N. 230 SENTENZA 8 - 12 ottobre 2012

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Ipotesi di revoca della sentenza  di  condanna  per
  abolizione  del  reato   -   Mancata   inclusione   del   mutamento
  giurisprudenziale determinato da una decisione delle Sezioni  unite
  della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato  non
  e' previsto dalla legge come reato  -  Eccepita  irrilevanza  della
  questione, che configurerebbe una abolitio criminis  dipendente  da
  successioni di leggi nel  tempo,  gia'  rientrante  nell'ambito  di
  operativita' della disposizione censurata - Reiezione. 
- Codice di procedura penale, art. 673. 
- Costituzione, artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27,  terzo  comma,  e
  117, primo comma; CEDU, artt. 5, 6 e 7. 
Processo penale - Ipotesi di revoca della sentenza  di  condanna  per
  abolizione  del  reato   -   Mancata   inclusione   del   mutamento
  giurisprudenziale determinato da una decisione delle Sezioni  unite
  della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato  non
  e' previsto dalla legge come reato - Eccepita inammissibilita'  per
  l'omessa verifica, da parte del rimettente, che la  condotta  possa
  integrare altra fattispecie criminosa - Reiezione. 
- Codice di procedura penale, art. 673. 
- Costituzione, artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27,  terzo  comma,  e
  117, primo comma; CEDU, artt. 5, 6 e 7. 
Processo penale - Ipotesi di revoca della sentenza  di  condanna  per
  abolizione  del  reato  -   Mancata   inclusione   del   "mutamento
  giurisprudenziale" determinato da una decisione delle Sezioni unite
  della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato  non
  e' previsto dalla  legge  come  reato  -  Asserita  violazione  del
  vincolo di osservanza degli obblighi internazionali, per  contrasto
  con la Cedu - Asserita  lesione  del  principio  di  eguaglianza  e
  irragionevolezza - Asserita lesione del principio di retroattivita'
  della norma penale piu' favorevole - Insussistenza - Non fondatezza
  della questione. 
- Codice di procedura penale, art. 673. 
- Costituzione, artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27,  terzo  comma,  e
  117, primo comma; CEDU, artt. 5, 6 e 7. 
(GU n.41 del 17-10-2012 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alfonso QUARANTA; 
Giudici :Franco GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,
  Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 673 del
codice di procedura penale, promosso  dal  Tribunale  di  Torino  nel
procedimento di  esecuzione  nei  confronti  di  D.M.  con  ordinanza
depositata il 21 luglio 2011, iscritta al n. 3 del registro ordinanze
2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  5,
prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 23  maggio  2012  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 21 luglio 2011, il  Tribunale  di
Torino,  in  composizione  monocratica,  ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale dell'articolo 673 del codice di procedura
penale, «nella parte in cui non prevede  l'ipotesi  di  revoca  della
sentenza di condanna (o di decreto penale di condanna o  di  sentenza
di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti) in caso
di mutamento giurisprudenziale  -  intervenuto  con  decisione  delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione - in base al quale  il  fatto
giudicato non e' previsto dalla legge penale come  reato»,  deducendo
la violazione degli articoli 3, 13, 25, secondo comma,  e  27,  terzo
comma, della Costituzione, nonche' dell'art. 117, primo comma, Cost.,
in  relazione  agli  artt.  5,  6  e  7  della  Convenzione  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con
legge 4 agosto 1955, n. 848 (d'ora in avanti: «CEDU»). 
    Il  rimettente  e'   chiamato   a   provvedere,   quale   giudice
dell'esecuzione,  sull'istanza  del  pubblico  ministero  di   revoca
parziale, ai sensi dell'art. 673 cod. proc. pen., della  sentenza  di
applicazione della pena su richiesta delle parti, emessa il 9  luglio
2010 dal Tribunale di Torino nei confronti di  una  persona  nata  in
Mali e divenuta  irrevocabile  il  9  marzo  2011,  a  seguito  della
dichiarazione di inammissibilita' del ricorso per cassazione proposto
contro di essa dall'imputato. L'istanza di revoca e' limitata al solo
capo  di  imputazione  concernente  la  contravvenzione   di   omessa
esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno,  prevista
dall'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.  286
(Testo   unico   delle   disposizioni   concernenti   la   disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). 
    Il giudice a quo osserva come, a seguito della modifica di  detta
disposizione ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni
in materia di sicurezza pubblica), sia sorta questione in ordine alla
perdurante applicabilita' o meno  della  fattispecie  agli  stranieri
irregolarmente presenti nel territorio dello Stato (non provvisti, in
quanto tali, del permesso di soggiorno): interrogativo  al  quale  la
Corte di cassazione, nelle sue prime decisioni, adottate  da  sezioni
singole, ha  risposto  in  senso  affermativo.  Con  la  sentenza  24
febbraio 2011-27 aprile  2011,  n.  16453,  le  Sezioni  unite  hanno
accolto, tuttavia, la soluzione opposta, ritenendo - sulla base di un
ampio iter argomentativo  -  che  il  precetto  penale  si  indirizzi
attualmente ai  soli  stranieri  regolarmente  soggiornanti:  con  la
conseguenza che la novella legislativa del  2009  avrebbe  comportato
una parziale abolitio criminis, abrogando  la  fattispecie  criminosa
preesistente nella parte in cui  si  prestava  a  colpire  anche  gli
stranieri in posizione irregolare. In  tal  modo,  le  Sezioni  unite
della  Corte  di  cassazione   avrebbero   quindi   determinato   «un
significativo revirement giurisprudenziale». 
    Il giudice a quo rileva, tuttavia, come il caso sottoposto al suo
esame  non   risulti   «perfettamente   riconducibile   al   fenomeno
dell'abolitio criminis». Il fatto giudicato con la sentenza della cui
revoca si discute e' stato, infatti, commesso in  data  successiva  a
quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 (segnatamente,
l'11 giugno 2010) e,  dunque,  in  un  momento  nel  quale  la  norma
incriminatrice di cui all'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998
risultava  gia'  formulata  nei  termini  attuali.  Non  si  sarebbe,
pertanto, di fronte ad un fenomeno di successione nel tempo di  leggi
(intese come «fonti formali»), ma ad una  successione  nel  tempo  di
diverse  interpretazioni  giurisprudenziali  della  medesima   «fonte
formale»: in altri termini, il pubblico ministero avrebbe sollecitato
la revoca parziale della sentenza a fronte di una  abolitio  criminis
conseguente,  non  gia'  ad  un  intervento  legislativo,  ma  ad  un
mutamento di giurisprudenza. 
    L'art.  673  cod.   proc.   pen.   non   prende,   tuttavia,   in
considerazione tale fattispecie, prevedendo la revoca della  sentenza
di condanna passata in giudicato nei soli casi di  abrogazione  e  di
dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale   della    norma
incriminatrice; ne', d'altra parte, sarebbe  possibile  estendere  in
via analogica la disposizione censurata all'ipotesi in  questione,  a
causa della natura eccezionale dei poteri di intervento in executivis
sulla pronuncia del giudice della cognizione.  La  giurisprudenza  di
legittimita' risulta, del resto, ferma nel negare che l'art. 673 cod.
proc. pen. possa trovare applicazione in  presenza  di  un  mutamento
giurisprudenziale che escluda la rilevanza penale di fatti analoghi a
quello gia' giudicato,  non  costituendo  detto  mutamento  uno  «ius
superveniens», neppure ove consegua a  una  pronuncia  delle  Sezioni
unite della Corte di cassazione. 
    Il  giudice  a   quo   dubita,   tuttavia,   della   legittimita'
costituzionale di tale «approdo», evidenziando come, con  riferimento
tanto al cosiddetto «giudicato esecutivo» (correlato alla preclusione
prevista  dall'art.  666,  comma  2,  cod.  proc.  pen.),  quanto  al
cosiddetto  «giudicato  cautelare»   (istituto   elaborato   in   via
giurisprudenziale), la Corte di  cassazione  -  dopo  aver  affermato
principi  analoghi  a  quelli  enunciati  in  relazione  alla   norma
censurata - abbia recentemente modificato  il  proprio  orientamento,
riconoscendo    la    rilevanza    dei     sopravvenuti     mutamenti
giurisprudenziali  al  fine   del   superamento   delle   preclusioni
processuali connesse agli anzidetti istituti. 
    Gli argomenti addotti a sostegno  di  tale  diverso  indirizzo  -
legati,  per  un  verso,  al  necessario  rispetto  dei  principi  di
eguaglianza  e  di  retroattivita'  dei  trattamenti  punitivi   piu'
favorevoli, «anche in un'ottica europea», e, per  altro  verso,  alla
funzione  nomofilattica  esercitata  dalle  Sezioni   unite   -   non
potrebbero non valere anche con riguardo alla revoca  delle  sentenze
passate in giudicato,  a  fronte  di  un  sopravvenuto  mutamento  di
giurisprudenza con il quale si affermi che un determinato  fatto  non
e' previsto dalla legge come reato. 
    In questa prospettiva, il giudice  a  quo  reputa  che  la  norma
censurata violi, anzitutto, l'art. 117, primo comma, Cost., ponendosi
in contrasto sia con l'art. 7 che con gli artt. 5 e 6 della CEDU. 
    Premesso che - per giurisprudenza costituzionale ormai costante -
le norme della CEDU, nel  significato  loro  attribuito  dalla  Corte
europea dei diritti dell'uomo, integrano, quali  «norme  interposte»,
il parametro costituzionale evocato, nella parte  in  cui  impone  la
conformazione della legislazione interna ai vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali, il rimettente reputa pienamente  conferenti,
agli odierni fini, le considerazioni svolte dalle Sezioni unite della
Corte di cassazione nella sentenza 21 gennaio 2010-13 maggio 2010, n.
18288, a proposito del cosiddetto «giudicato esecutivo». 
    Si rileva in  questa  sentenza  che  l'art.  7  della  CEDU,  pur
enunciando formalmente il solo divieto  di  applicazione  retroattiva
della norma penale a svantaggio dell'imputato, e' stato  interpretato
dalla Corte europea come espressivo del piu'  generale  principio  di
legalita'  in  materia  penale,  nelle  sue  diverse   manifestazioni
(determinatezza della fattispecie incriminatrice, divieto di analogia
in malam partem). La  portata  della  norma  convenzionale  e'  stata
estesa, altresi', sino a comprendervi il principio - implicito  -  di
retroattivita' della legge penale  meno  severa  (Corte  europea  dei
diritti  dell'uomo,  Grande  Camera,  sentenza  17  settembre   2009,
Scoppola contro Italia): principio che, d'altra parte - per reiterata
affermazione della Corte di giustizia  dell'Unione  europea  -  trova
riconoscimento anche nel diritto dell'Unione, in quanto  appartenente
alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. 
    Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha  costantemente  inteso
il principio di legalita'  in  materia  penale  come  riferibile  non
soltanto al diritto di produzione legislativa, ma anche a  quello  di
derivazione  giurisprudenziale,  riconoscendo  al  giudice  un  ruolo
fondamentale  nell'individuazione  dell'esatta  portata  della  norma
penale. Tale lettura "allargata" del concetto di «legalita'  penale»,
se pure pungolata dall'esigenza di  tenere  conto  delle  particolari
caratteristiche degli ordinamenti di common law, e'  stata  ritenuta,
comunque, valevole anche negli ordinamenti di civil law.  In  recenti
pronunce concernenti proprio l'ordinamento italiano, la Corte europea
ha, infatti, rimarcato come, in ragione del carattere generale  delle
leggi, il loro testo non possa presentare una precisione  assoluta  e
debba servirsi di formule piu' o  meno  vaghe,  la  cui  applicazione
dipende  dalla  pratica,  con  la  conseguenza  che   «in   qualsiasi
ordinamento giuridico, per quanto chiaro possa essere il testo di una
disposizione   di   legge,   anche   in   materia   penale,    esiste
inevitabilmente un elemento di interpretazione giudiziaria»: essendo,
del resto, «solidamente stabilito nella  tradizione  giuridica  degli
Stati  parte  della   Convenzione   che   la   giurisprudenza   [...]
contribuisce necessariamente all'evoluzione progressiva  del  diritto
penale» (Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  17  settembre  2009,
Scoppola contro Italia, e 8 dicembre 2009, Previti contro Italia). 
    Su tale premessa la Corte di Strasburgo ha ravvisato, quindi,  la
violazione del diritto  alla  liberta'  e  alla  sicurezza,  tutelato
dall'art. 5 della  CEDU,  nel  caso  di  tardiva  liberazione  di  un
detenuto, al quale solo  con  notevole  ritardo  era  stato  concesso
l'indulto,  a  causa   di   dubbi   interpretativi   circa   la   sua
applicabilita'  (sentenza  10  luglio  2003,  Grava  contro  Italia);
nonche'  la  violazione  del  diritto  all'equo   processo,   sancito
dall'art. 6 della CEDU, nel caso di divergenze profonde e persistenti
nella giurisprudenza della Corte di  cassazione  sull'interpretazione
di una determinata disposizione legislativa, senza alcuna  previsione
di strumenti idonei a  rimediare  alle  eventuali  ricadute  negative
(sentenza 2 luglio 2009, Iordan Iordanov contro Bulgaria). 
    Particolarmente  significative,  in  ordine  alla  rilevanza   da
attribuire al cosiddetto «diritto giurisprudenziale», risulterebbero,
altresi', le pronunce della Corte di  giustizia  che  hanno  ritenuto
applicabile  il  principio  di  irretroattivita'  anche  alla   nuova
interpretazione in senso sfavorevole di una norma sanzionatoria,  ove
detta interpretazione non risultasse ragionevolmente prevedibile  nel
momento  della  commissione  dell'infrazione  (Corte  di   giustizia,
sentenza 8 febbraio 2007, ricorso  C-3/06  P,  Groupe  Danone  contro
Commissione). 
    In questo quadro, ove non si considerasse l'ipotesi del mutamento
giurisprudenziale alla luce dell'art. 7 della CEDU, si  rischierebbe,
da un lato, «di depotenziare la portata di quella  norma  (e  la  sua
funzione garantista)» e, dall'altro, di porre il  nostro  ordinamento
in contrasto anche con i principi ricavabili dagli artt. 5 e 6  della
CEDU. 
    Tale conclusione  si  imporrebbe  non  soltanto  in  rapporto  ai
mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli agli imputati -  riguardo  ai
quali viene in rilievo il valore  della  «prevedibilita'»  dell'esito
interpretativo - ma anche in relazione ai mutamenti giurisprudenziali
favorevoli, che chiamerebbero in gioco il principio di retroattivita'
del trattamento  penale  piu'  mite.  Negando  ogni  rilievo  a  tali
mutamenti, l'art. 673 cod. proc. pen. violerebbe,  dunque,  l'art.  7
della CEDU e, con esso, l'art. 117, primo comma, Cost.: in tal  modo,
infatti, una  persona  potrebbe  essere  privata  della  liberta'  (o
esposta ad una ulteriore privazione di essa) in relazione ad un fatto
che, reputato in origine penalmente illecito, non e' piu' considerato
tale, successivamente alla condanna definitiva, dalla  giurisprudenza
«che si consolida nel diritto vivente». 
    L'auspicato  intervento  della  Corte  costituzionale,  volto   a
rendere compatibile l'art. 673 cod. proc. pen.  con  l'art.  7  della
CEDU, si porrebbe, d'altra parte, «in linea di assoluta coerenza» con
altri principi costituzionali, che l'attuale formulazione della norma
denunciata rischierebbe parimenti di ledere. 
    Lo stesso legislatore ordinario assegna, in effetti, un «ruolo di
preminenza» alla  giurisprudenza  di  legittimita',  in  funzione  di
orientamento  della  giurisprudenza   successiva,   oltre   che   dei
comportamenti dei consociati. L'art. 65 del regio decreto 30  gennaio
1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario) individua, infatti, nella Corte
di cassazione  «l'organo  supremo  della  giustizia»,  incaricato  di
«assicura[re] l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione  della
legge, l'unita'  del  diritto  oggettivo  nazionale».  Plurime  norme
processuali - in particolare, quelle degli artt. 610, comma 2, e 618,
comma 1, cod. proc. pen. e dell'art. 172 disp. att. cod. proc. pen. -
attribuiscono, poi, una «posizione di  particolare  preminenza»  alle
Sezioni unite della Corte di  cassazione,  cui  vengono  assegnati  i
ricorsi quando le questioni trattate sono di  speciale  importanza  o
quando occorre dirimere contrasti  insorti  tra  le  decisioni  delle
singole sezioni. 
    Anche  la   giurisprudenza   costituzionale   riconoscerebbe   un
«decisivo rilievo» al «diritto vivente», specie se «cristallizzato» a
seguito di interventi delle  Sezioni  unite,  al  punto  da  reputare
inammissibili le questioni di legittimita'  costituzionale  sollevate
da ordinanze che lo trascurino. 
    La funzione nomofilattica attribuita dall'ordinamento alla  Corte
di cassazione - e alle Sezioni unite in  particolare  -  riposerebbe,
d'altra parte, su esigenze di rilievo costituzionale, quali quelle di
assicurare l'uguaglianza dei cittadini davanti  alla  legge  (art.  3
Cost.) e di consentire ai  consociati  di  prevedere  le  conseguenze
giuridiche dei propri atti, cosi' da poter operare consapevoli scelte
di azione (artt. 25 e 27 Cost.). 
    Dovendosi, dunque, presupporre che  le  decisioni  successive  si
conformino  «tendenzialmente»  al  «diritto   vivente»,   la   scelta
legislativa di continuare a punire - non  revocando  la  sentenza  di
condanna - chi abbia tenuto un comportamento che, secondo il «diritto
vivente sopravvenuto»,  originato  da  una  decisione  delle  Sezioni
unite, non e' piu' previsto dalla legge come  reato,  si  paleserebbe
manifestamente  irragionevole.  Essa  verrebbe  a  ledere  tanto   il
principio «di (tendenziale)  retroattivita'  della  normativa  penale
piu' favorevole», desumibile dagli  artt.  3  e  25,  secondo  comma,
Cost.; quanto il principio  di  eguaglianza  (art.  3,  primo  comma,
Cost.), originando il rischio  che  persone  che  hanno  commesso  il
medesimo  fatto  vengano  trattate  in  modo  diverso  per  evenienze
puramente casuali e, comunque, non riconducibili a loro scelte (quale
il semplice ordine di trattazione dei processi). 
    La soluzione legislativa censurata violerebbe,  altresi',  l'art.
13 Cost., venendo a privilegiare «ragioni di tutela dell'ordinamento»
- in  specie,  quelle  di  certezza  del  diritto  e  di  tendenziale
stabilita' delle decisioni - rispetto a «precise esigenze di liberta'
della persona». 
    Nell'ipotesi di cui si discute, inoltre, l'esecuzione della  pena
non svolgerebbe piu' alcuna funzione ne' sul piano della retribuzione
o della prevenzione (sia essa generale o speciale)  -  non  essendovi
alcuna ragione perche' tali funzioni si esplichino in rapporto  a  un
comportamento che,  secondo  il  diritto  vivente  sopravvenuto,  non
costituisce reato - ne' sul piano della rieducazione del  condannato,
in  quanto  il  fatto  commesso,  alla   luce   del   nuovo   assetto
giurisprudenziale  che  ne   esclude   la   rilevanza   penale,   non
richiederebbe piu' alcuna attivita' rieducativa. Di qui,  dunque,  la
violazione anche dell'art. 27, terzo comma, Cost. 
    Non gioverebbe, d'altra parte, obiettare che l'accoglimento della
questione - attribuendo un ruolo «para-normativo» alle pronunce della
Corte di cassazione - rischierebbe di «ingessare» la giurisprudenza e
di inibire, cosi', la funzione evolutiva  che  essa  storicamente  ha
sempre avuto nel nostro ordinamento, «imponendo una deviazione  della
nostra tradizione giuridica di civil law [verso] quella propria degli
ordinamenti di common law». 
    L'obiezione non sarebbe in  effetti  persuasiva,  specie  ove  si
tenga  conto  dei   limiti   dell'intervento   richiesto   (volto   a
valorizzare,  non  qualsiasi  mutamento  giurisprudenziale,  ma  solo
quelli conseguenti a pronunce delle Sezioni  unite  e  che  affermino
l'irrilevanza penale di un  certo  fatto),  nonche'  dei  valori  che
vengono in rilievo (il favor rei, in una prospettiva di tutela  della
liberta' personale). In ogni caso,  anche  in  esito  alla  pronuncia
invocata,   resterebbero   possibili   ulteriori   mutamenti    della
giurisprudenza,  anche  in   senso   sfavorevole   all'imputato   (in
particolare, nel senso di ritenere riconducibile ad  una  determinata
ipotesi di reato un fatto gia'  considerato  ad  essa  estraneo).  Un
simile mutamento di giurisprudenza varrebbe, tuttavia,  solo  per  il
processo nel quale la  questione  controversa  e'  stata  discussa  e
assumerebbe un valore orientativo delle successive decisioni  solo  a
partire dalla data di pubblicazione della sentenza che lo esprime. 
    La questione sarebbe, da ultimo, rilevante nel  giudizio  a  quo,
giacche',  nel  caso  di  suo  accoglimento,   diverrebbe   possibile
esaminare la  richiesta  del  pubblico  ministero  -  che  altrimenti
andrebbe respinta - e rideterminare eventualmente la pena inflitta al
condannato. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto
di rilevanza o, in subordine, manifestamente infondata. 
    Ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe priva di
rilevanza, giacche', nel caso sottoposto all'esame del giudice a quo,
si  sarebbe  in  presenza  di  una  abolitio  criminis   legislativa,
conseguente alla modifica dell'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del
1998 attuata dall'art. 1, comma 22, lettera h), della legge n. 94 del
2009. Il giudice rimettente potrebbe,  pertanto,  pronunciarsi  sulla
richiesta a lui rivolta applicando direttamente l'art. 673 cod. proc.
pen.,  senza  alcuna  necessita'  di  sollevare  una   questione   di
legittimita' costituzionale  relativa  alla  mancata  inclusione  dei
mutamenti giurisprudenziali tra le ipotesi prese in considerazione da
detta norma. 
    Nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento. 
    L'art. 673 cod. proc. pen. prevede la revoca  della  sentenza  di
condanna (o del  decreto  penale  di  condanna)  allorche'  la  norma
incriminatrice sia stata abrogata o  dichiarata  incostituzionale  in
epoca  successiva  al  passaggio  in   giudicato.   La   disposizione
richiederebbe presupposti  rigorosi  perche'  significative  sono  le
conseguenze che scaturiscono dalla sua applicazione: il provvedimento
di revoca comporta,  infatti,  la  cessazione  dell'esecuzione  della
sentenza e dei suoi effetti penali. Affinche' un  risultato  di  tale
spessore possa prodursi sarebbe necessaria la  sopravvenienza  di  un
fatto modificativo «radicale», che non solo incida sulla norma che ha
fondato il giudizio di condanna, ma che presenti, altresi' - come nei
casi attualmente previsti dalla disposizione censurata - i  caratteri
della  generalita'  e  della  intrinseca  e  tendenziale  stabilita',
nell'assicurare l'irrilevanza penale di una determinata condotta.  Il
precedente  giurisprudenziale,  per  converso,  fa  stato  solo   nel
procedimento  penale  cui  si  riferisce  e  non   e'   ulteriormente
vincolante, potendo essere contraddetto da una decisione  successiva,
emessa da qualsiasi giudice della Repubblica. 
    Ne'  sarebbe  possibile  pervenire  a  conclusioni  difformi  con
riguardo alle pronunce delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Malgrado l'indubbio  «prestigio»  di  cui  godono  tali  pronunce,  i
principi  di  diritto  da  esse  affermati  restano  suscettibili  di
modifica e di evoluzione, anche su  impulso  delle  sezioni  singole.
Riconoscere una «cosi' straordinaria vis espansiva» alla pronuncia di
legittimita', sia pure delle Sezioni unite, non si concilierebbe  col
criterio di ragionevolezza e produrrebbe,  altresi',  un  effetto  di
«ingessamento»  della  giurisprudenza,  a  torto  sottovalutato   dal
rimettente. 
    Una diversa soluzione non si giustificherebbe neppure sulla  base
delle decisioni della Corte di Strasburgo relative all'art.  7  della
CEDU, cui fa riferimento il giudice a quo,  trattandosi  di  pronunce
che,  pur  valorizzando   l'interpretazione   giurisprudenziale,   la
relegherebbero comunque «ad un ruolo eventuale e sub-legislativo, nel
senso che deve essere comunque la lettura del precetto a  segnare  il
confine tra cio' che e' lecito e cio' che e' sanzionato  penalmente».
In ogni caso, un eventuale diverso indirizzo della Corte europea  dei
diritti   dell'uomo   non   potrebbe   mai   legittimare   interventi
contrastanti  con  l'art.  25   della   nostra   Costituzione,   che,
richiamando sempre e soltanto la  legge  formale,  non  consentirebbe
soluzioni del genere di  quella  auspicata  dal  rimettente.  L'unica
eccezione  sarebbe  rappresentata  dalle  sentenze  della  Corte   di
giustizia che,  interpretando  in  maniera  autoritativa  il  diritto
dell'Unione europea con effetto diretto per gli  Stati  membri  e  le
relative giurisdizioni, incidano sul sistema normativo  impedendo  la
configurabilita'  del  reato.   Solo   in   questo   caso   l'effetto
risulterebbe paragonabile a quello della legge sopravvenuta. 
    Esclusa, con cio', la fondatezza  della  denuncia  di  violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., alla medesima conclusione dovrebbe
pervenirsi anche in  rapporto  agli  altri  parametri  costituzionali
evocati dal giudice a quo. 
    Quanto  all'art.  3  Cost.,  nessuna  lesione  del  principio  di
eguaglianza potrebbe scorgersi in presenza di un mutamento  -  sempre
reversibile - degli orientamenti giurisprudenziali. 
    Con riguardo all'art. 13 Cost., le «precise esigenze di  liberta'
della   persona»,   richiamate    nell'ordinanza    di    rimessione,
costituirebbero   «un   concetto   vago   e   fumoso,   difficilmente
conciliabile con i profili esclusivamente tecnici della questione». 
    In ordine, poi, all'art. 25, secondo comma, Cost., non pertinente
sarebbe il richiamo del giudice a quo al «principio di  (tendenziale)
retroattivita' della normativa penale piu'  favorevole»,  trattandosi
di principio non  costituzionalizzato,  diversamente  da  quello  che
vieta  la  condanna  in  forza  di  una  legge  entrata   in   vigore
successivamente alla commissione del fatto. Cio', fermo restando  che
entrambi i principi si riferiscono comunque alla legge,  e  non  gia'
all'interpretazione che di essa venga data dai giudici. 
    Da  ultimo,  non  sarebbe  neppure  configurabile   una   lesione
dell'art. 27, terzo comma, Cost. La finalita' rieducativa della  pena
andrebbe, infatti, sempre  riconosciuta  a  fronte  di  condotte  che
mantengano la loro  rilevanza  penale,  almeno  fino  a  quando  tale
rilevanza non venga  esclusa  da  una  legge  abrogatrice  o  da  una
pronuncia della Corte costituzionale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il   Tribunale   di   Torino   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'articolo 673  del  codice  di  procedura  penale,
nella parte in cui non  include,  tra  le  ipotesi  di  revoca  della
sentenza di condanna (nonche' del decreto penale e della sentenza  di
applicazione  della  pena  su  richiesta  delle  parti),   anche   il
«mutamento giurisprudenziale», determinato  da  una  decisione  delle
Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al  quale  il  fatto
giudicato non e' previsto dalla legge come reato. 
    Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata  violerebbe,  per
questo verso, l'art. 117, primo comma, della Costituzione,  ponendosi
in contrasto con l'art. 7 della Convenzione per la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (d'ora  in  avanti:
«CEDU»): disposizione che - secondo  l'interpretazione  datane  dalla
Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  -  da  un   lato,   sancisce
implicitamente anche il principio di retroattivita'  dei  trattamenti
penali  piu'  favorevoli  e,  dall'altro,  ingloba  nel  concetto  di
«legalita'» in materia penale  non  solo  il  diritto  di  produzione
legislativa, ma anche quello di  derivazione  giurisprudenziale;  con
conseguente possibile lesione anche degli artt. 5 e 6 della CEDU, che
tutelano, rispettivamente, il diritto alla liberta' e alla  sicurezza
e il diritto all'equo processo. 
    La norma denunciata violerebbe, altresi', l'art. 3 Cost. A fronte
dell'esplicita valorizzazione,  da  parte  dello  stesso  legislatore
ordinario, della funzione nomofilattica  della  Corte  di  cassazione
(art.  65  del  regio  decreto  30  gennaio  1941,  n.  12,   recante
l'«Ordinamento giudiziario») e particolarmente di quella svolta dalle
Sezioni unite di detta Corte (artt. 610, comma 1,  e  618,  comma  1,
cod. proc. pen.; art. 172 disp. att. cod. proc. pen.), la  scelta  di
continuare a punire l'autore di un fatto  che,  secondo  il  «diritto
vivente sopravvenuto», ricostruito con decisione resa  dalle  Sezioni
unite, non e' piu' previsto  dalla  legge  come  reato,  risulterebbe
manifestamente irragionevole e lesiva del principio  di  eguaglianza.
In tal modo, persone che hanno commesso fatti identici rischierebbero
di essere trattate in modo radicalmente differenziato  per  evenienze
puramente casuali,  quale  il  semplice  ordine  di  trattazione  dei
processi. 
    La  soluzione  normativa  censurata  si  porrebbe,  altresi',  in
contrasto «con il principio  di  (tendenziale)  retroattivita'  della
normativa penale piu' favorevole», desumibile dagli  artt.  3  e  25,
secondo  comma,  Cost.,  e  violerebbe   anche   l'art.   13   Cost.,
privilegiando ragioni di «tutela dell'ordinamento» - quali quelle  di
certezza del diritto e di stabilita' delle  decisioni  -  rispetto  a
«precise esigenze di liberta' della persona». 
    Risulterebbe  leso,  infine,  l'art.  27,  terzo  comma,   Cost.,
giacche',   nell'ipotesi   considerata,   l'esecuzione   della   pena
rimarrebbe priva di scopo: ne' la funzione retributiva, ne' quella di
prevenzione generale o speciale, ne',  ancora,  la  rieducazione  del
condannato avrebbero, infatti, alcuna ragion d'essere a fronte  della
commissione di un fatto che, alla luce dell'assetto giurisprudenziale
sopravvenuto, deve considerarsi privo di rilevanza penale. 
    2.- Va preliminarmente rilevato come il problema esegetico, sorto
nel  procedimento   in   cui   si   e'   proposto   il   quesito   di
costituzionalita', attenga all'individuazione dei confini  soggettivi
di  operativita'  della  contravvenzione  di  omessa  esibizione   di
documenti, prevista dall'art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio  1998,
n. 286 (Testo unico  delle  disposizioni  concernenti  la  disciplina
dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). 
    Nel vigore del testo originario della  norma,  le  Sezioni  unite
della Corte di cassazione - componendo il contrasto di giurisprudenza
insorto  sul  punto  -  avevano  ritenuto  che  del  reato  potessero
rispondere anche gli stranieri illegalmente presenti  nel  territorio
dello Stato. La disposizione puniva, infatti, con le  pene  congiunte
dell'arresto e dell'ammenda gli stranieri  che,  «senza  giustificato
motivo», non esibissero, a richiesta degli ufficiali e  degli  agenti
di pubblica sicurezza, due categorie di documenti, in via alternativa
fra  loro:  il  passaporto  o  altro  documento  di  identificazione,
«ovvero» il permesso o la carta di  soggiorno.  La  circostanza  che,
alla luce di tale dettato normativo, l'esibizione  di  uno  qualsiasi
dei documenti in questione fosse sufficiente ad escludere  il  reato,
dimostrava - secondo le Sezioni unite - come l'incriminazione mirasse
unicamente a permettere la sicura identificazione dello straniero,  e
non anche a verificarne la regolare  presenza  nel  territorio  dello
Stato: prospettiva nella quale  la  fattispecie  appariva  riferibile
anche  al  soggiornante  irregolare,  cui   non   era   preclusa   la
possibilita' - ancorche' non in possesso,  per  detta  qualita',  del
permesso o della carta di soggiorno -  di  esibire  il  passaporto  o
altro documento di  identificazione  (Cass.,  sez.  un.,  29  ottobre
2003-27 novembre 2003, n. 45801). 
    La  riscrittura  della  norma   incriminatrice,   successivamente
operata dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di
sicurezza pubblica), ha generato, peraltro, immediati dubbi in ordine
alla perdurante validita' della conclusione ora  ricordata:  problema
che la Corte  di  cassazione,  con  alcune  decisioni  delle  sezioni
singole (e, in particolare, della  prima  Sezione),  ha  inizialmente
risolto in  senso  affermativo,  sul  presupposto  che  le  modifiche
apportate alla descrizione  della  condotta  incriminata  fossero  di
carattere «meramente formale» (Cass., sez. I,  30  settembre  2010-18
ottobre 2010, n. 37060; Cass., sez. I, 20  gennaio  2010-16  febbraio
2010, n. 6343; Cass., sez. I, 23 settembre 2009-18 novembre 2009,  n.
44157). 
    Di contrario avviso si sono mostrate, tuttavia, le Sezioni unite,
alle quali la prima Sezione, con ordinanza dell'11 novembre 2010,  ha
rimesso la relativa questione di diritto «al  fine  di  prevenire  un
contrasto giurisprudenziale  con  precedenti  pronunce  della  stessa
sezione». Le Sezioni unite  hanno,  infatti,  osservato  come,  nella
nuova descrizione della  fattispecie  (ora  costruita  in  chiave  di
inottemperanza  ad  un   ordine),   l'avvenuta   sostituzione   della
disgiuntiva «ovvero» con la congiunzione «e», relativamente alle  due
categorie di documenti da esibire,  renda  palese  che,  al  fine  di
adempiere il precetto, e' necessaria l'esibizione congiunta tanto dei
documenti di identificazione che del titolo di  soggiorno:  donde  un
mutamento   della   ratio    della    norma,    non    piu'    legata
all'identificazione dello  straniero,  ma  alla  verifica  della  sua
legittima presenza nel  territorio  nazionale.  Ricostruita  in  tali
termini,  la  figura  criminosa  non  sarebbe  piu'  applicabile   al
soggiornante irregolare, il quale, proprio per tale  sua  condizione,
non puo' essere in possesso del permesso di soggiorno: conclusione  a
sostegno della quale militerebbero,  altresi',  argomenti  di  ordine
sistematico, correlati alle ulteriori modifiche  al  testo  unico  in
materia di immigrazione introdotte dalla stessa legge n. 94 del 2009.
La novella legislativa del 2009 avrebbe, di  conseguenza,  comportato
l'abolizione, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, del codice penale,
della fattispecie criminosa preesistente, per  la  parte  in  cui  si
indirizzava agli stranieri in posizione irregolare (Cass., sez.  un.,
24 febbraio 2011-27 aprile 2011, n. 16453). 
    3.-  Cio'  premesso,  l'eccezione   di   inammissibilita'   della
questione per difetto di rilevanza - sollevata dall'Avvocatura  dello
Stato sul rilievo che nella  specie  si  sarebbe  di  fronte  ad  una
abolitio criminis dipendente da successione di leggi nel tempo,  gia'
rientrante nell'ambito di operativita' dell'art. 673 cod. proc.  pen.
(l'avvenuta modifica dell'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998
ad opera della legge n. 94 del 2009) - non e' fondata. 
    Il  giudice  a  quo  e'  chiamato,  in  effetti,  a  pronunciarsi
sull'istanza di revoca parziale di una sentenza di applicazione della
pena su richiesta delle parti, formulata dal pubblico ministero sulla
base  del  principio  affermato  dalle  Sezioni  unite  nella  citata
sentenza  n.  16453  del  2011.   Come   si   sottolinea,   peraltro,
nell'ordinanza di rimessione, il  fatto  giudicato  con  la  sentenza
della cui revoca si discute e' stato commesso in  data  successiva  a
quella di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 e, dunque,  in
un momento nel quale la norma incriminatrice di cui all'art. 6, comma
3, del d.lgs. n. 286 del 1998 risultava gia'  formulata  nei  termini
attuali: il che esclude che la successione tra il vecchio e il  nuovo
testo di detta norma possa venire in  considerazione,  come  fenomeno
atto a rendere operante il precetto dell'art. 2, secondo comma,  cod.
pen., al quale la disposizione processuale dell'art. 673  cod.  proc.
pen. e', per questo verso, correlata («nessuno puo' essere punito per
un fatto  che,  secondo  una  legge  posteriore»  -  s'intende,  alla
commissione di tale fatto - «non costituisce reato e, se vi e'  stata
condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali»). Il problema
dirimente, nella prospettiva del giudice a quo, e' unicamente  quello
del modo in cui la norma incriminatrice gia' vigente al momento della
realizzazione  del  fatto,  e  tuttora  in   vigore,   debba   essere
interpretata: se, cioe', essa si rivolga o meno anche agli  stranieri
illegalmente soggiornanti, a prescindere da  quale  fosse  il  regime
operante anteriormente alla novella del 2009. 
    Ne consegue che non puo' ritenersi implausibile  l'assunto  sulla
cui base il giudice a quo reputa rilevante  la  questione  sollevata:
ossia che la richiesta di revoca sottoposta al  suo  vaglio  si  basa
sulla successione nel  tempo,  non  gia'  di  leggi,  ma  di  diverse
interpretazioni  giurisprudenziali  della  medesima  norma  di  legge
(l'esegesi piu' lata, quanto ai soggetti attivi, del  novellato  art.
6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, inizialmente  adottata  dalle
sezioni singole della Corte di cassazione - cui risulta allineata  la
sentenza revocanda -  e  quella  di  segno  restrittivo,  in  seguito
accolta dalle Sezioni unite). 
    4.- Neppure puo' ravvisarsi una ragione di inammissibilita' della
questione nel fatto che il giudice a quo  non  si  sia  premurato  di
verificare se - una volta esclusa l'applicabilita' del  vigente  art.
6, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 agli stranieri  irregolarmente
soggiornanti - l'inottemperanza da parte di tali soggetti  all'ordine
di esibizione dei  documenti  di  identificazione,  anziche'  restare
priva  di  rilievo  penale,  possa  eventualmente   integrare   altra
fattispecie    criminosa    piu'    generale,    tuttora     presente
nell'ordinamento: in specie,  quella  risultante  dalla  disposizione
combinata dell'art. 294 del regio  decreto  6  maggio  1940,  n.  635
(Approvazione del regolamento per l'esecuzione  del  testo  unico  18
giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza) - secondo  cui
«la carta d'identita' od i titoli equipollenti devono essere  esibiti
ad  ogni  richiesta  degli  ufficiali  e  degli  agenti  di  pubblica
sicurezza» - e  dell'art.  221  del  r.d.  18  giugno  1931,  n.  773
(Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), che
punisce la violazione del predetto precetto con le  pene  alternative
dell'arresto o dell'ammenda.  Ove  tale  ipotesi  risultasse  valida,
verrebbe, in effetti, meno il presupposto di  operativita'  dell'art.
673 cod. proc. pen., essendosi  al  cospetto,  non  di  una  abolitio
criminis, ma di una cosiddetta abrogatio sine abolitione,  rientrante
nel paradigma della semplice successione di leggi  modificatrici,  in
ordine alla quale l'applicazione retroattiva della lex mitior  (quale
sarebbe la fattispecie prevista  dalla  legislazione  in  materia  di
pubblica sicurezza dianzi ricordata) incontra, in  base  all'art.  2,
quarto comma, cod. pen., il limite del giudicato. 
    Al riguardo, e' peraltro assorbente la considerazione che, con la
questione  sollevata,  il  giudice  a  quo  chiede  di  estendere  il
meccanismo di revoca disciplinato dall'art. 673 cod.  proc.  pen.  al
mutamento di giurisprudenza conseguente a una decisione delle Sezioni
unite della Corte di cassazione, la quale affermi che il  fatto  gia'
giudicato non e' previsto dalla legge  come  reato:  e  cio'  -  come
meglio  si  chiarira'  piu'  avanti  -  senza  possibili  margini  di
scostamento   del    giudice    dell'esecuzione    dalla    soluzione
interpretativa adottata dall'organo della nomofilachia. 
    Nella specie, la citata sentenza delle Sezioni unite n. 16543 del
2011 - pur senza affrontare  il  problema  dianzi  evidenziato  -  ha
comunque affermato, in termini inequivoci, che in rapporto all'omessa
esibizione  dei  documenti  da  parte  dello  straniero  illegalmente
soggiornante e' intervenuta un'abolitio criminis: il che,  stante  la
formulazione del petitum,  basta,  dunque,  a  rendere  rilevante  la
questione sollevata. 
    5.- Corretto - e comunque rispondente alla corrente lettura della
norma censurata da parte della Corte di cassazione - appare anche  il
presupposto   ermeneutico   su   cui    poggia    il    quesito    di
costituzionalita', rappresentato dall'estraneita'  del  fenomeno  del
«mutamento  giurisprudenziale»  all'area  applicativa   dell'istituto
della  «revoca  della  sentenza  per  abolizione  del  reato»,  quale
attualmente delineato dall'art. 673 cod. proc. pen. 
    Di riflesso alle norme sostanziali di cui agli artt.  2,  secondo
comma, cod. pen. e 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme  sulla  costituzione   e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale),  ma  con  previsione  che  ne  muta  la  prospettiva
d'intervento   -   facendo   incidere   la   valenza    «demolitoria»
dell'abolitio criminis direttamente sulla sentenza del giudice  della
cognizione, anziche' sulla sola esecuzione di essa  (sentenza  n.  96
del 1996) - l'art. 673 cod. proc. pen. stabilisce, infatti, al  comma
1, che, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di  illegittimita'
costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione
revoca la sentenza o il  decreto  penale  di  condanna  (formula  che
ricomprende, secondo una lettura ormai pacifica, anche la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti), dichiarando che il
fatto  non  e'  previsto  dalla  legge  come  reato  e  adottando   i
provvedimenti conseguenti. La  norma  censurata  prende,  dunque,  in
considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso  ampio,
al paradigma dell'«abolizione del reato», richiamato  nella  rubrica:
per  effetto  dell'intervento  del  legislatore  o  in  seguito  alla
declaratoria di illegittimita'  costituzionale  da  parte  di  questa
Corte, la fattispecie incriminatrice,  in  relazione  alla  quale  e'
stata emessa la  pronuncia  divenuta  irrevocabile,  viene,  infatti,
espunta dall'ordinamento giuridico. 
    La  giurisprudenza  di  legittimita'  ha   ritenuto   estensibile
l'istituto anche al caso di  sopravvenienza  di  una  sentenza  della
Corte di giustizia dell'Unione europea che affermi l'incompatibilita'
della norma incriminatrice interna con il diritto dell'Unione  avente
effetto  diretto  per  gli  Stati  membri,  stante   la   sostanziale
equiparabilita' di detta  pronuncia  -  la  quale  impedisce  in  via
generale ai  giudici  nazionali  di  fare  applicazione  della  norma
considerata - ad una legge sopravvenuta, con portata  abolitrice  del
reato (nella giurisprudenza di  questa  Corte,  sull'idoneita'  delle
sentenze della Corte di giustizia a costituire ius  superveniens,  ex
plurimis, ordinanze n. 311 del 2011, n. 241 del 2005  e  n.  125  del
2004). 
    La  stessa  giurisprudenza  di  legittimita'  ha,  per  converso,
escluso che possano collocarsi nel  perimetro  applicativo  dell'art.
673 cod.  proc.  pen.  fenomeni  attinenti  alle  semplici  dinamiche
interpretative della norma  incriminatrice,  quali  il  mutamento  di
giurisprudenza  e  la  risoluzione  di  contrasti  giurisprudenziali,
ancorche' conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte  di
cassazione.  Si   e'   rilevato,   infatti,   che   un   orientamento
giurisprudenziale, per quanto autorevole, non ha la stessa  efficacia
delle ipotesi previste dalla norma censurata, stante  il  difetto  di
vincolativita' della decisione rispetto a quelle dei giudici chiamati
ad occuparsi di fattispecie analoghe: circostanza  che  impedisce  di
considerare i fenomeni dianzi indicati alla stregua di uno ius novum. 
    6.-  Il  giudice  a  quo  reputa,  tuttavia,   costituzionalmente
necessaria una modifica di tale  assetto,  chiedendo  segnatamente  a
questa Corte di aggiungere al novero dei presupposti di  operativita'
della revoca anche il «mutamento giurisprudenziale - intervenuto  con
decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione - in base  al
quale il fatto giudicato non e'  previsto  dalla  legge  penale  come
reato». 
    7.- Se  pure  ammissibile  per  le  ragioni  dianzi  esposte,  la
questione non e', tuttavia, nel merito, fondata. 
    La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente - quella di
violazione dell'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  per  contrasto  con
l'art.  7  della  CEDU,  cosi'  come  interpretato  dalla  Corte   di
Strasburgo - trova il suo  presupposto  nell'orientamento  di  questa
Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in
forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro  attribuito
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,  specificamente  istituita
per dare ad esse interpretazione  e  applicazione,  integrano,  quali
«norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella  parte
in cui impone la conformazione della legislazione interna ai  vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis, tra le  ultime,
sentenze n. 78 del 2012, n. 303, n. 236 e n.  113  del  2011):  cio',
peraltro, nei limiti in cui la norma convenzionale, come interpretata
dalla Corte  europea  -  la  quale  si  pone  pur  sempre  a  livello
sub-costituzionale - non venga a  trovarsi  in  conflitto  con  altre
conferenti previsioni della Costituzione italiana (sentenze  n.  303,
n. 236 e n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 317 e n. 311 del  2009),
e ferma restando,  altresi',  la  spettanza  a  questa  Corte  di  un
«margine di apprezzamento e di adeguamento», che - nel rispetto della
«sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo - le consenta  comunque
di  tenere  conto  delle   peculiarita'   dell'ordinamento   in   cui
l'interpretazione della  Corte  europea  e'  destinata  ad  inserirsi
(sentenze n. 303 e n. 236 del 2011, n. 311 del 2009). 
    Nella specie, il rimettente  individua  la  «norma  convenzionale
interposta» - con la quale la norma interna denunciata si porrebbe in
asserito contrasto,  non  componibile  per  via  d'interpretazione  -
combinando fra loro due distinte affermazioni  della  Corte  europea,
riferite all'art. 7, paragrafo 1, della CEDU (ove si  stabilisce  che
«nessuno puo' essere condannato per una azione o una  omissione  che,
al momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo  il
diritto interno o internazionale», e che, «parimenti, non puo' essere
inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in  cui
il reato e' stato commesso»). 
    La prima affermazione - espressiva di un mutamento  di  indirizzo
intervenuto solo in tempi recenti nella giurisprudenza della Corte di
Strasburgo -  e'  quella  per  cui  la  citata  norma  convenzionale,
malgrado il suo tenore  letterale  (evocativo  del  solo  divieto  di
applicazione retroattiva della norma  penale  sfavorevole),  sancisce
implicitamente - in aggiunta al piu' generale principio di  legalita'
dei delitti e delle pene (nullum crimen nulla poena sine lege), con i
corollari dell'esigenza di determinatezza delle previsioni punitive e
del divieto di analogia in malam  partem  -  anche  il  principio  di
retroattivita' della  legge  penale  piu'  mite  (Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola  contro
Italia; in senso conforme, sentenze 27 aprile 2010,  Morabito  contro
Italia e 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia). 
    L'altra affermazione - che riflette, per contro, un  orientamento
della Corte europea da tempo consolidato - e' quella in virtu'  della
quale la nozione di «diritto» («law»), utilizzata nella  norma  della
Convenzione, deve  considerarsi  comprensiva  tanto  del  diritto  di
produzione   legislativa    che    del    diritto    di    formazione
giurisprudenziale. Tale lettura «sostanziale», e non gia'  «formale»,
del  concetto  di  «legalita'  penale»,  se  pure   stimolata   dalla
necessita' di tenere conto dei diversi sistemi giuridici degli  Stati
parte  -  posto  che  il  riferimento  alla  sola  legge  di  origine
parlamentare avrebbe limitato la tutela derivante  dalla  Convenzione
rispetto agli ordinamenti di common law - e' stata ritenuta  valevole
dalla Corte europea anche in rapporto agli ordinamenti di civil  law,
alla luce del rilevante apporto che pure in  essi  la  giurisprudenza
fornisce all'individuazione dell'esatta portata e all'evoluzione  del
diritto penale (tra le  altre,  sentenze  8  dicembre  2009,  Previti
contro Italia; Grande Camera,  17  settembre  2009,  Scoppola  contro
Italia; 20 gennaio 2009, Sud Fondi s.r.l.  ed  altri  contro  Italia;
Grande Camera, 24 aprile 1990, Kruslin contro Francia). 
    Proprio  tale  seconda  affermazione  dimostra,  peraltro,  come,
nell'interpretazione offerta dalla Corte di Strasburgo, il  principio
convenzionale di legalita' penale risulti meno comprensivo di  quello
accolto  nella  Costituzione  italiana   (e,   in   generale,   negli
ordinamenti  continentali).  Ad  esso  resta,  infatti,  estraneo  il
principio - di centrale rilevanza, per converso, nell'assetto interno
- della riserva  di  legge,  nell'accezione  recepita  dall'art.  25,
secondo comma, Cost.; principio che,  secondo  quanto  reiteratamente
puntualizzato da questa Corte, demanda il  potere  di  normazione  in
materia  penale  -  in  quanto  incidente  sui  diritti  fondamentali
dell'individuo,   e   segnatamente   sulla   liberta'   personale   -
all'istituzione  che  costituisce  la   massima   espressione   della
rappresentanza  politica:  vale  a  dire  al  Parlamento,  eletto   a
suffragio universale dall'intera collettivita' nazionale (sentenze n.
394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresi',  le  sue
determinazioni all'esito di un procedimento -  quello  legislativo  -
che implica un preventivo confronto dialettico  tra  tutte  le  forze
politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia  pure  indirettamente,
con la pubblica opinione. 
    Al di la', peraltro, dall'evidenziato scarto di tutela - che pure
preclude una meccanica trasposizione nell'ordinamento  interno  della
postulata equiparazione tra legge scritta  e  diritto  di  produzione
giurisprudenziale  -  risulta  assorbente,  ai  presenti   fini,   la
considerazione che la Corte europea non risulta avere  mai,  fino  ad
oggi, enunciato il corollario che  il  giudice  a  quo  vorrebbe  far
discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati:  e,
cioe', che, in base all'art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento
di giurisprudenza in senso favorevole al  reo  imponga  la  rimozione
delle sentenze di condanna  passate  in  giudicato  contrastanti  col
nuovo indirizzo (principio che -  se  valido  -  dovrebbe,  peraltro,
operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di  giurisprudenza  che
escludano la rilevanza penale del fatto - come mostra di ritenere  il
rimettente - ma anche a quelli che si limitino a rendere piu' mite la
risposta  punitiva,  negando,   ad   esempio,   l'applicabilita'   di
circostanze aggravanti  o  riconducendo  il  fatto  ad  un  paradigma
sanzionatorio meno grave). 
    Innanzitutto, la Corte di Strasburgo non ha mai sinora  riferito,
in modo specifico, il principio di retroattivita' della lex mitior ai
mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si  sono  occupati  di
questi ultimi - oltre che nella generale prospettiva  della  verifica
dei requisiti di  «accessibilita'»  e  «prevedibilita'»  della  legge
penale, ritenuti insiti nella previsione dell'art.  7,  paragrafo  1,
della  CEDU   -   solo   con   riferimento   al   diverso   principio
dell'irretroattivita'  della   norma   sfavorevole:   ritenendo,   in
particolare, contraria  alla  norma  convenzionale  l'applicazione  a
fatti  anteriormente  commessi  di  un  indirizzo   giurisprudenziale
estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove  la
nuova interpretazione non rappresenti  un'evoluzione  ragionevolmente
prevedibile della giurisprudenza anteriore  (su  tale  premessa,  per
soluzioni opposte nei  casi  esaminati,  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, sentenze 10 ottobre 2006,  Pessino  contro  Francia  e  22
novembre 1995, S.W. contro Regno Unito;  nonche',  piu'  di  recente,
sentenza 10 luglio 2012, Del Rio Prada contro Spagna, nei  limiti  in
cui  i  principi   interpretativi   siano   applicabili   al   nostro
ordinamento). 
    E', peraltro, da escludere - contrariamente a  quanto  mostra  di
ritenere il giudice  a  quo  -  che  dalle  conclusioni  raggiunte  a
proposito del principio di irretroattivita' della  norma  sfavorevole
possa  automaticamente  ricavarsi   l'esigenza   "convenzionale"   di
rimuovere, in nome del principio di retroattivita' della lex  mitior,
le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto
mutamento giurisprudenziale in bonam partem. I  due  principi  hanno,
infatti, diverso fondamento. L'irretroattivita'  della  norma  penale
sfavorevole rappresenta  uno  strumento  di  garanzia  del  cittadino
contro   persecuzioni   arbitrarie,   espressivo   dell'esigenza   di
«calcolabilita'» delle  conseguenze  giuridico-penali  della  propria
condotta,    quale    condizione    necessaria    per    la    libera
autodeterminazione individuale: esigenza con la  quale  contrasta  un
successivo mutamento peggiorativo "a sorpresa" del trattamento penale
della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta  liberta'  ha,
per  converso,  il  principio  di  retroattivita'  della  norma  piu'
favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione  del
fatto,  cui   l'autore   si   era   liberamente   e   consapevolmente
autodeterminato in base al panorama normativo  (e  giurisprudenziale)
dell'epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto  in  quello
di eguaglianza, che richiede, in linea di massima,  di  estendere  la
modifica mitigatrice della legge  penale,  espressiva  di  un  mutato
apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto
in essere la condotta in un momento anteriore (sentenza  n.  394  del
2006; analogamente sentenze n. 236 del 2011 e n. 215 del 2008). 
    Con riguardo al carattere non assoluto che, in tale  prospettiva,
il principio della retroattivita' in  mitius  resta  suscettibile  di
assumere, occorre d'altra  parte  osservare  -  come  gia'  in  altra
occasione (sentenza n. 236 del 2011) - che la Corte di Strasburgo non
soltanto non ha  inequivocamente  escluso  la  possibilita'  che,  in
presenza di particolari situazioni, il principio in questione subisca
delle deroghe, ma  ha  posto,  anzi,  un  espresso  limite  alla  sua
operativita',  di  segno  contrastante  rispetto  alla  ricostruzione
prospettata dal giudice a quo. Secondo i giudici europei, infatti, il
principio della retroattivita' della lex mitior, ricavabile dall'art.
7, paragrafo 1, della CEDU, «si traduce nella norma per  cui,  se  la
legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e  le
leggi penali posteriori adottate  prima  della  pronuncia  definitiva
sono diverse, il giudice deve applicare quella  le  cui  disposizioni
sono piu' favorevoli» (Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  Grande
Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro  Italia,  paragrafo  109).
Facendo riferimento alle (sole)  «leggi  penali  posteriori  adottate
prima della pronuncia  definitiva»,  la  Corte  europea  ha,  dunque,
escluso che il principio in questione sia destinato ad operare  oltre
il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede,  nel  nostro
ordinamento, l'art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen. (sentenza  n.
236 del 2011). 
    La limitazione ora indicata non potrebbe evidentemente non valere
- nella prospettiva  del  giudice  a  quo  -  anche  in  rapporto  ai
mutamenti di giurisprudenza. La stessa Corte di Strasburgo  ha  avuto
modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel caso  di
avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da  parte  di
un tribunale supremo nazionale, l'esigenza di assicurare  la  parita'
di trattamento  non  possa  essere  utilmente  invocata  al  fine  di
travolgere  il  principio  di  intangibilita'  della  res   iudicata:
infatti, «intendere il  principio  di  eguaglianza  nell'applicazione
della legge nel senso che cio' che risulta dalle decisioni posteriori
implica la revisione di tutte le decisioni definitive  anteriori  che
risultino contraddittorie con quelle piu' recenti  sarebbe  contrario
al principio di  sicurezza  giuridica»  (Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro  Spagna,  sempre  nella
misura in cui i principi interpretativi siano applicabili  al  nostro
ordinamento). 
    Indipendentemente, dunque, dalla verifica di  compatibilita'  con
il principio della riserva di legge, sancito  dall'art.  25,  secondo
comma, Cost. - sulla cui esigenza pone l'accento  l'Avvocatura  dello
Stato nelle sue difese -  si  deve  conclusivamente  rilevare,  ancor
prima, che l'ipotetica «norma convenzionale interposta»,  chiamata  a
fungere da parametro di verifica  della  legittimita'  costituzionale
della disposizione denunciata, risulta in realta'  priva  di  attuale
riscontro nella giurisprudenza della Corte europea. 
    8.- Inconferenti rispetto alla fattispecie in esame si  palesano,
poi, i concorrenti riferimenti agli artt. 5 e 6  della  CEDU  addotti
dal giudice a quo. 
    Quanto all'asserita lesione dell'art. 5, essa  viene  prospettata
dal rimettente  richiamando  -  alla  stregua  della  sentenza  delle
Sezioni unite della Corte di cassazione  21  gennaio  2010-13  maggio
2010, n. 18288, relativa al cosiddetto  «giudicato  esecutivo»  (ove,
peraltro, il richiamo assumeva una diversa valenza)  -  la  pronuncia
della Corte di Strasburgo che ha ravvisato  la  lesione  del  diritto
alla liberta' personale e alla sicurezza, tutelato dalla citata norma
convenzionale,  in   una   fattispecie   di   ritardata   concessione
dell'indulto ad un condannato a causa di dubbi interpretativi circa i
termini di operativita' del provvedimento di clemenza (Corte  europea
dei diritti dell'uomo, 10 luglio 2003, Grava contro Italia). Difetta,
peraltro - ne' il rimettente l'ha comunque posta in  evidenza  -  una
qualsivoglia analogia tra il caso esaminato  dalla  Corte  europea  e
quello oggetto  del  giudizio  interno:  analogia  il  cui  riscontro
rappresenta un presupposto necessario per  "importare"  il  principio
affermato in sede europea nell'ambito del controllo  di  legittimita'
costituzionale (sentenza n. 239 del 2009). 
    Con riguardo, poi, all'ipotizzato contrasto con  l'art.  6  della
CEDU, il  giudice  a  quo  richiama  l'orientamento  della  Corte  di
Strasburgo secondo il quale la  presenza  di  divergenze  profonde  e
persistenti nella giurisprudenza di una corte suprema nazionale circa
l'interpretazione  di  una   determinata   norma   legislativa,   non
superabili o in fatto non superate tramite il  ricorso  a  meccanismi
che  permettano  di  comporre  tali  contrasti,  e'  suscettibile  di
tradursi in una violazione  del  diritto  all'equo  processo,  stante
l'ostacolo che ne puo' derivare ad una efficace  difesa  in  giudizio
(in questo senso, oltre alla sentenza 2 luglio 2009, Iordan  Iordanov
contro Bulgaria, citata dal giudice a quo, sentenze 24  giugno  2009,
Tudor Tudor contro Romania e 2 dicembre 2007, Beian  contro  Romania,
di  nuovo  nella  misura  in  cui  i  principi  interpretativi  siano
applicabili al nostro ordinamento). 
    Anche in questo caso, si tratta,  peraltro,  di  fattispecie  non
comparabile con quella  oggetto  dell'odierno  scrutinio.  La  revoca
della sentenza per  abolizione  del  reato  e'  istituto  chiaramente
distinto  dai   meccanismi   di   composizione   dei   contrasti   di
giurisprudenza, che la Corte di Strasburgo ha ritenuto  necessari  ai
fini dell'attuazione della garanzia convenzionale in questione. Nella
prospettiva della Corte europea, d'altra parte, il diritto di  difesa
e' suscettibile di essere pregiudicato dai contrasti "sincronici"  di
giurisprudenza,  che  rendano  incerta   la   valenza   della   norma
incriminatrice nel momento in cui  si  svolge  il  processo,  per  la
compresenza di piu' linee interpretative tra loro  confliggenti:  non
dai  contrasti  "diacronici",  quale  quello  avuto   di   mira   dal
rimettente, legati alla successione di un orientamento interpretativo
ad un altro, a processo concluso. 
    9.- Parimenti infondate risultano le censure  di  violazione  del
principio di eguaglianza, anche sotto il profilo della ragionevolezza
(art. 3 Cost.). 
    Contrariamente a  quanto  assume  il  giudice  a  quo,  non  puo'
ritenersi manifestamente  irrazionale  che  il  legislatore,  per  un
verso,  valorizzi,  anche  in  ossequio   ad   esigenze   di   ordine
costituzionale, la funzione nomofilattica della Corte di  cassazione,
e delle Sezioni unite in particolare - postulando, con cio',  che  la
giurisprudenza  successiva   si   uniformi   «tendenzialmente»   alle
decisioni di queste ultime - e, dall'altro, ometta  di  prevedere  la
revoca delle condanne definitive pronunciate  in  relazione  a  fatti
che, alla stregua di una sopravvenuta diversa  decisione  dell'organo
della nomofilachia, non sono previsti dalla  legge  come  reato,  col
risultato di consentire  trattamenti  radicalmente  differenziati  di
autori di fatti analoghi. 
    L'orientamento  espresso  dalla  decisione  delle  Sezioni  unite
"aspira" indubbiamente ad acquisire stabilita' e generale seguito: ma
- come lo stesso rimettente riconosce - si tratta di  connotati  solo
«tendenziali», in quanto basati su una efficacia non cogente,  ma  di
tipo  essenzialmente  "persuasivo".  Con  la   conseguenza   che,   a
differenza  della  legge   abrogativa   e   della   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale, la nuova decisione  dell'organo  della
nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in
qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con
l'onere di adeguata  motivazione;  mentre  le  stesse  Sezioni  unite
possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso
delle sezioni singole, come in piu' occasioni e' in fatto accaduto. 
    In questa logica si giustifica, dunque, il mancato riconoscimento
all'overruling  giurisprudenziale  favorevole  della   capacita'   di
travolgere  il  principio  di  intangibilita'  della  res   iudicata,
espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti:
esigenza il cui fondamentale rilievo  -  come  lo  stesso  rimettente
ricorda - e' ampiamente riconosciuto  anche  nell'ambito  dell'Unione
europea (Corte di giustizia, sentenze  22  dicembre  2010,  C-507/08,
Commissione contro Repubblica slovacca;  3  settembre  2009,  C-2/08,
Fallimento Olimpiclub s.r.l.; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer).  Al
fine di porre nel nulla cio'  che,  di  per  se',  dovrebbe  rimanere
intangibile - il giudicato,  appunto  -  il  legislatore  esige,  non
irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini  la  caduta
della rilevanza penale di una determinata condotta con  connotati  di
generale vincolativita' e di intrinseca stabilita' (salvo,  nel  caso
di legge abrogatrice, un eventuale nuovo  intervento  legislativo  di
segno ripristinatorio): connotati  che  la  vicenda  considerata  dal
giudice a quo, di contro, non possiede. 
    Ne' giova alla tesi del rimettente il  riferimento  alle  recenti
pronunce della giurisprudenza  di  legittimita'  che  hanno  ritenuto
rilevanti i mutamenti di giurisprudenza al fine del  superamento  del
cosiddetto  «giudicato  esecutivo»  e   del   cosiddetto   «giudicato
cautelare» (rispettivamente, la gia' citata  sentenza  delle  Sezioni
unite n. 18288 del 2010 - sulla quale il giudice a quo ricalca  larga
parte delle proprie censure - e la sentenza della seconda  Sezione  6
maggio 2010-25 maggio 2010,  n.  19716).  Dette  pronunce  non  hanno
mancato, infatti, di porre adeguatamente in risalto il netto iato che
separa  i  predetti  istituti   dal   giudicato   vero   e   proprio:
discutendosi, in quelle ipotesi, di semplici preclusioni  processuali
inerenti a decisioni rese rebus sic stantibus, volte a  prevenire  la
defatigante reiterazione  di  istanze  con  il  medesimo  oggetto  al
giudice dell'esecuzione o  della  cautela,  rispetto  alle  quali  si
tratta solo di stabilire se il  riferimento  al  mutato  orientamento
della giurisprudenza possa configurare o meno un nuovo  argomento  di
diritto. 
    Parimenti non probante e'  il  riferimento  del  rimettente  alla
rilevanza  che  questa  Corte  attribuisce  al  cosiddetto   «diritto
vivente» ai fini dell'individuazione dell'oggetto dello scrutinio  di
legittimita' costituzionale, anche quando si discuta di norme penali.
Tale soluzione  risponde  ad  una  esigenza  di  rispetto  del  ruolo
spettante ai giudici comuni - e segnatamente  all'organo  giudiziario
depositario  della  funzione   di   nomofilachia   -   nell'attivita'
interpretativa:  in  presenza  di  un   indirizzo   giurisprudenziale
costante o, comunque, ampiamente condiviso - specie se consacrato  in
una decisione delle Sezioni unite della  Corte  di  cassazione  -  la
Corte costituzionale assume la disposizione censurata nel significato
in cui essa attualmente  «vive»  nell'applicazione  giudiziale.  Cio'
nondimeno, questa Corte ha comunque rimarcato che, pure  in  presenza
di un orientamento giurisprudenziale che abbia acquisito i  caratteri
del «diritto vivente», il giudice rimettente ha soltanto la facolta',
e non gia' l'obbligo di uniformarsi  ad  esso  (sentenza  n.  91  del
2004). 
    10.- Lungi, dunque, dal risultare necessario al fine di rimuovere
una presunta contraddizione del sistema, sarebbe, viceversa,  proprio
l'intervento richiesto dal giudice  a  quo  a  risultare  foriero  di
aporie, tenuto conto delle caratteristiche dell'istituto che dovrebbe
essere attinto dall'auspicata pronuncia additiva di questa Corte. 
    L'art.  673  cod.  proc.  pen.   attribuisce,   infatti,   natura
obbligatoria all'intervento del giudice dell'esecuzione, in  presenza
d'una abolitio criminis. Nel caso di accoglimento del  petitum,  tale
tratto  di  obbligatorieta'  si  comunicherebbe   anche   all'ipotesi
aggiuntiva di revoca prefigurata dal rimettente (com'e',  del  resto,
nella logica delle sue censure): con la conseguenza  che  il  giudice
dell'esecuzione sarebbe senz'altro tenuto a rimuovere il giudicato di
condanna contrastante  col  dictum  dell'organo  della  nomofilachia,
anche qualora non lo condividesse. 
    In  questo  modo,  tuttavia,  la  richiesta  pronuncia   additiva
comporterebbe una vera e propria sovversione "di sistema", venendo  a
creare un generale rapporto di gerarchia tra le  Sezioni  unite  e  i
giudici dell'esecuzione, al di fuori  del  giudizio  di  rinvio:  con
risultati, peraltro, marcatamente disarmonici, stante la  estraneita'
della  regola  dello   stare   decisis   alle   coordinate   generali
dell'ordinamento. In  sede  esecutiva,  il  giudice  sarebbe  tenuto,
infatti, ad uniformarsi alla  decisione  "favorevole"  delle  Sezioni
unite, revocando il giudicato di  condanna.  Di  contro,  il  giudice
della cognizione, il quale si trovasse a giudicare ex novo  un  fatto
analogo,  non  avrebbe  il  medesimo  obbligo,  e   potrebbe   quindi
disattendere - sia pure sulla  base  di  adeguata  motivazione  -  la
soluzione  adottata  dall'organo   della   nomofilachia   (provocando
eventualmente, con  cio',  un  nuovo  mutamento  di  giurisprudenza).
Sarebbe, tuttavia,  illogico  che  il  vincolo  di  adeguamento  alle
Sezioni unite valga in presenza di un giudicato  di  segno  contrario
(magari sorretto da ampie argomentazioni sul  punto  specifico  della
rilevanza penale  del  fatto)  e  non  operi,  invece,  allorche'  il
giudicato deve ancora formarsi. Ne' varrebbe obiettare  che  -  nella
prospettiva del giudice a quo - stante l'"affidamento"  generato  nei
consociati dalla decisione delle  Sezioni  unite,  il  giudice  della
cognizione che si discosti  da  quest'ultima  non  potrebbe  comunque
condannare l'imputato, in  virtu'  della  ipotizzata  estensione  del
principio  di  irretroattivita'  anche  alla  nuova   interpretazione
sfavorevole della norma penale. Tale obiezione potrebbe - in  ipotesi
- risultare appropriata se il giudizio vertesse su un fatto  commesso
dopo la decisione delle Sezioni unite: non qualora si tratti di fatto
anteriormente realizzato, il cui autore non aveva alcuna ragione  per
confidare sulla liceita' penale  della  propria  condotta,  posta  in
essere quando era  imperante  un  orientamento  giurisprudenziale  di
segno contrario. 
    11.- Infondata e' anche l'ulteriore  censura  di  violazione  del
«principio di (tendenziale)  retroattivita'  della  normativa  penale
piu' favorevole»: principio che il rimettente reputa desumibile dagli
artt. 3 e 25, secondo comma, Cost. 
    Per costante giurisprudenza di  questa  Corte,  il  principio  di
retroattivita' della legge penale piu' favorevole al reo  non  trova,
in realta', fondamento costituzionale nell'art.  25,  secondo  comma,
Cost. - che si limita a  sancire  il  principio  di  irretroattivita'
delle  norme  penali  piu'  severe  -  ma,   come   gia'   accennato,
esclusivamente nel principio di eguaglianza, che impone, in linea  di
massima, di equiparare il trattamento dei medesimi fatti, in presenza
di  una  mutata  valutazione  legislativa  del  loro   disvalore,   a
prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi  prima  o
dopo l'entrata in vigore  della  norma  che  ha  disposto  l'abolitio
criminis o la modifica mitigatrice. Proprio in conseguenza  di  cio',
il  principio  in  questione  non  ha,  quindi,  carattere  assoluto,
rimanendo  suscettibile  di  deroghe  ad  opera  della   legislazione
ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente  ragione  giustificativa
(ex plurimis, sentenze n. 236 del 2011, n. 215 del 2008, n. 394 e  n.
393 del 2006). 
    A prescindere, peraltro, dalla possibilita' che  la  salvaguardia
dell'intangibilita' del giudicato rappresenti una adeguata ragione di
deroga, secondo quanto reiteratamente ritenuto in passato  da  questa
Corte (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330  del
1995), e' assorbente la considerazione che il principio in  questione
attiene - anche in base alla relativa disciplina codicistica (art. 2,
secondo, terzo e quarto comma, cod. pen.) - alla sola successione  di
«leggi». Per poterlo estendere anche ai  mutamenti  giurisprudenziali
bisognerebbe, dunque, poter dimostrare - ed e' questa, in effetti, la
premessa concettuale del rimettente  -  che  la  consecutio  tra  due
contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga  ad  un
atto di produzione normativa. 
    Ad opporsi ad una simile equazione  non  e',  peraltro,  solo  la
considerazione  -  svolta  dalla   giurisprudenza   di   legittimita'
precedentemente richiamata, in sede  di  individuazione  dei  confini
applicativi dell'art. 673 cod. proc. pen. - attinente al  difetto  di
vincolativita'  di  un   semplice   orientamento   giurisprudenziale,
ancorche' avallato da una pronuncia delle Sezioni unite. Vi si oppone
anche, e prima ancora - in uno alla gia' piu' volte  evocata  riserva
di legge in materia penale, di  cui  allo  stesso  art.  25,  secondo
comma, Cost. - il principio di separazione dei poteri, specificamente
riflesso nel precetto (art. 101, secondo comma, Cost.) che  vuole  il
giudice soggetto (soltanto) alla legge. 
    Ne' la conclusione perde di validita' per il solo  fatto  che  la
nuova decisione dell'organo della nomofilachia sia  nel  segno  della
configurabilita' di una abolitio criminis. Al  pari  della  creazione
delle  norme,  e  delle  norme  penali  in  specie,  anche  la   loro
abrogazione - totale o parziale - non puo', infatti,  dipendere,  nel
disegno costituzionale, da regole giurisprudenziali, ma  soltanto  da
un atto di volonta' del legislatore  (eius  est  abrogare  cuius  est
condere). 
    12.- Le residue censure di violazione degli artt. 13 e 27,  terzo
comma, Cost., sono prive di autonomia. 
    Esse cadono,  del  pari,  con  la  premessa  concettuale  su  cui
poggiano: ossia la pretesa che la consecutio tra diversi orientamenti
giurisprudenziali equivalga  ad  una  operazione  creativa  di  nuovo
diritto (oggettivo), cosi' da giustificare  il  richiesto  intervento
dilatativo del  perimetro  di  applicazione  dell'istituto  delineato
dall'art. 673 cod. proc. pen. 
    Siffatta erronea esegesi comporterebbe la  consegna  al  giudice,
organo designato all'esercizio della funzione giurisdizionale, di una
funzione  legislativa,  in   radicale   contrasto   con   i   profili
fondamentali dell'ordinamento costituzionale. 
    13.-  La  questione  va  dichiarata,  pertanto,  non  fondata  in
rapporto a tutti i parametri invocati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'articolo 673 del  codice  di  procedura  penale,  sollevata,  in
riferimento agli articoli 3, 13, 25, secondo comma, 27, terzo  comma,
e 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di  Torino  con
l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2012. 
 
                                F.to: 
                    Alfonso QUARANTA, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2012. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI