N. 153 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 18 ottobre 2012

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 18 ottobre 2012 (della Regione Campania). 
 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  revisione  della  spesa  pubblica  -  Obbligo  per  le  Regioni  di
  procedere allo scioglimento, o in alternativa, alla privatizzazione
  di tutte le societa' direttamente o indirettamente controllate, che
  abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato  di  prestazioni  di
  servizi in  favore  della  p.a.  superiore  al  novanta  per  cento
  dell'intero  fatturato   -   Previsione   di   non   applicabilita'
  dell'obbligo  predetto  alle  societa'  che  svolgono  servizi   di
  interesse generale, anche aventi rilevanza economica  a  condizione
  che  per  le   peculiari   caratteristiche   economiche,   sociali,
  ambientali  non  sia  possibile  per   l'amministrazione   pubblica
  controllante un efficace e utile ricorso al mercato - Ricorso della
  Regione   Campania   -   Denunciata    violazione    dell'autonomia
  finanziaria, organizzativa e di funzionamento delle  Regioni  e  di
  enti pubblici regionali,  nonche'  di  servizi  pubblici  locali  -
  Denunciata violazione  dei  principi  di  ragionevolezza,  di  buon
  andamento della pubblica amministrazione e di leale  collaborazione
  - Denunciata violazione del principio  di  liberta'  di  iniziativa
  economica   privata   -   Denunciata   violazione    di    obblighi
  internazionali  derivanti  dal  diritto  comunitario,  in  tema  di
  affidamenti  in  house  -   Denunciata   violazione   degli   esiti
  referendari del 12 e 13  giugno  2011  -  Denunciata  elusione  del
  decisum della sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012. 
- Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con  modificazioni,
  nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 4, comma 3. 
- Costituzione, artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  revisione della spesa pubblica - Limitazione  dell'affidamento  dei
  sevizi pubblici locali alle sole ipotesi in cui il valore economico
  del servizio sia complessivamente pari o inferiore a  200.000  euro
  annui - Ricorso della  Regione  Campania  -  Denunciata  violazione
  dell'autonomia finanziaria, organizzativa e di funzionamento  delle
  Regioni e di enti pubblici regionali, nonche' di  servizi  pubblici
  locali  -  Denunciata  violazione  del  principio  di  liberta'  di
  iniziativa economica privata - Denunciata  violazione  di  obblighi
  internazionali  derivanti  dal  diritto  comunitario,  in  tema  di
  affidamenti  in  house  -   Denunciata   violazione   degli   esiti
  referendari del 12 e 13  giugno  2011  -  Denunciata  elusione  del
  decisum della sentenza della Corte costituzionale n. 199 del 2012. 
- Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con  modificazioni,
  nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 4, comma 8. 
- Costituzione, artt. 5, 41, 75, 114, 117, 118 e 136. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  revisione della spesa pubblica - Riordino  delle  Province  e  loro
  funzioni - Previsione del  riordino  di  tutte  le  Province  delle
  Regioni a statuto ordinario, mediante decreto  da  emanarsi,  entro
  dieci giorni dall'entrata in vigore  del  decreto-legge  impugnato,
  con deliberazione  del  Consiglio  dei  ministri,  sulla  base  dei
  requisiti minimi da individuarsi nella  dimensione  territoriale  e
  nella popolazione residente in ciascuna provincia (individuati  con
  la deliberazione  predetta,  rispettivamente,  in  2500  km.  e  in
  350.000 abitanti)  -  Prevista  partecipazione  al  riordino  delle
  Province  mediante  atto  legislativo  ad  iniziativa  governativa,
  all'esito di una  procedura  cui  partecipano  il  Consiglio  delle
  autonomie locali delle singole Regioni a  statuto  ordinario  e  le
  Regioni stesse mediante la presentazione di ipotesi di  riordino  e
  previo parere della Conferenza unificata -  Ricorso  della  Regione
  Campania - Denunciata violazione del  principio  democratico  della
  sovranita' popolare,  nonche'  del  principio  autonomistico  delle
  comunita' locali - Denunciata violazione del principio di autonomia
  costituzionale degli enti territoriali, nella specie delle Province
  - Lesione del principio di ragionevolezza  per  l'adozione  di  una
  misura  sproporzionata  e  non  efficace  rispetto  alla  finalita'
  dichiarata dalla  normativa  impugnata  di  riduzione  della  spesa
  pubblica - Denunciata violazione dei  presupposti  di  legittimita'
  costituzionale della straordinarieta' ed urgenza per l'adozione del
  decreto-legge - Denunciata violazione  dell'assetto  costituzionale
  ed  ordinamentale  della  Regione  -  Denunciata   violazione   del
  principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  -
  Denunciata violazione  dell'autonomia  regionale  in  relazione  ai
  principi di sussidiarieta' verticale e di adeguatezza -  Denunciata
  lesione della potesta' regolamentare delle  Province  -  Denunciata
  violazione dell'autonomia finanziaria ed amministrativa regionale -
  Violazione del principio costituzionale della partecipazione  della
  popolazione  interessata  alla   procedura   di   mutamento   delle
  circoscrizioni provinciali e degli altri enti territoriali previsti
  dalla Costituzione - Denunciata  violazione  del  procedimento  per
  l'approvazione delle leggi costituzionali. 
- Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con  modificazioni,
  nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art.  17,  commi  1,  2,  3,  4,
  4-bis, 6, 11 e 12. 
- Costituzione, artt. 1, 2, 3, 5, 71, primo comma, 77, comma secondo,
  114, 117, 118, 119, 120, 123, 133 e 138. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  revisione della spesa pubblica -  Soppressione  delle  Province  di
  Roma, Torino, Milano,  Venezia,  Genova,  Bologna,  Firenze,  Bari,
  Napoli  e  Reggio  Calabria  con  contestuale   istituzione   delle
  corrispondenti Citta' metropolitane a far data dal 1° gennaio  2014
  - Ricorso  della  Regione  Campania  -  Denunciata  violazione  del
  principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  -
  Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria ed  amministrativa
  regionale  -  Violazione   del   principio   costituzionale   della
  partecipazione della  popolazione  interessata  alla  procedura  di
  mutamento delle  circoscrizioni  provinciali  e  degli  altri  enti
  territoriali previsti dalla Costituzione. 
- Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con  modificazioni,
  nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art.  18,  commi  1,  2,  2-bis,
  7-bis, 9, lett. c) e d). 
- Costituzione, artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133. 
Bilancio e  contabilita'  pubblica  -  Disposizioni  urgenti  per  la
  revisione della spesa pubblica -  Riorganizzazione  delle  funzioni
  fondamentali dei Comuni ai  sensi  dell'art.  117,  comma  secondo,
  lett.  p),  della  Costituzione  -  Previsione  per  i  Comuni  con
  popolazione inferiore ai 5000 abitanti dell'esercizio  obbligatorio
  in forma associata delle funzioni fondamentali,  mediante  riunione
  dei comuni o convenzioni di durata triennale  -  Previsione  per  i
  Comuni con  popolazione  fino  a  1000  abitanti,  dell'obbligo  di
  esercizio in forma associata, mediante unione di tutte le  funzioni
  amministrative e di tutti i servizi pubblici ad  essi  spettanti  -
  Previsione che le Regioni, nelle materie di cui all'art. 117, commi
  terzo e  quarto,  della  Costituzione,  individuano  le  dimensioni
  territoriali ottimali  per  l'esercizio  delle  funzioni  in  forma
  obbligatoriamente  associata,  mediante  unioni  e  convenzioni   -
  Ricorso  della  Regione  Campania  -  Denunciata   violazione   del
  principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  -
  Denunciata violazione dell'autonomia finanziaria ed  amministrativa
  regionale  -  Denunciata  violazione  della  sfera  di   competenza
  regionale  in  materia  di  associazionismo  degli  enti  locali  -
  Violazione del principio costituzionale della partecipazione  della
  popolazione  interessata  alla   procedura   di   mutamento   delle
  circoscrizioni provinciali e degli altri enti territoriali previsti
  dalla Costituzione. 
- Decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con  modificazioni,
  nella legge 7 agosto 2012, n. 135, art. 19, commi 1, lett. a),  b),
  c) e d), 2, 3, 4, 5 e 6. 
- Costituzione, artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133. 
(GU n.48 del 5-12-2012 )
    La Regione Campania (codice fiscale 80011990636), in persona  del
presidente della giunta  regionale  pro-tempore,  on.  dott.  Stefano
Caldoro, rappresentata e difesa, ai sensi della delibera della giunta
regionale n. 529 del 4 ottobre 2012, giusta  procura  a  margine  del
presente atto, unitamente e disgiuntamente,  dall'avv.  Maria  D'Elia
(codice fiscale DLEMRA53H42F839H), dell'avvocatura regionale,  e  dal
prof.  avv.   Beniamino   Caravita   di   Toritto   (codice   fiscale
CRVBMN54D19H501A), del  libero  foro,  ed  elettivamente  domiciliata
presso l'ufficio di rappresentanza della  Regione  Campania  sito  in
Roma  alla  via  Poli  n.  29  (fax   06/42001646;   pec   abilitata:
cdta@legalmail.it); 
 
                               Contro 
 
    Il Presidente del  Consiglio  dei  Ministri  pro-tempore  per  la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 3 e
8, dell'art. 17, commi 1, 2, 3, 4, 4-bis, 11, nonche' commi 6  e  12,
dell'art. 18, commi 1, 2, 2-bis, 7-bis, 9, lettere c) e  d),  nonche'
dell'art. 19, commi 1, lettere a), b), e) e d), 2, 3, 4, 5 e  6,  del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95,  convertito,  con  modificazioni,
dalla  legge  7  agosto  2012,  n.  135,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale - serie generale - n. 189 del 14 agosto  2012,  supplemento
ordinario n. 173, recante  «Disposizioni  urgenti  per  la  revisione
della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini  nonche'
misure  di  rafforzamento  patrimoniale  delle  imprese  del  settore
bancario», per violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 41,  71,  comma  1,
75, 77, comma 2, 97, 114, 117, 118, 119, 120, comma 2, 123, 133,  136
e 138 della Costituzione. 
 
                                Fatto 
 
    Il  decreto-legge  6  luglio  2012,  n.   95,   convertito,   con
modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, reca  «Disposizioni
urgenti per la revisione della  spesa  pubblica  con  invarianza  dei
servizi ai cittadini nonche'  misure  di  rafforzamento  patrimoniale
delle imprese del settore bancario». 
    Scopo primario del provvedimento e'  la  razionalizzazione  della
spesa pubblica attraverso la riduzione delle spese  per  acquisti  di
beni e servizi, nonche' il contenimento e  la  stabilizzazione  della
finanza  pubblica  anche  attraverso   misure   volte   a   garantire
l'efficienza  e   l'economicita'   dell'organizzazione   degli   enti
pubblici. Tuttavia, alcune delle disposizioni recate  dall'intervento
legislativo in parola appaiono di incerta idoneita' rispetto al  fine
programmatico  dell'intervento  normativo  e,  altresi',   gravemente
lesive dell'autonomia regionale. 
    1. In quest'ottica, l'art. 4,  comma  1,  di  tale  provvedimento
prevede che nei confronti delle societa' controllate  direttamente  o
indirettamente dalle pubbliche amministrazioni  di  cui  all'art.  1,
comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001 - tra cui figurano anche
regioni ed enti locali -, che abbiano conseguito  nell'anno  2011  un
fatturato  da  prestazione  di  servizi   a   favore   di   pubbliche
amministrazioni superiore al 90%, si proceda a  dismissione  mediante
scioglimento o alienazione. 
    Ai sensi del successivo comma 3 del medesimo articolo,  l'obbligo
di dismissione di cui al comma 1 non si applica,  tra  l'altro,  alle
societa' che svolgono servizi di  interesse  generale,  anche  aventi
rilevanza  economica.  Peraltro,  la   norma   menzionata   subordina
espressamente la non applicazione a tali societa' delle  disposizioni
di cui al comma 1 al ricorrere della condizione che «per le peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto, anche territoriale, di riferimento, non sia  possibile  per
l'amministrazione pubblica controllante un efficace e  utile  ricorso
al mercato». Al  ricorrere  di  tale  ipotesi,  l'amministrazione  e'
tenuta a predisporre un'analisi del mercato, che  viene  assoggettata
al parere vincolante dell'Autorita' garante della concorrenza  e  del
mercato. 
    Sia consentito fin  da  subito  evidenziare  come  le  richiamate
previsioni si pongano in linea di continuita' ed analogia con  l'art.
23-bis  del  decreto-legge  n.  112/2008,  abrogato  a  seguito   del
referendum del 12 giugno 2011, nonche' con il successivo art.  4  del
decreto-legge  n.  138/2011  -  dichiarato   incostituzionale   dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 199 del  2012  -  disposizioni
delle quali viene per di piu' riprodotta ampiamente la formulazione. 
    Altra evidente lesione della sfera  di  competenza  regionale  e'
perpetrata dal comma 8 dell'art. 4, a norma del  quale,  a  decorrere
dal 1° gennaio 2014, l'affidamento diretto a  favore  di  societa'  a
capitale interamente pubblico, nel rispetto dei  requisiti  richiesti
dal diritto comunitario per la  gestione  in  house,  viene  limitato
entro  un  valore  economico  del  servizio  o   dei   beni   oggetto
dell'affidamento non superiore a 200.000 euro annui. 
    2.  Altra  disciplina  manifestamente  lesiva  delle  prerogative
regionali  si  rinviene  nell'art.  17,  rubricato  «Riordino   delle
province e loro funzioni». A norma di tale articolo,  allo  scopo  di
conseguire obiettivi di finanza pubblica necessari al  raggiungimento
del pareggio di bilancio, viene disposto  il  riordino  di  tutte  le
province delle regioni a statuto ordinario, sulla  base  dei  criteri
delineati dai successivi commi. Il comma 2 dispone  che  entro  dieci
giorni dall'entrata  in  vigore  del  decreto-legge  n.  95/2012,  il
Consiglio dei Ministri determini, con  apposita  deliberazione  -  su
proposta dei Ministri dell'interno e della pubblica  amministrazione,
di concerto con il  Ministro  dell'economia  e  delle  finanze  -  il
riordino delle province sulla base di requisiti  minimi,  individuati
nella  dimensione  territoriale  e  nella  popolazione  residente  in
ciascuna provincia (tale  deliberazione  e'  stata  approvata  il  20
luglio 2012, e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  n.  171  del  24
luglio 2012). 
    Entro settanta giorni dalla pubblicazione in  Gazzetta  Ufficiale
della suddetta deliberazione governativa, e dunque entro il 2 ottobre
2012, il Consiglio delle autonomie locali (o,  in  mancanza,  analogo
organo di raccordo tra regione ed  enti  locali),  nel  rispetto  del
principio  di  continuita'  territoriale,  deve   approvare   e   poi
trasmettere  alla  regione  un'ipotesi  di  riordino  relativa   alle
province presenti nel territorio regionale. Entro venti giorni  dalla
trasmissione  o,  in  mancanza,   entro   novantadue   giorni   dalla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della  deliberazione  governativa
(e quindi al piu' tardi entro il 24 ottobre), le regioni  trasmettono
al Governo una proposta di riordino delle  province  formulata  sulla
base delle ipotesi avanzate  dal  C.A.L.  o  dall'analogo  organo  di
raccordo (comma 3). 
    Da ultimo, il comma 4, nel delineare la fase conclusiva dell'iter
descritto, prevede che, entro sessanta giorni dall'entrata in  vigore
della legge di conversione del decreto-legge n. 95/2012 (vale a  dire
entro il 14 ottobre), un «atto legislativo di iniziativa governativa»
perfezioni il riordino delle  province,  sulla  base  delle  proposte
regionali pervenute. In caso di mancata trasmissione di tali proposte
entro tale ultima data,  il  provvedimento  legislativo  di  riordino
delle  province  sara'  assunto  previo   parere   della   Conferenza
unificata. Peraltro, appare da subito evidente come il termine a  quo
per l'esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato ex  comma
4 (14 ottobre) inizia a decorrere prima ancora  che  sia  scaduto  il
termine ad quem (24  ottobre  2012)  per  l'adozione  delle  proposte
regionali ai sensi del comma 3. 
    Il descritto riordino prevede inoltre (comma 4-bis) che il  ruolo
di comune capoluogo delle singole province venga assunto  dal  comune
gia' capoluogo di provincia con maggior popolazione residente,  salvo
il caso di diverso accordo tra i comuni gia'  capoluogo  di  ciascuna
provincia oggetto di riordino. 
    All'art. 17 del decreto-legge n.  95/2012,  comma  6,  vi  e'  la
previsione del trasferimento ai comuni delle funzioni  amministrative
in precedenza conferite alle province e rientranti nelle  materie  di
competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell'art.  117,
comma secondo, della Costituzione, in attuazione dell'art. 23,  comma
18, decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge  n.  214/2011.  La
norma dispone il suddetto trasferimento «fatte salve le  funzioni  di
indirizzo e di coordinamento  di  cui  all'art.  23,  comma  14»  del
medesimo decreto. Il comma 12, nell'individuare gli organi di governo
della provincia nel consiglio  provinciale  e  nel  presidente  della
provincia, fa salve, analogamente al comma 6, le  previsioni  di  cui
all'art. 23, comma 15, del citato decreto-legge n. 201/2011. 
    Sia consentito rammentare come le suddette disposizioni dell'art.
23 sono gia' state oggetto di  impugnativa  da  parte  della  regione
ricorrente dinanzi a Codesta Ecc.ma Corte con ricorso n. 46 del 2012,
attualmente pendete. 
    Il comma 11 del menzionato art. 17, infine, individua le funzioni
spettanti alla regione  a  seguito  della  conclusione  del  processo
riordino   provinciale,   limitandole   alle   sole    funzioni    di
programmazione e di coordinamento, loro spettanti  nelle  materie  di
cui all'art. 117 Cost. e a quelle esercitate ex art. 118 Cost. 
    3. Un  altro  gruppo  di  disposizioni  violative  dell'autonomia
regionale si rinviene nell'art. 18, il quale, al dichiarato scopo  di
garantire  l'efficace  ed  efficiente  svolgimento   delle   funzioni
amministrative, nella pretesa attuazione degli artt. 114 e 117, comma
2, lettera p), Cost., dispone alla data del 1° gennaio  2014  [Ovvero
ad altra precedente coincidente con la cessazione o  lo  scioglimento
del consiglio provinciale, ovvero con la scadenza  dell'incarico  del
commissario eventualmente nominato.] la soppressione di una serie  di
province all'uopo individuate (tra cui anche quella di Napoli)  e  la
contestuale istituzione delle relative citta' metropolitane. Il comma
1 prevede, altresi', l'abrogazione degli artt. 23 e 24, commi 9 e 10,
della  legge  n.  42/2009  (recanti  previsioni  transitorie  per  la
disciplina  di  prima  attuazione  degli  enti   locali   da   ultimo
richiamati), nonche' degli artt. 22 e 23 del decreto  legislativo  n.
267/2000 (recanti la disciplina ordinaria per  la  loro  istituzione,
temporaneamente sospesa dalla predetta legge n.  42).  Ai  sensi  del
comma 2, il territorio della citta' metropolitana coincide con quello
della provincia soppressa. E' fatto  comunque  salvo  il  potere  dei
comuni interessati di deliberare, con  atto  del  consiglio  comunale
«l'adesione alla  citta'  metropolitana  o,  in  alternativa,  a  una
provincia limitrofa», ai sensi dell'art. 133, comma 1, Cost. 
    Ex  comma  2-bis  dell'art.   18,   lo   statuto   della   citta'
metropolitana puo' prevedere, su proposta del  consiglio  del  comune
capoluogo,  un'articolazione  del  territorio  del  comune  capoluogo
medesimo in piu' «comuni». In tal caso, la  proposta  complessiva  di
statuto, sulla quale la regione esprime mero parere,  e'  soggetta  a
referendum tra tutti i cittadini della citta' metropolitana. La norma
provvede altresi'  a  regolare  la  tempistica  ed  il  quorum  della
consultazione referendaria. In caso di esito positivo,  e'  demandata
alla legge regionale la revisione delle  circoscrizioni  territoriali
comunali. 
    Sotto  diverso  profilo,  il  comma  7  individua   le   funzioni
fondamentali delle citta' metropolitane ai sensi dell'art. 117, comma
2, lettera p), Cost. e  il  successivo  comma  7-bis,  rispetto  agli
istituendi enti locali, fa salve per le regioni le sole  funzioni  di
programmazione e di coordinamento, spettanti  nelle  materie  di  cui
all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., nonche' le funzioni  esercitate  ex
art. 118 Cost. 
    Sempre in tema di funzioni, il successivo comma  9  dell'art.  18
rimette allo statuto della citta' metropolitana  la  possibilita'  di
«conferire»  proprie  funzioni  ai  comuni  ricompresi  nel   proprio
territorio  o  alle  loro   forme   associative,   anche   in   forma
differenziata per  determinate  aree  territoriali,  con  contestuale
trasferimento  delle  risorse  umane,   strumentali   e   finanziarie
necessarie per il loro svolgimento.  Allo  stesso  modo,  secondo  le
modalita' previste dallo statuto medesimo,  i  comuni  facenti  parte
della citta'  metropolitana  e  le  loro  forme  associative  possono
«conferire»  alla  medesima   proprie   funzioni,   con   contestuale
trasferimento  delle  risorse  umane,   strumentali   e   finanziarie
necessarie per il loro svolgimento. 
    4. L'ultima disposizione caratterizzata da evidenti criticita' in
ordine alla propria legittimita' e' l'art.  19,  rubricato  «Funzioni
fondamentali  dei  comuni  e  modalita'  di  esercizio  associato  di
funzioni e servizi comunali». In  primo  luogo,  tale  articolo,  nel
modificare l'art. 14, comma 27, del decreto-legge n. 78/2010 - che  a
sua volta individua le funzioni fondamentali dei comuni -,  riconosce
alle regioni, rispetto ai predetti enti locali, le sole  funzioni  di
programmazione e di coordinamento ex art. 117, commi 3 e  4,  nonche'
quelle esercitate ex art. 118 Cost. (art. 19, comma 1, lettera a). 
    Riscrivendo  il  comma  28  dell'art.  14  del  decreto-legge  n.
78/2010, viene  imposto  ai  comuni  con  popolazione  fino  a  5.000
abitanti (ovvero  fino  a  3.000  se  appartenenti  o  appartenuti  a
comunita' montane) l'esercizio obbligatorio in forma associata  delle
funzioni fondamentali, mediante unione di comuni o convenzione  (art.
19, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 95/2012). 
    Nell'introdurre nell'art. 14  del  decreto-legge  n.  78/2010  il
nuovo comma 28-bis, la lettera c) della  disposizione  qui  impugnata
prevede che alle unioni suddette si applichi la disciplina ex art. 32
TUEL. Per i  comuni  fino  a  1.000  abitanti  e'  prevista,  invece,
l'applicazione dell'art. 16, comma 17, lettera a),  decreto-legge  n.
138/2011, a norma del il quale consiglio  comunale  e'  composto  dal
sindaco e da 6 consiglieri. 
    In ultimo, il comma 30 dell'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010,
come modificato ora dall'impugnato art.  19,  comma  1,  lettera  d),
rimette alla regione, nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4,
Cost.,  l'individuazione,  previa  consultazione  del  C.A.L.,  della
dimensione  territoriale  ottimale  per  lo  svolgimento   in   forma
obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali dei comuni. 
    Il comma 2 del menzionato art.  19  sostituisce  integralmente  i
commi  da  1  a  16  dell'art.  16  del  decreto-legge  n.  138/2011,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148/2011, con 13  nuovi
commi. E' opportuno da subito segnalare che tale  articolo  e'  stato
oggetto di impugnativa da parte della regione ricorrente innanzi alla
Corte  costituzionale  (reg.  ric.  n.  153  del  2011),  in  ragione
dell'evidente portata lesiva delle competenze regionali in materia di
disciplina delle forme associative degli  enti  locali  presenti  sul
proprio territorio. Peraltro, tali novelle  non  risultano  idonee  a
ritenere superati i vizi di costituzionalita'  gia'  censurati  dalla
ricorrente con il precedente ricorso. 
    In  particolare,  il  novellato  art.  16  del  decreto-legge  n.
138/2011 prevede la possibilita' per i comuni con popolazione fino  a
1.000 abitanti di esercitare in forma associata tutte le  funzioni  e
tutti i servizi pubblici loro spettanti mediante un'unione di  comuni
(art. 16, comma 1) [Il successivo comma 12 dell'art.  16,  nella  sua
nuova formulazione, prevede che l'esercizio  associato  possa  essere
svolto anche mediante convenzioni, purche' alla scadenza delle stesse
sia comprovato il conseguimento di adeguati livelli di efficienza  ed
efficacia da parte dei comuni aderenti.]. A tale unione sono affidate
per conto dei  comuni  associati  la  programmazione  della  potesta'
impositiva sui tributi locali, nonche' quella  patrimoniale  relativa
alle funzioni esercitate, ed e' altresi' prevista la  predisposizione
di apposito bilancio (comma 2). L'unione succede a tutti gli  effetti
nei rapporti giuridici in essere alla data di  costituzione  inerenti
alle  funzioni  e  ai  servizi  ad  essa  affidati,  con  contestuale
trasferimento di tutte  le  relative  risorse  umane  e  strumentali,
nonche' dei relativi rapporti finanziari (comma 3). 
    A norma del nuovo comma 4, le forme associative in parola  devono
avere una popolazione complessiva superiore a 5.000  abitanti  (3.000
nel caso di comunita' montane). Peraltro, il comma  5  del  censurato
art. 19 consente alle regioni, entro due mesi dall'entrata in  vigore
del  decreto-legge  ivi  gravato,  di  individuare   diversi   limiti
demografici. 
    Il successivo comma 5 del novellato art. 16 del decreto-legge  n.
138/2011,  delinea  il  procedimento   di   formazione   dell'unione,
prevedendo  che  i  comuni  interessati  avanzino  alla  regione  una
proposta di aggregazione. Peraltro, ai sensi dell'art. 19,  comma  6,
decreto-legge  n.  95/2012,  l'invio  delle  suddette  proposte  deve
avvenire perentoriamente entro 6  mesi  dall'entrata  in  vigore  del
decreto-legge stesso. Entro il termine  perentorio  del  31  dicembre
2013, la regione deve sancire l'istituzione di tutte  le  unioni  del
territorio, secondo le proposte trasmesse, anche se  mancanti  o  non
conformi. 
    I commi da 6 a 9 del  novellato  art.  16  del  decreto-legge  n.
138/2011, provvedono, poi, ad  individuare  gli  organi  dell'unione,
quali il  consiglio,  il  presidente  e  la  giunta,  regolandone  la
composizione, la durata e le modalita'  di  elezione.  Il  successivo
comma  10  rimette  allo  statuto  dell'unione  la  disciplina  delle
modalita' di funzionamento e dei rapporti tra gli organi suddetti. Il
comma 13 prevede che dalla proclamazione degli  eletti  negli  organi
dell'unione, gli organi di governo dei comuni associati rimangono  il
sindaco ed il  consiglio  comunale,  mentre  le  giunte  decadono  di
diritto. 
    Sotto diverso profilo, il comma  3  del  censurato  art.  19  del
decreto-legge n. 95/2012, nel sostituire integralmente l'art. 32  del
decreto  legislativo  n.  267/2000,  disciplina  ex  novo  l'istituto
dell'unione di comuni, quale ente locale costituito  da  due  o  piu'
comuni, di norma contermini, finalizzato all'esercizio  associato  di
funzioni e  servizi.  All'unione  sono  riconosciuti  organi  propri,
formati  da  amministratori   in   carica   dei   comuni   associati,
un'autonomia statutaria e potesta' regolamentare. I comuni provvedono
al trasferimento delle risorse umane  e  strumentali  necessarie.  In
aggiunta, alle unioni competono  gli  introiti  derivanti  da  tasse,
tariffe e contributi sui servizi affidati. 
    Oggetto di censura e' anche il comma 4 dell'art. 19, nella  parte
in cui dispone che i comuni con popolazione  non  superiore  a  5.000
abitanti e facenti parte  di  un'unione,  per  l'esercizio  associato
delle funzioni possono optare per  le  forme  associative  prescritte
dall'art. 14 del decreto-legge n. 78/2010, ovvero  dall'art.  16  del
decreto-legge n.  138/2012,  come  modificati  dai  commi  precedenti
dell'art. 19 ivi censurato. 
    Le richiamate disposizioni del decreto-legge n. 95 del 2012, come
convertite con legge n. 135 del  2012,  risultano  gravemente  lesive
delle prerogative della regione  ricorrente,  in  quanto  viziate  da
manifesta illegittimita' costituzionale per i seguenti motivi di 
 
                               Diritto 
 
    1. Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 3  e  8,  del
decreto-legge n. 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla  legge
n. 135/2012, per violazione degli artt. 5, 41, 75, 114,  117,  118  e
136 Cost. 
    1.1. Come  si  e'  gia'  avuto  modo  di  vedere,  l'art.  4  del
decreto-legge n. 95/2012, nell'escludere dall'obbligo di scioglimento
o  alienazione  da  parte  degli  enti   territoriali   le   societa'
controllate che svolgano servizi di interesse generale  anche  aventi
rilevanza economica, subordina tale  esclusione  al  ricorrere  della
condizione che «per le peculiari caratteristiche economiche, sociali,
ambientali e geomorfologiche del  contesto,  anche  territoriale,  di
riferimento,  non  sia  possibile  per   l'amministrazione   pubblica
controllante un efficace e utile ricorso al mercato». Al ricorrere di
tale ipotesi, l'amministrazione e' tenuta  a  predisporre  un'analisi
del  mercato,   che   viene   assoggettata   al   parere   vincolante
dell'Autorita' garante della concorrenza e del mercato. 
    Peraltro,  come  gia'  rilevato  nella  parte  in  «Fatto»,  tale
disciplina ricalca - anche  letteralmente  -  le  previsioni  di  cui
all'art. 23-bis,  commi  3  e  4,  decreto-legge  n.  112/2008.  Tale
disposizione condizionava, infatti,  gli  affidamenti  in  house  dei
servizi pubblici locali  di  rilevanza  economica  alla  presenza  di
determinate caratteristiche ambientali del  territorio,  e  rimetteva
all'ente appaltante l'onere di svolgere apposita analisi  di  mercato
da sottoporre al parere dell'Autorita' garante  della  concorrenza  e
del mercato. 
    E' altresi'  noto  che  la  nozione  comunitaria  di  servizi  di
interesse generale aventi rilevanza economica ricomprenda  i  servizi
pubblici locali di rilevanza economica. 
    Tuttavia, nonostante l'intervenuta abrogazione del predetto  art.
23-bis del decreto-legge n. 112/2008, a seguito del referendum del 12
giugno  2011  (cfr.  decreto  del  Presidente  della  Repubblica   n.
113/2011), la disposizione ivi censurata, nella parte in cui ritaglia
una procedura ad hoc  per  le  societa'  in  ordine  alle  quali  sia
precluso un utile ed  efficace  ricorso  al  mercato  in  ragione  di
peculiari  caratteristiche,  finisce  di  fatto  per  riprodurre   la
disciplina gia' espunta dall'ordinamento a  seguito  della  ricordata
consultazione referendaria. E cio' in  stridente  contrasto  con  gli
artt. 5, 75, 114, 117 e 118 Cost. 
    In particolare, e' ben noto come il referendum del  12-13  giugno
2011 abbia manifestato  la  volonta'  popolare  di  non  restringere,
rispetto  ai  criteri  posti   dalla   disciplina   comunitaria,   la
possibilita' di ricorrere  agli  affidamenti  in  house  dei  servizi
pubblici locali, nella  convinzione  che  l'obbligo  di  apertura  al
mercato concorrenziale  avrebbe  comportato  un  peggioramento  delle
condizioni di prestazione dei suddetti servizi. Tale abrogazione  ha,
quindi, determinato la riespansione e l'applicabilita' nella  materia
dei   servizi   pubblici   locali,   della   normativa    comunitaria
sull'affidamento in house. 
    Tuttavia,  in  totale  spregio   degli   esiti   della   suddetta
consultazione popolare, ed in patente violazione dell'art. 75  Cost.,
con l'art. 4 del decreto-legge n. 95/2012 il legislatore  statale  ha
reintrodotto una disciplina del  tutto  analoga  a  quella  abrogata.
Dall'analisi di tale disposizione,  infatti,  sembra  chiaro  che  la
stessa  persegua  la  ratio  di  realizzare  la   privatizzazione   e
liberalizzazione  dei  servizi  resi  a  beneficio  delle   pubbliche
amministrazioni. Ossia  l'analogo  scopo  al  quale  gia'  mirava  la
disciplina ex art. 23-bis. 
    Ma a ben  vedere  le  previsioni  di  cui  alla  norma  censurata
risultano ancor piu' restrittive. Ed infatti, posto che in entrambi i
casi l'amministrazione pubblica dovra' sottoporre al parere dell'AGCM
un'analisi del mercato in  ordine  alla  ricorrenza  delle  peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto, risulta immediatamente evidente come l'esito  negativo  del
suddetto parere non comportera' piu' la preclusione degli affidamenti
in house di valore superiore ad euro 200.000, bensi' la necessita' di
sciogliere  o  dismettere  la  stessa   societa'   controllata,   con
preclusione assoluta del ricorso  a  questa  forma  di  gestione  del
servizio. 
    In altre parole, la disposizione impugnata  subordina  la  stessa
sopravvivenza delle societa'  controllate  che  svolgono  servizi  di
interesse generale, anche aventi rilevanza economica alla valutazione
circa l'impossibilita' per l'amministrazione pubblica controllante di
poter efficacemente ed utilmente ricorrere al mercato. In aggiunta, a
rendere ancor piu' lesiva la disciplina da ultimo recata,  viene  ora
prescritta l'acquisizione  di  un  parere  vincolante  dell'Autorita'
garante della concorrenza e del mercato. 
    Non escludendo le societa' cosiddette in house dal proprio ambito
di applicazione, il censurato art. 4, comma 3, si  pone  pertanto  in
palese contrasto non solo con gli  esiti  referendari  del  12  e  13
giugno 2011, ma anche con il netto decisum della recente sentenza  n.
199 del 2012, mediante la quale Codesta Ecc.ma  Corte  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  4  del  decreto-legge  n.
138/2011, nella misura in cui recava una disciplina simile  a  quella
oggetto di abrogazione referendaria. 
    In particolare, con tale pronuncia Codesto  Ecc.mo  Giudice,  nel
dare accoglimento alle censure formulate dalle regioni ricorrenti, ha
avuto  modo  di  osservare  come  a  seguito   dell'abrogazione   del
menzionato art. 23-bis le competenze regionali e  degli  enti  locali
nel settore dei servizi pubblici  locali  si  siano  riespanse.  Tale
articolo, infatti, riduceva le possibilita'  di  affidamenti  diretti
dei servizi pubblici  locali,  con  conseguente  delimitazione  degli
ambiti  di  competenza  legislativa   residuale   delle   regioni   e
regolamentare degli enti locali. La sua espunzione  dall'ordinamento,
lungi dal creare vuoti  normativi,  ha  determinato  l'applicabilita'
della disciplina comunitaria, piu' favorevole per le  regioni  e  per
gli enti locali. 
    A fronte della chiara e netta giurisprudenza  di  Codesta  Ecc.ma
Corte, tuttavia, con la disposizione ivi censurata la possibilita' di
amministrare servizi pubblici locali a rilevanza  economica  mediante
affidamento  diretto  e'   stata   nuovamente   ridimensionata,   con
conseguente frustrazione dell'esercizio delle competenze regionali  e
degli enti locali in materia, e quindi in contrasto con gli artt. 117
e 118 Cost. 
    Peraltro, il nuovo intervento  legislativo  statale  in  tema  di
gestione in house dei predetti servizi  pubblici  locali,  risultando
anche letteralmente riproduttivo  e  comunque  contraddistinto  dalla
medesima  ratio  della   disciplina   dichiarate   costituzionalmente
illegittima dalla richiamata sent. n. 199 del 2012, si traduce in una
palese violazione dell'art. 136 Cost. 
    Ne' valga obbiettare che, nel lasso di tempo  intercorso  (invero
non lungo) tra la consultazione referendaria e  l'introduzione  della
norma  ivi  censurata,  si  sono  verificati   mutamenti   idonei   a
legittimare la reintroduzione della  disciplina  abrogata.  Le  norme
reintrodotte, infatti, non danno certezza in ordine al  conseguimento
di effetti finanziari positivi utili a risolvere la grave congiuntura
economica in atto. Tali  effetti  rimangono  del  tutto  ipotetici  e
meramente attesi (sperati) senza la  benche'  minima  allegazione  di
evidenze empiriche (al riguardo,  sul  punto,  estremamente  laconica
appare la relazione tecnica  di  accompagnamento  al  decreto-legge).
Invero,  il  rigore  del  giudicato  costituzionale  -   secondo   la
consolidata giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte -  avrebbe  dovuto
imporre  al  legislatore  di  «accettare  la   immediata   cessazione
dell'efficacia della norma illegittima», precludendo allo  stesso  di
«perseguire  e  raggiungere,  direttamente  o  indirettamente,  esiti
corrispondenti a quelli gia' ritenuti lesivi della Costituzione»  (in
tal senso, ex plurimis, Corte cost., sentt. n. 223 del 1983,  nonche'
n. 922 del 1988). 
    Alla luce di tutto quanto  supra  dedotto,  l'art.  4,  comma  3,
decreto-legge n. 95/2012 appare manifestamente illegittimo. 
    1.2. Sotto diverso profilo, l'art. 4, comma 3,  risulta  altresi'
illegittimo  nella  parte  in  cui,  nel   prevedere   l'obbligo   di
dismissione  o  scioglimento   delle   societa'   controllate   dalle
amministrazioni, ricomprende tra queste  ultime  anche  le  autonomie
territoriali.  Cosi'  facendo,  infatti,   il   legislatore   statale
fuoriesce dall'ambito della competenza esclusiva in materia di tutela
della concorrenza nel  mercato,  invadendo  la  competenza  residuale
regionale in materia di  servizi  pubblici  locali  ed  ancora  prima
l'autonomia istituzionale in  relazione  all'esercizio  di  attivita'
economiche organizzate. 
    Ed infatti, come si e' gia' osservato, mediante le previsioni  di
cui al citato art. 4, lo Stato non si limita, come  aveva  fatto  con
l'art.  23-bis  del  decreto-legge  n.  112/2008,   a   limitare   la
possibilita' di ricorrere all'affidamento  in  house,  che  rientrano
nell'ambito della materia «tutela della concorrenza», secondo  quanto
stabilito in varie pronunce da Codesta  Ecc.ma  Corte  (ex  plurimis,
sent. n. 325 del 2010). Invero, con la disposizione censurata risulta
vincolata  la  stessa  possibilita'  per  le  regioni  di   mantenere
partecipazioni nelle societa' interamente o parzialmente controllate,
in violazione della liberta' di iniziativa economica organizzata, che
costituisce senza dubbio alcuno una delle  prerogative  pacificamente
riconosciute alle  regioni,  come  imprescindibile  corollario  della
propria autonomia istituzionale ex art. 114 Cost. 
    In altre parole, la disciplina ivi indubbiata  di  illegittimita'
consegue l'effetto di precludere in radice  alle  regioni  la  stessa
possibilita' di esercitare le attivita'  di  rilevanza  economica  in
precedenza esercitate tramite societa' controllate. Per tali ragioni,
l'art. 4 viola altresi' gli artt. 41 e 114 Cost. 
    1.3. Sotto diverso profilo, illegittimo risulta altresi' il comma
8 del medesimo articolo, nella parte in cui dispone che, a  decorrere
dal 1° gennaio 2014, l'affidamento  diretto  possa  avvenire  solo  a
favore di societa' a capitale interamente pubblico, nel rispetto  dei
requisiti richiesti dal diritto comunitario in materia  di  in  house
providing, purche' il  valore  economico  del  servizio  o  dei  beni
oggetto dell'affidamento non superi 200.000 euro annui. 
    A  dimostrare  la  grave   e   manifesta   illegittimita'   della
disposizione censurata,  sia  sufficiente  rilevare  come  la  stessa
riproponga  la  soglia  economica  gia'  stabilita  dall'art.  4  del
decreto-legge   n.   138/2011,   nella   versione   modificata    dal
decreto-legge n. 1/2012. Come si e'  gia'  avuto  modo  di  osservare
sopra,  tale  disposizione  e'  stata  oggetto  di  dichiarazione  di
incostituzionalita' da parte della menzionata  sentenza  n.  199  del
2012. 
    Nella suddetta decisione, nel pronunciarsi proprio in ordine alla
legittimita' delle modifiche sopravvenute del predetto art. 4, tra le
quali  rientrava  anche  l'introduzione  di  una  soglia  di   valore
inferiore ad euro 200.000,  Codesta  Ecc.ma  Corte  ha  espressamente
sottolineato come le stesse «limitano  ulteriormente  le  ipotesi  di
affidamento  diretto  dei  servizi  pubblici  locali,  confermano  il
contenuto prescrittivo  delle  disposizioni  oggetto  delle  censure,
(...) comprimendo, anzi,  ancor  di  piu',  le  sfere  di  competenza
regionale». 
    In aggiunta, Codesto Ecc.mo Giudice ha altresi' osservato come la
limitazione espressa degli affidamenti diretti  al  di  sotto  di  un
massimo  di  valore  dei  beni  o   servizi,   oltre   ad   escludere
«qualsivoglia valutazione dell'ente locale, oltre che della regione»,
si pone altresi' «in difformita' rispetto  a  quanto  previsto  dalla
normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n.
325 del 2010), la gestione diretta del  servizio  pubblico  da  parte
dell'ente  locale,  allorquando  l'applicazione   delle   regole   di
concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la  «speciale  missione»
dell'ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale
totalmente  pubblico  della  societa'  affidataria,  del   cosiddetto
controllo  «analogo»  (il  controllo   esercitato   dall'aggiudicante
sull'affidatario  deve  essere  di  «contenuto  analogo»   a   quello
esercitato dall'aggiudicante  sui  propri  uffici)  ed  infine  dello
svolgimento    della    parte    piu'    importante    dell'attivita'
dell'affidatario in favore dell'aggiudicante». 
    Se,  dunque,  l'abrogazione  referendaria  dell'art.  23-bis  del
decreto-legge n.  112/2008  ha  comportato  che  trovasse  nuovamente
applicazione la normativa comunitaria dell'in house  providing  (alla
quale   l'art.   4   del    decreto-legge    n.    95/2012    afferma
contraddittoriamente di dare attuazione), l'introduzione di un limite
di valore per gli affidamenti diretti non previsto da tale  normativa
comporta l'illegittima violazione dell'art. 117, comma 1, Cost. 
    In tal senso, e' appena il caso di rammentare come Codesta Ecc.ma
Corte abbia gia' avuto modo di rilevare che «le disposizioni di legge
che collidessero con i limiti posti dalla configurazione  comunitaria
dell'in   house,   confliggerebbero   con   norma    interposta    di
costituzionalita', prestandosi al  vaglio  del  giudice  delle  leggi
circa il rispetto dei vincoli  posti  al  legislatore  (quali  limiti
all'esercizio della medesima potesta' legislativa, ai sensi dell'art.
117, primo comma della Costituzione)» (sentenza n. 439 del 2008). 
    Sotto  diverso   profilo,   alla   violazione   della   normativa
comunitaria in materia di affidamento diretto consegue, altresi',  la
compressione delle competenze  legislative  regionali  e  degli  enti
locali ex artt. 117 e 118 Cost., le quali, secondo  la  ricostruzione
fornita da  Codesta  Ecc.ma  Corte,  devono  intendersi  riespanse  a
seguito della consultazione referendaria del 12-13 giugno 2011. 
    In conclusione, il comma 8 dell'impugnato  art.  4,  violando  il
principio  di  autonomia  e  il  giudicato  costituzionale,   risulta
costituzionalmente illegittimo per contrasto con i medesimi parametri
gia' invocati in riferimento al precedente comma 3 (artt. 5, 75, 114,
117, 118 e 136 Cost.). 
    2. Illegittimita' costituzionale  dell'art.  17,  commi  da  1  a
4-bis, commi 6 e 12, nonche' comma 11, del decreto-legge n.  95/2012,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge   n.   135/2012,   per
violazione degli artt. 1, 2, 3, 5, 71, comma 1,  77,  comma  2,  114,
117, 118, 119, 120, 123, 133 e 138 Cost. 2,1. I commi da  1  a  4-bis
dell'art. 17 del decreto-legge n.  95/2012  risultano  manifestamente
illegittimi laddove, descrivendo  compiutamente  il  procedimento  di
riordino  delle  province  attualmente  esistenti,  si   pongono   in
stridente contrasto con le previsioni di cui all'art. 133,  comma  1,
Cost. 
    Tale disposizione costituzionale prevede che il  mutamento  delle
circoscrizioni  provinciali  e  l'istituzione   di   nuove   province
nell'ambito  delle  regioni  siano  coperti  da  riserva   di   legge
rinforzata, prescrivendo l'approvazione di una legge della Repubblica
su iniziativa dei comuni interessati, previo parere della regione. 
    In via preliminare, non  sembra  revocabile  in  dubbio  come  la
riserva   di   legge   rinforzata   prevista   dalla   citata   norma
costituzionale   debba   senz'altro   trovare   applicazione    anche
nell'ipotesi - quale e' quella oggetto del presente giudizio -  nella
quale non viene  stabilita  l'istituzione  di  una  nuova  provincia,
ovvero il mutamento  della  circoscrizione  di  una  gia'  esistente,
bensi' viene disposto un riordino territoriale di carattere generale,
il quale deve quindi ritenersi  a  fortiori  soggetto  al  richiamato
procedimento legislativo speciale. 
    Peraltro, e' appena il caso di rammentare come possa derogarsi al
procedimento definito dall'art. 133 Cost. solo mediante  approvazione
di apposita legge costituzionale,  a  pena  di  violare,  oltre  alla
citata norma costituzionale, altresi' il  procedimento  di  revisione
costituzionale previsto dall'art. 138 Cost. 
    La necessita' del ricorso alla legge costituzionale per  derogare
al procedimento di variazione delle circoscrizioni provinciali, trova
conferma   da   parte   della   giurisprudenza   costituzionale.   In
particolare, con la sentenza n. 230 del 2001,  Codesta  Ecc.ma  Corte
ritenne legittima una legge  della  Regione  Sardegna  istitutiva  di
quattro nuove province, sebbene assunta in difformita' dell'art.  133
Cost., solo in considerazione del fatto che il predetto provvedimento
legislativo regionale  trovava  il  proprio  fondamento  direttamente
nello statuto speciale della Regione Sardegna, il  quale,  in  quanto
adottato con legge costituzionale, aveva «forza derogatoria» rispetto
alla predetta disposizione costituzionale. 
    Allo stesso modo  la  Corte  cost.  ha  dichiarato  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 63, comma 2, della
legge n. 142 del 1990 in base al quale  sono  state  istituite  sette
nuove province con leggi delegate. In questo caso,  infatti,  secondo
il Giudice delle leggi non  vi  fu  deroga  rispetto  alla  procedura
disposta dall'art. 133 Cost., in quanto quest'ultima «non esclude che
l'istituzione  di  una  nuova  provincia   (o   la   modifica   della
circoscrizione di una provincia esistente) possa  essere  effettuata,
oltre che con legge formale delle Camere, anche mediante  il  ricorso
ad una  delega  legislativa»  e  «non  vi  sono  ostacoli  di  natura
costituzionale  che  impediscano  che  gli  adempimenti   procedurali
destinati   a   "rinforzare"   il   procedimento    (e    consistenti
nell'iniziativa dei  comuni  e  nel  parere  della  regione)  possano
intervenire, oltre che in relazione alla  fase  di  formazione  della
legge  di  delegazione,  anche  successivamente  alla   stessa,   con
riferimento alla fase di  formazione  della  legge  delegata»  (sent.
347/1994). 
    Orbene, nel  caso  di  specie  emerge  chiaramente  il  carattere
derogatorio del procedimento  di  riordino  delle  province  rispetto
all'ordinario procedimento di revisione territoriale delle province. 
    In primo luogo, un elemento in tal senso  deve  essere  rinvenuto
nella mancata previsione di un adeguato ruolo dei comuni  interessati
dal riordino, che ben  potrebbero  essere  del  tutto  contrari  alle
ipotesi  formulate  dal  CAL.  Ne'  del  resto  tali  organi  possono
strutturalmente   essere   ritenuti   rappresentativi   dei    comuni
interessati. 
    Altro elemento di incompatibilita' della disciplina ivi censurata
con  la  disposizione   costituzionale   coincide   con   l'esplicita
esclusione della possibilita' che le proposte regionali  di  riordino
tengano conto delle eventuali iniziative comunali volte a  modificare
le circoscrizioni provinciali deliberate successivamente all'adozione
della deliberazione del Consiglio dei Ministri che ha  determinato  i
criteri per il riordino medesimo (deliberazione adottata in  data  20
luglio 2012). Cio' manifesta una grave ed insanabile incoerenza della
procedura «creata» dal  Governo  che,  per  un  verso  disattende  il
dettato costituzionale (art. 133 e art. 138  Cost.),  e  sotto  altro
profilo tuttavia «tiene conto» di una eventuale iniziativa  comunale,
circoscrivendola pero' ad un periodo anteriore  a  quello  in  cui  i
comuni interessati hanno avuto cognizione dei  criteri  di  riordino,
certamente non rispettando il principio di leale  collaborazione  tra
istituzioni. 
    Ulteriore dato  da  cui  risulta  desumibile  la  violazione  del
menzionato art. 133, comma 1, Cost., e' senz'altro quello  alla  luce
del  quale  e'  riconosciuto  al  Governo  il  potere  di  provvedere
legislativamente al riordino delle province anche  in  assenza  delle
proposte di riordino formulate dalle regioni sulla base delle ipotesi
trasmesse dall'organo di raccordo tra regione ed enti locali. 
    Gia' dal  rapido  esame  delle  suddette  previsioni,  emerge  in
maniera incontestabile l'assoluta inconciliabilita' del  procedimento
previsto dall'art. 17 del decreto-legge n. 95/2012 rispetto a  quello
costituzionale, del quale il legislatore statale sancisce di fatto la
sospensione e temporanea disapplicazione. 
    Inoltre, la  necessita'  di  attenersi  ad  un  procedimento  che
garantisse la piu' ampia forma di partecipazione dal parte dei comuni
nonche' la consultazione delle  popolazioni  interessate,  secondo  i
chiari  principi  espressi  dall'art.  133  Cost.,  trova   ulteriore
conferma nelle previsioni della Carta europea delle autonomie  locali
(European Charter of  Local  Self-Government)  del  15  ottobre  1985
ratificata dall'Italia con legge 30 dicembre 1989, n. 439. La  Carta,
tra  le  numerose  disposizioni  poste  a   garanzia   dell'autonomia
politica,  amministrativa  e  finanziaria  delle  comunita'   locali,
prevede altresi' espressamente, all'art. 5, che per ogni modifica dei
limiti locali  territoriali,  le  collettivita'  locali  interessate,
dovranno essere preliminarmente  consultate,  eventualmente  mediante
referendum, qualora cio' sia consentito dalla legge  e,  all'art.  4,
comma 2, che le collettivita' locali hanno, nell'ambito della  legge,
ogni piu' ampia facolta' di prendere iniziative proprie per qualsiasi
questione che non esuli dalla loro  competenza  o  sia  assegnata  ad
un'altra autorita'. 
    Orbene, e' noto che secondo la giurisprudenza di  Codesta  Ecc.ma
Corte gli articoli della  Carta  europea  dell'autonomia  locale  non
hanno contenuto precettivo, ma  sono  prevalentemente  definitori,  e
programmatici  (Corte   cost.   n.   325/2010).   Purtuttavia   essa,
costituendo  atto  di  diritto  internazionale  recepito  con   legge
ordinaria  nell'ordinamento  interno,  ben   puo'   rientrare   nella
previsione costituzionale di cui all'art. 117,  comma  1,  Cost.  che
impone  al  legislatore  il  rispetto  dei  vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali. Ne deriva che la Carta costituisce parametro
idoneo ad orientare l'attivita' del legislatore, che i suoi  principi
deve rispettare. 
    Invero, alla luce delle indicazioni chiaramente desumibili  dalla
giurisprudenza costituzionale, una  siffatta  procedura  di  riordino
generale delle circoscrizioni provinciali, imposta dallo  Stato  agli
altri enti  territoriali  come  obbligatoria,  avrebbe  senza  dubbio
dovuto  trovare  nel  piu'  complesso   procedimento   previsto   per
l'approvazione delle leggi costituzionali,  tracciato  dall'art.  138
Cost. il suo necessario fondamento, a garanzia e nel rispetto di quel
principio di autonomia che la Costituzione pone a tutela  degli  enti
territoriali nei confronti dello Stato. 
    E del resto, non puo' certo sfuggire come  lo  Stato,  lungi  dal
godere di una  potesta'  legislativa  ordinaria  generale,  ai  sensi
dell'art.  117,  comma  2,   lettera   p),   Cost.,   ha   competenza
limitatamente a legislazione elettorale, organi di governo e funzioni
fondamentali degli enti locali, dalla  quale  non  appare  certamente
inferibile alcun titolo competenziale giustificativo in  ordine  alla
modifica delle  circoscrizioni  provinciali  oggetto  dell'intervento
legislativo qui impugnato. 
    E' evidente, dunque, come le censurate previsioni di cui all'art.
17 risultino palesemente illegittime per violazione degli artt.  133,
comma 1, Cost., nonche' dell'art. 138 Cost. 
    Sotto diverso profilo, le  disposizioni  oggetto  della  presente
questione di legittimita'  costituzionale  si  pongono  in  stridente
contrasto con il ruolo che la Carta costituzionale  attribuisce  alle
province. 
    In tal  senso,  sia  consentito  rammentare  come  queste  ultime
vengono delineate quali enti territoriali autonomi, costitutivi della
Repubblica,  dotati  di  statuti,   poteri   e   funzioni   garantiti
direttamente dalla Costituzione. Tali enti istituzionali sono diretta
espressione  del  principio  autonomistico  attraverso  il  quale  le
comunita' locali sono riconosciute quali formazioni sociali ai  sensi
dell'art. 2 Cost., nonche' del principio democratico  attraverso  cui
si esplica la sovranita' popolare. 
    A chiarire in maniera inequivoca il legame tra  il  principio  di
sovranita' di cui all'art. 1, il  principio  autonomistico,  tutelato
all'art. 5 Cost., e la nuova formulazione  dell'art.  114  Cost.,  e'
intervenuta la giurisprudenza di  Codesta  Ecc.ma  Corte  che,  nella
sent. 106 del 2002, ha  affermato  che  «Il  nuovo  Titolo  V  -  con
l'attribuzione alle regioni della potesta' di determinare la  propria
forma di governo, l'elevazione al rango  costituzionale  del  diritto
degli enti territoriali  minori  di  darsi  un  proprio  statuto,  la
clausola di residualita' a favore delle regioni, che ne ha potenziato
la  funzione  di  produzione  legislativa,  il  rafforzamento   della
autonomia finanziaria regionale, l'abolizione dei controlli statali -
ha disegnato di certo  un  nuovo  modo  d'essere  del  sistema  delle
autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuita'  nelle
relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal  modo  introdotti
non hanno  intaccato  le  idee  sulla  democrazia,  sulla  sovranita'
popolare e sul principio autonomistico che erano  presenti  e  attive
sin dall'inizio dell'esperienza repubblicana. Semmai  potrebbe  dirsi
che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia  trovato
oggi una positiva eco nella formulazione del  nuovo  art.  114  della
Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati
al fianco dello Stato  come  elementi  costitutivi  della  Repubblica
quasi  a  svelarne,  in  una  formulazione   sintetica,   la   comune
derivazione dal principio democratico e dalla sovranita' popolare». 
    E' evidente, pertanto, la diretta  incidenza  delle  disposizioni
censurate sui principi fondamentali sanciti dagli  artt.  1,  2  e  5
Cost.,  in  combinato  disposto  con  l'art.  114  Cost.,   i   quali
afferiscono  in  via  diretta  agli  essenziali  valori   democratici
dell'ordinamento e alla separazione verticale dei poteri. 
    Peraltro, le considerazioni appena svolte rilevano anche sotto un
ulteriore profilo. In particolare, se deve essere  riconosciuta  alla
disciplina di cui all'art. 17  l'attitudine  a  gravare  direttamente
sulla piena realizzazione dei predetti valori costituzionali,  e'  di
certo indubitabile che  simili  previsioni  non  possano  trovare  la
propria sedes materiae all'interno dello strumento del decreto-legge.
Nessuna ragione di necessita' e urgenza, infatti,  puo'  giustificare
una deroga ai  richiamati  principi  costituzionali.  Anche  a  voler
ammettere che un simile intervento straordinario rinvenga la  propria
ratio nella finalita' di garantire il conseguimento  degli  obiettivi
di finanza pubblica, finalita' asseritamente sostenuta  dal  comma  1
del  censurato  art.  17,  sia  sufficiente  richiamare,   in   senso
contrario, alcune pregnanti affermazioni, mediante le  quali  Codesta
Ecc.ma  Corte,  proprio  in  riferimento  all'attuale  situazione  di
emergenza finanziaria, ha recentemente  chiarito  che  «il  principio
salus rei pubblicae suprema lex esto non puo' essere invocato al fine
di sospendere le garanzie  costituzionali  di  autonomia  degli  enti
territoriali stabilite dalla Costituzione» (sentt. n. 148  e  n.  151
del 2012). 
    Peraltro, l'esame delle  disposizioni  introdotte  dal  censurato
art. 17 palesa con ogni  evidenza  come  la  disciplina  statale  sia
carente dei requisiti di necessita' ed urgenza ai  quali  l'art.  77,
comma 2, Cost. vincola il corretto esercizio del  potere  legislativo
da parte del Governo. 
    Appare chiaro, in tal senso,  che  l'intervento  da  parte  dello
Stato,  lungi  dall'integrare  quei  connotati  di   straordinarieta'
prescritti dalla disposizione  costituzionale,  assume  piuttosto  il
carattere di opera  di  riordino  generale  del  complessivo  sistema
ordinamentale delle province, come tale inidoneo ad essere perseguito
con lo strumento della decretazione d'urgenza. 
    Ne' tale evidente profilo di  illegittimita'  potrebbe  ritenersi
superato dall'avvenuta conversione del decreto-legge  n.  95/2012  ad
opera della legge n. 135/2012. In tal senso, non  pare  prestarsi  ad
interpretazioni difformi il consolidato orientamento sulla  base  del
quale Codesta Ecc.ma Corte ritiene che «la legge di  conversione  non
ha efficacia sanante di  eventuali  vizi  del  decreto-legge»  (Corte
cost., sent. n. 355 del 2010, e le ivi richiamate sentt. n.  171  del
2007 e n. 128 del 2008). 
    Per  tale  ragione  oltre  alle  gia'   richiamate   disposizioni
costituzionali si le richiamate norme violano anche l'art. 77,  comma
2, Cost. 
    Sotto diverso profilo, la regione ricorrente  non  puo'  esimersi
dal rilevare come il  procedimento  descritto  dall'art.  17  per  il
riordino degli enti provinciali, oltre  a  derogare  illegittimamente
alla procedura di  mutamento  delle  circoscrizioni  provinciali,  in
palese contrasto con l'art. 133 Cost., ridonda altresi' in violazione
della disciplina costituzionale posta dall'art. 71 Cost.  in  materia
di iniziativa legislativa. 
    In particolare, sia consentito osservare che, ai sensi  dell'art.
17,  il  riordino  delle  province  sia  realizzato   mediante   atto
legislativo di  iniziativa  legislativa,  adottato  alla  luce  delle
proposte  regionali  di  riordino  formulate  in   base   all'ipotesi
approvate dai CAL (o  in  mancanza,  dagli  organi  di  raccordo  tra
regioni ed enti locali). 
    Tuttavia,  tale  previsione  si  pone  in  contrasto  con  quanto
previsto dall'art. 133, comma 1, a  mente  del  quale  il  potere  di
iniziativa spetta ai comuni interessati, sentita la regione  nel  cui
territorio  gli  stessi  si  situano.  In  tal  modo,  pertanto,   il
legislatore statale finisce  di  fatto  per  spostare  il  potere  di
necessaria integrazione del formale atto di iniziativa legislativa in
capo a soggetti - CAL o  organi  di  raccordo  -  diversi  da  quelli
previsti dall'art. 133 Cost. 
    A tal fine, e' opportuno precisare che  nei  predetti  organi  di
raccordo - a prescindere da  ogni  altra  considerazione  sulla  loro
natura e sui loro poteri - non e' comunque presente la totalita'  dei
comuni interessati, dal momento che vi  partecipano  invece  soggetti
che sicuramente non sono coinvolti dal riordino in  base  ai  criteri
definiti dal Governo (ad esempio, i sindaci della provincia  nel  cui
territorio si trova il comune capoluogo di regione). 
    La mancanza dell'iniziativa dei comuni interessati,  nonche'  del
parere della regione per l'avvio del procedimento di riordino -  atti
da intendersi entrambi costituzionalmente  obbligatori  -  rende  del
tutto illegittima, a norma degli artt. 133, comma 1, e 71,  comma  1,
Cost., la presentazione della formale iniziativa legislativa da parte
del Governo. 
    In tal senso,  sia  consentito  rammentare  come,  sia  pure  con
riferimento al diverso - ma in ogni caso analogo  -  procedimento  di
revisione territoriale ex art. 132, comma 2,  Cost.,  Codesta  Ecc.ma
Corte abbia avuto modo di precisare che la  legge  ordinaria  dovesse
limitarsi alla esclusiva attuazione dei soli  adempimenti  prescritti
da detta norma costituzionale, rimanendo invece  del  tutto  preclusa
l'introduzione di ulteriori aggravi procedimentali non  previsti,  in
quanto  inidonei  a  perseguire  «la  finalita'  di   consentire   la
complessiva emersione di tutti gli interessi locali  implicati  nella
operazione» (Corte cost., sent. n. 246 del 2010). 
    Orbene, nel caso di specie risulta immediatamente  evidente  come
la trasmissione delle proposte regionali di riordino formulate  sulla
base delle ipotesi dei CAL o degli  organi  di  raccordo  appaia  del
tutto  inidonea  a  realizzare  l'acquisizione  delle  posizioni  dei
singoli comuni interessati, obiettivo invece  chiaramente  perseguito
dall'art. 133, comma 2, Cost. 
    Anche sotto tale profilo,  pertanto,  l'art.  17  deve  ritenersi
manifestamente contrario al dettato costituzionale. 
    Peraltro, il coinvolgimento del CAL (o, in mancanza,  dell'organo
regionale di raccordo tra regioni ed  enti  locali)  nell'ambito  del
procedimento descritto dalla  disciplina  statale  censurata  risulta
altresi' profondamente lesivo delle competenze  regionali  attribuite
dagli artt. 123 e 117, comma 4, Cost. 
    E' appena il caso di rammentare come,  in  forza  del  menzionato
art. 123, comma 4, Cost. «in ogni regione, lo statuto  disciplina  il
consiglio delle autonomie locali, quale organo di  consultazione  fra
la regione e gli enti locali». 
    Codesta Ecc.ma Corte,  nel  pronunciarsi  proprio  in  ordine  al
consiglio delle autonomie locali, ha  osservato  come,  alla  stregua
della richiamata disposizione costituzionale, lo  stesso  costituisca
un «organo costituzionalmente necessario che deve essere disciplinato
dallo statuto». Sulla base  di  tale  presupposto,  interpretando  il
menzionato art. 123,  comma  4,  Cost.,  Codesto  Ecc.mo  Giudice  ha
precisato che  «quest'ultima  disposizione,  imponendo  una  espressa
riserva statutaria, presuppone ovviamente che  la  fonte  regolatrice
sia nella disponibilita' della regione» (Corte cost.,  sent.  n.  370
del 2006). 
    Dalle suddette riflessioni emerge chiaramente, allora, come  ogni
regolamentazione e specificazione delle funzioni consultive del  CAL,
nonche'  l'eventuale  attribuzione  allo  stesso  di  ogni  ulteriore
compito spetti in via esclusiva all'autonomia  statutaria  regionale,
stante la predetta riserva sancita dalla Carta costituzionale. 
    Orbene, nel caso di specie il legislatore statale, assegnando  al
CAL delle competenze eccedenti le funzioni consultive di tale organo,
ha  illegittimamente  invaso  la  sfera  di  disciplina  strettamente
riservata all'autonomia statutaria delle regioni. 
    Peraltro,  analoghe  considerazioni  possono  essere  svolte  con
riguardo agli organi regionali di raccordo ai quali  la  disposizione
statale attribuisce rilievo in mancanza dei CAL. In  tal  senso,  non
puo' certo essere revocata  in  dubbio  la  potesta'  delle  regioni,
nell'ambito  della  propria  competenza  esclusiva  in   materia   di
organizzazione,  di  disciplinare   discrezionalmente   tali   organi
interni. 
    Con precipuo riferimento alla Regione Campania, appare chiaro  il
contrasto delle disposizioni statali censurate con le funzioni  ed  i
compiti meramente  consultivi  che  la  legge  regionale  n.  26/1996
attribuisce alla Conferenza permanente regione-autonomie locali della
Campania, quale organo regionale di raccordo tra la regione stessa  e
gli enti locali presenti sul territorio campano. 
    Alla  luce  di  tali  considerazioni,  pertanto,  l'art.  17  del
decreto-legge n. 95/2012 risulta altresi' in contrasto sia con l'art.
123, comma 4, Cost., sia con la competenza legislativa  residuale  (e
quindi  esclusiva)   in   materia   di   disciplina   della   propria
organizzazione interna che l'art. 117, comma 4, Cost. riconosce  alle
regioni. 
    Un ulteriore  profilo  di  incostituzionalita'  della  disciplina
statale deve essere rinvenuto nella previsione secondo  la  quale  il
riordino delle province avvenga nell'osservanza di requisiti  minimi,
la cui individuazione e' rimessa al Consiglio dei Ministri sulla base
dei soli criteri della dimensione territoriale  e  della  popolazione
residente in ciascuna provincia (comma 2). Analoghe  censure  possono
essere  mosse  nei   confronti   della   disciplina   relativa   alla
determinazione  dei  parametri  per   l'individuazione   del   comune
capoluogo delle nuove province risultanti in esito al riordino (comma
4-bis).  In  quest'ultimo  caso,   il   criterio   della   dimensione
demografica o all'accordo tra i comuni interessati, non  tiene  conto
dell'evidente  necessita'  di  assicurare  al  capoluogo  una   certa
centralita' all'interno del nuovo contesto territoriale. 
    Sia  consentito  evidenziare  come  alla   luce   dei   parametri
individuati dalla delibera del Consiglio dei Ministri del  20  luglio
2012, la provincia di Benevento non rispetta i  prescritti  requisiti
demografici e territoriali. 
    Ma, soprattutto, la definizione di tali criteri  e'  avvenuta  in
totale  assenza  di  un  idoneo  titolo  competenziale   legittimante
all'interno del dettato costituzionale. Di certo, tale  potesta'  non
puo' essere rinvenuta all'interno dell'art. 117, comma 2, lettera p),
Cost., alla stregua del quale la competenza statale deve limitarsi  a
legislazione elettorale, organi di governo  e  funzioni  fondamentali
degli enti locali. Ne' alcuna attribuzione puo' discendere dal  comma
3 dello stesso articolo costituzionale. 
    Peraltro, il potere statale di determinare tali criteri non trova
nemmeno riscontro nell'art. 133 Cost., il quale, come gia' visto,  si
limita infatti a riservare ai comuni interessati l'atto di iniziativa
dello speciale procedimento per  il  mutamento  delle  circoscrizioni
provinciali, da realizzarsi con eventuale legge  provvedimento  dello
Stato. Nella richiamata disposizione costituzionale, tuttavia,  alcun
riferimento e' rinvenibile in ordine alla possibile determinazione ex
lege di requisiti minimi delle circoscrizioni medesime. 
    Del resto, i criteri posti dalla delibera  del  20  luglio  -  in
disparte ogni fondato rilievo sulla  congruita'  e  appropriatezza  -
vengono stabiliti con deliberazione del  Consiglio  dei  Ministri  in
aperta violazione della riserva di legge operante ai sensi  dell'art.
133 Cost. 
    L'art. 17 al comma 2, si limita ad una generica enunciazione  dei
criteri della dimensione territoriale e della  popolazione  residente
in ciascuna provincia, senza  definire  alcuna  loro  parametrazione,
neanche di massima, mentre la  loro  effettiva  individuazione  viene
attribuita al Governo. L'Esecutivo risulta cosi' dotato di un  potere
pienamente discrezionale e del tutto arbitrario, in evidente  spregio
della ratio dell'art. 133 Cost., che al contrario  vincola  eventuali
mutamenti delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione  di  nuove
province allo strumento della legge,  posto  a  chiaro  presidio  dei
principi democratici e autonomistici e della  identita'  territoriale
delle province. 
    Peraltro, non sfugge a codesta regione come, prima della  riforma
del titolo V, la revisione  delle  circoscrizioni  provinciali  abbia
trovato la  propria  disciplina  ad  opera  dell'art.  16,  legge  n.
142/1990  (poi  rinnovato  dall'art.  21   decreto   legislativo   n.
267/2000), il quale conteneva  la  fissazione  di  alcuni  criteri  e
indirizzi per l'esercizio dell'iniziativa comunale ex art. 133 Cost.,
relativi, tra l'altro, alla dimensione  territoriale  e  all'ampiezza
demografica di ciascuna provincia. 
    Tuttavia, occorre rilevare che detti criteri, oltre a non  essere
rigidi ma solo tendenziali,  trovavano  allora  giustificazione  alla
stregua del previgente testo del titolo  V,  a  norma  del  quale  le
province  erano  anche  circoscrizioni  di  decentramento  statale  e
regionale (art. 129 Cost.) e svolgevano funzioni determinate  in  via
generale e attribuite dallo  Stato  o  delegate  dalle  regioni,  per
quanto di rispettiva competenza  (art.  118  v.t.  e  art.  128  v.t.
Cost.). 
    A seguito della legge costituzionale n. 3/2001, gli artt. 5 e 114
Cost. riconoscono ora le province  quali  enti  autonomi  costitutivi
della Repubblica, dotati di propri statuti, poteri e funzioni secondo
i principi fissati dalla Costituzione. Nell'ambito del nuovo  disegno
costituzionale, e' altresi'  opportuno  rilevare  che  alle  province
spetta il conferimento di  funzioni  amministrative  sulla  base  dei
principi di sussidiarieta', differenziazione e adeguatezza.  Pertanto
e' ben possibile che le stesse, in virtu' dei predetti canoni,  siano
attributarie di  funzioni  diverse  in  base  alle  diverse  esigenze
rilevanti sul territorio. 
    In altre parole, in  base  ai  nuovi  principi  che  regolano  il
conferimento   delle   funzioni   amministrative,   non    sono    le
caratteristiche territoriali delle autonomie locali  a  dover  essere
adeguate alle funzioni  amministrative  «decentrate»  dallo  Stato  e
dalla regione, ma le funzioni medesime a  dover  essere  riconosciute
come «proprie» o a  dover  essere  «conferite»  ad  autonomie  locali
costitutive  della   Repubblica   sulla   base   del   principio   di
sussidiarieta' e dunque anche in maniera differenziata tra  provincia
e provincia secondo criteri di adeguatezza funzionale. 
    Venuto  meno  il  precedente  criterio   di   uniformita'   delle
competenze dei vari livelli di autonomia  locale,  non  trova  quindi
alcun possibile fondamento nel nuovo titolo V della  Costituzione  la
fissazione di criteri  rigidi  per  il  riordino  territoriale  delle
province. 
    Sotto diverso profilo, la determinazione da parte dello Stato  di
requisiti  minimi,  fondati  sulla  dimensione  territoriale   e   la
popolazione residente, risulta altresi' in contrasto con  i  principi
di ragionevolezza e  proporzionalita',  con  violazione  dell'art.  3
Cost. 
    E'  immediatamente  evidente,  infatti,   come   il   riferimento
esclusivo a parametri dimensionali  ovvero  demografici  finisca  per
svilire  e  non  tenere  nel  benche'  minimo   rilievo   la   natura
storico-identitaria delle autonomie territoriali, sancita dagli artt.
1, 2, 5 e 114 Cost. In tal senso, il legislatore  statale  mostra  di
trascurare la necessita' di prendere  in  prioritaria  considerazione
criteri  storici  e  culturali  per  la  delimitazione  dei   confini
provinciali e l'individuazione dei rispettivi capoluoghi. 
    Inoltre, anche a voler concedere che possa costituire  un  titolo
competenziale idoneo quello invocato (ma non meglio qualificato)  dal
legislatore statale «al fine di contribuire  al  conseguimento  degli
obiettivi  di  finanza  pubblica  imposti  dagli   obblighi   europei
necessari al raggiungimento  del  pareggio  di  bilancio»,  i  rigidi
criteri fissati per il riordino delle province appaiono irragionevoli
e sproporzionati rispetto agli obiettivi  medesimi,  determinando  un
vulnus dei  principi  costituzionali  fondamentali  della  sovranita'
popolare, dell'inviolabilita' dei diritti delle formazioni sociali  e
dell'autonomia locale, i quali non appaiono  adeguatamente  ponderati
nell'ambito di quel ragionevole bilanciamento dei valori che  avrebbe
dovuto  piu'  correttamente  orientare  il  legislatore  statale  nel
legittimo perseguimento delle proprie finalita' di contenimento della
spesa. 
    Alla luce delle considerazioni appena  svolte,  appare  manifesta
l'illegittimita',   nonche'   l'irragionevolezza   delle   previsioni
censurate. Peraltro, tale illegittimita'  sussisterebbe  anche  nella
denegata e non creduta ipotesi in cui si ritenesse  che  il  predetto
intervento  legislativo  possa  trovare  giustificazione  nell'ambito
della competenza legislativa  statale  di  principio  in  materia  di
coordinamento della finanza pubblica. 
    In tal senso, deve infatti osservarsi che la  disciplina  statale
risulta gia' da un primo esame non coerente con le  condizioni  poste
dalla giurisprudenza costituzionale per il legittimo esercizio  della
competenza  medesima.  Secondo  l'orientamento  ormai  consolidato  e
costante di Codesta Ecc.ma Corte, infatti, affinche' le  disposizioni
con cui lo Stato pone dei  vincoli  all'autonomia  regionale  possano
dirsi legittime occorre che le stesse «si limitino a porre  obiettivi
di riequilibrio della  finanza  pubblica,  intesi  nel  senso  di  un
transitorio contenimento complessivo, anche se  non  generale,  della
spesa  corrente  e  non  prevedano  in  modo  esaustivo  strumenti  o
modalita' per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (in tal senso,
di recente, Corte cost., sentt. n. 148 e n. 193 del 2012). 
    Nel  caso  di  specie,  tuttavia,  nessuna  delle  due   suddette
condizioni risulta rispettata. Da una parte,  infatti,  la  normativa
volta a ridurre  la  spesa  mediante  il  «riordino  delle  province»
intenderebbe  produrre  l'effetto  -  strutturale  e  niente  affatto
transitorio - della soppressione delle province che non rispondono ai
criteri fissati dallo Stato. Dall'altra, la rigida determinazione  di
tali  criteri  (individuati  come  requisiti  minimi  di   dimensione
territoriale e popolazione residente) risulta demandata  direttamente
dal Governo (con atto non normativo non soggetto al raccordo  con  le
regioni e gli enti locali), senza alcuna possibilita' di  adattamento
alle esigenze del territorio  degli  obiettivi  di'  riduzione  della
spesa. 
    Peraltro,   in   riferimento   alle   perseguite   finalita'   di
contenimento della spesa  pubblica,  e'  bene  precisare  come  dalla
relazione  tecnica  al  disegno   di   legge   di   conversione   del
decreto-legge n. 95/2012 non sia dato evince alcun criterio di esatta
quantificazione degli effetti finanziari conseguibili. 
    Le menzionate previsioni, pertanto, risultano del tutto  inidonee
a definire norme di coordinamento della finanza pubblica, derivandone
la violazione degli artt. 117, comma 3, e 119, comma 2, Cost. 
    In ultimo, la disciplina relativa  al  procedimento  di  riordino
delle province risulta altresi' incompatibile con gli artt.  3,  118,
120 e 133 Cost., nella parte in cui viene configurata  un'ipotesi  di
esercizio del potere sostitutivo  del  Governo  nei  confronti  delle
regioni nel caso di mancato invio delle proposte di riordino da parte
di queste ultime. 
    In particolare, il comma 4 dell'art.  17  dispone  che  se  entro
sessanta giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del
decreto-legge n. 95/2012 una o piu' proposte  di  riordino  non  sono
trasmesse dalla regione al Governo, il provvedimento  legislativo  di
riordino delle province e' assunto  previo  parere  della  Conferenza
unificata. 
    Peraltro, il meccanismo surrogatorio delineato dalla disposizione
sopra descritta non risulta coerente con i  requisiti  e  presupposti
stabiliti dalla costante giurisprudenza costituzionale in  ordine  al
corretto esercizio di  un  intervento  sostitutivo  dello  Stato  nei
confronti degli enti territoriali. Requisiti che, dopo la riforma del
titolo V della Costituzione trovano  ora  anche  positivo  fondamento
nell'art. 120, comma 2, Cost. e nell'art. 8, legge n.  131/2003,  che
al primo da' attuazione. 
    In primo luogo, e'  pacifico  l'orientamento  di  Codesta  Ecc.ma
Corte  secondo  cui  la  sostituzione  trova  il  proprio  ontologico
presupposto nel mancato o inesatto adempimento di  atti  o  attivita'
dovuti o necessari, ossia privi di discrezionalita' nell'an  (in  tal
senso, si vedano a titolo  meramente  esemplificativo,  Corte  cost.,
sentt. n. 240 e n. 43 del 2004,  nonche'  sent.  n.  177  del  1988).
Appare chiaro come tali  non  possano  certo  ritenersi  le  proposte
regionali di riordino delle province, le quali vanno intese come atti
di iniziativa del procedimento di revisione ex  art.  133,  comma  1,
Cost., e quindi, con ogni  evidenza,  assolutamente  discrezionali  e
certamente non vincolati. 
    Sotto  diverso  profilo,  non  risulta  nemmeno   rispettato   il
principio  di  leale  collaborazione.  Dall'esame  della   disciplina
censurata emerge come l'eventuale ritardo  nella  trasmissione  della
proposta  di  riordino  comporti  l'automatica   sostituzione   della
volonta' regionale da parte del Governo, senza che sia garantita alla
regione interessata alcuna interlocuzione,  ne'  «alcuna  limitazione
procedurale, che consenta all'ente inadempiente di  compiere  l'atto»
(Corte cost., sent. n. 165 del 2011).  In  tal  senso,  non  e'  dato
rinvenire all'interno della disciplina censurata nessuna  delle  fasi
procedimentali prescritte dall'art. 8, legge n. 131/2003. Ne' il mero
parere espresso dalla Conferenza unificata in ordine al provvedimento
legislativo di riordino puo' ritenersi  satisfattivo  delle  garanzie
partecipative delle singole regioni. 
    Peraltro,  la  mancata  predisposizione  di  adeguate  forme   di
collaborazione assume un profilo ancor piu' lesivo  nella  misura  in
cui, attraverso l'esercizio del suddetto intervento  sostitutivo,  lo
Stato diventa l'unico attore di una fattispecie  costituzionale  che,
alta stregua delle chiare indicazioni desumibili dall'art. 133, comma
2, Cost., non puo' strutturalmente ridursi all'esercizio di un potere
unilaterale, che pretermetta del tutto la necessaria  iniziativa  dei
comuni interessati e della consultazione regionale. 
    Ne' si puo' ritenere che l'atto di iniziativa del procedimento di
revisione delle circoscrizioni provinciali  (sul  quale  deve  essere
sentita anche la regione) possa essere oggetto  di  una  chiamata  in
sussidiarieta'   dello   Stato,   giacche'    in    tal    modo    la
«flessibilizzazione»   di   una   specifica   competenza    assegnata
direttamente dalla Costituzione - e non, in via mediata, dalle  leggi
di conferimento delle funzioni amministrative ai sensi dell'art.  118
Cost. - ridonderebbe nella  violazione  del  principio  di  rigidita'
costituzionale ricavabile dall'art. 138 Cost. 
    In ultimo, ad aggravare ulteriormente la lesione del principio di
lealta' istituzionale, la scrivente  difesa  non  puo'  esimersi  dal
rilevare come a norma del comma 4 del censurato art. 17 il termine  a
quo per l'esercizio del potere sostitutivo statale inizia a decorrere
ancor prima della scadenza del termine ad  quem  per  l'adozione  dei
provvedimenti oggetto della surrogazione. 
    In tal senso, il potere sostitutivo e' azionato dallo  Stato  nel
caso di mancato invio delle  proposte  regionali  di  riordino  entro
sessanta giorni dalla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione del decreto-legge n. 95/2012, ossia il 15  ottobre  2012.
Tuttavia, il precedente comma 3 assegna alle  regioni,  come  termine
massimo per la trasmissione di tali proposte, novantadue giorni dalla
data di pubblicazione della deliberazione del Consiglio dei  Ministri
avente ad oggetto l'individuazione dei requisiti minimi  di  riordino
(ossia il 24 ottobre 2012). 
    Il meccanismo sostitutivo  delineato  dalla  disciplina  statale,
nella parte  in  cui  riconosce  al  Governo  un  potere  sostitutivo
azionabile ancor prima del  decorso  integrale  del  termine  per  il
compimento   dell'attivita'   oggetto   di   sostituzione,    risulta
manifestamente illegittimo, oltre che per violazione  dell'art.  120,
comma 2, Cost., anche per contrasto  con  l'essenziale  principio  di
razionalita' interna della legge, sancito dall'art. 3 Cost. 
    2.2. L'art. 17 del  decreto-legge  n.  95/2012  risulta  altresi'
illegittimo nella parte in cui, ai commi 6  e  12,  fa  salve  alcune
disposizioni dell'art. 23, decreto-legge n. 201/2011, le  quali  sono
state oggetto di  precedente  impugnazione  da  parte  della  Regione
Campania dinanzi  a  Codesta  Ecc.ma  Corte,  anche  a  tutela  delle
province presenti sul proprio territorio (reg. ric. n. 46  del  2012,
udienza pubblica fissata al 6 novembre 2012). 
    In particolare, il predetto comma 6, nel dare attuazione all'art.
23, comma 18, decreto-legge n. 201/2011, dispone il trasferimento  ai
comuni delle funzioni precedentemente  conferite  alle  province  con
legge statale nelle materie di  competenza  esclusiva  ex  art.  117,
comma 2, Cost., fatte salve le funzioni di indirizzo e  coordinamento
di cui al comma 14 del menzionato art. 23. 
    Il successivo comma 12 dell'art. 17, invece, fa salvo l'art.  23,
comma 15,  decreto-legge  n.  201/2011  (anch'esso  gia'  oggetto  di
ricorso), confermando la limitazione  degli  organi  della  provincia
solamente al consiglio provinciale e al presidente della provincia. 
    Le norme oggi censurate, nel richiamare  le  suddette  previsioni
dell'art.   23,   risultano   viziate   dagli   stessi   profili   di
illegittimita' gia' dedotti dalla Regione Campania dinanzi a  Codesta
Ecc.ma Corte nei confronti di tale ultimo articolo. 
    A tal fine, sia consentito richiamare le censure  avanzate  dalla
ricorrente   nell'ambito   del    giudizio    di    costituzionalita'
precedentemente instaurato. 
    In tale sede, e' stato in  primo  luogo  posto  in  rilievo  come
l'art. 23, commi da  14  a  20  del  decreto-legge  n.  201/2011  sia
gravemente viziato da irragionevolezza, arbitrarieta',  incongruita',
non pertinenza, ridondanti in una grave illegittimita' per  contrasto
con il principio di ragionevolezza, nonche' in riferimento agli artt.
1 e 5 Cost. 
    Tale articolo opera invero un radicale intervento che colpisce in
profondita' funzioni, organi e caratteristiche rappresentative  delle
province, alterando completamente la  fisionomia  del  sistema  delle
autonomie locali. 
    L'intervento normativo incide in modo diretto sul  livello  della
rappresentanza  politica  e  sulle  funzioni.  Viene  determinata  la
drastica riduzione degli amministratori, e'  disposta  l'eliminazione
delle  elezioni  provinciali  dirette,  si  realizza  il  sostanziale
svuotamento delle  funzioni,  fatte  salve  imprecisate  e  generiche
funzioni  di  «indirizzo  e  di  coordinamento»,   che   all'evidenza
necessitano  di  ulteriori  strumenti   di   chiarificazione   e   di
definizione. 
    In particolare, si  espongono  a  gravi  e  fondate  critiche  di
legittimita' le disposizioni che prevedono: 
    a) la limitazione delle  funzioni  provinciali  esclusivamente  a
quelle «di indirizzo e coordinamento delle attivita' dei comuni nelle
materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale,  secondo
le rispettive competenze» (comma 14); 
    b) l'obbligo imposto alle regioni  di  provvedere  (entro  il  31
dicembre 2012) al trasferimento ai comuni (salvo che, per assicurarne
l'esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle regioni,  sulla
base dei principi di sussidiarieta', differenziazione ed adeguatezza)
delle funzioni provinciali, con previsione, in caso di inadempimento,
di esercizio dei poteri sostitutivi di cui all'art. 8 della legge 131
del 2003 (comma 18); 
    c) l'obbligo imposto  alle  regioni  di  provvedere  altresi'  al
trasferimento delle risorse  umane,  finanziarie  e  strumentali  per
l'esercizio delle funzioni trasferite, assicurando nell'ambito  delle
medesime  risorse  il   necessario   supporto   di   segreteria   per
l'operativita' degli organi della provincia (comma 19). 
    Le impugnate disposizioni rendono necessaria la riallocazione  di
funzioni, personale, risorse e strutture  sia  verso  i  comuni,  sia
verso la regione. L'intervento denota una grave carenza valutativa in
termini di compatibilita' costituzionale, dimensione effettiva  della
trasformazione e funzionalita' rispetto agli obiettivi da perseguire.
E' tanto piu' irragionevole perche'  operata  mediante  lo  strumento
d'urgenza del decreto-legge. 
    Produce inoltre una serie di paradossi che si oppongono, in  modo
assai deciso, al  conseguimento  degli  obiettivi  attesi  dalla  sua
attuazione.  Ed  infatti,  nonostante  la  perentoria   proclamazione
dell'intestazione dell'articolo, il risultato  dell'attuazione  della
norma non si traduce in immediati e rilevanti risparmi di  spesa,  la
quale spesa semplicemente viene spostata verso il nuovo  destinatario
delle funzioni amministrative precedentemente provinciali. 
    Senza contare, poi, che il sistema risultante dalle  disposizioni
di  cui  all'art.  23  non  esclude,  ma  anzi  presuppone  e  quindi
autorizza, una proliferazione di apparati amministrativi  di  livello
regionale e sovracomunale (con particolare riguardo  agli  organi  di
raccordo previsti dal comma  21)  e  provinciale  (le  strutture  che
forniranno il supporto di segreteria per l'operativita' degli  organi
della provincia di cui al comma 19). 
    In ultimo,  non  e'  peregrino  ritenere  che  la  portata  della
trasformazione determinata dal decreto-legge n. 201/2011 implichi  un
processo   lungo,   conflittuale   e    con    costi    difficilmente
quantificabili. 
    L'insorgenza certa di  tali  criticita',  connessa  all'immediata
operativita'   della   norme   impugnate,   certamente    contraddice
frontalmente la ratio ispiratrice dell'art. 23. 
    Gravissime appaiono le ripercussioni delle norme in questione  in
ordine alla gestione delle cd. «aree vaste». In tal senso, le  misure
di rimodellazione della rappresentanza politica della provincia e  di
riallocazione forzata delle funzioni sono state assunte in assenza di
qualsivoglia  indicatore  di  segno   negativo   che   contraddicesse
l'appropriatezza delle province quale  ambito  territoriale  ottimale
per la gestione delle funzioni relative ad aree vaste. 
    Dovendosi  escludere  che  tutte  le  funzioni   provinciali   da
riallocare, in base ai  principi  di  sussidiarieta',  adeguatezza  e
differenziazione, possano essere assunte direttamente dalla  regione,
e' da ritenere che - fino a una futura razionalizzazione dell'assetto
organizzativo degli enti locali regionali - si verifichera', con ogni
probabilita', un aumento dei costi, determinato  dall'istituzione  di
nuovi apparati amministrativi sovra-comunali, dal  venir  meno  delle
economie di scala su base provinciale e, comunque,  dalla  necessita'
di far fronte ad una fase di riorganizzazione certamente complessa  e
conflittuale. 
    In aggiunta, deve  porsi  in  rilievo  come  la  riforma  attuata
dall'art. 23 colpisca le province solo quali  enti  autonomi,  ovvero
enti di gestione di funzioni amministrative regionali,  e  non  anche
quali ambiti di articolazione periferica  dello  Stato.  L'ambito  di
decentramento  statale  di  livello  provinciale,  con   riguardo   a
numerosissime funzioni, continua ad  essere  pienamente  operativo  e
assolutamente non inciso (si pensi al ruolo degli uffici territoriali
del   Governo-prefetture,   dei   provveditori   scolastici,    delle
soprintendenze per i beni culturali). 
    Non e' possibile, infine, tacere che le norme qui  impugnate  non
introducono nessun elemento di adattamento  a  contesti  territoriali
che  presentano  caratteristiche  di  profonda  differenziazione  sul
territorio nazionale. 
    I gravi e numerosi problemi, di cui  si  e'  qui  fatto  solo  un
rapido cenno, rendono palese  l'incongruita',  l'inadeguatezza  e  la
piena insufficienza delle disposizioni di cui ai commi dal 14 al  20,
dell'art. 23 rispetto al conseguimento dell'obiettivo di snellimento,
semplificazione e riduzione dei costi del sistema. 
    Sotto  diverso   profilo,   appare   evidente   come   l'impianto
complessivo disegnato dall'art. 23, e in particolare dai commi 15, 16
e 20, si ponga in chiaro contrasto con l'autonomia costituzionalmente
garantita delle province, in aperta violazione dell'art. 114 Cost. 
    Cio' appare chiaro nella misura in cui il legislatore statale  ha
inteso  trasformare  radicalmente  l'ente,  sopprimendo   le   giunte
provinciali e mantenendo quali unici organi di governo  il  consiglio
provinciale e il  presidente  della  provincia  (comma  15),  nonche'
prefigurando una rappresentanza di secondo grado dei futuri  consigli
provinciali (comma 16) e la conseguente  decadenza  degli  organi  in
carica delle province (comma 20). 
    La soppressione dell'organo esecutivo provinciale appare  inoltre
in stridente contrasto con l'attribuzione ad opera del  decreto-legge
n. 95/2012 di un fascio di funzioni di grande rilievo e complessita',
individuate dal legislatore  statale  come  proprie  e  indefettibili
dell'ente. 
    In tal modo, la disciplina statale ha di fatto disconosciuto alla
provincia la natura di ente autonomo costitutivo della Repubblica cui
spetta una sfera incomprimibile,  se  non  mediante  procedimento  di
revisione costituzionale, di poteri, funzioni e competenze. 
    In questo senso, il comma  19,  stabilendo  che  lo  Stato  e  le
regioni,   secondo   le   rispettive   competenze,   provvedono    al
trasferimento delle risorse  umane,  finanziarie  e  strumentali  per
l'esercizio  delle  funzioni  trasferite,  si  pone  palesemente   in
contrasto  con   l'autonomia   statutaria,   organizzativa,   nonche'
finanziaria delle province e con la riserva di  potere  regolamentare
di cui all'art. 117, comma 6. 
    Anche a voler concedere che il  predetto  intervento  legislativo
possa  trovare  la  propria  giustificazione   nell'esercizio   della
competenza legislativa  esclusiva  di  cui  all'art.  117,  comma  2,
lettera p), Cost., in materia di legislazione elettorale ed organi di
governo di comuni e province, non puo' certo revocarsi in dubbio come
lo Stato  non  possa  tuttavia  incidere  sul  carattere  democratico
dell'ente territoriale, implicato dal principio autonomistico di  cui
agli artt. 5 e 114 Cost. 
    Ulteriore ragione di illegittimita' dell'art. 23 deve essere  poi
rinvenuta nell'obbligo per  le  regioni  di  riallocare  le  funzioni
conferite alle province dalla vigente  legislazione  regionale.  Tale
imposizione  appare   tanto   piu'   arbitraria,   ingiustificata   e
illegittima ove si pensi che l'art. 23 non determina la  soppressione
assoluta  dei  predetti  enti,  i  quali,   ancorche'   depotenziati,
continuano comunque ad essere presenti nell'ordinamento. Ben possono,
quindi, essere scelti discrezionalmente dalle regioni quali  soggetti
istituzionali destinatari delle funzioni regionali,  cosi'  come  del
resto stabilito dallo stesso art. 118 Cost. 
    Di contro, a nulla varrebbe per lo Stato invocare  il  menzionato
art. 117, comma  2,  lettera  p),  Cost.  Codesta  Ecc.ma  Corte  ha,
infatti, chiaramente affermato che  «quale  che  debba  ritenersi  il
rapporto fra le «funzioni fondamentali»  degli  enti  locali  di  cui
all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le «funzioni  proprie»  di
cui a detto art. 118, secondo comma, sta di fatto che sara' sempre la
legge, statale o regionale, in relazione al riparto delle  competenze
legislative, a  operare  la  concreta  collocazione  delle  funzioni»
(Corte cost., sent. n. 43 del 2004). 
    Orbene, l'obbligo di  riallocazione  delle  funzioni  imposto  al
legislatore  regionale  determina  un'illegittima   invasione   delle
attribuzioni delle regioni, nella misura in cui viene a  limitare  la
loro autonomia in merito alla determinazione del livello territoriale
di governo piu' idoneo all'esercizio di funzioni di loro  competenza.
Invasione tanto piu' grave e manifesta  ove  solo  si  consideri  che
l'art. 23 prevede espressamente l'esercizio di un potere  sostitutivo
statale - per giunta di carattere legislativo - in  caso  di  mancato
adempimento. 
    Alla luce delle censure sopra osservate, non pare  revocabile  in
dubbio come i commi 6 e 12 dell'art. 17,  decreto-legge  n.  95/2012,
nel fare salve, ovvero dare attuazione  alle  previsioni  recate  dal
menzionato art. 23, decreto-legge n. 201/2011, finiscono per ripetere
e confermare il grave vulnus arrecato  dalle  stesse  a  danno  della
sfera  di  competenze  regionali.  Ne  deriva   la   loro   manifesta
illegittimita' costituzionale. 
    2.3. Infine, un'ultima ragione di illegittimita'  del  menzionato
art. 17, decreto-legge n. 95/2012 si rinviene  nella  parte  in  cui,
dopo aver individuato  le  funzioni  di  area  vasta  quali  funzioni
fondamentali delle  province  (comma  10),  al  successivo  comma  11
riconosce alle regioni  le  sole  funzioni  di  programmazione  e  di
coordinamento, spettanti nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e
4, Cost., nonche' quelle esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. 
    In altre  parole,  la  norma  suddetta,  qualora  dovesse  essere
interpretata nel senso di limitare il ruolo  regionale  all'esclusivo
svolgimento dei compiti sopra individuati sottrarrebbe di fatto  alle
regioni tutte le funzioni non espressamente richiamate,  malgrado  le
stesse siano pacificamente spettanti ai  sensi  del  chiaro  disposto
degli artt. 117 e 118 Cost. E', infatti, fuori  di  dubbio  che  alla
stregua del dettato costituzionale il novero dei poteri regionali  in
materia  di  esercizio  delle  funzioni  amministrative   non   possa
ritenersi esaurito - a differenza di quanto sembra  invece  affermare
la norma statale  -  dalle  sole  attribuzioni  di  programmazione  e
coordinamento. 
    In tal senso, non sfugge certo alla scrivente difesa  che  l'art.
118, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla  riforma  del
titolo V, ha enunciato il principio  della  competenza  generale  dei
comuni come enti istituzionali attributari in via preferenziale delle
funzioni amministrative. Tuttavia, non  puo'  certo  trascurarsi  che
tale norma costituzionale reca invero  un  criterio  direttivo  e  di
orientamento nei confronti del legislatore regionale. 
    Del resto, tale conclusione trova espressa conferma  anche  nella
giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte.  In  particolare  «quale  che
debba ritenersi il rapporto fra le "funzioni fondamentali" degli enti
locali di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni
proprie" di cui a detto art. 118, secondo comma,  sta  di  fatto  che
sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione  al  riparto
delle competenze legislative,  a  operare  la  concreta  collocazione
delle funzioni» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). 
    Appare, pertanto, evidente che, dal momento che l'attribuzione in
concreto delle funzioni amministrative necessita pur  sempre  di  una
legge statale o regionale di conferimento, non v'e' dubbio alcuno che
la regione ben potra' disporre di un ampio  novero  di  funzioni  che
potra' delegare, tra gli altri, anche alle province  sulla  base  dei
principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarieta'. 
    Tale configurazione non  esclude,  pertanto,  che  nella  propria
opera  di  concreta  destinazione   delle   funzioni   amministrative
rientranti nelle materie di propria competenza ex art. 117, commi 3 e
4, Cost., la regione possa riservare a  se'  l'esercizio  di  compiti
diversi  ed  ulteriori  rispetto  a  quelli   di   programmazione   e
coordinamento. 
    Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di
tali  ultimi  compiti,  la  disposizione  censurata  illegittimamente
ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione  di  optare
per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio'
in palese violazione delle previsioni  costituzionali  sancite  dagli
artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 
    3. Illegittimita' costituzionale dell'art. 18, commi 1, 2, 2-bis,
7-bis, 9, lettere c) e d), del decreto-legge n. 95/2012,  convertito,
con modificazioni, dalla legge  n.  135/2012,  per  violazione  degli
artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133 Cost. 
    3.1.  Ulteriore  lesione  delle  prerogative   regionali   deriva
dall'art. 18  del  decreto-legge  n.  95/2012,  il  quale  disciplina
l'istituzione   delle   citta'   metropolitane   e   la   contestuale
soppressione delle province del relativo territorio. 
    Come si  e'  gia'  avuto  modo  di'  osservare,  il  primo  comma
dell'articolo suddetto prevede la soppressione, tra le  altre,  anche
della Provincia di Napoli, con contestuale istituzione della relativa
citta'  metropolitana.  La  stessa  disposizione   stabilisce,   poi,
l'abrogazione degli artt. 23 e 24, commi 9 e  10,  legge  n.  42/2009
(recanti la disciplina transitoria per  la  prima  istituzione  delle
citta' metropolitane), nonche'  degli  artt.  22  e  23  del  decreto
legislativo n. 267/2000  (recanti  invece  la  disciplina  ordinaria,
temporaneamente sospesa dalla predetta  legge  n.  42/2009).  Orbene,
gia' da una lettura  sommaria,  l'articolo  censurato  appare  subito
illegittimo nella misura in cui, pur rientrando in  un  decreto-legge
volto alla realizzazione degli obiettivi - invero solo  dichiarati  -
di revisione della spesa  pubblica  con  invarianza  dei  servizi  ai
cittadini, persegue tuttavia finalita'  diverse  da  quelle  generali
all'oggetto del provvedimento medesimo. 
    E' lo stesso art. 18, al primo comma, a ricollegare espressamente
la disciplina di  seguito  recata  alla  «garanzia  dell'efficace  ed
efficiente svolgimento delle funzioni amministrative,  in  attuazione
degli  artt.  114  e  117,   secondo   comma,   lettera   p),   della
Costituzione».  Dalla  stessa  formulazione  espressa  del   suddetto
articolo si coglie come le ragioni di necessita' ed urgenza sottese a
tale intervento normativo non possano essere connesse ad obiettivi di
contenimento della spesa pubblica. 
    Peraltro, anche a voler  prescindere  dalla  chiara  lettera  del
citato art. 18, e' agevolmente intuibile la sua palese inidoneita'  a
determinare riduzioni di spesa certe o significative. In  tal  senso,
basti considerare che la scala dimensionale per lo svolgimento  delle
funzioni amministrative, ora rimesse alle  citta'  metropolitane.  In
aggiunta, le ipotizzabili economie di  scala  per  l'esercizio  delle
funzioni ulteriori riconosciute alle citta'  metropolitane  risultano
ampiamente compensate dalla riduzione di scala per le funzioni svolte
dai possibili nuovi comuni metropolitani. 
    Anzi, a ben vedere emerge piuttosto la  chiara  attitudine  delle
suddette  previsioni  a  determinare  l'insorgere  di  nuove   spese,
immediate e rilevanti, in  relazione  all'eventuale  indizione  e  al
successivo svolgimento dei referendum, previsto dal  comma  2,  sulle
proposte  di  statuto  tra  tutti  i  cittadini  delle  varie  citta'
metropolitane.  Gia'  da  queste  iniziali   considerazioni   appare,
pertanto,  evidente  come  la  disciplina   qui   contestata   palesi
l'evidente estraneita' della norma censurata  rispetto  alla  materia
disciplinata da  altre  disposizioni  del  decreto-legge  in  cui  e'
inserita. Peraltro, di recente Codesta Ecc.ma Corte ha ribadito  come
sia  «in  contrasto  con  l'art.  77  Cost  la   commistione   e   la
sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e  finalita'
eterogenei, in ragione di  presupposti,  a  loro  volta,  eterogenei»
(sent. n. 22 del 2012). 
    Ne deriva la manifesta illegittimita' dell'art. 18 per tale prima
ragione. Sotto diverso profilo, e' altresi' opportuno  rilevare  come
non  sussista  alcun  chiaro  titolo  che  legittimi  un   intervento
legislativo dello  Stato  nella  materia.  Gli  unici  dati  espressi
ricavabili dalla  lettura  del  dettato  costituzionale  sono  quelli
attinenti,  da  un  lato,   alla   competenza   statale   in   ordine
all'istituzione delle province (art. 133, comma 1, Cost.), dall'altro
alla competenza delle regioni per l'istituzione dei comuni (art. 133,
comma 2, Cost.). 
    Di  converso,  non  e'   dato   rinvenire   alcuna   disposizione
costituzionale che disciplini la spettanza del potere di  istituzione
delle citta' metropolitane. 
    E', peraltro, evidente come lo  stesso  non  possa  certo  essere
ricondotto  alla  potesta'  legislativa   statale   in   materia   di
«legislazione elettorale, organi di governo e funzioni  fondamentali»
di cui all'art. 117, comma 2, lettera p), Cost. Codesta Ecc.ma  Corte
ha, infatti, da tempo chiarito che il suddetto  titolo  competenziale
deve  intendersi  rivolto  al   contesto   oggettivo   tassativamente
interessato, che si sostanzia  esclusivamente  nella  disciplina  del
sistema elettorale, della forma di  governo  e  delle  sole  funzioni
fondamentali di detti enti (ex plurimis, sent. n. 43 del 2004). 
    Se, dunque, rispetto alle citta'  metropolitane,  il  legislatore
statale e'  certamente  competente  in  ordine  alla  disciplina  del
sistema elettorale e degli organi, nonche' alla determinazione  delle
funzioni fondamentali, lo stesso non puo' dirsi  per  quanto  attiene
all'istituzione di detti enti locali. 
    Pertanto,  secondo  il  principio  della  competenza  legislativa
regionale residuale, alla stregua del quale «spetta alle  regioni  la
potesta' legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
riservata alla legislazione dello Stato»  (art.  117,  quarto  comma,
Cost.), puo' senza dubbio affermarsi che  il  silenzio  in  ordine  a
detta competenza investe senz'altro la regione dei predetti poteri. 
    Peraltro, nella denegata e non creduta  ipotesi  in  cui  Codesta
Ecc.ma  Corte  non  ritenesse  di   voler   aderire   alla   suddetta
conclusione,  appare   comunque   evidente   come   l'art.   18   del
decreto-legge  n.   95/2012   non   predisponga   alcuna   forma   di
partecipazione  delle  regioni  all'interno   del   procedimento   di
istituzione delle citta' metropolitane. In tal senso,  la  ricorrente
non puo' esimersi dal rilevare come l'odierna disciplina si  distanzi
notevolmente dalle  precedenti  previsioni  normative  in  materia  -
previsioni che, e' opportuno sottolineare, il censurato  art.  18  si
preoccupa altresi' di abrogare. 
    Appare, infatti, significativo come lo stesso art. 22 del decreto
legislativo n. 267/2000 rimettesse proprio alla regione, su  conforme
proposta degli enti locali interessati, la delimitazione territoriale
dell'area metropolitana. Cio', nonostante tale articolo  fosse  stato
adottato nella vigenza del precedente assetto istituzionale delineato
dalla vecchia formulazione del titolo V. 
    Sorprende, pertanto, come la disciplina odierna, introdotta in un
contesto di formale e sostanziale equiordinazione di Stato e regioni,
non riconosca a queste ultime alcun  coinvolgimento  nella  creazione
delle citta' metropolitane, in totale spregio  del  canone  di  leale
collaborazione. 
    Con  riferimento  alla  Regione  Campania,  infatti,   il   ruolo
regionale    risulta    circoscritto    esclusivamente     all'ambito
dell'eventuale  sub-procedimento  volto  all'articolazione  in   piu'
comuni del territorio del comune di Napoli, ai sensi del comma 2-bis.
Ne deriva l'evidente violazione delle prerogative  regionali  sancite
dagli artt. 114, 117 e 118, comma 1, Cost. 
    Ma  la  totale  pretermissione  dell'ente   regionale   dall'iter
istitutivo della citta' metropolitana si  palesa  ancora  piu'  grave
laddove si consideri  che  la  disposizione  censurata  procede  alla
contestuale soppressione delle province elencate  (tra  le  quali  la
provincia di Napoli). 
    Sia consentito rammentare che per  l'istituzione  delle  province
l'art. 133, comma  1,  Cost.  delinea  un  particolare  procedimento,
nell'ambito del quale la regione deve esprimere  il  proprio  parere.
Se, dunque, la  Costituzione  riserva  alla  regione  un  particolare
ruolo, sia pure consultivo, all'interno della vicenda genetica  della
provincia,  risulta  indubitabile  come  tale  ruolo   debba   essere
altrettanto osservato e garantito laddove della provincia  si  decida
la soppressione. 
    Alla luce di quanto sopra, il menzionato art. 18 appare  altresi'
contrario con l'art. 133, comma 1, Cost. 
    Infine,  la  regione  ricorrente  osserva   come   la   censurata
disciplina,  oltre  a  determinare  la  lesione   delle   prerogative
partecipative delle regioni, si caratterizza altresi', rispetto  alle
precedenti disposizioni statali in materia, per l'eliminazione di una
disciplina di carattere  generale  sul  procedimento  di  istituzione
delle citta' metropolitane. E' evidente, infatti, come l'art.  18  si
limiti  ad  individuare  10  province  esistenti,   decretandone   la
soppressione dal 1° gennaio 2014 e la contestuale sostituzione con le
relative citta' metropolitane. 
    Non appare revocabile in dubbio che tali previsioni, nella  parte
in cui individuano singolarmente le province da trasformare in citta'
metropolitane, difettano dei requisiti di generalita' e  astrattezza,
connotandosi  quindi  per  il  carattere  di   legge   provvedimento.
Tuttavia,  sotto  tale  aspetto,  le  previsioni  censurate  appaiono
sprovviste di  qualsivoglia  ragionevole  giustificazione,  con  cio'
ponendosi in  palese  contrasto  con  i  principi  di  eguaglianza  e
ragionevolezza sanciti dall'art. 3 Cost., nonche' con  il  canone  di
imparzialita' espresso dall'art. 97 Cost. 
    Peraltro,  sia  consentito  osservare  che  il  principio   della
ragionevolezza,   sotto   il   profilo   della   proporzionalita'   e
dell'adeguatezza rispetto ai fini, costituisce canone di legittimita'
costantemente   affermato   dalla   giurisprudenza    costituzionale,
soprattutto nel caso in cui  il  legislatore  statale  intervenga  in
materie che incidono su aspetti  connessi  all'autonomia  degli  enti
locali o su materie riservate alla potesta' legislativa regionale. 
    Secondo l'insegnamento di Codesta Ecc.ma Corte, il  sindacato  di
legittimita' costituzionale di una norma non  rifugge  dal  controllo
sulla  ragionevolezza  della  stessa  in  relazione  alle   finalita'
perseguite (cfr. Corte cost., sent. n. 148  del  2009),  essendo  ben
possibile la verifica  che  le  previsioni  impugnate  «non  appaiano
irragionevoli, ne' sproporzionate rispetto  alle  esigenze  indicate»
(Corte cost., sent. n. 326 del 2008) e che  gli  strumenti  normativi
rimessi  allo  scrutinio  di  legittimita'  costituzionale   appaiono
«disposti in una relazione ragionevole e proporzionata rispetto  agli
obiettivi attesi» (Corte cost., sent. n. 452 del 2007 e le ivi citate
sentt. n. 274 e n. 14 del 2004).  In  definitiva,  come  ribadito  in
altra occasione da Codesta Ecc.ma Corte «l'intervento del legislatore
statale e' legittimo se  contenuto  entro  i  limiti  dei  canoni  di
adeguatezza e proporzionalita'» (Corte cost. n. 345 del 2004). 
    Orbene, con riferimento al caso di specie, non e' dato  rinvenire
all'interno della disposizione impugnata alcuna indicazione circa  le
ragioni  che  hanno  mosso  il  legislatore  statale  ad  individuare
solamente   alcune    determinate    province    come    destinatarie
dell'intervento di trasformazione in citta' metropolitane. La  norma,
infatti, non chiarisce quali siano i criteri alla stregua  dei  quali
si e' ritenuta  necessaria  la  soppressione  dei  preesistenti  enti
provinciali e la loro contestuale sostituzione con le  nuove  realta'
istituzionali. Ne', tanto meno, appare possibile affermare  se  sara'
eventualmente   possibile   costituire   in   futuro   altre   citta'
metropolitane, ne' in che modo  e  a  quali  condizioni  cio'  potra'
avvenire. 
    Da  tutto  quanto  appena  osservato,  appare  evidente  come  la
disciplina  recata  dall'art.  18  si  palesi,  altresi',  del  tutto
irragionevole,  laddove  realizza  un'ingiustificata  disparita'   di
trattamento a danno delle province sopprimende. 
    3.2.  Sotto  diverso  profilo,   l'art.   18   risulta   altresi'
illegittimo nella parte in cui, al comma 2, prevede che il territorio
della citta' metropolitana di nuova costituzione coincida con  quello
della provincia contestualmente soppressa «fermo restando  il  potere
dei  comuni  interessati  di  deliberare,  con  atto  del  consiglio,
l'adesione  alla  citta'  metropolitana  o,  in  alternativa,  a  una
provincia limitrofa  ai  sensi  dell'art.  133,  primo  comma,  della
Costituzione». 
    Anche a voler tacere della formulazione non  chiara  della  norma
suddetta, quest'ultima sembra riconoscere ai  comuni  interessati  il
potere di aderire, in alternativa alla citta' metropolitana di  nuova
istituzione, ad una provincia limitrofa, essendo all'uopo sufficiente
la semplice deliberazione del consiglio comunale. 
    E' subito evidente che l'attribuzione ai  comuni  di  una  simile
potesta' si ponga in aperto contrasto  con  il  disposto  di  cui  al
menzionato art. 133, comma 1, Cost. Da un lato,  l'adesione  comunale
ad  una  provincia  limitrofa  attraverso   la   mera   deliberazione
consiliare  viola  la  riserva  di   legge   sancita   dalla   citata
disposizione   costituzionale   in   materia   di   mutamento   delle
circoscrizioni provinciali. In aggiunta, viene  altresi'  pretermessa
qualsiasi forma di coinvolgimento della regione, la quale,  ai  sensi
dell'art. 133, comma 1, Cost., dovrebbe  invece  essere  posta  nelle
condizioni di esprimere il proprio parere. Sotto diverso profilo,  la
previsione  suddetta  risulta,   altresi',   viziata   da   manifesta
irragionevolezza nella  misura  in  cui  pare  consentire  ai  comuni
ricompresi nel territorio della citta' metropolitana  di  optare  per
l'aggregazione  ad  una  provincia  limitrofa,  senza  il  necessario
rispetto della continuita' territoriale della citta' metropolitana. 
    Una simile eventualita' si porrebbe, in primo luogo, in contrasto
con la stessa disciplina recata dal precedente art. 17 in materia  di
riordino delle province. In aggiunta, il  distacco  di  comuni  dalla
citta'  metropolitana  senza  che  sia  garantita  alla  stessa   una
continuita' territoriale collide anche con  le  stesse  finalita'  di
efficace ed  efficiente  svolgimento  delle  funzioni  amministrative
dichiarate  dall'art.  18.  Evidente,  pertanto,   risulta   altresi'
l'irragionevolezza di una siffatta previsione, la quale si  riverbera
in violazione degli artt. 3 e 97 Cost. 
    3.3. Ulteriore profilo di  incostituzionalita'  della  disciplina
statale deve essere rinvenuto nella previsione di cui al comma 2-bis,
secondo la quale lo statuto della citta' metropolitana,  su  proposta
del comune capoluogo, puo' prevedere un'articolazione del  territorio
del  comune  capoluogo  medesimo  in  piu'  comuni.  Peraltro,   deve
osservarsi  che  la  predetta  previsione  limita  la  partecipazione
regionale alla mera espressione di un parere, il  quale  deve  essere
rilasciato in ordine alla complessiva proposta statutaria. 
    Peraltro, risulta chiaro come la  disposizione  suddetta  collida
con l'art. 133, comma 2, Cost., a norma del  quale  l'istituzione  di
nuovi comuni nel territorio regionale, ovvero la modificazione  delle
loro circoscrizioni  o  denominazioni  sono  rimesse  al  legislatore
regionale, sentite le popolazioni interessate. 
    L'assoluta incompatibilita' della disciplina introdotta dal comma
2-bis   dell'art.   18   rispetto   alla   richiamata    disposizione
costituzionale   e'   sufficiente   ad   evidenziare   la   manifesta
incostituzionalita' del predetto intervento statale. 
    Ma la norma  censurata  risulta  viziata  anche  sotto  ulteriore
profilo, nella parte in cui dispone che, nel caso in cui si opti  per
la suddivisione del territorio del comune capoluogo in  piu'  comuni,
sulla proposta complessiva di  statuto  sia  indetto  referendum  tra
tutti i cittadini della citta'  metropolitana.  Il  menzionato  comma
2-bis non solo definisce i quorum di  validita'  della  consultazione
referendaria, ma prescrive altresi'  alle  regioni  di  adeguare  con
proprie leggi le  circoscrizioni  territoriali  comunali  sulla  base
degli esiti della consultazione medesima. 
    Tuttavia, le previsioni suddette invadono con  ogni  evidenza  la
riserva statutaria  regionale  in  materia  di  regolamentazione  del
referendum sulle leggi e sui provvedimenti amministrativi  regionali,
sancita  dall'art.  123,  comma  1,  Cost.  In   particolare,   dando
attuazione  a  tale  attribuzione  costituzionale,   il   legislatore
statutario campano,  con  l'art.  14,  comma  2,  dello  statuto,  ha
previsto  espressamente  che  «sono  obbligatoriamente  sottoposte  a
referendum consultivo delle popolazioni interessate  le  proposte  di
legge concernenti la istituzione di nuovi comuni e i mutamenti  delle
circoscrizioni e delle denominazioni comunali». 
    In aggiunta, e' doveroso rilevare come, con  legge  regionale  n.
25/1975, la Regione Campania  abbia  dato  compiuta  disciplina  alla
predetta ipotesi di consultazione  popolare,  prescrivendo  anche  un
apposito quorum di validita'. 
    E' palese,  pertanto,  che  la  disposizione  statale  censurata,
introducendo  una  nuova   ipotesi   di   referendum   consultivo   e
disciplinando integralmente le modalita' ed i tempi  di  svolgimento,
contrasta  manifestamente  con  la  predetta  previsione  statutaria,
violando di conseguenza l'art. 123, comma 1, Cost. 
    3.4.  Un'ulteriore  ragione  di  illegittimita'   dell'art.   18,
decreto-legge n. 95/2012 si  rinviene  nel  comma  7-bis,  il  quale,
stante l'individuazione  delle  funzioni  fondamentali  delle  citta'
metropolitane da parte del precedente comma 7,  sembrerebbe  limitare
le  funzioni  regionali  alla   sola   programmazione   e   al   solo
coordinamento nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4,  Cost.,
nonche' alle funzioni esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. 
    La norma suddetta, limitando  il  ruolo  regionale  all'esclusivo
svolgimento dei compiti  sopra  individuati,  sembra  sottrarre  alle
regioni tutte le funzioni non espressamente richiamate,  malgrado  le
stesse siano pacificamente spettanti ai  sensi  del  chiaro  disposto
degli artt. 117 e 118 Cost. E', infatti, fuori  di  dubbio  che  alla
stregua del dettato costituzionale il novero dei poteri regionali  in
materia  di  esercizio  delle  funzioni  amministrative   non   possa
ritenersi esaurito - a differenza di quanto sembra  invece  affermare
la norma statale  -  dalle  sole  attribuzioni  di  programmazione  e
coordinamento. 
    In tal senso, non sfugge certo alla scrivente difesa  che  l'art.
118, comma 1, Cost., nella formulazione successiva alla  riforma  del
titolo V, ha enunciato il principio  della  competenza  generale  dei
comuni come enti istituzionali attributari in via preferenziale delle
funzioni amministrative. Tuttavia, non  puo'  certo  trascurarsi  che
tale norma costituzionale reca invero  un  criterio  direttivo  e  di
orientamento nei confronti del legislatore regionale. 
    Del resto, tale conclusione trova espressa conferma  anche  nella
giurisprudenza di Codesta Ecc.ma Corte. In  particolare,  «quale  che
debba ritenersi il rapporto fra le "funzioni fondamentali" degli enti
locali di cui all'art. 117, secondo comma, lettera p), e le "funzioni
proprie" di cui a detto art. 118, secondo comma,  sta  di  fatto  che
sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione  al  riparto
delle competenze legislative,  a  operare  la  concreta  collocazione
delle funzioni» (Corte cost., cent. n. 43 del 2004). 
    Appare, pertanto, evidente che, dal momento che l'attribuzione in
concreto delle funzioni amministrative necessita pur  sempre  di  una
legge statale o regionale di conferimento, non v'e' dubbio alcuno che
la regione ben potra' disporre di un ampio  novero  di  funzioni  che
potra' delegare, tra gli altri, anche alle citta' metropolitane sulla
base dei principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarieta'. 
    Tale configurazione non  esclude,  pertanto,  che  nella  propria
opera  di  concreta  destinazione   delle   funzioni   amministrative
rientranti nelle materie di propria competenza ex art. 117, commi 3 e
4, Cost., la regione possa riservare a  se'  l'esercizio  di  compiti
diversi  ed  ulteriori  rispetto  a  quelli   di   programmazione   e
coordinamento. 
    Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di
tali  ultimi  compiti,  la  disposizione  censurata  illegittimamente
ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione  di  optare
per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio'
in palese violazione delle previsioni  costituzionali  sancite  dagli
artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 
    3.5. Infine, si espone a rilievi di illegittimita' anche il comma
9 dell'art.  18,  decreto-legge  n.  95/2012,  laddove  accorda  allo
statuto della citta' metropolitana  la  possibilita'  di  «conferire»
proprie funzioni ai comuni ricompresi nel proprio territorio  o  alle
loro forme associative, anche in forma differenziata per  determinate
aree territoriali, con contestuale trasferimento delle risorse umane,
strumentali e finanziarie necessarie per il loro svolgimento (lettera
c), contemplando altresi' la possibilita'  inversa  per  i  comuni  -
secondo le modalita' previste dallo statuto medesimo -  di  rimettere
alla citta' metropolitana proprie funzioni alle  medesime  condizioni
(lettera d). 
    Le norme in questione, conferendo la  facolta'  ad  enti  diversi
dallo Stato o dalla regione di attribuire funzioni  amministrative  a
comuni  e  citta'  metropolitane,  violano  apertamente  il  disposto
dell'art. 118, comma 2, Cost., a norma del quale  tale  potere  viene
riservato in via esclusiva alla legge statale o regionale, secondo le
rispettive competenze. 
    A tale fine, sia sufficiente fare riferimento ancora una volta al
pacifico orientamento giurisprudenziale desumibile dalla  piu'  volte
citata sentenza n. 43 del 2004,  mediante  la  quale  Codesta  Ecc.ma
Corte ha espressamente osservato come, nonostante l'art.  118,  comma
2, Cost., riconosca a comuni,  province  e  citta'  metropolitane  la
titolarita' di funzioni proprie e ovvero  conferite,  l'esercizio  in
concreto delle stesse e' pur sempre subordinato alla circostanza  che
«sara' sempre la legge, statale o regionale, in relazione al  riparto
delle competenze legislative,  a  operare  la  concreta  collocazione
delle funzioni» (Corte cost., sent. n. 43 del 2004). 
    E'  chiaro,   quindi,   che   il   riconoscimento   alle   citta'
metropolitane ovvero ai comuni di un  potere  di  conferimento  delle
funzioni ad altro livello  istituzionale  si  pone  evidentemente  in
contrasto con il sistema di allocazione delle funzioni amministrative
delineato  dalla  Costituzione,  ed  in  particolare  dal   combinato
disposto degli artt. 117 e 118. 
    Peraltro,  il  richiamato  profilo  di   incompatibilita'   delle
disposizioni censurate con il dettato  costituzionale  vizia  in  via
consequenziale  anche   la   previsione   relativa   al   contestuale
trasferimento  delle   necessarie   risorse   umane   strumentali   e
finanziarie, previsione che per di piu' risulta  contrastare  con  il
principio di buon andamento della pubblica amministrazione e  con  la
riserva di legge in materia di organizzazione dei pubblici uffici, di
cui dall'art. 97 Cost. 
    4. Illegittimita' costituzionale dell'art. 19, commi  1,  lettere
a), b), c) e d), 2, 3,  4,  5  e  6  del  decreto-legge  n.  95/2012,
convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge   n.   135/2012,   per
violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 123 e 133 Cost. 
    Come si e' gia' avuto modo di osservare nella parte  in  «Fatto»,
l'art. 19 del decreto-legge n. 95/2012, facendo  ampio  ricorso  alla
tecnica della novella, introduce una serie di previsioni in  materia,
da un lato, di funzioni fondamentali dei  comuni  e,  dall'altro,  di
esercizio associato delle funzioni e dei servizi da parte dei comuni,
le quali appaiono gia' ad un  primo  esame  gravemente  lesive  delle
prerogative costituzionalmente attribuite alla regione ricorrente. 
    4.1. In primo luogo, un'evidente  ragione  di  illegittimita'  si
rinviene nel comma 1,  lettera  a),  dell'articolo  censurato,  nella
parte  in  cui,  nel  modificare   la   disciplina   delle   funzioni
fondamentali dei comuni precedentemente recata  dall'art.  14,  comma
27, decreto-legge n. 78/2010, riconosce in materia  alle  regioni  le
sole funzioni di programmazione e di coordinamento,  spettanti  nelle
materie di cui all'art. 117, commi  3  e  4,  Cost.,  nonche'  quelle
esercitate ai sensi dell'art. 118 Cost. 
    In altre parole, la norma suddetta, limitando il ruolo  regionale
all'esclusivo svolgimento dei compiti sopra individuati, pretende  di
sottrarre di fatto alle regioni tutte le funzioni  non  espressamente
richiamate, malgrado le stesse siano pacificamente spettanti ai sensi
del chiaro disposto degli artt. 117 e 118 Cost. come gia' evidenziato
sub § 3.4. 
    In tal senso, sia consentito osservare come sia  senz'altro  vero
che l'art. 118, comma 1, Cost., nella  formulazione  successiva  alla
riforma del titolo V, ha  enunciato  il  principio  della  competenza
generale dei  comuni  come  enti  istituzionali  attributari  in  via
preferenziale  delle  funzioni  amministrative.  Tuttavia,  e'   oggi
pacifico come  sia  altrettanto  corretto  ritenere  che  tale  norma
costituzionale rechi invero un criterio direttivo e  di  orientamento
nei confronti del  legislatore.  Del  resto  e'  lo  stesso  comma  2
dell'art. 118 a precisare che oltre alle funzioni, proprie, le  altre
funzioni  di  cui  comuni,  province  e  citta'  metropolitane   sono
titolari, sono quelle  conferite  «con  legge  statale  o  regionale,
secondo le  rispettive  competenze».  Dal  che'  appare  evidente  la
titolarita' della regione di un ampio novero di funzioni  che  potra'
delegare ai comuni o alle province o alle citta' metropolitane. 
    In tal senso, appare  evidente  che  l'attribuzione  in  concreto
delle funzioni amministrative  necessiti  pur  sempre  di  una  legge
statale o regionale di conferimento. Cio' trova, del resto,  conferma
nell'art. 7 della legge n. 131/2003, il quale,  nel  dare  attuazione
all'art. 118 Cost., ha  rimesso  espressamente  a  Stato  e  regioni,
secondo le rispettive competenze, il compito di conferire  ai  comuni
le   funzioni   amministrative   precedentemente   esercitate,    con
contestuale   trasferimento   delle   risorse    necessarie,    salvo
attribuzione  a  province,  citta'  metropolitane,  regioni  e  Stato
soltanto di  quelle  «di  cui  occorra  assicurare  l'unitarieta'  di
esercizio, per motivi  di  buon  andamento,  efficienza  o  efficacia
dell'azione amministrativa ovvero per motivi funzionali o economici o
per esigenze di programmazione o di omogeneita' territoriale». 
    Il legislatore, quindi,  ben  potra'  provvedere  all'allocazione
delle funzioni medesime ad un livello  diverso  da  quello  comunale,
laddove cio' permetta il loro migliore esercizio. Tale configurazione
non  esclude,  pertanto,  che  nella  propria   opera   di   concreta
destinazione delle funzioni amministrative rientranti  nelle  materie
di propria competenza ex art. 117, commi 3 e  4,  Cost.,  la  regione
possa riservare a se' l'esercizio di  compiti  diversi  ed  ulteriori
rispetto a quelli di programmazione e coordinamento. 
    Limitando invece il ruolo regionale allo svolgimento esclusivo di
tali  ultimi  compiti,  la  disposizione  censurata  illegittimamente
ridimensiona in maniera sensibile il potere della regione  di  optare
per un diverso sistema di riparto delle funzioni amministrative. Cio'
in palese violazione delle previsioni  costituzionali  sancite  dagli
artt. 117, commi 3 e 4, e 118 Cost. 
    4.2. Sotto diverso profilo, il censurato art. 19 reca  una  serie
di   disposizioni,   modificative   di    precedenti    provvedimenti
legislativi,  inerenti  le  modalita'  e  le  forme  di   svolgimento
associato delle funzioni da parte dei comuni. 
    In primo luogo, gravemente lesivo risulta il comma  2,  il  quale
riscrive integralmente i commi da 1 a 16 dell'art. 16,  decreto-legge
n. 138/2011. Come si e' gia' avuto modo di rammentare, tale  articolo
e' stato oggetto di gravame da parte della regione ricorrente dinanzi
a Codesta Ecc.ma Corte, mediante ricorso reg. n.  153  del  2011.  In
tale sede, infatti, e' stato posto in  evidenza  come  la  disciplina
previgente  incidesse  del  tutto  illegittimamente  sulla  sfera  di
competenze legislative che la Costituzione riserva  alla  regione  in
materia di disciplina  delle  forme  associative  degli  enti  locali
presenti sul proprio territorio, cosi' violando l'art. 117, comma  2,
lettera p), e comma 4, nonche' l'art. 118 Cost. 
    Orbene, gia' da un primo esame delle disposizioni  ivi  censurate
risulta  evidente  come  le  modifiche  apportate   alla   precedente
formulazione non possono assolutamente ritenersi  satisfattive  delle
ragioni sottese al primo ricorso, confermando di contro  i  lamentati
profili di lesione delle attribuzioni regionali. 
    La  nuova  formulazione  dell'art.  16  delinea  ora  l'esercizio
associato di tutte le funzioni e di tutti i  servizi,  per  i  comuni
fino a 1.000 abitanti, come non piu' obbligatorio, bensi' alternativo
alle modalita' di cui all'art. 14, decreto-legge n. 78/2010. 
    Tuttavia non v'e' dubbio che la disposizione statale continui  ad
incidere illegittimamente sulla sfera di competenze  legislative  che
la Costituzione riserva alle regione in materia di  disciplina  delle
forme associative degli enti locali presenti sul proprio  territorio.
Cio' e' tanto piu' vero  ove  si  consideri  che  restano  del  tutto
immutate  le  attribuzioni  riconosciute   all'unione   quale   forma
associativa. 
    Come gia' previsto nella  precedente  formulazione,  anche  dalla
disciplina ivi censurata emerge l'istituzione di un nuovo ente locale
dotato di competenza di  programmazione  economico-finanziaria  e  di
gestione contabile, nonche' di potesta'  impositiva  e  patrimoniale.
E', altresi', prevista la successione dell'unione a tutti gli effetti
nei rapporti giuridici inerenti alle funzioni e ai  servizi  ad  essa
affidati, con trasferimento di risorse umane e strumentali, oltre  ai
relativi  rapporti  finanziari.  In  ultimo,  l'unione  ha   potesta'
statutaria  propria  e  propri   organi,   alla   cui   proclamazione
corrisponde la decadenza di diritto delle giunte dei  singoli  comuni
associati. 
    In aggiunta, la violazione delle competenze  regionali  da  parte
delle previsioni suddette trova ulteriore riscontro nella  disciplina
dell'iter di formazione delle menzionate forme  associative.  In  tal
senso, e' fatto obbligo alla  regione  di  sancire  l'istituzione  di
tutte le unioni del proprio territorio attenendosi alle  proposte  di
aggregazione, formulate dai comuni interessati sulla base dei criteri
demografici prescritti dalla normativa statale. Il carattere  cogente
di tale adempimento imposto alla regione e' confermato dal  carattere
perentorio  entro  il  quale  la  regione  stessa   deve   provvedere
all'istituzione delle unioni suddette. Peraltro, la previsione  -  ex
comma 5 dell'art. 19, decreto-legge n. 95/2012 - della  facolta'  per
la regione  di  individuare  limiti  demografici  diversi  da  quelli
statali non vale ad escludere comunque la violazione del  riparto  di
competenze delineato dagli artt. 117 e 118 Cost. 
    4.2.1. Dall'esame delle previsioni suddette emerge  con  evidenza
la  loro  lesivita'  e  palese  attitudine  ad  impingere  su  ambiti
competenziali di sicura spettanza regionale. 
    Ne', del resto,  ad  escludere  l'illegittimita'  dell'intervento
normativo  censurato  potrebbe  invocarsi  la  competenza   esclusiva
statale  ex  art.  117,  comma  2,  lettera  p),  Cost.,  relativa  a
«legislazione elettorale, organi di governo e  funzioni  fondamentali
di comuni, province e citta' metropolitane». Codesta Ecc.ma Corte  ha
da tempo chiarito come il suddetto titolo competenziale debba  essere
inteso nel senso che il  riferimento  deve  ritenersi  tassativamente
rivolto agli enti locali elencati  all'art.  114  Cost.,  cosi'  come
tassativo e' il contesto  oggettivo  interessato,  che  si  sostanzia
esclusivamente nella disciplina del sistema elettorale,  della  forma
di governo e delle funzioni fondamentali di detti enti. 
    Di  contro,  al  di  fuori   dell'ambito   materiale   come   ora
circoscritto, la regolamentazione degli enti locali  deve  essere  di
certo ricondotta nella competenza residuale  delle  regioni  ex  art.
117, comma 4, Cost. Cio' anche al fine di garantire  la  possibilita'
che la singola regione,  nel  ruolo  di  ente  rappresentativo  delle
diverse   istanze   presenti   sul   proprio   territorio,   provveda
all'adozione di previsioni  differenziate  che  tengano  in  adeguata
considerazione le esigenze espresse dalla comunita'  di  riferimento,
in  osservanza  dei  principi  di   sussidiarieta',   adeguatezza   e
differenziazione consacrati nell'art. 118, comma 1, Cost. 
    Tali   considerazioni    trovano    conferma    nella    costante
giurisprudenza costituzionale, sviluppatasi in particolare in  merito
alla disciplina delle comunita' montane. E' opportuno precisare  come
alle  stesse  sia  stata  attribuita  la  natura  giuridica  di  ente
autonomo, quali proiezione dei comuni facenti capo  ad  esse,  ovvero
quali «unioni di comuni, enti locali costituiti fra  comuni  montani»
(Corte cost., sent. n. 244 del 2005, richiamata da ultimo dalla sent.
n. 27 del 2010). 
    In tal senso, Codesta Ecc.ma Corte ha avuto modo di precisare che
la  disciplina  delle  comunita'  montane  rientra  nella  competenza
residuale delle regioni (si vedano, in particolare, le sentt. n.  237
del 2009, n. 456 e n. 244 del 2005). 
    Il riconoscimento della  predetta  potesta'  regionale  esclusiva
trova, in particolare, fondamento nel fatto che tali comunita' devono
essere   identificate   come   autonomie   sub-regionali    meramente
strumentali e non gia' rientranti tra gli enti necessari  sulla  base
di norme costituzionali; alla luce di cio', pertanto, «rientra  nella
potesta' legislativa delle regioni disporne anche, eventualmente,  la
soppressione» (Corte cost., sent. n. 27 del 2010, citata,  e  le  ivi
richiamate sentt. n. 237 del 2009, citata, e n. 229 del 2001). 
    Orbene, non v'e' chi non veda come  i  principi  affermati  dalla
giurisprudenza  di  Codesta  Ecc.ma  Corte   nelle   pronunce   sopra
richiamate trovino immediata applicabilita'  alla  normativa  statale
della cui legittimita' costituzionale qui si sospetta.  Se  la  ratio
della competenza regionale  in  materia  di  comunita'  montane  deve
essere   rinvenuta   nel   carattere    non    essenziale    e    non
costituzionalmente indefettibile delle  stesse,  non  puo'  dubitarsi
allora come nella suddetta competenza vada, altresi',  ricondotta  la
disciplina delle forme associative di comuni e, in particolare, delle
unioni. 
    Cosi' ricostruito il riparto di attribuzioni tra Stato e  regioni
in materia, risulta netto il contrasto delle previsioni impugnate con
il dettato costituzionale, derivandone di  conseguenza  la  manifesta
violazione delle competenze normative regionali. 
    4.2.2. In via subordinata, nella denegata e non  creduta  ipotesi
in cui Codesta Ecc.ma Corte non ritenesse di riconoscere la manifesta
violazione della  competenza  residuale  della  Regione  Campania  in
merito alla disciplina delle forme  associative  degli  enti  locali,
l'art.  16  del  decreto-legge  n.  138/2011,  cosi'  come  novellato
dall'art. 19 ivi censurato, risulta in ogni  caso  collidere  con  le
previsioni recate dall'art. 118, in combinato disposto con l'art. 117
Cost. 
    In particolare, nella misura in cui la norma  statale  disciplina
l'esercizio in forma associata, da parte dei comuni interessati,  «di
tutte le funzioni amministrative e di tutti i servizi  pubblici  loro
spettanti sulla base  della  legislazione  vigente»,  essa  viola  in
maniera palese il riparto costituzionale di potesta' legislative  tra
Stato  e  regioni  in  materia  di  disciplina  dell'esercizio  delle
funzioni amministrative da parte degli enti locali. 
    Sia consentito rammentare come, ai  sensi  dell'art.  118  Cost.,
nella  formulazione  successiva  alla  riforma  del  titolo  V  della
Costituzione, sono attribuite in via di principio ai comuni tutte  le
funzioni amministrative, a prescindere dalla materia cui afferiscano,
salvo la possibilita' che le stesse siano conferite, sulla  base  dei
principi  di  sussidiarieta',  differenziazione  e  adeguatezza,   ai
livelli di governo superiori,  al  fine  di  garantirne  il  migliore
esercizio. 
    Pare, altresi', opportuno ribadire che, in forza del citato  art.
117, comma 2, lettera p), Cost., la competenza legislativa  esclusiva
dello Stato inerisce ora alla  determinazione  delle  sole  «funzioni
fondamentali» di comuni, province e citta' metropolitane. 
    Nell'interpretare  il  rapporto   tra   le   rinnovate   potesta'
legislative regionali risultanti dall'art. 117, come riformato  dalla
legge  costituzionale  n.  3/2001,  e  l'art.  118  Cost.,  non  puo'
prescindersi dalla chiara giurisprudenza espressa da  Codesta  Ecc.ma
Corte, in particolare nella piu' volte richiamata  sent.  n.  43  del
2004, alla quale si fa rinvio  (sara'  sempre  la  legge,  statale  o
regionale, in relazione al riparto delle  competenze  legislative,  a
operare la concreta collocazione delle funzioni). Pertanto, alla luce
dei principi  desumibili  dalla  richiamata  giurisprudenza,  non  e'
revocabile in dubbio come la competenza della regione in  materia  di
disciplina dell'esercizio delle funzioni amministrative sussista ogni
qualvolta le funzioni stesse interessino ambiti materiali di  diretta
pertinenza regionale (esclusiva o concorrente). 
    Di contro, la  censurata  disposizione  statale  ha  inteso  fare
riferimento indistinto a tutte le funzioni amministrative attualmente
esercitate dai comuni  interessati.  Cosi'  facendo,  il  legislatore
statale ha sicuramente ricompreso anche funzioni ricadenti in  ambiti
materiali  regionali,  violando   in   tal   modo   le   attribuzioni
costituzionalmente garantite alla regione. 
    4.3. Sotto diverso  profilo,  l'art.  19  introduce  disposizioni
ulteriori in materia di esercizio associato delle funzioni in  ambito
comunale. 
    In particolare, le previsioni contenute nelle lettere da b) a  d)
del  comma  1  del  predetto  articolo  modificano  integralmente  la
disciplina posta in materia dai commi 28  e  seguenti  dell'art.  14,
decreto-legge n. 78/2010. E'  ora  prescritto,  infatti,  l'esercizio
obbligatorio  delle  funzioni   fondamentali,   mediante   unione   o
convenzione, da  parte  dei  comuni  con  popolazione  fino  a  5.000
abitanti (3.000 se in comunita' montane). Il  ruolo  regionale  viene
limitato, nelle materie di cui all'art. 117, commi 3 e 4, Cost., alla
mera  individuazione,  previa  concertazione  con  gli  enti   locali
interessati nell'ambito del  C.A.L.,  della  dimensione  territoriale
ottimale e omogenea per area geografica per lo svolgimento  associato
delle funzioni suddette. 
    Sempre in materia di forme associative, il comma 3  dell'art.  19
modifica integralmente l'art.  32  TUEL,  innovando  alla  disciplina
delle unioni di comuni. 
    Appare immediatamente evidente come le suddette previsioni  siano
manifestamente lesive della sfera di attribuzioni regionali assegnata
dalla  Carta  costituzionale.  A  tal  fine   valga   richiamare   le
considerazioni svolte supra (sub § 4.2)  in  ordine  alla  competenza
delle regioni con riferimento alla disciplina degli strumenti e delle
modalita' a disposizione dei comuni per l'esercizio  congiunto  delle
funzioni loro spettanti. 
    Alla stregua della chiara e  pacifica  giurisprudenza  richiamata
sul punto,  appare  allora  immediatamente  evidente  come  anche  le
suddette previsioni risultino manifestamente contrarie al disposto di
cui agli artt. 117 e 118 Cost. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Chiede che Codesta Ecc.ma Corte,  in  accoglimento  del  presente
ricorso, voglia dichiarare l'illegittimita' costituzionale  dell'art.
4, commi 3 e 8, dell'art. 17, commi 1, 2, 3, 4  e  4-bis,  comma  11,
nonche' commi 6 e 12, dell'art. 18, commi  1,  2,  2-bis,  7-bis,  9,
lettere c) e d), dell'art. 19, commi 1, lettere a), b), c) e  d),  2,
3, 4, 5, 6 del decreto-legge 6 luglio 2012, n.  95,  convertito,  con
modificazioni,  dalla  legge  7  agosto   2012,   n.   135,   recante
«Disposizioni urgenti per  la  revisione  della  spesa  pubblica  con
invarianza dei servizi ai cittadini nonche' misure  dl  rafforzamento
patrimoniale delle imprese  del  settore  bancario»,  per  violazione
degli artt. 1, 2, 3, 5, 41, 71, comma 1, 75, 77, comma  2,  97,  114,
117, 118, 119, 120, comma 2, 123, 133, 136 e 138 della Costituzione. 
      Roma, 12 ottobre 2012 
 
        Il prof. avv. : Caravita di Toritto - L'avv.: D'Elia