenta, anzitutto, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27. Questo il testo del disposto impugnato: «I Comuni, le Province, le Citta' metropolitane e le Regioni si adeguano ai principi e alle regole di cui ai commi 1, 2 e 3 entro il 31 dicembre 2012, fermi restando i poteri sostituitivi dello Stato ai sensi dell'articolo 120 della Costituzione. A decorrere dall'anno 2013, il predetto adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosita' degli stessi enti ai sensi dell'articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. A tal fine la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell'ambito dei compiti di cui all'articolo 4, comunica, entro il termine perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, al Ministero dell'economia e delle finanze gli enti che hanno provveduto all'applicazione delle procedure previste dal presente articolo. In caso di mancata comunicazione entro il termine di cui al periodo precedente, si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosita'. Le Regioni a statuto speciale e le Provincie autonome di Trento e Bolzano procedono all'adeguamento secondo le previsioni dei rispettivi statuti». La disposizione di cui all'art. 1, comma 4, impone a Regioni, Province, Comuni, Citta' metropolitane di adeguarsi ai principi di cui ai primi tre commi del medesimo articolo e stabilisce che la conformita' ad essi costituisca «elemento di valutazione della virtuosita' degli enti» stessi. Spettera', poi, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri comunicare al Ministero dell'Economia e delle Finanze l'elenco degli enti che abbiano provveduto all'applicazione delle procedure di legge; in caso di mancato invio della citata lista, si prescindera' dalla valutazione di virtuosita' rispetto al parametro fissato nella norma. 1.1 La previsione impugnata e' illegittima, in primo luogo, in relazione all'obbligo dettato per le Regioni. Anzitutto deve chiarirsi l'ambito di afferenza della disciplina censurata. Quanto, nello specifico, all'impugnato quarto comma, esso sembra riguardare il «coordinamento della finanza pubblica», dal momento che pone per gli enti territoriali un obbligo al cui adempimento si ricollegano importanti conseguenze circa la cogenza degli obiettivi di finanza pubblica e la determinazione della contribuzione degli enti stessi alla manovra annuale. Esso, pero', non puo' dirsi legittimo rispetto a quest'ambito, in quanto contiene previsioni di dettaglio ed auto applicative, che vanno ben oltre la potesta' sull'individuazione dei principi fondamentali della disciplina ai sensi dell'art. 117, comma 3, Cost. Tuttavia, non e' questo l'unico ambito competenziale interessato dalla disciplina e cio' appare immediatamente se solo si mette il comma impugnato in relazione con le disposizioni normative che lo precedono e a cui esso espressamente si ricollega. Il senso della disciplina complessiva, infatti, e' quello di imporre alle Regioni di adottare interventi normativi (abrogazioni) o comportamenti (interpretativi e applicativi) negli ambiti piu' disparati, alcuni di certa competenza legislativa regionale concorrenziale (come il «governo del territorio») altri di potesta' esclusiva (come ad esempio il «commercio»); dunque, negli ambiti materiali di cui all'art. 117, comma 3 e 4, Cost. La disciplina di asserito principio, contenuta nei primi tre commi dell'art. 1, quella che dovrebbe fungere da «faro» illuminante l'operato della Regione, e', poi, posta in presunta «attuazione del principio di liberta' di iniziativa economica sancito dall'articolo 41 della Costituzione e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell'Unione europea». Questi ultimi, dunque, sembrerebbero essere, al fine, secondo il legislatore statale, i titoli legittimanti l'intervento de quo anche eventualmente in spregio dell'autonomia legislativa regionale. Il punto merita qualche considerazioni piu' approfondita, anche e soprattutto in ragione del fatto che molto complesso - come illustrato - e', in realta', il panorama delle competenze legislative regionali incise dalla disposizione impugnata. La Corte costituzionale ha gia' chiarito, fin dalle piu' risalenti pronunce sull'art. 41 Cost., che esso tutela la «liberta' di concorrenza» quale «manifestazione della liberta' d'iniziativa economica privata... (sentenze n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969)». In seguito, e' stata offerta una nozione piu' ampia della garanzia della liberta' di concorrenza ed e' stato osservato, in primo luogo, che essa ha «una duplice finalita': da un lato, integra la liberta' di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall'altro, e' diretta alla protezione della collettivita', in quanto l'esistenza di una pluralita' di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualita' dei prodotti e a contenerne i prezzi (sentenza n. 223 del 1982)»; in secondo luogo, che la concorrenza costituisce un «valore basilare della liberta' di iniziativa economica [...] funzionale alla protezione degli interessi dei consumatori (sentenza n. 241 del 1990)» (cfr. piu' di recente, ex multis, Corte cost. sent. n. 270 del 2010). La previsione legislativa impugnata, tuttavia, nulla ha che a vedere con lo specifico profilo della liberta' concorrenziale in rapporto alla libera iniziativa economica che la Corta ha enucleato dall'art. 41 Cost., dal momento che non attiene in alcun modo alla competizione tra imprenditori e ai relativi vantaggi per il consumatore. La previsione di cui all'art. 41 Cost., di conseguenza, non puo' porsi quale titolo legittimante l'invasione statale delle competenze normative regionali. Quanto al riferimento al principio di concorrenza sancito dal Trattato dell'Unione europea, nelle materie di competenza regionale, spetta alla Regione dare attuazione ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario (art. 117, comma 1 e 5, Cost.), senza che cio' richieda un intervento statale intermedio. Dunque, anche sotto questo profilo, la disciplina impugnata non puo' dirsi legittima. Certo, a legittimazione dell'imposizione di un vincolo alla potesta' legislativa concorrente o esclusiva regionale, potrebbe invocarsi la potesta' legislativa esclusiva statale in punto di «tutela della concorrenza» (art. 117, comma 2, lett e), Cost.). Deve, dunque, ricordarsi quale significato la Corte ha riconosciuto alla locuzione. Essa, in particolare, ha rilevato che la «tutela della concorrenza» «comprende, tra l'altro, interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalita' di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacita' imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalita' di esercizio delle attivita' economiche (sentenze n. 430 e n. 401 del 2007 (...) sentenze n. 80 del 2006, n. 242 del 2005, n. 175 del 2005 e n. 272 del 2004)». La disciplina impugnata - in relazione al fine dichiarato (di promozione della concorrenza) piu' che all'efficacia ad essa connessa, come si vedra' scarsa - potrebbe, dunque, al piu' essere sussunta nell'ambito della «tutela della concorrenza» di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost., che - come noto - ha una capacita' pervasiva trasversale. Cio' non basterebbe, comunque, a far ritenere conforme a Costituzione la previsione di tali precise prescrizioni limitanti l'autonomia normativa, concorrenziale o esclusiva, regionale, codesta Ecc.ma Corte ha, infatti, chiarito che, anche una volta ricondotta una norma nell'ambito della «tutela della concorrenza», «spetta alla Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme statali, volto ad accertare se l'intervento normativo sia coerente con i principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38 del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010). Ora, le novelle imposte ai legislatori regionali non possono certamente essere considerate coerenti e adeguate rispetto al fine perseguito. La disciplina suppostamente di principio alla quale la Regione Veneto dovrebbe conformarsi, infatti, e' talmente generale e generica, indefinita e perplessa, da perdere qualsiasi capacita' di fungere da riferimento e garantire l'obiettivo di tutela che essa si pone. Come tale, e', dunque, inoltre, inficiata da un autonomo vizio di illegittimita' costituzionale per contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Le indicazioni e l'ambito di applicazione delle imposte abrogazioni (comma 1) e del precetto di interpretazione e applicazione in senso tassativo e restrittivo (comma 2), infatti, per una parte, sono o dovrebbero ritenersi del tutto inutili (cosi', ad esempio, per la previsione che vuole prive di cittadinanza nel nostro ordinamento le disposizioni in contrasto con l'ordinamento comunitario o viziate da irragionevolezza) e, per un'altra, sono tanto ampli quanto lo sono le ipotesi di eccezione o contrappeso contenute nei medesimi disposti normativi. E', quest'ultimo, il caso dell'imposta abrogazione di disposizioni normative solo se non giustificate da un non meglio precisato interesse generale o se non ragionevoli, non adeguate, non proporzionate. Ma lo stesso ragionamento puo' essere esteso ai prescritti limiti all'obbligo di interpretazione e applicazione restrittiva e tassativa delle disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso o all'esercizio di attivita' economiche: il riferimento ai «possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana» e ai «possibili contrasti con l'utilita' sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica» (comma 2) e', infatti, talmente vasto da lasciare ben poco margine all'applicazione del principio di cui sopra, prima facie lapidario. Un tanto osservato e considerato, dunque, e' evidente che l'intervento legislativo statale interviene sull'autonomia legislativa regionale, esclusiva o concorrenziale, menomandola, senza esserne legittimato neppure dall'esercizio di una competenza trasversale quale la «tutela della concorrenza» perche' privo dei requisiti di ragionevolezza ed adeguatezza che la stessa Corte costantemente richiede alle previsioni del legislatore centrale che si muova in questo ambito materiale. Se cosi' e', dunque, neppure potra' imporsi alle Regioni di adeguarsi alle indicazioni che, ai sensi dell'art. 1, comma 3, saranno date dal Governo entro la fine del 2012 con atti regolamentari (chiamati ad individuare le attivita' per le quali permane l'atto preventivo di assenso dell'amministrazione e a disciplinare i requisiti per l'esercizio delle attivita' economiche nonche' i termini e le modalita' per l'esercizio dei poteri di controllo dell'amministrazione). Un tanto perche' un obbligo di tal guisa si porrebbe in contrasto con l'art. 117, comma 6, Cost., che attribuisce allo Stato potesta' regolamentare unicamente nell'ambito delle materie di sua competenza legislativa esclusiva. Nella denegata ipotesi, comunque, in cui si riconoscessero alla disciplina impugnata caratteri di ragionevolezza, proporzionalita' ed adeguatezza tali da consentire di ricondurla nell'ambito della «tutela della concorrenza», la competenza statale cosi' esercitata non potrebbe certo dirsi - in ragione delle censure gia' espresse - prevalente e, dunque, in grado di escludere il riferimento alle competenze legislative costituzionalmente garantite alle Regioni, qui incise. Ne discenderebbe che dinnanzi a un concorso di competenze, non potendosi formulare un giudizio di prevalenza dell'una sull'altra, il legislatore nazionale, avrebbe dovuto ricorrere a strumenti di leale collaborazione (cfr. ex multis, Corte cost. 30 dicembre 2009, n. 339). Dal momento che cio' non e' affatto avvenuto, la disciplina impugnata deve essere comunque dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con il principio di leale collaborazione. Quanto all'imposto obbligo di interpretare e, soprattutto, applicare le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso e all'esercizio delle attivita' economiche secondo le indicazioni dell'art. 1, comma 2, la Regione deve rilevare, inoltre, il contrasto dello stesso con l'autonomia nell'esercizio delle funzioni amministrative sancito e tutelato per essa dall'art. 118 Cost. E tale profilo di difformita' rispetto al dettato costituzionale e', ancora una volta, aggravato dal contenuto perplesso ed indefinito della disposizione normativa di riferimento. Il tutto non potra' che ingenerare incertezze e ritardi nell'operato delle amministrazioni, anche regionali, che si rifletteranno in una menomazione del principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. 1.2 La disposizione normativa di cui all'art. 1, comma 4, qui impugnata, poi, presenta un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale. Essa, infatti, oltre ad imporre alle Regioni il rispetto dei primi tre commi del medesimo articolo, introduce una nuova forma di controllo sull'operato - addirittura legislativo - delle Regioni, in palese contrasto con il principio autonomistico di cui all'art. 5 Cost., ma anche con quello di equiordinazione tra enti costituenti la Repubblica (art. 114 Cost.) e con il principio di cui all'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che ha abrogato le forme di controllo di cui agli artt. 125 e 130 Cost. perche' non piu' coerenti con il disegno delle autonomie territoriali successivo alla revisione costituzionale del 2001. Al fine di rendere piu' chiara la censura appena proposta, sembra opportuno analizzare i caratteri della verifica cui il legislatore nazionale assoggetta gli enti territoriali: oggetto, parametro, soggetto deputato alla valutazione, presupposti del controllo, conseguenze della valutazione effettuata. Quanto all'oggetto di controllo, esso e' - come si e' visto - la stessa attivita' legislativa (comma 1 e 3) e amministrativa (comma 2 e 3) della Regione. Il parametro e' costituito dalle disposizioni di preteso principio contenute soprattutto nei commi 1 e 2, disposizioni che, tuttavia, come gia' si e' rilevato, mancano dei requisiti minimi di chiarezza, univocita' ed intelligibilita' che sono necessari allo scopo. Tale carenza, stante il carattere rigido e sanzionatorio del controllo predisposto, finisce, da un lato, con l'ingenerare incertezza nell'ente che dovrebbe adeguarsi ai summenzionati principi (parametri del controllo) e, da un altro lato, con il dilatare la discrezionalita' del controllore, al punto che per essa sembra piu' corretto parlare di arbitrio. Lo svolgersi delle considerazioni induce, dunque, a ragionare circa l'identita' e la natura del soggetto deputato al controllo: si tratta del Ministero dell'Economia e delle Finanze, su sollecitazione-comunicazione del Presidente del Consiglio dei Ministri. E' evidente che non si tratta di un soggetto terzo ed imparziale rispetto ai termini della valutazione che la legge dello Stato gli attribuisce e cio' e' tanto piu' evidente laddove si consideri che la disposizione impugnata rimette al Governo addirittura la decisione sull'an stesso del controllo e, dunque, sui presupposti della verifica. Quanto, infine, alle conseguenze, non si tratta certo di un controllo di natura collaborativa, come i tanti gia' esistenti e «fatti salvi» da codesta Ecc.ma Corte, proprio in considerazione della loro natura (cfr. Corte cost. sent. n. 29 del 1995). Al contrario, alla valutazione svolta dal Ministero competente si ricollegano pesanti conseguenze economico-finanziarie per l'ente. Il mancato inserimento dello stesso nel novero degli enti virtuosi ai sensi dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, importa, infatti, da un lato, un aggravamento della responsabilita' nel concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica e, dall'altro, un innalzamento del contributo dell'ente stesso alla manovra annuale. E' evidente che un controllo siffatto si pone in radicale difformita' rispetto all'assetto autonomistico sancito e tutelato dalla Costituzione per le Regioni e gli enti territoriali e, stante le conseguenze appena ricordate ad esso ricollegate, finisce con l'incidere, menomandola, sull'autonomia finanziaria della ricorrente di cui all'art. 119 cost. e alla legge che di quest'ultima disposizione fa applicazione: legge 5 maggio 2009, n. 42. In particolare, risultano lesi: i principi di autonomia di entrata e di spesa (art. 1, comma 1); il principio di «certezza delle risorse e stabilita' tendenziale del quadro di finanziamento», dal momento che il legislatore statale si riserva di procedere a riduzione dei finanziamenti, (art. 2, comma 2, lett. ll), e, ancor piu' specificamente, il principio di «premialita' dei comportamenti virtuosi ed efficienti nell'esercizio della potesta' tributaria, nella gestione finanziaria ed economica» e la relativa previsione di sanzioni di cui all'art. 2, comma 2, lett. z). Non si puo' ignorare, infatti, che le sanzioni cui si riferisce la disposizione da ultimo citata sono quelle per gli enti che «non rispettano gli equilibri economico-finanziari o non assicurano i livelli essenziali delle prestazioni (...) o l'esercizio delle funzioni fondamentali di cui all'articolo 117, secondo comma, lett. p)». I presupposti di questo sistema sanzionatorio non sono affatto quelli di cui alla verifica prevista all'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 1/2012. Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117 (comma 1, 2, 3, 4, 5, 6), 118, 119 Cost., nonche' all'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, del principio di leale collaborazione e dei principi di cui all'art. 1, comma 1, all'art. 2, comma 2, lett. ll) e all'art. 2, comma 2, lett. z), della legge 5 maggio 2009, n. 42. 2. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 25, comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge n. 27/2012. Del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27, la Regione Veneto, impugna, in parte qua, anche l'art. 25, comma 1, lett. a). Tale disposizione stabilisce di inserire nel corpo del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, un articolo 3-bis recante «Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali». In particolare, della suddetta nuova disposizione, si contesta la legittimita' costituzionale dei commi 2, 3, 4, 5. 2.1 Prima di procedere con la prospettazione delle diverse censure di legittimita' costituzionale della disciplina impugnata, si ritiene opportuno svolgere una breve premessa in relazione al riparto tra competenze legislative che, nell'ambito di cui si discute, vengono in rilievo. Il patrocinio della Regione e' consapevole, in via preliminare, di quale sia, nella disciplina dei servizi pubblici locali, la capacita' di penetrazione trasversale, riconosciuta, per giurisprudenza costante, da codesta Corte (cfr., ovviamente, sent. n. 325 del 2010), della materia «tutela della concorrenza», di competenza statale esclusiva. E tuttavia, nel contempo, non ignora nemmeno che l'assolutizzazione del valore della concorrenza finisce con il «lasciare in ombra il rapporto con gli utenti. ... Non e' senza significato che, trasformando il servizio pubblico in un problema di "competizione" fra gestori, i destinatari si trasformano in clienti, soggetti che non necessariamente coincidono con la collettivita' ... [L'ente territoriale] non si deve ridurre al rango di mero custode dell'interesse della concorrenza, ma deve rivendicare la propria tradizionale fisionomia di amministrazione chiamata a effettuare scelte politiche a favore della collettivita'» (cosi' F. Fracchia, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it., 2011, c. 11-112). Ogni rilievo di legittimita' costituzionale che si svolgera' qui di seguito trae il suo primo fondamento proprio della rilevata necessita' che si torni a dare centralita' ai destinatari del servizio, destinatari di cui e' l'ente ad essere esponenziale e responsabile. 2.2 Il comma 2 del nuovo art. 3-bis, dispone che «In sede di affidamento del servizio mediante procedura ad evidenza pubblica, l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione costituisce elemento di valutazione dell'offerta». Si tratta evidentemente - alla luce della giurisprudenza costituzionale - di una previsione normativa afferente l'ambito materiale di potesta' legislativa esclusiva statale di «tutela della concorrenza». In questi casi, il bilanciamento fra le ragioni della concorrenza e quelle poco sopra richiamate dell'utenza passa attraverso il necessario vaglio di ragionevolezza, proporzionalita' e adeguatezza della disciplina impugnata, bilanciamento che si richiede oggi a codesta Ecc.ma Corte, consapevoli che l'esercizio della potesta' normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza potra' risultare legittimo solo a condizione che tali canoni siano rispettati, specie ove travalichi competenze regionali (cfr. sentt. n. 14 del 2004, n. 407 del 2002, n. 272 del 2004). Proprio alla luce della citata giurisprudenza costituzionale, appare fondata la censura del disposto di cui al comma 2, del medesimo art. 3-bis, «la' dove stabilisce, dettagliatamente e con tecnica auto applicativa» uno dei «criteri in base ai quali la gara viene aggiudicata» (cfr. sent. n. 272 del 2004). L'estremo dettaglio nell'indicazione di questo criterio (l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione), che per altro non prende irragionevolmente in considerazione nessun ulteriore requisito dei candidati aspiranti pur utili alla buona gestione del servizio a livello locale (quod non, ad esempio, il ridotto impatto ambientale, ovvero il risparmio energetico, l'economicita' della gestione, la promozione delle iniziative imprenditoriali e giovanili femminili?), va al di la' della pur doverosa tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara, che peraltro appaiono sufficientemente garantiti dalle normative gia' vigenti (e' una parafrasi della sent. n. 272 del 2004). Se cio' e' vero, l'intervento del legislatore statale «pone in essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche' risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza» (cfr. Corte cost. sent. n. 272 del 2004), con cio' ledendo gli artt. 3, quanto al principio di ragionevolezza, e 117 Cost. Parallelamente essa determina una compressione dell'autonomia regionale nell'esercizio delle funzioni amministrative, tutelata all'art. 118 Cost., sotto il profilo della contrazione della possibilita' di gestire liberamente l'affidamento e il servizio, magari tenendo in conto, alla luce dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza, delle specificita' territoriali proprie. 2.3 Il comma 3 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011, dispone che: «A decorrere dal 2013, l'applicazione di procedure di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli enti di governo locali dell'ambito o del bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosita' degli stessi ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. A tal fine, la Presidenza del Consiglio dei ministri, nell'ambito dei compiti di tutela e promozione della concorrenza nelle regioni e negli enti locali comunica, entro il termine perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, al Ministero dell'economia e delle finanze gli enti che hanno provveduto all'applicazione delle procedure previste dal presente articolo. In caso di mancata comunicazione entro il termine di cui al periodo precedente, si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosita'». La previsione impugnata si appalesa costituzionalmente illegittima sotto due profili. Il primo attiene, nello specifico, la previsione di una nuova forma di controllo sull'attivita' della Regione che passa attraverso la c.d. valutazione di virtuosita'. Con riferimento alla contrarieta' a Costituzione di forme di controllo siffatte si e' gia' argomentato al punto 1.2 della parte di diritto del presente ricorso, alla quale, dunque, si rinvia integralmente. Il secondo aspetto di contrasto con la Costituzione e', invece, del tutto peculiare della fattispecie normativa ora in esame. Gli elementi che compongono il controllo di virtuosita' degli enti, ma, soprattutto, le deteriori conseguenze derivanti dall'eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi sono tali, sotto il profilo economico-finanziario, specie nella situazione in cui versa il Paese, da indurre - rectius obbligare - di fatto la Regione e gli enti territoriali ad utilizzare sempre la procedura ad evidenza pubblica per l'affidamento dei servizi, a discapito delle procedure in house, anche nelle residuali ipotesi in cui le stesse dovessero risultare preferibili in termini di efficienza e/o economicita'. Una disposizione normativa di tal fatta deve, allora, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, anzitutto, per violazione dell'art. 117, comma 1, Cost., per contrasto della stessa con la disciplina comunitaria. Se e' ben vero che, con riferimento ai sistemi di affidamento dei servizi, il legislatore nazionale gode, rispetto al dettato comunitario, di un certo margine di apprezzamento, e' altrettanto vero che dall'ordinamento UE e' possibile trarre il principio per cui l'affidamento ad evidenza pubblica non e' l'unico possibile, potendo ben essere affiancato, seppur in ipotesi marginali, da altre forme di attribuzione della responsabilita' del servizio, quali l'in house, qualora queste si rivelino, di fatto, piu' ragionevoli ed efficienti, non essendo permesso agli Stati membri escludere tout court dette tipologie in modo assoluto. La disposizione impugnata, inoltre, viola l'art. 117 Cost., anche con riferimento al riparto della potesta' normativa tra il legislatore statale e quello regionale. Non puo' dimenticarsi, infatti, che il legislatore statale gode di potesta' legislativa esclusiva nell'ambito della «tutela della concorrenza», di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost., ma che un intervento legislativo statale in questa materia puo' sperare di superare il sindacato di legittimita' costituzionale solo se «coerente con i principi della concorrenza, e se esso sia proporzionato rispetto a questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38 del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010). La previsione normativa de qua, tuttavia, e' manifestamente sproporzionata rispetto al fine dato. Lo dimostra, anzitutto, l'irragionevolezza stessa della disciplina nella parte in cui finisce con l'escludere nei fatti la possibilita' di affidamenti in house, in seguito ad una valutazione negativa operata ex ante, mentre e' ben possibile, in concreto, che questa tipologia di affidamento di servizi si dimostri in concreto piu' efficiente e virtuosa. Nessuna possibilita' di vincere la presunzione di «tossicita'» dell'affidamento e' resa possibile, invece, dal legislatore statale (il controllo operato dal Ministero sulla base della comunicazione della Presidenza del Consiglio, infatti, si svolge addirittura senza alcuna forma di contraddittorio): di qui un ulteriore profilo di irragionevolezza. In pratica agli enti territoriali e' negata la possibilita' di valutare le proprie esigenze e di scegliere la modalita' di gestione dei servizi rispetto a tali esigenze piu' confacente. In cio' sta la denunciata violazione dell'art. 118 Cost., leso anche con specifico riferimento al principio di sussidiarieta' (dal momento che la valutazione sulle modalita' di affidamento avviene, una volte per tutte, ad opera del livello di governo centrale). La logica conseguenza e' il contrasto - del pari meritevole di censura - della disciplina impugnata rispetto al principio di buon andamento dell'amministrazione, anche in relazione ai principi di efficienza, efficacia ed economicita' (art. 97 Cost.). Anche qui puo' giovare il confronto con la diversa sensibilita' per la questione in ambito comunitario: se in Italia «anche a livello normativo, nella scelta dell'organizzazione del servizio pubblico (si pensi all'atteggiamento restrittivo serbato dal nostro ordinamento nei confronti dell'in house), sembra risultino prevalenti le ragioni della concorrenza (...) nel contesto comunitario, la centralita' dei destinatari e' molto evidente. A cio' si aggiunga che, in quel contesto, pure gli affidamenti diretti, se utili per lo svolgimento della "missione", non sono affatto preclusi in assoluto» (cosi' F. Fracchia, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it., 2011, c. 11-112). La prospettiva del legislatore comunitario sul punto e', dunque, ben piu' ragionevole! Non puo' sottacersi, infine, che il marcato disfavore per sistemi di affidamento diversi dall'evidenza pubblica, che deriva dal disposto di cui all'art. 25 qui censurato del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante per opera della conversione in legge, si pone anche in netta contraddizione con la previsione di cui al successivo comma 4. Questo, infatti, al contrario, prevede che i gestori di servizi non selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica possano accedere a finanziamenti speciali, alla sola condizione che l'Autorita' abbia di fatto (dunque, con valutazione in concreto) verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del servizio reso, con ogni conseguenza in termini di mancata coerenza interna del testo normativo de quo. 2.4 Il comma 4 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011, dispone che «Fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell'articolo 119, quinto comma, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l'Autorita' di regolazione competente abbia verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall'Autorita' stessa». Come codesto Ecc.mo Collegio ha chiarito, infatti, in via generale, solamente due tipologie di fondi possono essere considerate rispettose del dettato dell'art. 119 Cost.: i) un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacita' fiscale per abitante (art. 119, comma 3, Cost.), che, insieme ad entrate e tributi propri e compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al proprio territorio (art. 119, comma 2, Cost.), serve a finanziare integralmente le funzioni pubbliche attribuite a Regioni ed Enti locali (art. 119, comma 4, Cost.) e ii) «risorse aggiuntive» ed «interventi speciali» in favore di determinate Regioni, Province, Citta' metropolitane e Comuni, al fine di «promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarieta' sociale, (...) rimuovere gli squilibri economici e sociali, (...) favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, (...) provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (art. 119, comma 5, Cost.). Dal momento che si potrebbe esser tentati di sussumere la fattispecie in esame nella seconda ipotesi di fondo, si ricorda che, proprio in relazione a questi ultimi, codesto Ecc.mo Giudice delle leggi ha precisato che essi «non solo debbono essere aggiuntivi rispetto al finanziamento integrale (...) delle funzioni spettanti ai Comuni o agli altri enti, e riferirsi alle finalita' di perequazione e di garanzia enunciate nella norma costituzionale, o comunque a scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, ma debbono essere indirizzati a determinati Comuni o categorie di Comuni (o Province, Citta' metropolitane, Regioni)» e che «l'esigenza di rispettare il riparto costituzionale delle competenze legislative fra Stato e Regioni comporta altresi' che, quando tali finanziamenti riguardino ambiti di competenza delle Regioni, queste siano chiamate ad esercitare compiti di programmazione e di riparto dei fondi all'interno del proprio territorio» (cosi' Corte cost., sent. n. 16 del 2004; Corte cost., sent. n. 22 del 2005). Ora, i finanziamenti di cui all'impugnato comma 3 dell'art. 3-bis, introdotto dall'art. 25, comma 1, lett. a) del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante dalla conversione in legge: i) non possono dirsi aggiuntivi rispetto all'integrale finanziamento delle funzioni in materia di servizi pubblici, a causa della ben nota cronica sottostima del fabbisogno degli enti sul punto; ii) non sono indirizzati esclusivamente agli enti territoriali e per giunta questi non sono predeterminati con sufficiente precisione; iii) in relazione a detti finanziamenti, che pur si muovono nell'ambito di competenze regionali, nessun coinvolgimento delle Regioni e' previsto, ne' in punto di programmazione, ne' in punto di distribuzione. Pertanto la disciplina normativa citata deve dichiarasi costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 119 Cost. e, quanto al mancato coinvolgimento delle Regioni, per violazione del principio di leale collaborazione. 2.5 Il comma 5 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011, ad opera dell'art. 25 della l. n. 27/2012, dispone che «Le societa' affidatarie in house sono assoggettate al patto di stabilita' interno secondo le modalita' definite dal decreto ministeriale previsto dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni. L'ente locale o l'ente di governo locale dell'ambito o del bacino vigila sull'osservanza da parte delle societa' di cui al periodo precedente dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno». La summenzionata disposizione ripropone sostanzialmente il contenuto della prima parte della lett. a) del comma 10 dell'art. 23 bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitivita', la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione Tributaria»), convertito, con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. L'art. 23-bis cit. e' stato aggiunto all'originario corpo normativo dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 ed e' entrato in vigore, in forza dell'art. 1, comma 4, di detta legge, in data 22 agosto 2008. Esso e' poi stato modificato dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 («Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunita' europee») convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166. La lett. a) del comma 10 dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 (nel testo risultante dalla modifica operata dal citato art. 15, comma 1, decreto-legge n. 135/209, convertito in legge n. 166/2009) disponeva che «Il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, nonche' le competenti Commissioni parlamentari, adotta uno o piu' regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di: a) prevedere l'assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno, tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8, e l'osservanza da parte delle societa' in house e delle societa' a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l'acquisto di beni e servizi e l'assunzione di personale». Come noto, tale disposizione e' stata dapprima colpita da parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale «limitatamente alle parole: l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno e» ad opera della sentenza n. 325/2010 di codesta Corte (pubblicata il 24 novembre 2010); successivamente l'intero art. 23-bis e' stato integralmente abrogato a seguito dell'esito del referendum popolare del 12-13 giugno 2011 (cfr. d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113). E' cosi' rimasto privo di base normativa anche l'intero d.P.R. attuativo (7 settembre 2010, n. 168 recante Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell'articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), ivi incluso, in particolare, l'art. 5, rubricato, per l'appunto, «Patto di stabilita' interno». Diversamente detto, a causa della caducazione imposta dal Giudice delle leggi, era venuto meno il presupposto legislativo per potersi affermare l'assoggettabilita' delle societa' in house al patto di stabilita' interno. Sennonche', prima della predetta legge novembrina n. 166/2009 (di modifica dell'originario art. 23-bis del d.l. n. 112/2008) e, ovviamente, prima della pubblicazione della citata sentenza n. 325/2010, l'art. 19, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102 (recante Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, recante provvedimenti anticrisi, nonche' proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali e pubblicata in G.U. del 4 agosto 2009) aggiungeva all'art. 18 del d.l. n. 112/2008, un comma 2-bis in sostanziale continuita' con l'originale formulazione dell'art. 23-bis dal seguente tenore: «con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con i Ministri dell'interno e per i rapporti con le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite le modalita' e la modulistica per l'assoggettamento al patto di stabilita' interno delle societa' a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale ne' commerciale, ovvero che svolgano attivita' nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica». A conferma dell'assoggettabilita' al patto di stabilita' interna delle societa' in house previa definizione delle relative modalita' per via ministeriale. In definitiva, il nuovo art. 18, comma 2-bis, sebbene fosse ab origine coerente con i contenti dell'art. 23-bis del medesimo decreto-legge n. 112/2008 (e, in fondo, servisse a segnalare che l'ivi previsto regolamento governativo non era ancora stato adottato), fini' inopinatamente con l'operare in aperta contraddizione rispetto ad esso, quando quest'ultimo fu colpito da incostituzionalita' e parzialmente annullato: con il risultato paradossale della sopravvenuta antinomia fra l'una disposizione che assoggettava le societa' in house al patto di stabilita' con rinvio, quanto al quomodo, ad un adottando decreto ministeriale e l'altra disposizione annullata proprio perche' assoggettava le medesime societa' in house al patto di stabilita' con la stessa tecnica del rinvio ad uno o piu' adottandi regolamenti governativi. La situazione, lungi dall'avviarsi al chiarimento, si fece ancor piu' nebulosa. Infatti, in totale spregio tanto dell'esito referendario, quanto dell'acclarata illegittimita' costituzionale dell'art. 23-bis e in asserita reviviscenza dell'art. 18, comma 2-bis, il legislatore statale, peraltro con la dichiarata finalita' di «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione europea», (nuovamente) disponeva, al comma 14 dell'art. 4 del d.l. 13 agosto 2001, n. 138 (recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari», convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), che «Le societa' cosiddette "in house" affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali sono assoggettate al patto di stabilita' interno secondo le modalita' definite, con il concerto del Ministro per le riforme per il federalismo, in sede di attuazione dell'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni. Gli enti locali vigilano sull'osservanza, da parte dei soggetti indicati al periodo precedente al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilita' interno». Un tanto (non in via generale, ma) con le espresse limitazioni di cui al comma 34 che esclude dall'intera disciplina dell'art. 4 i settori del servizio idrico integrato (tranne i commi da 19 a 27), del servizio di distribuzione di gas naturale (salvo il comma 33), del servizio di distribuzione dell'energia elettrica, del servizio di trasporto ferroviario regionale, della gestione delle farmacie comunali. 2.5.1 Entro l'accennato contesto normativo va considerata la disposizione qui gravata, introdotta dall'art. 25 del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012. In prima battuta non puo' che osservarsi che con siffatta disposizione, lo Stato (Governo, prima, e Parlamento, poi), demandando nuovamente ad una fonte sub-legislativa la definizione delle modalita' per l'assoggettamento al patto di stabilita' interno delle societa' in house, pretende - come usa dire - di far rientrare dalla finestra quanto codesto Giudice aveva poco prima fatto uscire dalla porta. Contro tale indebito tentativo e' agevole opporre e riproporre il medesimo giudizio gia' espresso da codesta Corte, la quale ha riconosciuto la fondatezza delle doglianze regionali contro la disciplina statale (del comma 10, lett. a), prima parte, dell'art. 23-bis del d.l. n. 112/2008) «in cui si prevede che la potesta' regolamentare dello Stato prescriva l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno». Segnatamente, va rammentato che «l'ambito di applicazione del patto di stabilita' interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l'art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potesta' regolamentare» (cosi' sent. n. 325 del 2010). Donde la violazione, nel caso di specie, dell'art. 117, terzo e sesto comma, Cost.: lo Stato, non avendo potesta' legislativa esclusiva in subiecta materia, e' privo anche della potesta' regolamentare e ad essa non puo' far rinvio, ne' ipotizzando regolamenti governativi ex art. 17, secondo comma, l. n. 400/1988, ne' ipotizzando decreti ministeriali ex art. 18, comma 2-bis, d.l. n. 112/2008. 2.5.2 Come osservato, l'assoggettamento delle societa' in house al patto di stabilita' interno secondo modalita' da definirsi per via regolamentare e' stato previsto (con varie formulazioni), a tacer d'altro, dalla legge (di conversione) 6 agosto 2008, n. 133 del d.l. n. 112/2008, dall'art. 19, comma 1, della legge 3 agosto 2009 n. 102; dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166; e' stato dichiarato incostituzionale con sentenza n. 325/2010; e' stato reintrodotto dall'art. 4 del decreto-legge n. 138/2011 (convertito in legge n. 148/2011); e' stato ribadito dal qui gravato art. 25 del decreto-legge n. 1/2012 (convertito in legge n. 27/2012). Cio' premesso, non si dica che la doglianza non e' fondata assumendo che il denunciato contrasto non tanto riguarda la disposizione censurata, quanto, i suoi «antecedenti storici», in particolare, il «remoto» art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008 e il piu' recente art. 4, comma 14, del d.l. n. 138/2011. Fin d'ora, infatti, laddove fosse ritenuto necessario, il sottoscritto patrocinio insta espressamente affinche' il presente giudizio sia esteso d'ufficio alle citate disposizioni per autorimessione della relativa questione avanti a se stessa, sull'assunto, piu' volte ribadito, che il giudizio di legittimita' costituzionale ha ad oggetto la norma (come «situazione normativa») e non le singole disposizioni-atti. E, comunque sia, rileva: a) quanto all'art. 18, comma 2-bis cit.: da un lato, che esso, a ben vedere, e' stato implicitamente abrogato dal successivo art. 23 bis (nel testo risultante dalla modifica operata dal citato art. 15, comma 1, d.l. n. 135/209, convertito in legge n. 166/2009), il quale, a sua volta, e' stato poi dichiarato incostituzionale (e, per insegnamento costante, l'incostituzionalita' della norma abrogante non determina l'automatica reviviscenza della norma abrogata); dall'altro, che la sua illegittimita' avrebbe dovuto/potuto essere dichiarata dalla stessa Corte in via conseguenziale (stante il rapporto di sostanziale identita' fra le due disposizioni): illegittimita' che «deriva come conseguenza dalla decisione adottata» ex art. 27 l. n. 87/1953; infine, che esso, contrastando ictu oculi con gli effetti prodotti dalla citata sentenza n. 325/2010, in conseguenza dell'intervenuto annullamento dell'art. 23-bis, sarebbe quanto meno divenuto inapplicabile se non automaticamente illegittimo; b) quanto all'art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2011 cit.: che la disposizione oggi sub judice (art. 25 cit.) ha, indubbiamente, rispetto alla prima disposizione, forza e contenuto novativi: i) per un verso, perche' non si risolve in una mera duplicazione di quanto gia' prevedeva il citato art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2001: infatti essa afferma il vincolo del rispetto del patto di stabilita' a carico di tutte le societa' affidatarie in house in termini generalizzati, estendendolo a tutte le societa' partecipate dagli enti senza piu' contemplare quelle esclusioni (i.e. quelle di cui al comma 34), che, precedentemente limitavano l'ambito di applicazione dell'art. 4 del d.l. n. 138/2011; ii) perche', anche con riguardo alle societa' in house costituite ai sensi (e nei limiti) del citato art. 4 d.l. n. 138/2011 (non, dunque, quelle escluse dal comma 34), riduce da 900 mila a 200 mila euro il valore economico del servizio oggetto di affidamento gara (cfr. art. 25, d.l. n. 1/2012, lett. b, punto 5); iii) perche' il nuovo assoggettamento «ministeriale» non richiede piu' il «concerto del Ministro per le riforme per il federalismo», ma si limita a richiedere il «decreto ministeriale previsto dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni»; iv) perche', infine, e' proprio la tuttora perdurante mancata adozione del decreto ministeriale che alimenta di novita' normativa le disposizioni da ultimo adottate dallo Stato. E, in definitiva, il novum di normativita' espresso dalla disposizione gravata giustifica la sua autonoma impugnazione in questa sede. E con essa l'interesse regionale a che ne venga dichiarata l'illegittimita' costituzionale. Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 25, comma 1, lett. a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 3, 97, 117 (comma 1, 2, 3, 4, 6), 118, 119 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. 3. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge n. 27/2012. 3.1 Con la conversione in legge del decreto che ha re-introdotto il sistema di tesoreria unica, la Regione Veneto si vede costretta a riproporre, ovviamente alla luce delle intervenute modifiche, le doglianze che gia' in principalita' aveva avanzato avverso l'atto governativo. In particolare, fa osservare che, in virtu' della previsione di cui all'art. 52 della propria legge regionale n. 39 del 29 novembre 2001 (recante «Ordinamento del Bilancio e della Contabilita' della Regione»), ha in corso con l'istituto Unicredit Banca s.p.a. un contratto per l'affidamento del servizio di tesoreria, stipulato in Venezia il 17 dicembre 2008, della durata di anni cinque, con decorrenza dal 1° gennaio 2009 e scadenza al 31 dicembre 2013, che viene (rectius veniva) svolto secondo le modalita' e i contenuti previsti dal Capitolato speciale d'oneri allegato allo stesso. In adempimento a questo contratto, Unicredit Banca s.p.a. eseguiva per conto della Regione Veneto, il «complesso di operazioni connesse alla gestione finanziaria dell'Amministrazione Regionale, tra l'altro alla riscossione delle entrate, al pagamento delle spese, nonche' all'amministrazione e alla custodia dei titoli e valori ed, in generale, agli adempimenti previsti dalla Legge di contabilita' regionale n. 39 del 29 novembre 2001». Tale servizio costituisce una fonte di entrata per l'Amministrazione regionale dato che alle operazioni esecutive degli obblighi contrattuali viene applicato a credito sui depositi (giacenze di cassa) «un tasso attivo a capitalizzazione trimestrale di interesse lordo pari a + 66 (sessantasei) punti base di spread sull'Euribor un mese (base 365) media mese precedente pro tempore» (cfr. art. 4 del contratto), verso un tasso passivo per le anticipazioni di tesoreria pari a «+ 41 (quarantuno) punti base sull'Euribor un mese (base 365) media mese precedente pro tempore». Il contratto non prevede altri oneri, ne' commissioni bancarie a carico di terzi, ne' addebiti per incassi o emissioni, RID - MAV, commissioni pagamenti all'estero, spese postali, etc. ne' per ogni altra imposta o onere conseguente all'attivita' oggetto di appalto (cfr. art. 5 del contratto). Ne' prevede aggio o corrispettivo alcuno per il tesoriere (cfr. art. 11 del Capitolato d'oneri, allegato D al contratto). Conseguentemente, ogni attivita' viene gestita dalla Unicredit Banca s.p.a. attraverso la propria filiale di Venezia, sita in San Marco - Mercerie dell'Orologio, 191, presso la quale e' aperto il conto corrente speciale n. 000100537110 sul quale, quotidianamente, corrisponde la Direzione Ragioneria della Regione, sia per l'esecuzione dei mandati emessi, sia per la registrazione delle reversali di incasso, che per ogni altra operazione inerente al rapporto. Come da estratto conto al 31 dicembre 2011, a fine anno questo presentava un saldo di € 346.659,50 a fronte di una movimentazione nel mese di dicembre 2011 di € 1.469.623.076,07 in entrata e di € 1.481.967.129,32 in uscita, che corrispondono all'andamento medio mensile della finanza regionale, che opera per bilancio di cassa con circa 14 miliardi di euro all'anno. Quanto alle risorse amministrate queste provengono da piu' fonti: accanto alla entrate per trasferimenti dallo Stato, si registrano anche entrate proprie, distinguibili perche' derivanti sia dai tributi, sia da entrate patrimoniali conseguenti a rapporti, vuoi di diritto pubblico vuoi di diritto privato. Quanto alle entrate da tributi propri, queste derivano in buona parte da imposte quali: l'addizionale regionale IRPEF (per un gettito di circa due miliardi di euro) e l'IRAP; il «bollo auto» (per un gettito nel 2011 di 676,05 milioni di euro circa) e le varie tasse di concessione regionale, tasse universitarie e di abilitazione, il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti, le accise per gasolio e benzina, l'addizionale regionale sul gas metano ed altre entrate proprie registrate al Titolo 1° fra i tributi propri (per un gettito di 284,5 milioni di euro circa). 3.2 Il Governo nazionale, con il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, all'art. 35, commi 8, 9, 10 e 13, ha introdotto, a sedicenti fini di «tutela dell'unita' economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica», disposizioni a contenuto sostanzialmente ablativo delle risorse della Regione e lesivo delle attribuzioni costituzionali di quest'ultima. Cio' senza soprattutto distinguere - e qui la peculiare gravita' dell'iniziativa - fra risorse provenienti dallo Stato e risorse che sono il provento dell'attivita' propria dell'amministrazione regionale. Il significato concreto di tali disposizioni e' ricavabile dal contenuto degli artt. 7, 8 e 9 del decreto legislativo 7 agosto 1997, n. 279 (recante «Nuove modalita' di attuazione del sistema di tesoreria unica»), il quale, derogando al regime di tesoreria unica di cui alla previgente legge 29 ottobre 1984, n. 720, aveva, in sintesi, previsto che le Regioni, attraverso un percorso istituzionale ben definito, potessero, in modo progressivo, dotarsi di una propria tesoreria, in corrispondenza al maggior livello di autonomia da queste conseguite: a) sia a coronamento degli ambiti di competenza nel frattempo trasferiti dallo Stato, anche in materia tributaria; b) sia in adeguamento al nuovo quadro istituzionale proveniente dai cd. «Decreti Bassanini» (in particolare legge n. 59/1997 e decreto legislativo n. 112/1998); c) sia in ragione della prevista modifica dell'assetto costituzionale delle autonomie locali poi trasfuso nella revisione del Titolo V della seconda parte della Costituzione. In breve, attraverso il meccanismo introdotto dal decreto legislativo n. 279/1997, dapprima in via sperimentale ai sensi dell'art. 9, quindi attraverso successivi provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri, intercorsi tra il 1999 e il 2001 (transitati attraverso le procedure di cui all'art. 8), tutte le entrate della Regione, comprese quelle proprie (ai sensi dell'art. 7 originariamente non destinate ad essere versate nella tesoreria unica nazionale), sono state gestite in sede locale attraverso propri servizi di tesoreria. Viceversa, dal novello impianto normativo dell'art. 35 del decreto-legge n. 1/2012 si ricava, in tutta evidenza, come l'effetto proprio dei commi 8, 9 e 10 sia oggi essenzialmente quello di concentrare presso la tesoreria unica dello Stato (sulle «contabilita' speciali (...) aperte presso la tesoreria statale») tutto il patrimonio in numerarlo della Regione: a) quello formato da trasferimenti dello Stato; b) il portato delle entrate tributarie proprie; e c) il risultato della propria attivita' afferente ai rapporti esclusivi, di diritto pubblico o di diritto privato. Ad aggravare la gia' evidente lesione dell'autonomia e lo stato di incertezza generato dall'intervento normativo, per giorni (rectius settimane), lo Stato, non ha comunicato all'Amministrazione regionale i tempi e i modi per poter continuare a svolgere le proprie funzioni di entrata e di spesa attraverso la tesoreria unica dello Stato. L'unico documento sul punto e' stata una nota ABI: un «Messaggio urgente da inviare alle direzioni e agli uffici organizzazione e tesoreria enti soggetti utenti del SITRAD», privo di data e di firma, con il quale l'ABI (l'associazione delle banche italiane) ha informato Unicredit Banca s.p.a. circa i «Criteri di versamento presso le contabilita' speciali degli enti» in «attuazione» dell'art. 35, commi 8-13, del decreto-legge n. 1/2012. Espone, infatti, il citato messaggio quanto l'ABI avrebbe «appreso per le vie brevi dai competenti uffici ministeriali»: segno tangibile di una assoluta mancanza di indicazioni attuative provenienti da parte di chi avrebbe dovuto esercitare la dovuta attivita' di informazione circa l'esecuzione del provvedimento legislativo. A questo riguardo spiace poi dover notare che le informazioni per «le vie brevi» fornite dai «competenti uffici ministeriali» (quali?) sarebbero peraltro state date dopo essere state «condivise con i rappresentanti (...) della Conferenza delle Regioni» (quando?). Malgrado queste fantasiose affermazioni, nulla di cio' e' affatto avvenuto. Qualora fosse stato espresso un consenso in sede istituzionale dalle Regioni, questo si sarebbe dovuto quantomeno tradurre in un verbale di incontro, in una nota scritta o in una qualsiasi altra forma di documento, dei quali non vi e' traccia alcuna. Il messaggio dell'ABI, poi, oltre a non dare - come rilevato - le essenziali disposizioni attuative, si prodiga, invece, a fornire istruzioni gravemente lesive degli obblighi negoziali previsti nel contratto di prestazione del servizio di tesoreria, laddove queste impongono alle banche associate e, nel caso di specie ad Unicredit banca s.p.a., adempimenti ultronei rispetto al decreto-legge, senza averne - all'evidenza - la necessaria forza e legittimazione. Inter alia, secondo l'ABI, (ma non ai sensi del decreto-legge), che nuovamente riferisce le indicazioni di non meglio definiti «competenti uffici ministeriali», il trasferimento de quo riguarda anche le somme pignorate presso il tesoriere, malgrado il vincolo giudiziario di indisponibilita' gravante sulle stesse, a meno di non presupporre (ma nuovamente il decreto-legge in questo senso non dice nulla) il trasferimento ex re alla tesoreria unica anche degli obblighi del terzo pignorato. Rilevati numerosi profili di illegittimita' costituzionale della normativa statale richiamata, la Regione Veneto ha promosso un giudizio di legittimita' costituzionale in via principale avanti alla Corte costituzionale (reg. ric. n. 60/2012). Analogamente ha fatto la Regione Piemonte (ricorso inserito nel registro ricorsi della Corte al n. 35/2012). Contestualmente, la Regione, come molti altri enti territoriali (Comuni e Province, non solo del Veneto), ha promosso un giudizio cautelare avanti il Giudice ordinario competente (per la vicenda, quello di Venezia), allo scopo di ottenere, rilevata l'illegittimita' costituzionale della disciplina normativa, una sospensione della stessa: in particolare, degli effetti conseguenti all'avvicendarsi delle diverse scadenze ivi previste. Inopinatamente il ricorso promosso, cosi' come - seppur con le peculiarita' delle singole vicende - le ulteriori iniziative cui si e' accennato, non hanno sortito buon esito, dal momento che il Tribunale ordinario ha, in alcuni casi, declinato la giurisdizione, in altri, negato la tutela cautelare e persino la possibilita' stessa di rimettere la questione alla Corte, con cio' negando giustizia. Le disposizioni normative di cui all'art. 35 del d.l. n. 1/2012 sono state, in seguito, quasi integralmente confermate in sede di conversione del menzionato decreto, avvenuta con legge 24 marzo 2012, n. 27. Ai fini di semplificare la lettura e la comprensione del presente atto, si riportano per intero, i commi 8, 9, 10 e 13 del menzionato art. 35, cosi' come risultanti a seguito della conversione in legge: «8. Ai fini della tutela dell'unita' economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2014, il regime di tesoreria unica previsto dall'articolo 7 del decreto legislativo 7 agosto 1997, n. 279 e' sospeso. Nello stesso periodo agli enti e organismi pubblici soggetti al regime di tesoreria unica ai sensi del citato articolo 7 si applicano le disposizioni di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n. 720 e le relative norme amministrative di attuazione. Restano escluse dall'applicazione della presente disposizione le disponibilita' dei predetti enti e organismi pubblici rivenienti da operazioni di mutuo, prestito e ogni altra forma di indebitamento non sorrette da alcun contributo in conto capitale o in conto interessi da parte dello Stato, delle regioni e delle altre pubbliche amministrazioni. 9. Alla data del 29 febbraio 2012 i tesorieri o cassieri degli enti ed organismi pubblici di cui al comma 8 provvedono a versare il 50 per cento delle disponibilita' liquide esigibili depositate presso gli stessi alla data di entrata in vigore del presente decreto sulle rispettive contabilita' speciali, sottoconto fruttifero, aperte presso la tesoreria statale. Il versamento della quota rimanente deve essere effettuato alla data del 16 aprile 2012. Gli eventuali investimenti finanziari individuati con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento del Tesoro da emanare entro il 30 aprile 2012, sono smobilizzati, ad eccezione di quelli in titoli di Stato italiani, entro il 30 giugno 2012 e le relative risorse versate sulle contabilita' speciali aperte presso la tesoreria statale. Gli enti provvedono al riversamento presso i tesorieri e cassieri delle somme depositate presso soggetti diversi dagli stessi tesorieri o cassieri entro il 15 marzo 2012. Sono fatti salvi eventuali versamenti gia' effettuati alla data di entrata in vigore del presente provvedimento. 10. I tesorieri o cassieri degli enti ed organismi pubblici di cui al comma 8 provvedono ad adeguare la propria operativita' alle disposizioni di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n. 720, e relative norme amministrative di attuazione, il giorno successivo a quello del versamento della residua quota delle disponibilita' previsto al comma 9. Nelle more di tale adeguamento i predetti tesorieri e cassieri continuano ad adottare i criteri gestionali previsti dall'articolo 7 del decreto legislativo 7 agosto 1997, n. 279. 13. Fermi restando gli ordinari rimedi previsti dal codice civile, per effetto delle disposizioni di cui ai precedenti commi, i contratti di tesoreria e di cassa degli enti ed organismi di cui al comma 8 in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto possono essere rinegoziati in via diretta tra le parti originarie, ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti stessi. Se le parti non raggiungono l'accordo, gli enti ed organismi hanno diritto di recedere dal contratto». In sintesi, questi i contenuti. Il comma 8 sospende il sistema di tesoreria c.d. mista. Il comma 9 rivolge all'attuale Tesoriere l'ordine di consegnare l'ammontare della cassa detenuta presso il conto corrente intestato alla Regione Veneto, con due versamenti da effettuarsi, il primo al 29 febbraio 2012, il secondo il 16 aprile successivo; infine, impone la smobilizzazione degli investimenti finanziari da individuarsi con futuro decreto ministeriale. Il comma 10, a seguito della conversione in legge, impone alla banca tesoriere di adeguare la propria operativita' al nuovo-antico regime di tesoreria a partire dal 17 aprile 2012, consentendo che, nelle more, essa continui ad adottare i criteri gestionali in uso. Come questi si concilino con un sistema di tesoreria completamente diverso e con la materiale assenza di liquidita' nelle casse del Tesoriere rimane un mistero. Il comma 13, il cui portato e' di ancor piu' difficile interpretazione, consente alle parti del contratto di tesoreria di rinegoziarne i termini «ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti stessi», e gli «ordinari rimedi previsti dal codice», nonche' la possibilita', per le parti, di recedere dal contratto. Contestualmente alla conversione sono intervenute le prime indicazioni applicative-attuative o - sarebbe forse piu' corretto definirle - integrative. Si tratta: della circolare del Ministero dell'economia e delle finanze 24 marzo 2012, n. 11 e del decreto ministeriale prot. 35041 del 27 aprile 2012. Questi atti sono stati, da ultimo, fatti oggetto di gravame innanzi al Tribunale amministrativo per il Lazio. In questa sede la Regione impugna le disposizioni normative di cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge avvenuta con provvedimento 24 marzo 2012, n. 27, perche' poste in spregio a precisi valori costituzionali, nei termini di cui alle seguenti considerazioni di diritto. 3.3 Prima di addentrarsi in medias res, urge una premessa preliminare. Sostiene Silvio Trentin che non e' diritto, ma una pura e semplice manifestazione di forza materiale, cio' che non corrisponde a un agire razionale, che e' tale quando si dimostra coerente con le regole del gioco (1) . Ed aggiungeva, parlando dello Stato: «E' per questo motivo che quest'ultimo, pena il rendersi completamente estraneo alla Societa', quindi il cessare di essere Stato, deve sempre piu' organizzarsi come un ordine delle autonomie» (2) . Non puo' sorprendere, dunque, questa ulteriore annotazione, che da' conto di cio' che nella storia d'Italia e' sempre accaduto, vale a dire che appaiono e sono istituzioni gracili lo Stato-apparato e lo Stato-ordinamento (3) : «Il problema eterno dello Stato e' proprio quello di insediare Io Stato nella Societa', e' quello di impedire che l'ordine di integrazione implichi la sparizione, l'annientamento degli ordini integrati» (4) . Tra tante condizioni, ve n'e' una esemplare, che va rispettata: e' la clausola delle clausole, quella su cui si fonda il patto costituzionale - il foedus -, che si riassume nel noto brocardo pacta sunt servanda. Se ragioni contingenti oppure sistemiche suggeriscono o addirittura impongono un mutamento di aspetti essenziali delle regole del gioco lo si fara' dialogando, nel rispetto - come la Corte costituzionale ha da tempo immemorabile affermato - del principio di leale collaborazione. Non certo operando alla luce di un altrettanto noto adagio: l'Etat c'est moi, oltretutto svilito da un testo primitivo, quale e' l'art. 35, co. 8, 9, 10 e 13 in particolare, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, dedicato a un vecchio arnese: la tesoreria unica. Nell'esaminare il dettato normativo, il meno che possa accadere e' che si riprendano massime tralatizie, ignorando quel che le ha rese tali, secondo uno schema mentale che fa della fissita' il criterio ordinatore degli eventi: secondo, appunto, una prospettiva collaudata, che vede la dottrina «sempre tarda a teorizzare la realta'» (5) . Infatti, quest'ultima rappresenta il contenitore, all'interno del quale e' stato calato dal Governo, tra l'altro, il disposto secondo cui «fino al 31 dicembre 2014, il regime di tesoreria unica previsto dall'articolo 7 del decreto legislativo 7 agosto 1997, n. 297 e' sospeso», mentre «si applicano le disposizioni di cui all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984, n. 720 e le relative norme amministrative di attuazione» (art. 35, co. 8, decreto-legge n. 1/2012). Dunque, un testo normativo fu in vigore dal 1984, uno ulteriore rinnovato dal 1997, quello impugnato dinanzi a codesta Corte e' operante dall'entrata in vigore dell'atto governativo avente forza di legge: dall'anno 2012. Successione di atti normativi, modificazione di regime giuridici, ritorno all'antico, giustificato piu' o meno cosi': lo Stato ha bisogno di cassa. Di liquidita'. Come un tempo e con le ragioni di allora? (6) . Il Giudice delle leggi, nel definire nei suoi caratteri essenziali il regime di tesoreria unica di cui alla legge n. 720/1984, con la sent. n. 132/1993 ha precisato che «la ratio del complesso di norme ora ricordato e' quella di consentire allo Stato, in riferimento a un interesse dell'intera comunita' nazionale, il controllo della liquidita' e la disciplina dei relativi flussi monetari e, in particolare, di evitare che somme reperite dallo Stato attraverso il ricorso al mercato finanziario e comportanti, pertanto, il pagamento di onerosi interessi da parte dello Stato stesso, finiscano per giacere presso i tesorieri regionali, dando cosi vita a una produzione di interessi a favore delle Regioni scaturente, in definitiva, da erogazioni di somme prese a prestito dallo Stato». Ed ha aggiunto: «Questo circolo vizioso delle finanze pubbliche e' impedito dal "sistema della tesoreria unica", il quale, per riprendere valutazioni gia' espresse da questa Corte ..., e' ispirato alla "esigenza fondamentale per lo Stato (di) limitare l'onere derivante dalla provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacita' di spesa degli enti (regionali)". Tale esigenza e le norme di legge che ad essa si ispirano sono, dunque, espressione del potere di coordinamento della finanza regionale con quella nazionale e degli enti locali, che l'art. 119 della Costituzione attribuisce allo Stato». Dunque, la finalita' era quella di evitare un «circolo vizioso delle finanze pubbliche» - un cortocircuito - in caso di «provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacita' di spesa» delle Regioni, in un contesto di finanza territoriale caratterizzato non dall'autonomia del prelievo tributario, ma - pure la Corte lo ha ripetutamente riconosciuto, oltretutto dopo l'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001 - da una larga prevalenza dei trasferimenti erariali. Del resto, e' scritto a chiare lettere nei lavori preparatori e nel testo della legge di delega n. 42/2009, avente ad oggetto l'attuazione dell'art. 119 Cost. (7) . L'interesse tutelato era quello generale, che trovava la sua piu' limpida giustificazione nella necessita' di non dissipare risorse pubbliche pagando - a chiunque, fossero pure soggetti pubblici - interessi, da finanziare, comunque, attraverso la fiscalita'. Perche', c'e' sempre qualcuno che paga (8) . Si era in presenza di interessi non frazionabili. Condivisibili o meno che fossero quegli assunti (9) (si dira' oltre in che termini comunque criticabili), e' fuori discussione che non possono essere - il discorso si fa rigoroso, perche' impiega le categorie del ragionamento scientifico - trasferiti omisso medio nel 2012. Tra il 1984 e il 2012 non solo sono passati poco meno di una trentina d'anni; non solo si sono verificati i mutamenti istituzionali, economici e sociali ordinari; non solo e' intervenuta nel 2001 una riforma del Titolo V della Parte IL della Costituzione; si sono prodotti anche eventi che hanno interferito sulle relazioni tra Stati e, all'interno degli Stati, tra i livelli di governo ed i cittadini, soprattutto quando costoro sono contribuenti: come tali, destinati a sobbarcarsi, nonostante le tante partite del dare e dell'avere che spesso si traducono in partite di giro, il grave fardello del debito pubblico, ora comunemente denominato debito sovrano (10) . E' con il debito sovrano che ha a che fare la tesoreria unica dell'anno di grazia 2012. Si tratta di un rilievo - decisivo, a parere della difesa della Regione Veneto - che si puo' spiegare con solare limpidezza. Da un lato, riprendendo una millimetrica annotazione (11) , si deve essere ben consapevoli che «i motivi per cui Mario Draghi, presidente della Bce, ha aperto il rubinetto della liquidita' sono molti. Innanzi tutto bisognava salvare molte banche che stavano morendo per asfissia finanziaria: nessuno prestava piu' loro i soldi necessari per vivere. Tanti analisti sono convinti che senza il suo intervento di emergenza, il 2012 avrebbe registrato piu' di un fallimento bancario in Europa. Inoltre bisognava creare liquidita' per favorire l'acquisto di titoli di Stato: rendimenti al 7% e oltre erano insostenibili per Paesi come l'Italia o la Spagna. Dato che la Bce piu' di tanto non poteva comprare BTp, ha dovuto finanziarie le banche perche' lo facessero al posto suo. Questi due obiettivi sono gia' stati raggiunti: lo dimostra l'euforia che c'e' sul mercato dei titoli di Stato e sulle banche. E' pero' il terzo obiettivo, quello piu' strutturale, che ancora manca all'appello: la politica della Bce raggiungera' veramente l'obiettivo solo quando fara' ripartire il circuito del credito. Insomma: quando i soldi arriveranno all'economia reale. La logica della Bce e' questa: le imprese in Europa ottengono l'87% dei finanziamenti in banca (contro il 24% negli Stati Uniti), per cui se gli istituti sono impossibilitati ad erogare credito, le imprese muoiono. Salvando le banche, con maxi-prestiti agevolati, la Bce spera dunque di far ripartire il motore della crescita. Che questo accada, pero', non e' affatto scontato» (12) . D'altro lato, non si deve dimenticare (13) che: «Dal 2007 al 2011 i contribuenti europei hanno speso duemila miliardi di euro per salvare le banche, l'equivalente del nostro debito pubblico. In Italia non e' stato speso un euro, grazie al nostro prudente modello di banca commerciale e all'attenta azione di vigilanza svolta dalla Banca d'Italia. Se altrove gli Stati hanno salvato le banche, in Italia le banche hanno evitato il collasso del debito pubblico. Di cio' l'Italia deve essere orgogliosa» (14) . Ergo: in estrema sintesi e con molte approssimazioni, anche in Italia, dopo il 2008 il debito pubblico si e' impennato a tal punto da essere comunemente definito sovrano, perche' dello Stato; in Italia, una quota-parte significativa e' nelle mani del sistema bancario; i principali istituti di credito e il sistema creditizio nel suo insieme sono gravati, in termini di affidabilita', dal rischio-Paese, che ha determinato declassamenti in sede di attribuzione del rating, che hanno accresciuto il gia' enorme debito. Tutto questo ed altro ancora, unitamente alla crisi economica in atto, ha posto all'ordine del giorno i temi della liquidita' e del rischio, che hanno inciso pesantemente sul rapporto banche-imprese, cui non e' estraneo il settore pubblico, che acquisisce presso terzi beni, prestazioni e servizi, e non paga. O paga con tempi biblici. Buon senso vorrebbe che le varie esigenze in campo fossero tra loro coordinate e che non si impartissero ordini contraddittori. Ad esempio, alle banche, di acquistare titoli del debito pubblico e di fare credito, ad un tempo, ed anche di finanziare le imprese, ben sapendo che cio' e' possibile se c'e' liquidita'. Ma le banche usufruiscono di una liquidita' relativa, oltretutto perche' e' erosa da enormi sofferenze dei crediti e dal costo via via crescente della raccolta. Lapalissiano concludere che di tutto hanno bisogno le parti che hanno stipulato il contratto di tesoreria, la Regione Veneto e il tesoriere, meno che di vedersi sottratte le risorse finanziarie depositate, che consentono a ciascuna di esse di operare impiegando le stesse a beneficio dell'economia reale. La Regione paga i fornitori, il tesoriere accorda finanziamenti. Da questo punto di vista, la centralizzazione del comando e la disponibilita' della cassa da parte dello Stato, se fa bene a quest'ultimo, fa male alla Regione e all'economia della collettivita' di cui e' ente esponenziale. Tanto basta a rendere evidente quel che si e' Premesso: vale a dire che il quadro di riferimento cui la Corte deve ricollegarsi e' caratterizzato da peculiarita' tali da renderlo incomparabile con esperienze del passato. In ogni caso, vale la pena di ricordare, a mo' di rassegna, quel che si e' detto e scritto a caldo, a proposito del contenuto dell'art. 35, co. 8, 9 e 10, del decreto-legge n. 1/2012: ad esempio, che, «come non si possono introdurre imposte che colpiscano in modo incoerente i contribuenti solo perche' serve il gettito, cosi' non si possono punire solo gli enti locali "colpevoli" di avere liquidita' e di gestirla con contratti locali vantaggiosi» (15) ; che si e' prodotto un «danno morale e costituzionale», dal momento che e' lesa l'autonomia finanziaria di enti garantiti dalla legge fondamentale (16) ; che, oltretutto, simili misure, in una scala di efficacia che va da alto-medio-basso, hanno un grado «basso» (17) ; che la marcia verso il federalismo - cosiddetto, ad essere sinceri - e' «interrotta (forse per sempre) (18) . L'Ecc.ma Corte consideri, infine, questo dato. Si e' osservato - in tempi lontani, con grande lucidita' - che, «proprio nei momenti di grave crisi fiscale dello Stato, si registra la tendenza ad aumentare l'entita' dei tributi propri degli enti minori», e cio' «non sempre in termini di autonomia tributaria», ove «ad una riduzione o, comunque, ad un non aumento di trasferimenti dallo stato faccia riscontro una fonte alternativa di risorse su cui l'ente locale possa contare per finanziare le maggiori spese "obbligatorie"» (19) . E' cio' che si e' avverato, a causa della terribile crisi in atto. La singolarita' sta nel fatto che le risorse cosi' acquisite pure dalle Regioni - e dalla Regione Veneto, in particolare - vengono assorbite dallo Stato per essere dallo stesso impiegate: pronta cassa. In modo conforme a Costituzione? Pare proprio di no, per le specifiche ragioni che saranno a breve indicate. 3.4 L'incostituzionalita' del sistema di tesoreria unica di cui alla legge n. 720/1984 rispetto, in generale, all'assetto delle competenze (sul piano legislativo, amministrativo, fiscale) Stato-Regioni, voluto dalla novella costituzionale del 2001, diviene ancor piu' evidente se solo, nella prospettiva diacronica del diritto, si considerano, sia pure brevemente, le tappe che segnarono la sua introduzione e i rilievi critici con cui fu stigmatizzata. Con riguardo alle Regioni, infatti, la tesoreria unica non fu imposta uno actu ed ex abrupto, bensi' in via progressiva, quale sorta di nodo scorsoio al collo dell'autonomia regionale costituzionalmente (sulla carta) garantita. Dapprima fu la legge n. 629/1966 (recante Norme circa la tenuta dei conti correnti con il Tesoro): introduceva l'obbligo per «le amministrazioni dello Stato, comprese quelle con ordinamento autonomo e le gestioni speciali dello Stato, di tenere le disponibilita' liquide in conti correnti con il Tesoro» (art. 1) e «per gli enti che sotto qualsiasi forma beneficiano di contributi (...) a carico del bilancio dello Stato» di tenere le disponibilita' liquide in conti correnti con il Tesoro, «limitatamente all'ammontare dei contributi medesimi» (art. 2). Di essa, concordemente, dottrina e giurisprudenza esclusero l'obbligatoria applicabilita' alle Regioni (20) , perche' «una simile interpretazione (che avrebbe condotto a ritenere precluso alle Regioni di disporre di una propria tesoreria in cui fare affluire le somme liquide di propria pertinenza) confliggeva palesemente non solo col comportamento di fatto tenuto dalle Regioni, che con proprie leggi avevano disciplinato il servizio di tesoreria e avevano stipulato apposite convenzioni con istituti bancari, ma altresi' con l'art. 33 della legge statale n. 335 del 1976 sulla contabilita' delle Regioni, secondo il quale "la legge regionale disciplina il servizio di tesoreria delle Regione"» (21) . Di fatto, tuttavia, la situazione era di segno diametralmente opposto a causa degli inviti «ripetuti e pressanti» del Governo alle Regioni «affinche' esse - anziche' chiedere il versamento di tutte le entrate loro spettanti presso le tesorerie regionali - aprissero dei conti correnti (fruttiferi) con il tesoro nei quali tenere depositate le somme assegnate dallo Stato» (22) . Ne' manco' chi, tempestivamente, rilevasse come tali richieste governative tenessero «celate le intenzioni - poi rivelatesi nei fatti - di generalizzare indiscriminatamente i depositi a tutte le risorse derivanti dal bilancio dello Stato» (23) . Altri si dolevano del fatto che era stata compiuta «in realta' una ricostruzione dell'attuale situazione nel settore in termini cosi' lontani dalla realta' effettiva che il rischio e' che gli organi governativi possano trovarvi una insperata legittimazione proprio dalla permanenza dell'attuale stato di fatto» col rischio «di perpetuare ancora una ambigua situazione di fatto anticostituzionale» (24) . Fu la legge di riforma del bilancio dello Stato (n. 468 del 1978) a introdurre, con l'art. 31, l'imposizione dell'obbligo alle Regioni di tenere le somme trasferite dallo Stato, in conti correnti non vincolati con il Tesoro; la legge finanziaria per il 1981 (n. 119/1981), con l'art. 40, a disporre l'imposizione di un limite quantitativo alle disponibilita' che le Regioni potevano mantenere presso i propri tesorieri; la disciplina successiva ad estendere a tutto il settore pubblico allargato il sistema della tesoreria unica (legge n. 720/1984, con gli interventi di modifica e integrazione che ne seguirono). A cio' si aggiunsero ulteriori restrizioni all'autonomia finanziaria regionale. Fra esse, segnatamente, vanno rammentate le seguenti: a) il carattere infruttifero dei conti aperti con il Tesoro (a partire dal d.m. del Tesoro 11 aprile 1981 in G.U. 4 maggio 1981, n. 120); b) i vincoli relativi alle modalita' e ai tempi di prelevamento e all'entita' delle somme prelevabili dalle Regioni dai conti correnti (a partire dall'art. 26 decreto-legge n. 786/1982, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1982, n. 51); c) i margini di discrezionalita' del Ministero del Tesoro nell'erogazione delle somme richieste (v. il d.m. e il decreto-legge supra citati); d) le progressive contrazioni del quantitativo massimo imposto all'entita' delle disponibilita' liquide, fino ad arrivare al 3% dell'ammontare delle entrate previste dal bilancio di competenza (la legge n. 730/1983 ridusse il limite dal 12% al 6%; la legge n. 720/1984 dal 6% al 4%). Gia' in allora gli argomenti usati da codesta Corte per «salvare» dall'illegittimita' costituzionale la disciplina del servizio unico di tesoreria furono di stampo contingente e scarsamente propensi a valorizzare i profili di autonomia riconosciuti dalla Carta alle Regioni e agli enti locali. In tempi non sospetti, si ritenne di concludere che si poteva «anche non mettere in discussione la soluzione legislativa e l'avallo di legittimita' della Corte a patto che si dicesse "con franchezza" che se la legge di contabilita' generale si deve intendere conforme a Costituzione, allora significa, che il sistema finanziario in atto, cosi' come si pretende delineato dal costituente, e' quello proprio di un ordinamento unitario e non autonomistico"» (25) . A maggior ragione oggi, le massime giurisprudenziali elaborate in subiecta materia e tralatizia mente ripetute negli anni Ottanta/Novanta, perdono in toto di pertinenza, depotenziate come sono, oltre che dai limiti intrinseci che nel prosieguo si evidenzieranno, dall'anacronismo da cui sono affette, a meno di non voler assegnare loro un'efficacia dogmatica che non hanno. In particolare, le istanze governative di aprire un apposito conto corrente presso la tesoreria centrale vennero considerate legittime «per il prevalente motivo che il tenore degli atti impugnati [due telegrammi ministeriali contenenti gli inviti dei quali si e' detto] e' tale da esprimere un invito, piuttosto che un'imposizione», trattandosi di «direttive non vincolanti» non finalizzate a «disporre in via diretta ed imperativa l'istituzione di un conto corrente per ciascuna Regione» (cfr. sent. n. 155 del 1977). Sennonche', cosi' facendo, si celava, dietro a qualificazioni puramente formali, la realta' fattuale del blocco delle erogazioni da parte dello Stato alle Regioni fino al momento della sollecitata apertura del conto corrente presso la tesoreria centrale e, quindi, la reale vincolativita' dei cosiddetti inviti. Ancora. Si fece salvo l'art. 31 della legge n. 468/1978, nonostante realizzasse «per via di imposizione autoritaria quel risultato che precedentemente il Tesoro aveva perseguito mediante inviti alle Regioni» (26) , perche' «l'obbligo di tenere le disponibilita' liquide in conti correnti non vincolati con il tesoro e' limitato ad assegnazioni, contributi e quant'altro provenienti dal bilancio dello Stato, e non tocca in alcun modo fondi di altra provenienza» (sent. n. 162 del 1982), sebbene tutti sapessero che la finanza regionale era quasi esclusivamente finanza derivata, cioe' finanza di trasferimento dal bilancio dello Stato, con l'effetto conseguente che il limite imposto riguardava, in realta', la quasi totalita' delle risorse regionali. Si giustifico' l'art. 31 della legge n. 468/1978 in forza del potere statale di «coordinare la finanza regionale con quella statale» (art. 119 Cost.) in funzione di indispensabili economie di spesa (sent. n. 162 del 1982, confermata dalle sentenze successive). Un tanto, tuttavia, senza nel contempo dichiarare la criticita' implicita nella premessa dell'argomento usato, vale a dire che, cosi' inteso, il potere di coordinamento della finanza pubblica veniva (e viene) concepito «come funzione organizzativa a se', riservata allo Stato, esercitabile unilateralmente e suscettibile di sovrapporsi all'organizzazione e al funzionamento dei poteri locali delineati nella Costituzione», finendo, quindi, col costituire «in ogni caso una ragione di potenziale e permanente compressione dell'autonomia finanziaria locale, il cui contenuto non potrebbe essere valutato alla stregua di parametri costituzionali sostanziali predeterminati, bensi' definito lungo la linea variabile delle scelte discrezionali operate di volta in volta dal legislatore» con l'avallo del Giudice delle leggi (27) . Si dichiaro' la legittimita' anche dell'art. 40 della legge n. 119/1981 in quanto espressione del potere riservato allo Stato di «disciplina del credito, strettamente (connesso) alla stabilita' della moneta e, quindi, ad un interesse che travalica l'ambito regionale coinvolgendo la comunita' nazionale» (sent. n. 162 del 1982). Ma., al contrario, «che la disciplina in questione riguardi l'attivita' creditizia, e non piuttosto la contabilita' regionale e la gestione della cassa regionale, non sembra facilmente sostenibile»; senza dire che «il limite ai prelievi, non correlato all'effettivo fabbisogno di cassa, conduce non tanto a regolare i flussi monetari dallo Stato alle Regioni, quanto a interrompere in modo anomalo il nesso necessario fra attribuzione, da parte dello Stato, di determinate risorse alle Regioni, ed effettiva possibilita' per quest'ultime di spendere tali risorse secondo i fini e nei tempi autonomamente prescelti, e nell'osservanza dei propri bilanci e delle procedure contabili stabilite dalle leggi» (28) . Non si ritenne incostituzionale neppure la previsione che voleva infruttiferi i conti presso il tesoriere centrale perche' «anche se ne deriva una minore redditivita' delle somme depositate nelle tesorerie dello Stato rispetto a quella che si avrebbe presso le aziende di credito», e' questa «una conseguenza di fatto che non investe aspetti costituzionalmente tutelati, non incidendo sull'autonomia finanziaria delle Regioni» (sent. n. 243 del 1985; nello stesso senso v. anche le sentenze n. 162 del 1982 e n. 307 del 1983), assumendo, evidentemente, l'autonomia regionale in una accezione puramente formale. Il commento generalizzato (29) fu che «a questo punto, sembra veramente difficile negare che - passo dopo passo - i conti "obbligatori" delle Regioni presso la tesoreria statale siano divenuti (se non lo sono stati fin dall'origine) quell'"anomalo strumento di controllo sulla gestione finanziaria regionale" nel quale secondo la Corte e' "essenziale" che essi invece non si trasformino» (sent. n. 94 del 1981). E' fin ovvio che, tale risultato e', a fortiori, inaccettabile oggi. 3.5 Considerato ut supra come il testo e contesto del sistema unico di tesoreria siano indubbiamente, radicalmente diversi oggi rispetto a tre decenni fa e rammentati i profili di incompatibilita' con la Costituzione che gia' affliggevano la medesima disciplina, e' opportuno ora passare a denunciare le specifiche doglianze delle disposizioni impugnate rispetto al testo costituzionale novellato nel 2001 in senso (sedicentemente) federalistico. Macroscopica e' quella che ha come parametro il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Infatti, delle due l'una. O le disposizioni normative impugnate perseguono l'obiettivo di attribuire allo Stato liquidita' di cui disporre: ma, in questo modo, e' evidente che esse lederebbero patentemente le autonomie territoriali costituzionalmente sancite e tutelate, privandole delle risorse loro proprie. O la disciplina gravata, dovendosi escludere che le somme riversate nelle casse centrali possano, per cio' solo, entrare nella libera disponibilita' dello Stato, e' priva di senso, assolutamente irragionevole e contraddittoria. E cio' dicasi, in particolare: a) rispetto al preteso scopo di tutelare l'unita' economica della Repubblica nella particolare situazione di crisi del debito sovrano, anche perche' si tratta (come si e' detto e si dira') di una novella che, lungi dal consentire profitti, genera sprechi (ad esempio con riguardo alla minore redditivita' sulle somme riversate), non preventivamente quantificabili ma certamente significativi; b) anche laddove si riconoscesse la finalita' di rendere piu' chiaro il sistema di contabilita' locale, dal momento che l'intervento si limita all'accentramento delle tesorerie, mentre altri (e piu' adeguati) avrebbero potuto e dovuto essere gli interventi del Governo per ottenere un risultato in questo senso (ad esempio perseguendo in concreto l'obiettivo di rendere uniformi e trasparenti i bilanci degli enti territoriali, previsto all'art. 2, co. 2, lett. h) della legge n. 42/09); c) rispetto alla posizione degli istituti di credito, che, da un lato, sono richiesti di finanziare le imprese, e, dall'altro, sono privati della liquidita' necessaria. Proprio la prima alternativa sembrerebbe essere l'obiettivo reale perseguito dallo Stato, se e' vero, come si evince dalla relazione governativa al testo normativo, che la «maggior giacenza di liquidita' si tradurra' in una minore emissione di titoli del debito pubblico», stimando un risparmio complessivo «per il bilancio dello Stato» pari a 320 milioni di euro nel 2012, 150 milioni di euro nel 2013 e 150 milioni del 2014 e che «parte di questi risparmi saranno utilizzati per... l'estinzioni di crediti maturati nei confronti dei Ministeri per spese relative a consumi intermedi» (estratto dal Dossier della Camera dei deputati). Altrimenti detto, il Governo si appropria delle risorse degli enti locali al fine di estinguere debiti per consumi intermedi dei Ministeri! Le disposizioni normative impugnate, inoltre, sono assolutamente irragionevoli nella parte in cui non prevedono una seria e completa - seppur essenziale - disciplina di transizione e di attuazione dei precetti in esse contenuti. Le censure sul punto hanno prettamente a riguardo il novellato comma 10 dell'art. 35. In esso il legislatore statale riconosce l'assoluta mancanza della disciplina di adeguamento, tanto e' vero che il disposto impugnato stabilisce che i tesorieri provvedano a conformarsi al nuovo sistema dopo aver effettuato il secondo versamento (profilo di assoluta irragionevolezza della previsione normativa), facendo nel mentre applicazione del decreto legislativo n. 279 del 1997. Ora, non si' puo', seriamente, pensare che ad attuare l'imposto ritorno al sistema unico di tesoreria possano soccorrere i decreti adottati a cavallo degli anni Ottanta, in quanto gia' in allora criticati per la loro dubbia compatibilita' con il testo costituzionale e certamente contrari al sistema delle autonomie costituzionalmente previsto dopo il 2001. Per non parlare, poi, della loro inutilizzabilita' pratica in concreto, dal momento che procedure e strutture del passato non sono oggi facilmente e, soprattutto, immediatamente replicabili. L'irragionevolezza della disciplina sotto questo profilo e' tanto piu' evidente laddove, proprio a cagione della sua lacunosita', finisce indebitamente con il consentire a soggetti assolutamente non legittimati allo scopo, quale l'associazione di categoria ABI, di intervenire in supplenza, dettando previsioni che - come gia' rilevato - non solo non sono contenute nel decreto-legge, ma anzi sono ad esso contrarie e/o ne aggravano l'illegittimita' costituzionale. Gli effetti di una disciplina siffatta sono e saranno quelli di ritardare, se non anche limitare, l'accesso di Regioni ed enti locali alle proprie risorse. La Corte, tuttavia, ha gia' in passato chiarito che «per non intralciare il ritmo delle spese regionali, compromettendo l'indispensabile velocita' di erogazione e costringendo le Regioni a far ricorso - in via alternativa - ad indebitamenti sia pure di breve periodo, occorre pero' che la reintegrazione delle quote dei proventi regionali depositabili presso le aziende di credito sia resa possibile continuamente e nei modi piu' solleciti, affinche' si possa far fronte ai pagamenti imprevisti senza intaccare gravemente od esaurire del tutto le disponibilita' in questione» (Corte cost., sent. n. 244 del 1985). Per non dire della possibilita' che si generino veri e propri vuoti di cassa, quando codesta Corte ha da sempre tenuto «ferma l'esigenza (...) che i rapporti tra le tesorerie regionali e le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato siano regolati in modo tale da escludere il pericolo di improvvisi vuoti di cassa, che pregiudicherebbero il buon andamento dell'amministrazione e paradossalmente frusterebbero gli intenti cui mira la legge n. 720, imponendo alle Regioni di ricorrere ad onerose anticipazioni per fronteggiare le spese indilazionabili» (Corte cost., sent. n. 243 del 1985). E' evidente, poi, che le sopra citate lacunosita', irragionevolezza e inadeguatezza agli scopi dichiarati della disciplina impugnata sono destinate fatalmente a tradursi in ritardi, disfunzioni, disagi nella concreta disponibilita' delle risorse e, dunque, nell'erogazione dei servizi, in aperta violazione del canone di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost. 3.6 La Regione Veneto censura, inoltre, le disposizioni normative di cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13 del decreto-legge n. 1/2012 per violazione dell'art. 41 Cost., secondo il quale «l'iniziativa economica privata e' libera». Come gia' anticipato, mentre in origine il sistema di tesoreria unica era assicurato dalla Banca d'Italia (legge n. 720/84), successivamente (in forza del decreto-legislativo n. 279/97) si consenti' a Regioni ed enti locali (oltre ad altri enti enumerati) di detenere le proprie risorse presso tesorieri scelti con gara, in omaggio, tra l'altro, al principio di tutela della concorrenza. Principio che, dunque, pure, deve considerarsi leso dalla previsione di nuovo accentramento della tesoreria presso l'unica Banca d'Italia. La Regione, quindi, come pure gli enti locali di cui si fa tramite, ha in essere un contratto di tesoreria con un istituto di credito, attivato previa indizione di una procedura ad evidenza pubblica, secondo regole comunitarie, le cui clausole sono state pattiziamente convenute sulla base di scelte rimesse alla autonoma determinazione delle parti ed eseguite, fino ad oggi, in omaggio alla regola elementare di civilta' per cui pacta sunt servanda. Il legislatore del decreto impugnato si e' inserito in questo rapporto contrattuale di diritto privato, in modo improvvido e autoritativo, in assenza di presupposti facoltizzanti. Manca, infatti, la ragione di «utilita' sociale» o - per meglio dire utilizzando le parole di codesta Corte (v. Corte cost., sent. n. 31 del 2011) - «economico-sociale», che, ai sensi dell'art. 41, comma 2, Cost. puo' autorizzare un intervento legislativo limitativo della liberta' contrattuale. Per le argomentazioni gia' articolate, in effetti, tale presupposto legittimante non puo' essere riconosciuto nell'esigenza - illegittima e per molti versi irragionevole - di drenare risorse dalle autonomie territoriali e dalle banche verso lo Stato. L'incostituzionalita' e' - se possibile - ancora piu' evidente e grave per la Regione ricorrente ove si consideri che la disciplina impugnata ha l'effetto ultimo di decretare l'inesorabile estinzione del rapporto in essere con il tesoriere locale, posto che il relativo contratto stabilisce nel 31 dicembre 2013 la sua naturale scadenza. Resta, comunque, sul punto, l'illegittimita' della disposizione di cui al comma 13 dell'art. 35, con la quale il legislatore statale consente alle parti del contratto di tesoreria di rinegoziarne i termini «ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti stessi», e gli «ordinari rimedi previsti dal codice», nonche' la possibilita', per le parti, di recedere dal contratto. Quale significato abbia il disposto citato non e' chiaro da comprendere; l'effetto sembra, tuttavia, essere nuovamente un intervento «a gambe tese» sul prodotto dell'autonomia contrattuale delle parti, la cui posizione, tra l'altro, a seguito dei versamenti presso la tesoreria unica, non e' piu' paritaria: Regioni ed enti territoriali, infatti, sono caduti in una posizione di assoluta inferiorita' e debolezza, che incidera' certo negativamente sulle negoziazioni rese possibili. Dal lamentato sbilanciamento contrattuale indotto dal complessivo impianto normativa delle disposizioni impugnate discende la violazione, in primo luogo, degli articoli 41 e 119 Cost., dal momento che la predetta disposizione incide e pretende di condizionare illegittimamente l'autonomia contrattuale della Regione relativamente alla gestione delle proprie risorse siccome costituzionalmente garantita. In secondo luogo, e' evidente che la facolta' della rinegoziazione, considerata ex parte privata, ha la mera funzione (o rappresenta, comunque, la concreta opportunita') di compensare il periodo contrattuale «perso» a causa della reintroduzione della tesoreria unica con l'introduzione di piu' favorevoli condizioni negoziali, circostanza, quest'ultima, che, ex parte publica, si traduce nell'ulteriore danno dell'assoluta incertezza di poter nuovamente godere del contratto in allora stipulato, se non, addirittura, nella certezza della reformatio in pejus. Ne' si puo' trascurare, tanto meno, che il comma 9 pretende di incidere anche sugli «eventuali investimenti finanziari» degli enti smobilizzandoli, prescindendo integralmente dalle scelte compiute da questi ultimi nell'esercizio della propria liberta' economica, violata anche nella parte in cui, privilegiando arbitrariamente determinate forme di investimento (id est quelle in titoli di Stato) rispetto ad altre, pretermette ogni autonoma determinazione a riguardo. Senza dire, infine, che, nel quadro dell'attuale gravissima crisi economica, la sottrazione di liquidita' dalle casse degli istituti di credito tesorieri e' di ostacolo all'esercizio della libera iniziativa economica delle banche e alla loro forza propulsiva rispetto al sistema delle imprese. 3.7 La disciplina legislativa impugnata e' - per espressa previsione normativa - posta «ai fini della tutela dell'unita' economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica». La materia cui afferisce, dunque, e' proprio quella dell'«armonizzazione dei bilanci pubblici e (del) coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», di cui all'art. 117, comma 3, Cost. Del resto la stessa dottrina formatasi sulla giurisprudenza della Corte antecedente la riforma del 2001 gia' non metteva in dubbio che le previsioni di legge aventi ad oggetto il sistema di tesoreria dovessero ascriversi proprio al citato coordinamento (30) . Come noto, si tratta di un ambito materiale di competenza legislativa concorrente, in relazione al quale «spetta alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della legge n. 42/2009, che impone il «rispetto della ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni in tema di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»). Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa a dettare principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, «l'apprezzamento della legittimita' costituzionale della disposizione impugnata comporta, per un verso, l'attribuzione ad essa della preminente finalita' di contenimento razionale della spesa e, per altro verso, la verifica che, nel perseguire siffatta finalita', il legislatore statale non abbia prodotto norme di dettaglio» (v. Corte cost., sent. n. 40 del 2010). Quanto al primo profilo, gia' si e' piu' volte evidenziato come la ratio del provvedimento impugnato debba con ogni probabilita' ritrovarsi nella necessita' - addirittura esplicitata nel dossier di documentazione della Camera - di raccogliere liquidita' e come la stessa non possa dirsi conforme a Costituzione, non solo perche' lesiva delle prerogative delle autonomie (come si sta spiegando), ma anche in quanto non legittimata da alcun interesse pubblico superiore. Quanto all'idoneita' della misura gravata rispetto all'eventuale fine di ottenere risparmi di spesa, poi, pure si e' gia' argomentato: lungi dal rispondere agli obiettivi, essa si riverberera' in disfunzioni, sprechi e disagi, antitetici rispetto al principio di buon andamento e di economicita'. Con riferimento alla natura delle disposizioni impugnate, invece, e' evidente che esse non si limitano a porre principi, ossia «criteri ed obiettivi» che lascino alle Regioni un sufficiente «spazio di manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi» (cosi' in Corte cost., sentt. n. 340 del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401 del 2007), ma interviene con previsioni specifiche e sedicentemente autoapplicative che incidono sull'autonomia e nei confronti delle quali l'unica reazione puo' essere il ricorso alla Corte. E a destituire di fondamento l'assunto davvero non sembra potersi invocare la «generosa» giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte con riferimento alla qualificazione in termini di principio di norme inequivocabilmente dettagliate (per tutte, sent. n. 16 del 2010), perche', nel caso di specie, certo non si puo' ignorare il fatto che, uno actu, le disposizioni del decreto-legge de quo pretendono di sovrapporsi al precedente (necessario) concorso della disciplina nazionale e regionale sul sistema delle tesorerie (decreto legislativo n. 279/97 e legge regionale Veneto n. 39/01). Assume valenza addirittura paradigmatica della presente doglianza il comma 9 del citato decreto, laddove, pretendendo la smobilizzazione degli «eventuali investimenti finanziari», demanda ad un decreto ministeriale attuativo l'integrazione della disciplina ivi posta, cosa da sottrarre a riguardo ogni margine valutativo, normativo alle Regioni. Un tanto, ovviamente, anche in violazione dell'art. 117, comma 6, Cost. 3.8 L'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012 viola l'autonomia amministrativa regionale e degli enti locali sancita dall'art. 118 Cost., dal momento che sottrae loro la possibilita' di gestire in modo libero e responsabile il proprio servizio di tesoreria. La disciplina impugnata, inoltre, genera un vulnus all'autonomia amministrativa regionale e degli enti territoriali minori proprio perche' - come gia' fatto rilevare - diminuisce e rende - nella migliore delle ipotesi - piu' difficoltoso l'accesso di Regioni ed enti locali alle risorse proprie necessarie per svolgere le funzioni amministrative loro attribuite dalla Costituzione e li costringe ad una sicura perdita patrimoniale (rispetto agli interessi sulle giacenze garantiti dai propri tesorieri). Non puo' sottacersi, infine, la contrarieta' della disciplina censurata rispetto ai principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza sanciti all'art. 118 Cost. Essi, infatti, non solo consentono ma impongono che alle autonomie piu' vicine al cittadino sia lasciata la gestione delle risorse raccolte da o comunque per la collettivita' locale per il tramite dei servizi di tesoreria decentrati e che siano valutati in concreto i rendimenti istituzionali, che, proprio con riferimento alla tesoreria, per altro, in non poche realta' (venete ma non solo) sono stati piu' che buoni. 3.9 Grave - se possibile piu' di ogni altra - e' la lesione dell'«autonomia finanziaria di entrata e di spesa» che l'art. 119 Cost. riconosce, nell'ordine, a Comuni, Province, Citta' metropolitane e Regioni. Si e' gia' ricordato come il sistema di tesoreria unica, istituito con legge n. 720/84 (vigente un diverso riparto costituzionale di competenze sul territorio) e a cui oggi si vorrebbe ritornare, si giustificasse solo - e non senza qualche perlessita' - in presenza di una finanza regionale alimentata, in larghissima e prevalente misura, da trasferimenti statali. Nel frattempo, pero', e' mutato, radicalmente, come gia' osservato, a tacer d'altro, il quadro costituzionale e istituzionale di riferimento. Oggi, le Regioni hanno (e si reggono su) entrate proprie (da intedersi, come noto, in un'accezione ampia, assimilabile a quella a suo tempo riconosciuta per la Provincia di Trento, cfr. Corte cost., sent. n. 62 del 1987). Una parte consistente di esse deriva da tributi propri regionali, dovendosi qualificare per tali tutti quelli previsti all'art. 7 della legge n. 42/2009 (che proprio all'art. 119 cost. da' attuazione). E cio' senza considerare che, gia' prima della riforma costituzionale del 2001, la Corte aveva riconosciuto «pur sempre di pertinenza regionale» anche le risorse semplicemente trasferite alle Regioni dallo Stato (v. Corte cost., sent. n. 132 del 1993). E' evidente, dunque, che le risorse interessate dalle previsioni del «decreto Monti» impugnate provengono dalle collettivita' regionali, corrispondono cioe' alla «capacita' fiscale» (art. 119, comma 3, Cost.) di chi abita e lavora nel Veneto, e sono destinate alla responsabilita' gestoria degli enti territoriali che di questa comunita' sono esponenziali. Tanto premesso, e' evidente che, nel 2012, la scelta di distrarre risorse finanziarie dalle tesorerie decentrate per riversarle in quella statale si pone in netto contrasto con l'autonomia costituzionalmente garantita agli enti che se ne vedono spogliati. Lesa e', anzitutto, sotto molteplici profili, l'autonomia di entrata. In primo luogo perche' il provvedimento governativo pretende di sottrarre al sistema di tesoreria delle Regioni le entrate proprie delle Regioni, secondo l'accezione di cui sopra, mentre, ad esempio, gia' la giurisprudenza risalente formatasi in materia di tesoreria unica escludeva dai riversamenti presso la stessa le «entrate acquisite direttamente dalle Regioni» (cfr. Corte cost., sent. n. 94 del 1981). In secondo luogo perche' incide sull'autonomia stessa di creare entrate. Si allude, in particolare, al fatto che dall'applicazione delle disposizioni impugnate deriva la perdita, per Regioni ed enti locali, dei significativi risparmi e vantaggi generati dall'esecuzione dei contratti negoziati con i propri tesorieri e delle relative maggiori entrate (per esempio sotto forma di maggiori interessi). Ne' si dica che la perdita di redditivita' conseguente al riversamento in tesoreria unica sia un «effetto privo di implicazioni costituzionali» (per tutte Corte cost., sent. n. 162 del 1982), in quanto tale assunto, gia' a suo tempo criticabile e criticato, e' oggi privo di ogni pertinenza e attualita'. L'autonomia finanziaria riconosciuta e sancita dalla novellati Costituzione e' anzitutto un'autonomia sul reperimento di risorse e tali sono anche quelle derivanti da interessi maturati sulla disponibilita' del denaro. Violata e' pure l'autonomia finanziaria di spesa. A causa delle disposizioni impugnate, infatti, il controllo sulla gestione finanziaria regionale viene di fatto «manovrato in modo da precludere od ostacolare la disponibilita' delle somme occorrenti alle Regioni stesse per l'adempimento dei loro compiti istituzionali, nelle orme nelle misure e nei temei variamente indicati dalla le islazione statale», non diversamente da quanto accadeva nel passato, quando inesorabilmente l'accentramento del deposito delle somme si traduceva in indebite forme ingerenza nell'an, nel quando e nel quomodo della concreta disponibilita' delle somme depositate. Effetto quest'ultimo gia' stigmatizzato dalla Corte fin dagli anni Settanta e non piu' tollerabile oggi (si rinvia a Corte cost., sent. n. 155 del 1977, ma anche alla sent. n. 162 del 1982). Parimenti lesiva dell'autonomia finanziaria e' la previsione, di cui al comma 9, che stabilisce che gli eventuali investimenti finanziari individuati con decreto ministeriale (da emanare entro il 30 aprile), ad eccezione di quelli in titoli di Stato, saranno smobilizzati. Un tanto per l'elementare ragione che essa incide sulla pianificazione finanziaria degli enti, alterando in maniera definitiva le scelte di spesa da questi compiute (per altro con ricadute gravissime sull'economia reale e l'affidabilita' della pubblica amministrazione) e creando un'indebita poziorita' tra forme di investimento, privilegiando quello in titoli di Stato. Alla luce, infine, dell'art. 2, comma 2, della legge n. 42 del 2009, le disposizioni contraddicono palesemente, i principi di: «trasparenza del prelievo»; «efficienza nell'amministrazione dei tributi» (lett. c); «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale e beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da favorire la corrispondenza tra responsabilita' finanziaria e amministrativa» (lett. p); «trasparenza ed efficacia delle decisioni di entrata e di spesa, rivolte a garantire l'effettiva attuazione dei principi di efficacia, efficienza ed economicita' .» (lett. dd); «tendenziale corrispondenza tra autonomia impositiva e autonomia di gestione delle proprie risorse umane e strumentali.» (lett. ii); «certezza delle risorse e stabilita' tendenziale del quadro di finanziamento, in misura corrispondente alle funzioni attribuite» (lett. ll). 3.10 Una delle violazioni piu' gravi compiute dal legislatore statale e', poi, quella perpetrata nei confronti del principio di leale collaborazione. Sembra incredibile che un intervento normativo della portata descritta sopra, anche e soprattutto per le autonomie territoriali, sia stato adottato e sia entrato in vigore senza che alcuna forma di dialogo o raccordo sia stata cercata e posta in essere quanto meno con le Regioni. La verita' di quanto appena denunciato e' confermata dal tenore della premessa del decreto-legge e della sua relazione accompagnatoria, che ignorano completamente il problema. E non sembra si tratti di una svista, in quanto la presenza di una volonta' consapevole e determinata ad evitare qualunque forma di rapporto e collaborazione con le Regioni emerge proprio da come la norma e' congegnata. Il riferimento e', nello specifico, alle previsioni di cui al comma 9, il quale disciplina - in modo del tutto unilaterale e lacunoso - il materiale riversamento delle somme affidate ai tesorieri e cassieri degli enti nella tesoreria unica. Esse non rivolge il suo dictat alle Regioni, come sarebbe stato piu' ragionevole e opportuno aspettarsi, ma ordina a tesorieri e cassieri di trasferire le risorse. Davvero e' mancata quella «lealta' istituzionale» di cui parla l'art. 2, comma 2, lett. b), della legge n. 42/2009, che ha l'ambizione di dare attuazione all'art. 119 della Costituzione. 3.11 Le disposizioni normative impugnate non possono passare indenni il vaglio di legittimita' costituzionale richiesto a codesta Corte neppure in forza del dettato dell'art. 120 Cost., che - come noto - disciplina i casi e i modi in cui il Governo puo' sostituirsi alle Regioni, alle Citta' metropolitane, alle Province e ai Comuni. Di legittimo intervento sostitutivo non puo' parlarsi, con riferimento alla fattispecie concreta in esame, in quanto: a) ne mancano i presupposti; b) e' violato il principio di sussidiarieta'; c) completamente negletto e' il principio di leale collaborazione; d) e' assente il carattere di proporzionalita' dell'intervento rispetto alle finalita' perseguite, che, oltre ad essere richiesto dalla giurisprudenza costituzionale, e' sancito all'art. 8 della legge n. 131/2003. Quanto al punto sub a), non puo' certo ritenersi sufficiente ad integrare il presupposto tassativamente richiesto dalla Costituzione della tutela dell'«unita' economica» della Repubblica l'averne evocato l'espressione nell'incipit della disciplina impugnata (art. 35, comma 8). Le considerazioni gia' svolte, infatti, hanno - si crede - abbondantemente chiarito che la disciplina oggetto del sindacato di codesta Corte non ha e non puo' raggiungere questo fine anche perche' assolutamente inidonea allo scopo e, dunque, sproporzionata (assente e', quindi, anche il requisito di cui alla lett. d). Infatti, delle due l'una: i) o essa e' finalizzata a drenare liquidita' nelle casse dello Stato e allora e' incostituzionale per lesione delle autonomie o, comunque, irragionevole perche' per soddisfare esigenze di quest'ultimo piega enti territoriali (che, al pari con questo, compongono la Repubblica da preservare), banche ed imprese (che finanziano e rappresentano l'economia reale, l'ossigeno di cui il sistema ha bisogno) e infine il sistema - Paese globalmente inteso; ii) o e' totalmente priva di senso perche' assegna allo Stato risorse inutilizzabili spezzando il nesso di corrispondenza tra autonomia di prelievo e autonomia di gestione. Quanto al mancato rispetto del principio di sussidiarieta' (v. lett. b), pure si e' scritto. E', infatti, incomprensibile come un intervento che accentra il sistema di tesoreria presso lo Stato possa dirsi conforme al disegno costituzionale sul punto, che chiaramente non si limita a promuovere (art. 5) e garantire (artt. 117, 118 e 119 Cost., in specie) le autonomie e la differenziazione, ma assegna al livello di governo piu' vicino al cittadino la responsabilita' della gestione delle risorse. Infine, incredibile dictu, la necessita' di rispettare il principio di leale cooperazione istituzionale (v. lett. c) non e' stata minimamente avvertita dal Governo. 3.12 Si e' gia' spiegato quali effetti materiali si ricolleghino al ritorno al sistema della tesoreria unica per la Regione (e gli enti locali) imposto dal decreto-legge n. 1/2012. Il riferimento, in particolare, a tacer d'altro, e' alla circostanza che: i) il provvedimento sottrae alle Regioni la libera gestione (non solo delle risorse derivanti dai trasferimenti statali, ma anche) delle risorse proprie; ii) diminuisce il rendimento di queste ultime in termini di interessi; iii) si insinua unilateralmente e con effetti sostanzialmente caducatori su un rapporto contrattuale legittimamente in corso tra le parti in esecuzione di norme imperative rispettose della potesta' legislativa concorrente tra Stato e Regioni; iv) esige la «smobilizzazione» degli «eventuali investimenti finanziari» (tra l'altro da individuarsi con futuro decreto ministeriale). E' evidente che quella predisposta dal legislatore statale e' una macroscopica e maldestra forma di «espropriazione» della proprieta' in capo alle Regioni e agli enti locali (per non parlare degli istituti di credito), in contrasto con l'art. 42 Cost., aggravata dall'assenza, nel caso di specie, di una effettiva ragione di interesse generale che possa legittimare l'intervento de quo. 3.13 Come si e' visto, quindi, le disposizioni censurate comportano una diminuzione delle entrate previste e inserite in bilancio (certa almeno con riferimento a quelle provenienti dalla differenza con gli interessi sulle somme depositate garantiti dai tesorieri decentrati). Esse agiscono, pero', anche sul versante della spesa dal momento che il materiale e completo ritorno al sistema di tesoreria unica non potra' avvenire senza costi, in termini di risorse umane e finanziarie. Gia' nel 1984, infatti, la dottrina aveva evidenziato che l'innovazione della tesoreria unica comportava maggiori costi, «forse comprimibili ma non certo eliminabili», collegati: al venire meno della «gratuita' delle prestazioni» fornite dagli istituti di credito; alla minore correntezza nella provvista dei fondi da parte degli enti, con una probabile accentuazione della necessita' di ricorrere ad anticipazioni di cassa; a appesantimenti di carattere contabile e macchinosita' procedurali; alle operazioni di ristrutturazione degli uffici di tesoreria dello Stato al fine di renderli idonei alle nuove, antiche funzioni (31) . La legge, dunque, importa nuove e maggiori spese, contestualmente decurtando le entrate e, quel che qui conta, senza indicare i mezzi per farvi fronte, con cio' ponendosi in patente violazione dell'art. 81 Cost. 3.14 E' evidente che, ancora una volta, «alle origini della vicenda medesima sta il modo scomposto e disordinato con il quale lo Stato si muove nei rapporti con le Regioni anche in un settore molto delicato quale quello del coordinamento finanziario» (32) . La Pretesa e' quella di imporre unilateralmente, con discipline a carattere derogatorio e suppostamente straordinario, il sacrificio delle autonomie per far fronte alle esigenze di cassa (divenute invece ordinarie), senza aver messo mai davvero mano alle cause dei problemi. «Non v'ha dubbio che il susseguirsi, di anno in anno, di provvedimenti a carattere contingente, in deroga alla disciplina ordinaria, renda quantomai disorganico e provvisorio il quadro attuale della finanza regionale» (v. Corte cost., cent. n. 307 del 1983). E quando cio' che era e doveva essere provvisorio si ripropone con pervicace frequenza, la provvisorieta' diventa tendenza e l'effetto e' quello di alterare in via permanente l'equilibrio delle autonomie, disegnato e tutelato, anzitutto, dall'art. 5 Cost., non a caso inserito tra i Principi fondamentali, e dalle succitate disposizioni del Titolo V. Il monito, in definitiva, e' quello che Calamandrei fece proprio durante il suo discorso all'Assemblea costituente pronunciato il 4 marzo 1947: «Noi dobbiamo volere che questa Costituzione sia una Costituzione seria, e che sia presa sul serio dagli italiani»: «bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch'essi: "Non e' vero nulla"»! Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 117, 118, 119, 120 Cost. nonche' del principio di leale collaborazione e dei principi di cui all'art. 2, comma 2, lett. b), c), p), dd), ii), ll), della legge n. 42 del 2009, quale parametri interposti. 4. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 36, comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge n. 27/2012. L'articolo 36, nel testo originario del decreto, prevedeva che il Governo avrebbe dovuto presentare, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, un disegno di legge istitutivo di un'Autorita' indipendente di regolazione dei trasporti e che, in attesa di detta istituzione, le funzioni regolatorie del settore fossero svolte dall'Autorita' per l'energia elettrica ed il gas. A seguito delle modifiche operate con la conversione in legge, invece, oggi, l'art. 36 istituisce detta Autorita' di regolazione dei trasporti e ne disciplina natura (di organo collegiale indipendente), composizione (nelle persone di un presidente e due componenti nominati secondo le procedure di cui all'art. 2, comma 7, della legge n. 481/1997) e funzioni. In particolare essa e' «competente nel settore di trasporti e dell'accesso alle relative infrastrutture e ai servizi accessori, in conformita' con la disciplina europea e nel rispetto del principio di sussidiarieta' e delle competenze delle regioni e degli enti locali di cui al titolo V della parte seconda della Costituzione». E' evidente, tuttavia, che una tale previsione si risolve in niente piu' che in una petizione di principio la quale non puo' bastare a ritenere la disciplina statale conforme al riparto delle competenze tra autonomie territoriali titolari di una qualche competenza costituzionalmente sancita nell'ambito della materia in cui l'Autorita' viene ad acquisire funzione regolatoria. Non basta, in particolare, secondo la Regione ricorrente, con riferimento alle previsioni, contenute nell'impugnato art. 36, comma 1, lett. a), per cui: i) spetta all'Autorita' definire, nell'ambito dei servizi di trasporto locale, «i criteri per la fissazione da parte dei soggetti competenti delle tariffe, dei canoni, dei pedaggi, tenendo conto dell'esigenza di assicurare l'equilibrio economico delle imprese regolate, l'efficienza produttiva delle gestioni e il contenimento dei costi per gli utenti, le imprese, i consumatori» (art. 37, comma 2, lett. b) del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come modificato) e, con particolare riferimento al settore autostradale, «stabilire per le nuove concessioni sistemi tariffari di pedaggi basati sul metodo del price cap» (art. 37, comma 2, lett. g) del decreto-legge n. 201/2011); ii) «definire gli schemi dei bandi delle gare per l'assegnazione di servizi di trasporto in esclusiva e delle convenzioni da inserire nei capitolati delle medesime gare» (art. 37, comma 2, lett. f) del decreto-legge n. 201/2011) e, ugualmente, per il settore autostradale, «definire gli schemi di concessione da inserire nei bandi di gara relativi alla gestione o costruzione; a definire gli schemi dei bandi relativi alle gare cui sono tenuti i concessionari autostradali per le nuove concessioni» (art. 37, comma 2, lett. g) del decreto-legge n. 201/2011); iii) «stabilire i criteri per la nomina delle commissioni aggiudicatrici» (art. 37, comma 2, lett. f) del decreto-legge n. 201/2011). Prima di procedere con l'illustrazione delle censure di legittimita' costituzionale per ciascuno di questi tre gruppi di discipline, e' necessario individuare l'ambito materiale di afferenza delle previsioni normative qui in analisi rispetto al dettato dell'art. 117 Cost. A tal fine deve, anzitutto, richiamarsi la materia del trasporto pubblico locale, certamente rientrante nell'ambito delle «competenze residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost., come reso evidente anche dal fatto che, ancor prima della riforma del Titolo V della Costituzione, il decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422 (...) aveva ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle Regioni e agli enti locali funzioni e compiti relativi a tutti i "servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale" con qualsiasi modalita' effettuati ed in qualsiasi forma affidati ed escludendo solo i trasporti pubblici di interesse nazionale» (cosi' in Corte cost. sent. n. 222 del 2005). Normalmente, tuttavia, la Corte riconduce questo genere di disposti, nell'ambito prevalente - e, per certi versi, travolgente - della «tutela della concorrenza», di cui all'art. 117, comma 2, lett. e), Cost. Non si intende, infatti, ignorare la giurisprudenza costituzionale ormai consolidata che tende a sussumere nell'ambito della «tutela della concorrenza» interventi legislativi di portata simile a quelli oggi oggetto di impugnazione, pur se incidenti profondamente nell'ambito dei trasporti o dei servizi pubblici locali (cfr. ex plurimis, Corte cost. sent. n. 272 del 2004; Corte cost. sent. n. 325 del 2010). Tuttavia, proprio perche' la tutela della concorrenza e' una cosiddetta materia-funzione, riservata alla competenza esclusiva dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta e determinata, ma, e', per cosi' dire, «trasversale» (cfr. sentenza n. 407 del 2002) e si intreccia inestricabilmente con una pluralita' di altri interessi - alcuni dei quali rientranti nella sfera di competenza concorrente o residuale delle Regioni - connessi allo sviluppo economico-produttivo del Paese, «e' evidente la necessita' di basarsi sul criterio di proporzionalita-adeguatezza al fine di valutare, nelle diverse ipotesi, se la tutela della concorrenza legittimi o meno determinati interventi legislativi dello Stato» (cfr. Corte cost. 27 luglio 2004, n. 272). 4.1 Ora, l'attribuzione all'Autorita' di regolazione dei trasporti del potere di fissare i criteri delle tariffe, da un lato, e l'assegnazione alla neo istituita Autorita' indipendente di competenze specifiche sugli schemi di bandi di gara e sugli schemi di concessione, sono disposizioni che: i) in primo luogo, non risultano proporzionate alle esigenze da soddisfare, ossia quelle di apertura alla concorrenza e potenziamento dei servizi, dal momento che si limitano a demandare ad un soggetto - per altro estraneo della logica della responsabilita' politica e amministrativo-contabile - la determinazione di discipline di impatto macroeconomico rilevante, senza neppure offrire seri vincoli e/o parametri di indirizzo e controllo; ii) in secundis, non rispondono ad esigenze unitarie tali da imporre di ignorare gli enti territoriali che, sul punto, anche rispetto al principio di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza ben potrebbero aver un contributo significativo da apportare. Di qui anche la lesione dei rammentati principi sanciti all'art. 118 Cost. Nella denegata ipotesi in cui, poi, le specifiche attribuzioni all'Autorita' qui censurate fossero ritenute legittima espressione dell'esercizio, da parte dello Stato, dalla propria potesta' esclusiva, stante il concorso sul punto di molte altre, importanti competenze legislative regionali, esclusive e concorrenti, dovrebbe ritenersi necessaria la previsione di una qualche forma di coinvolgimento delle Regioni, qui, invece, assente. In cio' si realizza la violazione del principio di leale collaborazione. Infine, con precipuo riferimento, alla competenza della neo-istituita Autorita' circa la determinazione dei criteri per la fissazione delle tariffe, nella parte e nella misura in cui queste concorrono a costituire risorse proprie della Regione, la disposizione impugnata si segnala anche perche' lesiva dell'autonomia finanziaria di cui all'art. 119 Cost. 4.2 Infine, qualche considerazione deve svolgersi relativamente all'illegittimita' costituzionale della disposizione che rimette all'Autorita' de qua il potere di stabilire i criteri per la nomina delle commissioni giudicatrici. Tale disciplina e' costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 117 e 118 Cost., in quanto non si rileva l'esistenza di esigenze unitarie tali da sottrarre l'individuazione dei commissari (con riferimento al numero, alla qualifica del presidente, dei commissari, nonche' alle modalita' della loro scelta) dall'ambito organizzativo delle singole stazioni appaltanti, che ben potranno modularli tenendo conto della complessita' dell'oggetto della gara, nonche' dell'importo della medesima. L'illegittimita' costituzionale della richiamata disposizione e' resa palese da un precedente di codesta Ecc.ma Corte proprio in punto di commissione di gara, in allora disciplinata dal Codice di contratti (art. 84), secondo cui «non e' condivisibile la tesi secondo cui la normativa delegata - attinente alla composizione ed alle modalita' di scelta dei componenti della Commissione giudicatrice - troverebbe fondamento nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza. Essa presuppone, infatti, che tali norme abbiano ad oggetto specificamente i criteri e le modalita' di scelta del contraente, idonei ad incidere sulla partecipazione dei concorrenti alle gare e, dunque, sulla concorrenzialita' nel mercato, nel senso che dai diversi moduli procedimentali utilizzati potrebbero derivare conseguenze sulla minore o maggiore possibilita' di accesso delle imprese al mercato medesimo, e sulla parita' di trattamento che deve essere loro riservata». La sentenza citata prosegue, poi, chiarendo che «la norma in esame, invece - pur disciplinando aspetti della stessa procedura di scelta - e' preordinata ad altri fini e deve seguire il generale regime giuridico che e' loro proprio, senza che possano venire in rilievo le esigenze di salvaguardia della competitivita' nel mercato, le quali giustificano, in base a quanto disposto dall'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, l'intervento legislativo dello Stato. Orbene, gli aspetti connessi alla composizione della Commissione giudicatrice e alle modalita' di scelta dei suoi componenti attengono, piu' specificamente, alla organizzazione amministrativa degli organismi cui sia affidato il compito di procedere alla verifica del possesso dei necessari requisiti, da parte della imprese concorrenti, per aggiudicarsi la gara. Da cio' deriva che non puo' essere esclusa la competenza legislativa regionale nella disciplina di tali aspetti» (cosi' in Corte cost. sent. n. 401 del 2007). Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 36, comma 1, lett. a), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 117, 118, 119, nonche' del principio di leale collaborazione. 5. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 66, comma 9, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito della conversione in legge n. 27/2012. L'art. 66 contiene una serie complessa di disposizioni normative in tema di dismissioni di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola. In particolare, il comma 7 prevede che Regioni, Province e Comuni, anche su richiesta di soggetti interessati, possano vendere o cedere in locazione beni agricoli o a destinazione agricola di loro proprieta'. A tal fine, essi possono conferire all'Agenzia del territorio mandato irrevocabile; quest'ultima dovra', poi, trasferire agli enti i proventi raccolti al netto dei costi sostenuti e documentati. Il comma 9, oggetto di impugnazione del presente ricorso, dispone dell'utilizzabilita' delle risorse derivanti dalle operazioni di dismissione: esse, sempre al netto dei costi di dismissione, dovranno essere destinate dagli enti territoriali alla riduzione del debito pubblico e, in assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente, al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. Questo il testo della disposizione impugnata: «Le risorse derivanti dalle operazioni di dismissione di cui ai commi precedenti al netto dei costi sostenuti dall'Agenzia del demanio per le attivita' svolte, sono destinate alla riduzione del debito pubblico. Gli enti territoriali destinano le predette risorse alla riduzione del proprio debito e, in assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato». L'ambito materiale di afferenza della disposizione impugnata e' quello del «coordinamento della finanza pubblica», di cui all'art. 117, comma 3, Cost. E' superfluo ricordare che si tratta di un ambito materiale di competenza legislativa concorrente, in relazione al quale «spetta alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della legge n. 42/2009, che impone il «rispetto della ripartizione delle competenze legislative fra Stato e Regioni in tema di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»). Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa a dettare principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, l'apprezzamento della legittimita' costituzionale della disposizione impugnata comporta sempre «la verifica che, nel perseguire siffatta finalita', il legislatore statale non abbia prodotto norme di dettaglio» (v. Corte cost., sent. n. 40 del 2010). La disposizione impugnata non si limita a porre principi, ossia «criteri ed obiettivi» che lascino alle Regioni un sufficiente «spazio di manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere detti obiettivi» (cosi' in Corte cost., sentt. n. 340 del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401 del 2007), ma interviene con previsioni specifiche e autoapplicative che incidono sull'autonomia di spesa della Regione, imponendo una specifica destinazione per le somme reperite per il tramite delle operazioni di dismissione. Sotto questo profilo, e' evidente, dunque, che la denunciata lesione dell'art. 117 Cost. si riverbera anche in un rilevante contrasto con l'autonomia di spesa sancita e tutelata all'art. 119 Cost. e con legge 5 maggio 2009, n. 42, che del menzionato disposto costituzionale fa applicazione (il riferimento, in particolare, e': all'art. 1, comma 1; all'art. 2, comma 2, lett. a)). Lo Stato, infatti, avrebbe dovuto, caso mai, limitarsi ad indicare l'obiettivo della riduzione del debito, mai potendo giungere alla precisa individuazione dello strumento necessario - a suo dire - per ottenere il risultato sperato. Si consideri, poi, che se il provento della dismissione di beni divenuti propri deve essere utilizzato secondo le indicazioni dello Stato e, addirittura, in caso di assenza di debito regionale da ridurre, per incrementare il Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato, e' come se i beni dimessi non fossero mai appartenuti alla Regione: si realizza cosi una lesione della proprieta' pubblica di cui all'art. 42 e 119, comma 6, Cost. Quest'ultima disposizione e' stata poi attuata con legge 5 maggio 2009, n. 42, in particolare all'art. 19, relativo al patrimonio degli enti territoriali. I principi ivi contenuti sono stati successivamente oggetto di un ulteriore intervento normativo di attuazione, per mezzo del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85. Proprio con riferimento al provvedimento normativo da ultimo citato, meglio noto come decreto sul c.d. federalismo demaniale, deve rilevarsi un diverso profilo di illegittimita' costituzionale. L'art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 85/2010, infatti, stabilisce che l'ente territoriale che riceva beni nell'interesse della collettivita' rappresentata e' tenuto a favorirne la massima valorizzazione funzionale «a vantaggio diretto o indiretto della medesima collettivita' territoriale rappresentata». Ora, la previsione di cui all'art. 66, comma 9, nella parte in cui consente-impone che i proventi della dismissione siano utilizzati per coprire il Fondo di ammortamento dei titoli di Stato, sottrae alle collettivita' territoriali presso le quali si trova il bene le risorse ottenute proprio valorizzando quest'ultimo e, per cio' stesso, e' incostituzionale. I profili di illegittimita' rilevati in riferimento alla lesione dell'autonomia normativa e finanziaria regionale si riverberano inevitabilmente in una compromissione della stessa potesta' di esercizio autonomo delle funzioni amministrative, con cio' rivelando la lesivita' della disposizione impugnata rispetto all'art. 118 Cost. Stupisce, infine, che in un ambito di competenza concorrente, nel quale in gioco vi e' la valorizzazione di beni propri degli enti territoriali e la destinazione delle risorse da questi derivanti, una disposizione di tal fatta non sia stata fatta oggetto di un confronto con le Regioni o che non sia quanto meno previsto che esse debbano essere consultate in sede di deliberazione dei proventi raccolti dalle dismissioni. In cio' si sostanzia la lesione del principio di leale collaborazione. Alla luce di quanto esposto, si chiede, dunque, che codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 66, comma 9, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 117, 118, 119 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione e dei principi di cui agli artt. 1, comma 1; 2, comma 2, lett. a), 19 della legge n. 42/2009, nonche' del principio di cui all'art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 85/2010, quali parametri interposti. Sulla legittimazione della Regione a far valere lesioni delle attribuzioni costituzionali degli enti locali La Regione si rivolge a codesta Ecc.ma Corte per denunciare l'illegittimita' delle disposizioni normative impugnate non solo per violazione della propria autonomia costituzionalmente garantita, bensi' anche denunciando la lesione delle attribuzioni degli enti locali, pure gravementi danneggiati dal recente intervento del legislatore statale. La legittimazione della Regione a un tal tipo di denuncia non puo' essere revocata in dubbio: come chiarito da codesto Collegio, essa sussiste in capo all'ente regionale addirittura indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale, in quanto «la stretta connessione, in particolare (...) in tema di finanza regionale e locale, tra attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (cosi' Corte cost., sent. n. 298 del 2009, richiamando i seguenti precedenti: sentenze n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004). E cio' senza considerare un dato normativo essenziale, ossia quello di cui all'art. 9 della legge La Loggia (n. 131/2003), il quale da' modo agli enti stessi di chiedere alla Regione di attivarsi a loro difesa. Istanza cautelare Con l'odierno ricorso, questo patrocinio rivolge a codesta Ecc.ma Corte la richiesta di un intervento cautelare che, pendente il giudizio di legittimita', sospenda l'esecuzione di alcune delle disposizioni normative impugnate. Si tratta, nella specie, dell'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13. Con riferimento al fumus boni juris, presupposto che evidentemente deve sostenere un tal genere di domanda, si confida di aver gia' sufficientemente argomentato nella parte in diritto. Quel che e' necessario, ora, e' che si evidenzi la presenza di quel «rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico o all'ordinamento giuridico della Repubblica» e del «rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini», che, ai sensi dell'art. 35 della legge costituzionale n. 87 del 1953, legittimano l'assunzione di provvedimenti cautelari e l'anticipazione dell'esame e della discussione in contraddittorio della questione sottoposta al sindacato di legittimita'. La disciplina normativa contenuta nei commi 8, 9, 10 e 13 dell'art. 35 del decreto-legge n. 1/2012 era gia' stata fatta oggetto di istanza cautelare contestualmente alla presentazione del ricorso avverso detto provvedimento normativo. La domanda di sospensione degli effetti della summenzionata disciplina viene ripresentata oggi che ad essere impugnata e' il prodotto della sua conversione in legge. Da un lato, infatti, i citati disposti prevedono una serie di adempimenti, finalizzati a ritornare al sistema di tesoreria unica, a scadenze serrate e ravvicinatissime, molte delle quali, purtroppo, gia' venute a scadenza. Pendente rimane, tuttavia, il termine del 30 giugno p.v. fissato per lo smobilizzo degli eventuali investimenti finanziari degli enti territoriali individuati con decreto dello scorso 27 aprile. E' evidente, dunque, che se si attenderanno gli ordinari tempi del giudizio di legittimita' costituzionale, la pronuncia interverra' quando il ritorno al sistema di tesoreria vigente prima del 1997 sara' ormai gia' compiuto e l'illegittimita' che ad esso si associa avra' gia' prodotto danni difficili da calcolare a priori, ma certamente gravissimi e irreparabili. Tali danni avranno - o, per meglio dire, dopo il 29 febbraio scorso, hanno - a riguardo: a) le autonomie, locali e regionali, gravemente lese sotto i diversi profili gia' denunciati; b) i diritti dei cittadini, nella duplice veste di contribuenti (per lo spreco delle gia' scarse risorse finanziarie che si associa alla previsione impugnata) e di utenti-fruitori delle forniture e dei servizi pubblici (la cui continuita' e' seriamente messa a repentaglio dal passaggio, mal governato, delle ricchezze da un sistema consolidato e che aveva dato buona prova di se' ad uno oramai superato sotto molteplici profili e della cui adeguatezza e' dato dubitare; c) le imprese, che gia' soffrono degli incredibili ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione e che vedranno diminuire ulteriormente le proprie possibilita' di accesso al credito delle banche per le ragioni gia' spiegate; d) last but not least, le banche stesse o, per meglio dire, il sistema bancario. (1) S. Trentin, La crisi del Diritto e dello Stato, prima edizione italiana, a cura di G. Gangemi, Gangemi Editore, Roma, 2006. Questa affermazione rappresenta il filo conduttore della sua straordinaria opera, definita da F. Geny «esempio di indipendenza di pensiero, d'energia morale indomabile, di alta virtu' critica, di fedelta', senza compromessi, ne' riserve, al puro ideale del Diritto» (ivi, 52). (2) S. Trentin, La crisi, cit., 198. (3) S. Cassese, Lo Stato introvabile. Modernita' e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli, Roma, 1998; ID., L'Italia: una societa' senza Stato?, il Mulino, Bologna, 2011. Se ne dovrebbe trarre una qualche conclusione, anche alla luce di quanto hanno scritto, da ultimi, G. De Rita - A. Galdo, L'eclissi della borghesia, Laterza, Bari, 2011, spec. 28. (4) S. Trentin, La crisi, cit., 199. (5) E' l'assunto - un chiodo fisso - di chi aveva una certa dimestichezza con le istituzioni. Il rilievo sta in L. Einaudi, Il buongoverno, Laterza, Bari, 2004, 85, il quale aveva notato, poco prima, che «la "dottrina" e' stata fabbricata dai cultori del diritto pubblico, i quali argomentano dal testo delle costituzioni scritte e si accorgono delle consuetudini solo quando esse sono codificate in trattati venerandi per l'autorita' degli scrittori»: ivi, 80. Emblematico quel che riferisce, a proposito di Antonio De Viti De Marco, S. Cassese, Lo Stato introvabile, cit., 55-56. Tutto cio', per sottolineare come la questione di legittimita' costituzionale qui prospettata non si presti ad essere risolta a colpi di combinati disposti o di mere riprese di una giurisprudenza che appartiene alla storia: antica. (6) A questo interrogativo va data una risposta di carattere preliminare, onde evitare l'esito, perverso e fuorviante, di pretendere che l'odierno giudizio di legittimita' costituzionale sia risolto alla luce di una giurisprudenza formatasi si' su un medesimo testo normativo, ma in altro, differente contesto. Dunque, come si chiarira' nel prosieguo, quella giurisprudenza non e' riferibile al caso di specie, di cui qui si discute. (7) Di questa legge e dei relativi decreti delegati si sono dette e scritte un'infinita' di cose. Se ne e' sempre trattato con realismo e - si crede - senso di equilibrio, avendo in mente ben radicata una teoria dello Stato, negli scritti comparsi su Federalismo fiscale, anno 2007 e seguenti. (8) E' risaputo, in teoria; non lo e', in pratica. V., quindi, S. Holmes - C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perche' la liberta' dipende dalle tasse, il Mulino, Bologna, 2000, e, di recente, G. Bergonzini, I limiti costituzionali quantitativi dell'imposizione fiscale, vol. 1, Jovene, Napoli, 2011, 53 ss., nonche' F. Gallo, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, il Mulino, Bologna, 2007. (9) E' appena il caso di osservare che l'istituto della tesoreria unica fu necessariamente ricondotto all'accentramento. D'altra parte, l'attributo «unica» e' compatibile con il «plurale»? Talvolta, anche l'osservazione banale e' rivelatrice, magari di cio' che il ragionamento alla don Ferrante nasconde. O prova, senza successo, a nascondere. (10) M. Bertolissi, Contribuenti e parassiti in una societa' civile, Jovene, Napoli, 2012. (11) Ineccepibile per chi conosce la crisi del 2008: la sua genesi e i relativi sviluppi. V., ad es., A.R. Sorkin, Too Big To Fail, trad. it., Istituto geografico De Agostini, Novara, 2010, nonche' A. Roncaglia, Economisti che sbagliano. Le radici culturali della crisi, Laterza, Bari, 2010; J.E. Stiglitz, Bancarotta. L'economia globale in caduta libera, Einaudi, Torino, 2010; G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza, Bari, 2005. (12) M. Longo, Europa e Stati Uniti, la grande sfida della super-liquidita', in Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2012. Si tratta di considerazioni discusse quotidianamente: v., sempre nei tempi piu' recenti, ad es., D. Masciandaro, Gli errori inglesi e la via italiana, ivi, 28 febbraio 2012; A. Orioli, Primo passo per crescere. Ora tocca ai debiti dello Stato, ivi, 29 febbraio 2012; B. Quintieri, Dalle banche piu' risorse a chi esporta, ivi, 4 marzo 2012. (13) V., ad es., D. Di Vico, «Le banche non lavorano gratis», in Corriere della Sera, 4 marzo 2012, e M. Mucchetti, La Bce, le banche e la nuova demagogia, ivi. (14) Ecco perche' oggi firmiamo l'avviso comune (di A. Azzi, G. Mussari, C. Fratta Pasini, A. Patuelli e C. Venesio), in Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2012. V., inoltre, G. Gentili, Senza credito non c'e' ripresa, in Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012. (15) G. Muraro, Tesoriere. La protesta e' fondata, in il mattino di Padova, 2 marzo 2012. (16) G. Trovati, Tesoreria unica, versamenti bloccati, in Il Sole 24 Ore, 29 febbraio 2012. (17) In Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012, 15. (18) S. Romano, C'era una volta il federalismo, in Corriere della Sera, 29 febbraio 2012. D'altra parte, v. L. Salvia, Una «cassa» centrale per controlli piu' facili, ivi, 28 febbraio 2012. (19) F. Gallo, L'autonomia tributaria degli enti locali, il Mulino, Bologna, 1979, 21, nota 16. In modo conforme, M. Bertolissi, Lineamenti costituzionali del «federalismo fiscale». Prospettive comparate, Cedam, Padova, 1982. (20) Cfr., rispettivamente, G. Spezzaferri, La prassi dei conti correnti presso la Tesoreria centrale in rapporto all'autonomia finanziaria delle Regioni, in Nuova Rass., 1976, p. 38 e Corte cost., sent. n. 155 del 1977. (21) Cosi' V. Onida, Autonomia finanziaria e controllo sulla «cassa» delle Regioni, in Le Regioni, 1983, p. 194. (22) Cosi' V. Onida, op. ult. cit., p. 192. (23) Cosi' G. Spezzaferri, op ult. cit., p. 40, nota 7. (24) Cfr. U. De Siervo, La Corte si impegna per l'autonomia finanziaria regionale, ma il Tesoro continua ad erogare il mensile alle Regioni, in Giur. cost., 1977, p. 1567. (25) M. Bertolissi, Le «disponibilita'» finanziarie delle Regioni... non sono disponibili, in Le Regioni, 1981, p. 1087. (26) V. Onida, op. cit., p. 198. (27) M. Bertolissi, Riflessioni sulla finanza delle Regioni ordinarie, in Dir. Reg.,1983, p. 899. (28) Cosi' V. Onida, op. cit., pp. 215 e 221. (29) Sintetizzato nelle parole di V. Onida, op. it., pp. 220-221. (30) Per tutti, V. Onida, Autonomia finanziaria e controllo sulla «cassa» delle Regioni, in Le Regioni, 1983, 192 ss. e S. Bartole, La Corte (si) difende (dal)la tesoreria unica facendo appello a precedenti e tests di giudizio, in Le Regioni, 1986, 461 ss. (31) V.M. Bertolissi, Tesoreria unica e finanza derivata: appunti sulla legge n. 720/1984, in Il dir. della Regione, 1984, 467 ss. (32) La citazione e' di S. Bartole, La Corte (si) difende (dal)la tesoreria unica facendo appello a precedenti e tests di giudizio, in Le Regioni, 1986, 513.
P. Q. M. Si chiede che codesto Ecc. mo Collegio voglia: in via cautelare: sospendere l'esecuzione delle disposizioni normative impugnate; nel merito: dichiarare l'illegittimita' costituzionale degli articoli: 1, comma 4: 25, comma 1, lett. a): 35, comma 8, 9, 10, 13; 36, comma 1, lett. a); 66, comma 9, decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitivita')», cosi' come risultanti dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27, in Suppl. ordinario n. 53 alla Gazz. Uff., 24 marzo 2012, n. 71; per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 114, 117, 118, 119, 120 Cost., nonche' del principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, comma 2, Cost., dell'art. 9, comma 2, della legge costituzionale n. 3/2001 e dei parametri interposti di cui alla legge 5 maggio 2009, n. 42 e al d.lgs. n. 85/2010. Si allega: 1) Deliberazione della Giunta della Regione Veneto 7 maggio 2012, n. 773, recante l'autorizzazione alla proposizione del ricorso. Padova-Venezia-Roma, 20 maggio 2012 Avv. prof. Berolissi - avv. Zanon - avv. Palumbo - avv. Manzi