N. 156 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 febbraio 2012
Ordinanza del 13 febbraio 2012 emessa dalla Corte dei conti - sez. centrale d'appello nel procedimento contabile Pisani Giovanni contro INPDAP, Ministero dell'interno e Prefettura di Gorizia. . Previdenza - Trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato - Decreto definitivo di liquidazione della pensione - Revoca o modifica per errore di diritto - Mancata previsione - Irragionevolezza - Ingiustificata diversa disciplina rispetto agli errori di fatto - Lesione del principio della retribuzione (anche differita) proporzionata ed adeguata - Incidenza nella garanzia previdenziale - Violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. - Decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, art. 204. - Costituzione, artt. 3, 36, primo comma, 38, comma secondo, e 97.(GU n.34 del 29-8-2012 )
LA CORTE DEI CONTI Ha pronunciato la seguente ordinanza sull'appello in materia di pensioni proposto avverso la sentenza 24 maggio 2007, n. 328 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Friuli Venezia Giulia Liguria dal sig. Giovanni Pisani, rappresentato e difeso dall'avv. Fabio Lorenzoni, Contro l'Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell'Amministrazione Pubblica (INPDAP), il Ministero dell'interno e la Prefettura di Gorizia. Visto l'atto di appello, iscritto al n. 32150 del registro di segreteria; Esaminati tutti gli altri atti e documenti della causa; Uditi alla pubblica udienza del 28 ottobre 2011, con l'assistenza della segretaria Lucia Bianco, il Giudice relatore, dott. Bruno Tridico, l'avv. Fabio Lorenzoni per l'appellante e la dott.ssa Maria Carmela Viola per l'INPDAP, non costituiti il Ministero dell'interno e la Prefettura di Gorizia. Esposizione del fatto 1. Con decreto del Ministero dell'interno - Prefettura di Gorizia n. 1274 del 27 maggio 1999 veniva riliquidato in senso peggiorativo il trattamento pensionistico ordinario gia' attribuito in via definitiva, con precedente decreto n. 1266 del 4 febbraio 1998, all'appellante sig. Giovanni Pisani, ex dirigente superiore della Polizia di Stato collocato a riposo dal 1° luglio 1995. Il primo decreto, registrato alla Corte dei conti il 3 agosto 1998, liquidava trattamento definitivo di pensione nei seguenti importi: lire 76.740.700 dal 1° luglio 1995; lire 77.099.700 dal 1° novembre 1995; lire 80.114.100 dal 31 dicembre 1995. Con il secondo decreto del 1999, anch'esso registrato alla Corte dei conti in data 22 febbraio 2001, veniva rideterminato il trattamento definitivo di pensione in lire 76.740.700 a vita. Il sig. Pisani, in primo grado, rilevava che l'adozione di quest'ultimo decreto si basava su una nuova e diversa interpretazione dell'art. 4, comma 1, del d.l. 29 giugno 1996, n. 341, convertito in legge 8 agosto 1996, n. 427, in base alla quale l'incremento dell'indennita' pensionabile ivi previsto, per i dirigenti collocati in quiescenza dopo il 1° gennaio 1994, operava fino alla data di cessazione dal servizio, con esclusione quindi di successive riliquidazioni. Pertanto, non contestata la nuova interpretazione normativa accolta dall'Amministrazione, chiedeva al Giudice delle pensioni declaratoria di irripetibilita' delle somme percepite in piu' sulla pensione erogata e l'annullamento del secondo decreto, con riconoscimento quindi anche per il futuro del piu' favorevole trattamento pensionistico gia' liquidato con il decreto del 1998. Cio' in quanto l'art. 204 del T.U. 29 dicembre 1973, n. 1092 ammetterebbe la revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione nei soli casi ivi previsti, tra i quali non sarebbe contemplato l'errore di diritto. 2. La Sezione giurisdizionale per la regione Friuli Venezia Giulia, con l'impugnata sentenza, accoglieva parzialmente il ricorso giurisdizionale, dichiarando irripetibile l'indebito gia' erogato e percepito dall'interessato, ma ritenendo pienamente legittimo il decreto n. 1274 del 1999, adottabile in virtu' del generale potere di annullamento d'ufficio normalmente spettante alla pubblica amministrazione pur in assenza di una specifica norma di legge. 3. Con il proposto appello il sig. Pisani lamenta l'erronea interpretazione dell'art. 204 citato da parte del giudice di prime cure, non ricorrendo alcuna delle ipotesi ivi previste che sole consentono la revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione. Tra queste, afferma l'appellante, non ricorre la fattispecie dell'errore di diritto. Peraltro, si aggiunge, il decreto in contestazione non sarebbe neanche qualificabile come atto di annullamento d'ufficio, posto che riguarda espressamente una "riliquidazione" e non una "liquidazione", ed inoltre non si dice affatto nel corpo del decreto che lo stesso annulla e sostituisce il precedente. Parte appellante richiama anche favorevole giurisprudenza della Corte dei conti a sostegno delle proprie tesi (Sezione seconda giurisdizionale centrale 13 marzo 2001, n. 113; Sezione giurisdizionale Sicilia 17 febbraio 2005, n. 287) e conclude chiedendo la parziale riforma della sentenza impugnata, con l'annullamento del decreto n. 1274 del 1999 e il ripristino del trattamento di quiescenza, di cui al decreto n. 1266 del 1998. 4. Si e' costituito in giudizio l'INPDAP, non contestando il fatto che si verte in ipotesi di errore di diritto e che questo non risulta indicato tra i casi contemplati dal menzionato art. 204. Ha pero' eccepito la piena legittimita' dell'esercizio del generale potere di annullamento d'ufficio, non essendo ammissibile che l'ordinamento giuridico possa far salvo un rapporto illegittimo in modo costante e continuo. L'Istituto ha chiesto, in conclusione, che l'appello venga respinto. 5. All'odierna udienza il difensore di parte appellante e il rappresentante dell'INPDAP hanno ribadito quanto in atti scritti, confermandone i contenuti e le relative conclusioni. La causa e' quindi passata in decisione. Motivi della decisione 1. E' del tutto pacifico, e peraltro non contestato dalle parti, che l'avvenuta riliquidazione del trattamento pensionistico e' derivata da un errore interpretativo dell'art. 4, comma 1, del d.l. 29 giugno 1996, n. 341, convertito in legge 8 agosto 1996, n. 427, e quindi da un errore vizio qualificabile come "errore di diritto". La questione dedotta nel presente grado di giudizio, cosi' come nel precedente svoltosi dinanzi alla Sezione territoriale, concerne la modificabilita' di un provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento di quiescenza nel caso in cui l'Amministrazione incorra in errore di diritto. 2. La disciplina normativa dalla quale muovere ai fini del decidere e' indubbiamente quella recata dagli artt. 203 e ss. del testo unico approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092. Essa trova la sua ragion d'essere nell'esigenza di individuare un punto di equilibrio tra due esigenze contrapposte: da un lato, la necessita', in ossequio ai principi riconducibili all'art. 97 della Costituzione, di porre rimedio a una situazione viziata che ha dato luogo all'erogazione del trattamento di quiescenza in misura difforme da quella dovuta (con conseguente aggravio del pagamento astrattamente indebito sulla generalita' degli iscritti all'ente previdenziale e, in ultima analisi, sulla collettivita'); dall'altro, la tutela del pensionato, il quale destina le prestazioni pensionistiche, sia pure in parte indebite, al soddisfacimento di bisogni alimentari propri e della famiglia. Il quadro normativo in merito si e' sviluppato muovendo da un contesto nel quale la Corte dei conti, pur organo giurisdizionale, provvedeva essa stessa alla liquidazione della pensione. Invero, l'art. 11 della legge 14 agosto 1862, n. 800, intestava alla Corte dei conti le funzioni di liquidazione e giurisdizione in materia di pensioni, e la liquidazione avveniva, dopo il deposito delle conclusioni del Procuratore generale, attraverso una pronuncia collegiale in Camera di consiglio. E' evidente quindi la natura giurisdizionale o quantomeno "paragiurisdizionale" del procedimento di liquidazione, che quindi giustificava una disciplina della revocazione delle deliberazioni adottate (art. 132 del r.d. 5 settembre 1895, n. 603, sostituito dall'art. 24 del Regolamento 7 giugno 1920, n. 835) evocante l'art. 44 della citata legge n. 800 del 1862, il quale elencava i motivi che consentivano, entro il termine di tre anni, il ricorso alla Corte per revocazione (errore di fatto o di calcolo; riscontro di omissione o doppio impiego a seguito dell'esame di altri conti; nuovi documenti rinvenuti dopo la decisione; giudizio pronunziato sopra documenti falsi). Con il trasferimento all'Amministrazione, attuato con l'art. 1 del r.d. 27 giugno 1933, n. 703, delle competenze in materia di liquidazione delle pensioni (e, quindi, con la trasformazione in attivita' amministrativa del relativo procedimento), i motivi di revoca o modifica rimasero sostanzialmente identici. L'art. 9 del menzionato r.d. n. 703 disponeva infatti quanto segue: "...il decreto e' revocato o modificato quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dallo stato di servizio; b) vi sia stato errore nel computo del servizio o nel calcolo del prezzo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennita' o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare delle pensioni, assegni o indennita'; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del decreto; d) la liquidazione sia stata effettuata o il decreto emesso sopra documenti falsi". Non era compreso quindi l'errore di diritto, e cio' costituiva, ad avviso di questa Sezione, grave lacuna, posto che tale attivita' veniva ora svolta non piu' da un organo giurisdizionale, ma dall'Amministrazione. Tale omissione si e' poi trasferita nell'art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 (con formulazione pressoche' identica all'art. 9 sopra riportato), il quale prevede i casi, pacificamente ritenuti tassativi e non meramente esemplificativi, di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione, da attuarsi entro i termini ben definiti di cui all'art. 205, mentre l'art. 206 tutela comunque la posizione del percettore di ratei non dovuti, sancendone l'irripetibilita', salvo il fatto doloso dell'interessato. Segnatamente, ai sensi dell'art. 204, l'ufficio puo' procedere a revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione quando: "a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennita' o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennita'; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi". Non e' quindi contemplato, tra i casi per i quali l'Amministrazione puo' intervenire sul provvedimento definitivo di pensione, l'errore di diritto. 3. Gia' parte della giurisprudenza della Corte (Sezione terza giurisdizionale centrale d'appello 23 marzo 2009, n. 115; Sezione giurisdizionale Lazio 25 marzo 2011, n. 505) ha riconosciuto all'Amministrazione il potere di annullamento d'ufficio dell'atto qualora l'illegittimita' sia rilevata dalla Corte dei conti nell'esercizio del controllo successivo ex art. 106 della legge 11 luglio 1980, n. 312; sicche' la modifica, attraverso il nuovo provvedimento di liquidazione, costituisce nei fatti l'adeguamento alle censure dell'organo di controllo. Diversamente, il controllo consisterebbe in un mero flatus vocis e non avrebbe avuto alcun significato la sua conferma, da parte del legislatore, pur se trasformato da preventivo in successivo. Si nega, pertanto, carattere di definitivita' al provvedimento non ancora assoggettato a controllo successivo. La questione sulla correttezza o meno di tale interpretazione non si pone nel presente giudizio, posto che la fattispecie concreta - all'esame di questo Giudice - si differenzia da quella appena esposta poiche' il provvedimento poi modificato (cosi' come, peraltro, anche il secondo provvedimento di riliquidazione) aveva superato positivamente il vaglio della Corte dei conti in sede di controllo. 4. Se il quadro che emerge dalla giurisprudenza delle Sezioni di primo grado risulta alquanto variegato (talune riconoscono il potere di modifica, in virtu' del generale potere di annullamento d'ufficio; altre, al contrario, negano la modificabilita' del provvedimento definitivo in presenza di errore di diritto), le Sezioni d'appello ritengono uniformemente che il provvedimento definitivo di pensione sia sottratto al normale regime di annullamento (cfr. questa Sezione, sentenza 5 maggio 2003, n. 189, 3 ottobre 2008, n. 299, e, piu' di recente: Sezione giurisdizionale d'appello per la regione Sicilia 3 ottobre 2011, n. 267, 29 aprile 2011, n. 117, 12 luglio 2010, n. 177; Sezione seconda giurisdizionale centrale d'appello 8 aprile 2011, n. 176,) in virtu' del principio di prevalenza dell'interesse alla stabilita' e certezza del rapporto pensionistico. In particolare, poi, le Sezioni riunite della Corte dei conti, con la recentissima sentenza 21 novembre 2011, n. 15, nell'esercizio della funzione nomofilattica loro attribuita e potenziata dall'art. 1, comma settimo, del d.l. 15 novembre 1993, n. 453 (novellato dall'art. 42, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69), si sono pronunciate sul tema, sia pure per l'analoga disciplina pensionistica di guerra. Piu' precisamente, nel negare, in materia di pensioni di guerra, l'esistenza di un generale potere di annullamento d'ufficio, in via di autotutela, di provvedimenti viziati da errori di diritto, le SS.RR. hanno qualificato, in via incidentale per le pensioni ordinarie, «disciplina speciale dei casi di annullamento d'ufficio di atti illegittimi, diversa e alternativa rispetto ai principi di carattere generale definiti dalla giurisprudenza», quella che si rinviene nel d.P.R. n. 1092 del 1973, rimarcando il piu' accentuato favor legislativo per il pensionato civile. Le Sezioni riunite hanno quindi escluso l'applicabilita', per le pensioni di guerra e le pensioni ordinarie, dei principi e norme di carattere «generale» in materia di annullamento d'ufficio di atti amministrativi illegittimi (art. 1, comma 136, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, aggiunto dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15). Inoltre, la Corte costituzionale ha gia' dichiarato non fondata la questio legitimatis dei sopra menzionati artt. 203, 204 e 205 d.P.R. n. 1092 del 1973, ritenuti compatibili con gli artt. 3, 36 e 76 della Costituzione (sentenza 3 aprile 1984, n. 91). 5. Nondimeno, questa Sezione Ritiene di dover sollevare nuovamente d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, dell'art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, per contrasto con gli artt. 3, 36 primo comma, 38 secondo comma e 97 della Costituzione nella parte in cui non dispone la revoca o modifica anche nel caso di «errore di diritto». 5.1. La questione presenta il carattere della rilevanza ai fini del decidere in quanto la mancata previsione dell'errore di diritto, nel novero dei motivi di cui all'art. 204 citato, determinerebbe nella specie l'illegittimita' del decreto del Ministero dell'interno - Prefettura di Gorizia n. 1274 del 27 maggio 1999, di riliquidazione in senso peggiorativo del trattamento pensionistico ordinario, con l'accoglimento dell'appello proposto e conseguente ripristino del trattamento pensionistico nella misura originaria. 5.2. La questione e' anche non manifestamente infondata per le ragioni che seguono. Ovviamente costituisce dovere di questo Giudice, prima di sollevare la questione, valutare se sia possibile pervenire a un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma sospettata di incostituzionalita'. Invero, la palese, ad avviso di questa Sezione, disparita' di trattamento tra la disciplina dell'errore di fatto o di calcolo (che ammettono la modifica) e quella dell'errore di diritto (che la esclude) indurrebbe a interpretare l'elenco di cui all'art. 204 come avente carattere non tassativo. Cio' anche in considerazione del fatto che l'elencazione non comprende casi ben piu' gravi e per i quali sembrerebbe piu' pressante e assolutamente doveroso l'intervento correttivo dell'Amministrazione in autotutela, come nell'ipotesi di illecito penalmente rilevante del funzionario infedele che, senza che vi siano documenti falsi (nel qual caso ricorrerebbe l'espressa previsione di cui alla lettera d) della norma) incrementi con artifici contabili o in qualsiasi altro modo l'importo del trattamento erogato. L'effetto dell'interpretazione ora accolta dalla giurisprudenza sarebbe quello di impedire comunque, anche in questi casi, l'eliminazione del provvedimento viziato (non versandosi in alcuna delle ipotesi previste dall'art. 204) e di cristallizzare un trattamento di quiescenza maggiorato, peraltro attraverso una condotta costituente reato, rispetto al dovuto. Ancora, identica conseguenza avrebbe il riconoscimento di somme in misura di gran lunga superiori a quelle spettanti, la cui sproporzione sarebbe agevolmente riconoscibile dal percipiente; con esclusione, quindi, della sua buona fede (essendo questi consapevole che l'amministrazione non ha correttamente applicato una norma giuridica o ha disatteso una circolare o direttiva interna nel quantificare l'importo da corrispondere). Se inquadrate nell'errore di diritto, ovvero se neanche riconducibili a un «errore» (perche', ad esempio, v'e' piena volonta' e consapevolezza di erogare somme in misura superiore al dovuto), non vi sarebbe possibilita' di intervenire sul provvedimento oramai adottato. Peraltro, la stretta tassativita' sembrerebbe esclusa dalla formulazione dell'art. 206 che espressamente prevede la revoca disposta a seguito dell'accertamento del fatto doloso dell'interessato, ammettendo anche il recupero di quanto gia' corrisposto. E il fatto doloso dell'interessato non risulta elencato tra i motivi ex art. 204, cosi' generando una non trascurabile aporia logico-giuridica. Ma la reductio ad absurdum, esposta al fine di escludere la tassativita' delle ipotesi indicate nell'art. 204 e di ammettere, quindi, la facolta' di revocare o modificare il provvedimento definitivo anche per altri motivi non espressamente indicati nella norma, trova un evidente limite, oltre che nel «diritto vivente» (si rammenta, in proposito, anche la citata sentenza n. 15 del 2011 delle Sezioni riunite), nel tenore letterale della disposizione legislativa, che non consente un'interpretazione adeguatrice, come dimostra anche la sentenza n. 91 del 1984 della Corte costituzionale. Questa Sezione ritiene, quindi, che l'art. 204 non possa non essere interpretato come recante un elenco tassativo di motivi che, soli, consentono la modifica o la revoca del provvedimento definitivo. Stante la specialita' della disciplina, al di fuori dei casi ivi indicati, tale atto amministrativo, pur se illegittimo (e anche se posto in essere in esecuzione di una condotta penalmente rilevante), non e' annullabile d'ufficio in applicazione dell'art. 1 comma 136 della legge n. 311 del 2004, ne' opera la generale previsione di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990. 6. Considerato che la ratio della limitazione della revoca o modifica ai soli casi indicati nel piu' volte citato art. 204 e' quella di limitare l'esercizio del diritto dell'Amministrazione ad intervenire su un provvedimento, qualificato come «definitivo», che definisce il quantum da erogare al pensionato, non si comprende il motivo per il quale la limitazione sia operante per l'errore di fatto e non per l'errore di diritto, cosi' risultando premiante, senza una ragionevole giustificazione ed in apparente violazione delle regole della logica di una situazione che, al contrario, sembrerebbe meno meritevole di tutela giuridica. Al riguardo, questo Giudice ritiene che, se l'ordinamento prevede un rimedio ad un provvedimento nell'adozione del quale l'Amministrazione ha percepito erroneamente un dato di fatto della realta' ovvero ha errato nel calcolo del trattamento spettante, a fortiori dovrebbe essere previsto un analogo rimedio nel caso l'errore cada sulla norma giuridica da applicare o sulla sua interpretazione, posto che costituisce valore precipuo dell'ordinamento giuridico un'azione amministrativa non solo non erronea e conforme al canone del buon andamento (art. 97 Cost.) ma anche, e soprattutto, conforme a legge. La tutela del pensionato sembrerebbe gia' sufficientemente assicurata dalla prevista irripetibilita' delle somme indebitamente percepite, nei termini sanciti dall'art. 206 del d.P.R. n. 1092 del 1973. Ma la questione del recupero di somme oramai erogate e utilizzate per il soddisfacimento dei bisogni propri e della famiglia e' cosa ben diversa dall'irrevocabilita', per il futuro, di una somma illegittimamente riconosciuta ma ancora non percepita. Le situazioni comparate, dell'errore di fatto e di diritto, sembrano richiedere uniforme disciplina anche alla luce dell'entrata in vigore dell'art. 166 della legge 11 luglio 1980, n. 312, il quale dispone che «I decreti di cui al titolo II, parte II, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, e successive modificazioni ed integrazioni, acquistano immediata efficacia ai fini della corresponsione delle prestazioni dovute; i decreti concessivi sono, trasmessi alla Corte dei conti per il riscontro in via successiva». Invero, venuto meno il controllo preventivo della Corte dei conti sui provvedimenti definitivi di pensione - e, quindi, la verifica anticipata dell'atto, da parte di un organo magistratuale, prima che questo possa produrre effetti - sembra venuto meno anche ogni motivo residuale per l'assimilazione dell'istituto della revoca, prevista dall'art. 204, al rimedio della revocazione delle decisioni e delle sentenze emesse in sede giurisdizionale, come si desume dal confronto degli artt. 204 e 205 del d.P.R. n. 1092 del 1973 con le disposizioni del sopra menzionato r.d. n. 703 del 1933, dell'art. 68 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 e dell'art. 395 c.p.c. (in terminis, Sezione controllo Stato di questa Corte, n. 1707 del 27 novembre 1986). E' evidente che, per una sentenza oggetto di revocazione, non ha senso parlare di errore di diritto, poiche' la sede propria per dedurre tali errori e' proprio quella dei vari gradi di giudizio, sicche' con la revocazione non si possono reintrodurre tematiche proprie del giudizio gia' svolto, tant'e' che il ricorso per revocazione e' inammissibile qualora si deduca un errore di diritto. Ma cio' non puo' valere per il diverso caso del provvedimento amministrativo, sia pure sui generis e non piu' soggetto (oramai) a controllo preventivo, il quale ben puo' essere affetto da errore di diritto: qualora cio' accada, in disparte e ferma restando l'irripetibilita' delle somme oramai erogate e percepite in buona fede, deve comunque garantirsi all'amministrazione la possibilita' di porre rimedio ai propri errori, specie ove si consideri che cio' e' gia' possibile per gli errori di fatto e di calcolo. Per i suddetti motivi l'art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 appare in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 7. Questo Collegio rimettente ritiene, inoltre, non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del citato art. 204 in riferimento all'art. 97 della Costituzione. La norma infatti impedisce all'Amministrazione di intervenire su un provvedimento illegittimo al fine di eliminare il vizio e di operare la reductio ad legitimitatem, regolando nuovamente il rapporto in maniera conforme a legge. Essa produce quindi l'effetto di consolidare l'intangibilita', de futuro ed in perpetuo, dell'arricchimento del percipiente pur se fondato su un provvedimento viziato da errore di diritto. Tali effetti contrastano, ad avviso di questa Sezione, con il principio di buon andamento e di legalita' dell'azione amministrativa. Gia' la Corte costituzionale aveva affermato, con sentenza 4 dicembre 1968, n. 124, che «la disciplina del trattamento pensionistico non deve esser tale da turbare il buon andamento della pubblica amministrazione». E non pare possa revocarsi in dubbio che la disciplina recata dall'art. 204, nella sua valenza impeditivi di un'azione volta a ripristinare la legittimita' di un atto, rechi «turbamento» al buon andamento e alla legalita' dell'amministrazione. Peraltro, con sentenza 19 luglio 1994, n. 1241, il Consiglio di Stato, per l'analoga materia dell'indennita' di buonuscita, ha riconosciuto che l'art. 30 del t.u. 29 dicembre 1973, n. 1032 (norma di identico tenore all'art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973) - il quale prevede la facolta' della amministrazione del fondo di previdenza di revocare, modificare o rettificare il provvedimento di liquidazione della indennita' di buonuscita entro il termine decadenziale di un anno - non incide in alcun modo sul generale potere di annullamento d'ufficio spettante a tale amministrazione in caso di illegittimita' del provvedimento liquidatorio. 8. Si ravvisa altresi' contrasto del menzionato art. 204 con l'art. 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione. Invero, il trattamento di quiescenza del lavoratore (retribuzione differita), deve essere proporzionato alla quantita' e qualita' del lavoro prestato. Ma l'esclusione dell'errore di diritto tra i motivi che consentono la modifica del provvedimento definitivo di pensione, nel sancire la sostanziale intangibilita' di questo pur se in contrasto con una norma di legge, altera il rapporto con il lavoro prestato, non essendo piu' proporzionale e adeguato a questo. Ne' pare coerente con i principi enunciati dall'art. 1 della legge 8 agosto 1995, n. 335, che, nell'enunciare canoni espressamente qualificati come «principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica», ridefinisce il sistema previdenziale «... definendo i criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici attraverso la commisurazione dei trattamenti alla contribuzione ...» nonche' «... la stabilizzazione della spesa pensionistica nel rapporto con il prodotto interno lordo e lo sviluppo del sistema previdenziale medesimo».
P.Q.M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, e 23, commi secondo, terzo e quarto, della legge 11 marzo 1953, n. 87, Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 204 del T.U. approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, per contrasto con gli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma e 97 della Costituzione nella parte in cui non prevede anche l'errore di diritto tra i motivi che consentono la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza. Ordina che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' alle parti in causa e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Dispone l'immediata trasmissione, a cura della segreteria, della presente ordinanza alla Corte costituzionale, insieme con gli atti e con la prova delle notificazioni e delle comunicazioni, sospendendo il processo sino all'esito del giudizio incidentale di costituzionalita'. Cosi' deciso in Roma, nelle Camere di Consiglio del 28 ottobre 2011 e del 1° febbraio 2012. Il Presidente: De Marco L'estensore: Tridico