N. 7 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 marzo 2012

Ordinanza del 26  marzo  2012  emessa  dal  Tribunale  di  Lecce  nel
procedimento di esecuzione nei confronti di P. G.. 
 
Processo penale - Giudizio abbreviato -  Reati  puniti  con  la  pena
  dell'ergastolo - Rimessione in termini per la richiesta di giudizio
  abbreviato per gli  imputati  il  cui  processo  penda  o  pendesse
  davanti alla Corte di cassazione - Mancata previsione -  Violazione
  del principio di uguaglianza - Inosservanza dei  vincoli  derivanti
  dagli obblighi internazionali,  con  riferimento  ai  principi  del
  giusto processo e della  retroattivita'  della  legge  penale  piu'
  favorevole, affermati dalla Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
  diritti dell'uomo (CEDU). 
- Decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82,  art.  4-ter,  convertito,  con
  modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144. 
- Costituzione, artt. 3 e 117, primo comma, in relazione agli artt. 6
  e 7 della Convenzione  per  la  salvaguardia  diritti  dell'uomo  e
  liberta' fondamentali (CEDU). 
(GU n.6 del 6-2-2013 )
 
                       IL TRIBUNALE ORDINARIO 
 
    Decidendo in ordine alla richiesta, pervenuta in data  12  maggio
2011, avanzata nell'interesse di P. G., nato il ... a Lecce,  con  la
quale lo stesso chiede di essere rimesso in termini al fine di  poter
ottenere la riduzione di pena per il rito  abbreviato,  a  suo  tempo
negatagli, sottolineandosi come la applicazione retroattiva dell'art.
7 del D.L. n. 341/2000 sia stata ritenuta contraria ai principi della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo dalla competente Corte,  la
quale ha sancito che la diminuzione  di  pena  discendente  dal  rito
abbreviato, pur  legata  ad  una  scelta  processuale,  abbia  natura
sostanziale e debba  pertanto  trovare  applicazione  retroattiva  ai
sensi dell'art. 7 della Convenzione, secondo l'interpretazione datane
dalla Corte, come comprensiva non solo del divieto di  retroattivita'
della pena piu' grave, ma anche di  retroattivita'  della  pena  piu'
favorevole; 
    Rilevato che con memoria in atti, la difesa chiede poi la diretta
applicazione, in sede esecutiva, della riduzione di pena  discendente
dalla scelta del rito abbreviato; 
    Osservato che con questione sollevata all'udienza  del  giorno  2
novembre 2011, la difesa del condannato ha poi sollevato questione di
incostituzionalita' dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella  parte
in cui non  prevedeva  la  possibilita'  di  richiedere  il  giudizio
abbreviato all'imputato il cui giudizio - come appunto era  nel  caso
del P. - pendesse in fase di Cassazione; 
    Disposta in detta udienza l'acquisizione dei verbali, nella parte
relativa alle questioni preliminari, delle udienze  tenutesi  davanti
al g.u.p. ed in primo e  secondo  grado,  al  fine  di  una  compiuta
verifica delle questioni fatte valere dal P. davanti a tali giudizi; 
    Sentito il Presidente relatore e ricevute  le  conclusioni  delle
parti, ha pronunziato la seguente ordinanza. 
    1. - La competenza di questa A.G. a conoscere  dell'incidente  di
esecuzione. 
    Va in primo luogo richiamata, per quel che attiene la trattazione
del  presente  incidente,  la  competenza  di  questa  A.G.  a  norma
dell'art. 665 comma 4 c.p.p., risultando  che  l'ultima  sentenza  di
condanna divenuta irrevocabile ed in esecuzione e' quella  emessa  in
data 6 dicembre 2002 dal Tribunale di Lecce. 
    2. - L'oggetto della istanza e brevissima sintesi  della  vicenda
processuale. 
    Come anticipato in epigrafe, il presente incidente di  esecuzione
ha sostanzialmente ad oggetto la richiesta del  P.  di  essere  messo
nella condizione di godere dello sconto di pena previsto per il  rito
abbreviato, che egli ebbe a richiedere in udienza preliminare  e  cui
non fu  ammesso  avendo  il  p.m.  negato  il  proprio  consenso  (ed
essendosi a tale posizione conformato il g.u.p.) in quanto  all'epoca
la  legge  non  prevedeva  piu'  (in  forza  della   sentenza   Corte
costituzionale n. 176/91) la possibilita' di accedere a tale rito  in
relazione ai reati  contestatigli  (tre  omicidi  aggravati  e  reati
satellitari), per i quali era prevista la pena dell'ergastolo. 
    Il P. non pote' poi nemmeno richiedere detto rito  neanche  nelle
successive  fasi  del  giudizio,  atteso  che  la  riforma  del  rito
abbreviato, che reintrodusse la possibilita' del rito abbreviato  per
i  reati   puniti   con   pena   dell'ergastolo,   e   sottrasse   la
percorribilita' del rito al consenso del p.m. ed alla valutazione  di
decidibilita' allo stato degli atti da parte del  g.u.p.,  intervenne
quando le fasi di merito erano gia' esaurite ed il  processo  pendeva
davanti alla Suprema Corte di Cassazione, davanti alla quale le norme
transitorie non consentivano di avanzare  istanza  di  ammissione  al
rito abbreviato. 
    Egli chiede quindi che  la  pena  dell'ergastolo  con  isolamento
diurno, irrogatagli in primo e secondo grado,  venga  sostituita  con
quella di trenta anni di reclusione; cio' in quanto tale sarebbe, nel
suo caso, l'effetto della nota sentenza emessa dalla  Corte  EDU  nel
caso Scoppola contro Italia, allorche', come noto, ha affermato  che,
ai sensi  della  Convenzione  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo,  deve
intendersi   per   norma   penale,   soggetta   al    principio    di
irretroattivita' della disposizione sfavorevole, e di  retroattivita'
di quella favorevole, sia la norma che modifichi i  casi  in  cui  un
fatto costituisca reato, sia quella che comunque influisca sulla pena
irrogabile per  detti  fatti,  anche  se  di  collocazione  e  natura
processuale: cosi' riconoscendo natura  sostanzialmente  penale  alla
disposizione dell'art. 442 c.p.p. 
    Per pervenire al risultato richiesto, l'istante  ha  operato  per
due vie alternative: 
        a) una richiesta di rimessione in termini, per poter avanzare
al g.u.p. la richiesta di ammissione al rito abbreviato; 
        b) una richiesta di immediata  applicazione  della  riduzione
della pena ad opera del Giudice dell'Esecuzione 
prospettando, in via eventuale, una questione di  incostituzionalita'
dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella parte in cui non prevedeva
la possibilita' di richiedere il giudizio abbreviato all'imputato  il
cui giudizio - come appunto era nel caso del P. - pendesse in fase di
Cassazione. 
    In esito al parere espresso  dal  p.m.  in  via  preliminare,  su
sollecitazione del Presidente del collegio, nessuna delle due istanze
e'  apparsa  manifestamente  infondata,  e  tale  da  consentire   la
possibilita' di un decreto di inammissibilita' ex art. 666, comma  2,
c.p.p.; ed invero, la  citata  sentenza  della  Corte  EDU  nel  caso
Scoppola contro Italia ha assegnato alla riduzione  di  pena  propria
del rito abbreviato la natura di norma sostanzialmente penale, e come
tale  sottoposta  al  principio  della  retroattivita'  della   norma
favorevole e della non retroattivita' della  norma  meno  favorevole;
mentre la disciplina del  rito  abbreviato  formatasi  nel  tempo,  e
comunque prima che la sentenza emessa nei confronti del P.  divenisse
irrevocabile (come meglio oltre  si  vedra'),  vedeva  ormai  in  via
generale riconoscere, a colui che fosse  imputato  di  un  reato,  la
titolarita'  di  un  vero  e  proprio  diritto  potestativo  al  rito
abbreviato, con la previsione di uno sconto premiale sulla pena - ivi
compresa quella dell'ergastolo con isolamento diurno - connesso  alla
rinunzia a facolta' difensive,  foriera  di  economie  processuali  a
beneficio dell'ordinamento nel suo complesso. 
    La peculiarita' del caso concreto, rispetto a quello oggetto  del
suddetto «caso Scoppola» e di cui tra breve si dira',  e'  ovviamente
data dalla circostanza che  il  P.  non  e'  stato  ammesso  al  rito
abbreviato, e pertanto questo non e' stato  celebrato,  sicche'  egli
chiede una riduzione di pena riconnettendo tale sua istanza alla mera
circostanza di aver  chiesto,  a  suo  tempo,  l'ammissione  al  rito
alternativo, la cui applicabilita' venne esclusa dal g.i.p. in  forza
della normativa interna all'epoca vigente,  peraltro  discendente  da
una sentenza con la quale la Corte costituzionale  aveva  escluso  la
legittimita' costituzionale, per eccesso  di  delega,  dell'art.  442
c.p.p., nella parte in cui  ammetteva  alla  definibilita'  con  rito
abbreviato anche i procedimenti relativi a reati puniti con  la  pena
dell'ergastolo. 
    Tale peculiarita' non appare tuttavia di natura tale  da  imporre
di ritenere manifestamente infondata  la  istanza  avanzata  dal  P.,
dovendosi ricordare come l'ordinamento processuale  gia'  conosca  ed
abbia conosciuto ipotesi in cui, per effetto di pronunzie della Corte
costituzionale,  si  sia  affermato  il  diritto  dell'imputato  alla
riduzione di pena per il rito abbreviato quando lo avesse  richiesto,
ma gli fosse stato ingiustificatamente rifiutato. 
    La  presente  decisione  non  puo'  pertanto  prescindere   dalla
valutazione circa l'eventuale illegittimita' di tale esclusione,  con
particolare riferimento a quanto affermato dalla  accennata  sentenza
della Corte EDU nella causa Scoppola contro Italia,  e  valutando  la
incidenza dei principi CEDU, come interpretati dalla Corte  EDU,  nel
loro potenziale contrasto con una disciplina interna derivante da una
sentenza  (nel  caso  in  oggetto:  la  n.  176/1991)   della   Corte
costituzionale  ed  in  ordine  alla  possibile  rilevanza  che  tale
eventuale  illegittimita'  possa  assumere,  secondo  gli   strumenti
attivabili  nel  diritto   interno,   ed   eventualmente   ricorrendo
all'applicazione sia diretta che, alla bisogna,  analogica  anche  di
altre disposizioni (ad es. l'art. 30, comma 4, della legge n. 87/1953
anche alla luce delle statuizioni contenute in  Corte  costituzionale
sent. n. 148/1983; l'art. 448, comma 1, c.p.p.; l'art. 438, comma  6,
c.p.p.,   come   risultante   dall'effetto   della   sentenza   Corte
costituzionale n.  169/2003  e  l'art.  442  c.p.p.  come  risultante
dall'effetto della sentenza Corte costituzionale n. 23/1992;  nonche'
alla luce dei principi espressi dalle sentenze  Corte  costituzionale
numeri 81/1991 e 66/1990),  sia  pure  assunti  come  espressione  di
principi generali dell'ordinamento processuale, nel caso  in  cui  la
vicenda processuale, decisa con indebito rifiuto del rito abbreviato,
sia stata anche definita con sentenza irrevocabile di condanna; o  se
invece detta irrevocabilita' non si atteggi  a  limite  invalicabile,
superabile solo attraverso il ricorso alla Corte EDU. 
    Punto di partenza appare  dover  essere  l'esame  piu'  analitico
della decisione emessa dalla  Corte  EDU  nel  citato  caso  Scoppola
contro Italia; il che  postula  che  detta  sentenza  svolga  effetti
generali nel diritto interno anche al di fuori  della  decisione  del
caso specifico cui si e' riferita; occorre quindi ovviamente  muovere
le mosse anche dalla valutazione  della  rilevanza  processuale  che,
nell'ordinamento interno, possano assumere le norme della CEDU  e  le
sentenze della Corte EDU, con riferimento a casi  diversi  da  quelli
nei quali sono state emesse. Si passera' quindi a valutare la vicenda
processuale del P. nella sua scansione cronologica,  con  riferimento
anche alla disciplina del rito abbreviato contemporaneamente vigente,
e si vagliera' l'incidenza che, in detta situazione, possano assumere
i principi espressi dalla sentenza Corte EDU nel citato caso Scoppola
contro Italia. 
    3. - La sentenza della Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia. 
    Si e' gia' accennato che - come noto  -  la  Corte  EDU,  con  la
sentenza 17 settembre 2009 nella causa Scoppola contro  Italia  (cfr.
in particolare i punti 103 segg. della decisione), ha affermato  che,
incidendo sulla determinazione della pena, la norma di  cui  all'art.
442 ha carattere sostanziale e  deve  pertanto  essere  soggetta,  in
forza dei principi desumibili dagli articoli 7 e 6 della  Convenzione
Europea,  al  principio  della  applicazione  retroattiva   se   piu'
favorevole rispetto alla pena prevista all'epoca di  commissione  del
fatto;  con  la  precisazione  che  il  richiamo  all'art.  6   della
Convenzione e' stato operato - cfr. punti 137 segg. della sentenza  -
perche' la Corte ha ritenuto non equo un processo in cui, in corso di
causa, si siano mutati «in peius»  gli  effetti  del  rito  richiesto
dall'imputato: profilo che pero' non riguarda  direttamente  il  caso
presente, in cui semmai occorre valutare che rilevanza possa avere  -
anche sotto il profilo del  diritto  ad  un  giusto  processo  -  una
disciplina processuale che non consenta all'imputato di  accedere  ad
un rito premiale, allorche' sopravvenga  una  norma  che  rimuova  un
preesistente  ostacolo  all'ammissibilita'  del  rito,  con  connesso
sconto  di  pena,  che  l'imputato  aveva  peraltro   tempestivamente
richiesto senza venirvi ammesso perche' la norma all'epoca  esistente
lo escludeva invece da tale beneficio. 
    Cio' che quindi senz'altro distingue il caso presente  da  quello
oggetto della sentenza Scoppola, e' dato, come gia' accennato,  dalla
circostanza che il P. non e' stato ammesso  al  rito  abbreviato,  in
quanto, sebbene l'accesso a detto rito fosse  previsto  all'epoca  in
cui commise due dei tre omicidi per i quali ha riportato condanna, la
normativa vigente all'epoca  in  cui  egli  venne  giudicato  non  lo
consentiva piu', pur se, in  corso  di  causa,  la  norma  era  stata
comunque modificata in termini tali da consentire l'accesso  al  rito
ad altri soggetti imputati, e financo gia' condannati in primo grado,
dello stesso genere  di  fatti  ascritti  al  P.  ma  a  quest'ultimo
l'accesso al rito non era comunque  consentito  a  causa  della  fase
processuale in cui pendeva il suo processo. 
    Ove cio' costituisse un dato  di  differenza  (rispetto  al  caso
Scoppola contro Italia) troppo marcato,  e  tale  da  non  consentire
l'accoglimento della istanza alla luce dei principi  affermati  dalla
suddetta sentenza, occorre quindi verificare se, sotto il profilo del
diritto ad un equo processo (art. 6  della  Convenzione  EDU)  e  del
rispetto del principio di eguaglianza di cui all'art.  3  Cost.,  non
sia ravvisabile  una  illegittimita'  costituzionale  (per  contrasto
quindi,  rispettivamente,  con  gli  articoli  117,  24  e  3  Cost.)
dell'art. 4-ter della legge n.  144/2000,  nella  parte  in  cui  non
consentiva l'accesso al rito abbreviato  all'imputato  la  cui  causa
pendesse davanti alla Corte di Cassazione. 
    Ai  fini  di  una  piu'  completa  visione  dei   vari   passaggi
processuali che hanno caratterizzato la vicenda del P., il  tribunale
ha comunque ritenuto  necessario  acquisire  i  verbali  dell'udienza
preliminare  e  quelli  relativi  alla  trattazione  delle  questioni
preliminari nei vari gradi di giudizio, anche per avere certezza  che
almeno in uno di detti gradi, avesse avanzato  la  relativa  istanza,
apparendo altrimenti non esservi ragione  per  lo  stesso  esame  del
presente incidente, che avrebbe manifestato,  con  la  sua  manifesta
infondatezza, la propria inammissibilita'  ai  sensi  dell'art.  666,
comma 2, c.p.p.; sono state acquisite anche le  sentenze  emesse  nei
tre gradi di giudizio, ed i motivi di impugnazione  presentati  nelle
fasi di gravame. 
    Dai verbali di udienza acquisiti, relativi alla trattazione delle
questioni preliminari in primo e secondo grado,  ed  al  giudizio  di
Cassazione,  non  risulta  che  l'istanza  di  ammissione   al   rito
abbreviato sia piu' stata sollevata dopo il rigetto  della  richiesta
nel corso dell'udienza preliminare. 
    Tanto precisato, la soluzione non  puo'  non  muovere,  in  primo
luogo, dalla puntuale analisi del  contenuto  della  decisione  della
Corte  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  nel  c.d.  «caso  Scoppola»,
allorche' ha ritenuto che, ai  sensi  dell'art.  7  della  CEDU,  sia
oggetto della convenzione, alla luce delle tradizioni  costituzionali
comuni degli Stati membri, anche quello  della  retroattivita'  della
legge penale piu' favorevole; principio che, vale la pena di  notare,
in quanto oggetto di convenzioni cui l'Italia ha aderito  -  cfr.  ad
es. anche l'art. 15 del  Patto  internazionale  relativo  ai  diritti
civili e politici, adottato  dall'Assemblea  generale  delle  Nazioni
Unite nella sua risoluzione 2200 A (XXI)  del  16  dicembre  1966  ed
entrato in vigore il 23 marzo 1976, e' cosi' formulato:  «1.  Nessuno
puo' essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui
venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto  interno
o il diritto internazionale. Cosi' pure, non puo' essere inflitta una
pena superiore a quella applicabile al momento in cui  il  reato  sia
stato commesso. Se posteriormente  alla  commissione  del  reato,  la
legge prevede l'applicazione di una pena  piu'  lieve,  il  colpevole
deve beneficiarne»; negli stessi termini si  pronunzia  la  Carta  di
Nizza o Carta dei diritti fondamentali dell'Unione  europea,  il  cui
art.   49,   intitolato   «Principi   della   legalita'    e    della
proporzionalita' dei reati e delle pene», e' formulato nella  maniera
seguente:  «1.  Nessuno  puo'  essere  condannato  per  un'azione   o
un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva
reato  secondo  il  diritto  interno  o  il  diritto  internazionale.
Parimenti, non puo' essere inflitta una pena  piu'  grave  di  quella
applicabile al momento  in  cui  il  reato  e'  stato  commesso.  Se,
successivamente  alla  commissione  del  reato,  la   legge   prevede
l'applicazione di una  pena  piu'  lieve,  occorre  applicare  questa
ultima.» - deve  ritenersi  comporti  la  costituzionalizzazione,  ai
sensi dell'art. 117 Cost., anche a prescindere dalla  interpretazione
che della CEDU dia la competente Corte (interpretazione cui  comunque
la Corte costituzionale ricorda deve attenersi il giudice  nazionale:
cfr. la gia' richiamata sentenza Corte  costituzionale  n.  348/2007)
del  principio  della  retroattivita'   della   norma   penale   piu'
favorevole. 
    E' bene poi ricordare come l'art. 7 della CEDU affermi  in  prima
battuta anche il principio, gia' oggetto dell'art. 25 Cost., in forza
del quale nessuno puo' essere  sottoposto  ad  una  pena  piu'  grave
rispetto a quella vigente al momento in cui commise il fatto per  cui
e' condannato; come si avra' modo di argomentare meglio piu'  avanti,
tale principio assume una fondamentale rilevanza  una  volta  che  si
assegni una valenza sostanziale -  e  cioe'  «penale»  -  all'effetto
premiale del rito, atteso che i primi due degli omicidi per cui il P.
ha riportato condanna risultano essere  stati  consumati  in  vigenza
della ammissibilita' del rito abbreviato anche per tali delitti. 
    4. - La rilevanza interna delle norme della Convenzione EDU e gli
effetti delle sentenze della Corte EDU. 
    Sono ormai assodati i principi, piu' volte ribaditi  dalla  Corte
di Cassazione e dalla Corte costituzionale (cfr. le  citate  sentenze
n. 348 e n. 349/2007 nonche', da ultimo, anche la  nota  sentenza  n.
113/2011 attesi,  tra  gli  altri,  i  richiami  ivi  contenuti  alla
giurisprudenza  CEDU  in  tema  di  «restitutio  in  integrum»  quale
parametro di verificazione del rispetto del  contenuto  dell'art.  46
della  Convenzione;  per  quel  che   piu'   specificamente   attiene
all'efficacia indiretta, nell'ordinamento  interno,  della  normativa
CEDU grazie all'interposizione dell'art. 117  Cost.,  vedi  anche  le
sentenze della Corte costituzionale numeri n. 1 del 2011; le n.  196,
n. 187 e n. 138 del 2010; le n. 317 e n. 311 del 2009, la n.  39  del
2008; sulla perdurante validita' di  tale  ricostruzione  anche  dopo
l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona  del  13  dicembre  2007,
sentenza n. 80 del 2011), e  che  peraltro  il  tribunale  ovviamente
condivide, secondo i quali le norme della CEDU: 
        a) devono essere rispettate dalla normativa nazionale, atteso
che l'art. 117 Cost.  impone  l'adeguamento  del  diritto  interno  a
quello internazionale pattizio,  con  la  conseguenza  che  la  norma
interna in contrasto con la norma CEDU (o altra  norma  convenzionale
internazionale) si pone altresi' in violazione dell'art. 117 Cost., e
ne  va  pertanto  dichiarata   la   incostituzionalita'   a   seguito
dell'ordinario procedimento di rilievo della  relativa  eccezione  ai
sensi degli articoli 23 segg. legge n. 87/1953; appare meritevole  di
menzione, in particolare, che  con  le  sentenze  n.  348/2007  e  n.
349/2007 la Corte costituzionale abbia statuito che «il  nuovo  testo
dell'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  se   da   una   parte   rende
inconfutabile  la  maggior  forza  di  resistenza  delle  norme  CEDU
rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra  attrae  le  stesse
nella sfera di competenza di  questa  Corte,  poiche'  gli  eventuali
contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel  tempo
o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in
contrasto, ma questioni di legittimita' costituzionale.»; 
        b) dette norme non si rivolgono solo  agli  Stati  contraenti
per disciplinarne l'attivita' normativa, ma hanno anche (ove  non  vi
sia  ostacolo  in  una  norma  interna,  di  cui  occorrera'   allora
promuovere l'annullamento ad opera della Corte costituzionale secondo
quanto esposto al punto a)  che  precede),  efficacia  diretta  negli
ordinamenti interni e vanno quindi applicate dal  giudice  nazionale,
sia pure eventualmente solo utilizzandole come  norma  interposta  ai
fini del vaglio di costituzionalita' della normativa interna rispetto
all'art. 117 Cost.; 
        c) nella lettura ed applicazione delle norme della  CEDU,  il
giudice nazionale dovra'  uniformarsi  all'interpretazione  offertane
dalla Corte EDU, che la Convenzione  pone  ad  interprete  vincolante
della Convenzione stessa:  sul  punto  cfr.  ad  es.  la  sentenza  6
dicembre 2006, n.  6023/2006,  della  Suprema  Corte  di  Cassazione,
nonche' Corte costituzionale che, con le sentenze numeri  348/2007  e
349/2007, a chiarissime lettere, ha ricordato che «La CEDU  presenta,
rispetto  agli  altri  trattati  internazionali,  la   caratteristica
peculiare   di   aver   previsto   la   competenza   di   un   organo
giurisdizionale, la Corte europea per i  diritti  dell'uomo,  cui  e'
affidata la funzione  di  interpretare  le  norme  della  Convenzione
stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1,  stabilisce:  "La  competenza
della  Corte  si   estende   a   tutte   le   questioni   concernenti
l'interpretazione e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei  suoi
protocolli che siano sottoposte  ad  essa  alle  condizioni  previste
negli articoli 33, 34 e 47". 
    Poiche' le norme giuridiche vivono  nell'interpretazione  che  ne
danno gli operatori  del  diritto,  i  giudici  in  primo  luogo,  la
naturale conseguenza che deriva  dall'art.  32,  paragrafo  1,  della
Convenzione  e'  che  tra   gli   obblighi   internazionali   assunti
dall'Italia con la sottoscrizione e la  ratifica  della  CEDU  vi  e'
quello di  adeguare  la  propria  legislazione  alle  norme  di  tale
trattato,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione». 
    Deve quindi procedersi, da un lato, alla ricognizione dell'esatta
vicenda processuale del P., e, dall'altro, alla attenta  lettura  dei
principi sanciti dalla  menzionata  sentenza  della  CEDU;  verifiche
tanto  piu'  necessarie,  in  quanto  la  presente  vicenda  non   e'
esattamente incastonabile in quella che  dette  luogo  alla  suddetta
pronunzia, il caso del P.  presentando  notevoli  particolarita'  (in
primis, la mancata celebrazione del rito abbreviato essendo stata  la
relativa richiesta perche' presentata in un momento storico in cui il
rito in oggetto - pur  previsto  all'epoca  della  commissione  della
maggior parte dei delitti per cui il P. e' stato condannato - non era
piu' ammesso per i delitti puniti con  la  pena  dell'ergastolo)  che
impongono una valutazione  particolarmente  attenta  ed  approfondita
della interpretazione che la Corte EDU ha offerto dell'art.  7  della
CEDU. 
    5. - La vicenda processuale di P. G. 
    Passando quindi alla  situazione  del  P.,  va  osservato  quanto
segue. 
    Raggiunto da richiesta di rinvio a  giudizio  in  relazione  alla
commissione  di  tre  omicidi  aggravati,  punibili   con   la   pena
dell'ergastolo ai sensi degli articoli 576 e 577  c.p.,  in  concorso
con altri reati, commessi (quanto agli  omicidi)  alle  date  del  17
ottobre  1990,  21  gennaio  1991,  20   agosto   1991,   all'udienza
preliminare del 5 marzo 1997 il P. chiedeva di essere ammesso al rito
abbreviato, forse  contando  sulla  possibilita'  di  un'applicazione
della norma penale piu' favorevole ex art. 2  c.p.,  in  forza  della
affermazione della natura anche sostanziale della disposizione di cui
all'art. 442 c.p.p. espressa nella sentenza (in  verita'  non  citata
nella istanza) della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 2297  del
6 marzo 1992, Peccillo + 1 (peraltro richiamata anche dalla  sentenza
Corte EDU nel «caso Scoppola», ma con erronea  indicazione  del  nome
dell'imputato  in  «Merletti»);  su  diniego  del  p.m.,  il   g.u.p.
rigettava l'istanza, non  potendosi  procedere  col  rito  richiesto,
avendo la Corte costituzionale con  la  sentenza  n.  176/91  del  21
aprile 1991, emessa  quindi  pochi  mesi  dopo  la  consumazione  del
penultimo dei reati contestati al P. (e  4  mesi  circa  prima  della
consumazione  dell'ultimo  di  essi),   dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale, per eccesso dalla delega, dell'art. 442 c.p.p.  (come
e' noto, il codice di procedura penale  e'  un  decreto  legislativo,
emanato dal Governo su delega del Parlamento e pertanto  non  poteva,
ai sensi degli articoli 76 e 77 Cost., superare i limiti della  legge
delega, che non aveva previsto la possibilita'  del  rito  abbreviato
per i reati puniti con l'ergastolo) nella parte in cui  ammetteva  la
procedibilita'  con  rito  abbreviato  per   i   reati   puniti   con
l'ergastolo, quali appunto erano quelli contestati al P. 
    Il P. veniva quindi rinviato a giudizio e riportava  condanna  in
primo e secondo grado (in quest'ultimo con sentenza del  19  novembre
1999 della Corte di Appello di Lecce), alla pena  dell'ergastolo  con
isolamento diurno, come si evince dalla lettura del dispositivo delle
sentenze, acquisite in atti;  e  cio'  avvenne  nonostante  che,  nel
frattempo,  dopo  la  sentenza  di  secondo  grado,  ma  prima  della
decisione  del  ricorso  in  Cassazione,  la  disciplina   del   rito
abbreviato fosse risultata profondamente mutata, ed in  termini  tali
che  avrebbero  comportato  l'accoglimento   della   sua   originaria
richiesta di accesso al rito, come tra breve si argomentera'. 
    5-bis. - La disciplina del rito abbreviato vigente dall'epoca  di
commissione dei fatti sino alla irrevocabilita' della sentenza  e  le
interferenze, su di essa, dei principi di cui alla sentenza Corte EDU
nella causa «Scoppola» contro Italia. 
    Come  risulta  da  quanto  esposto  in  precedenza,  deve  quindi
evidenziarsi che: 
        a) allorche' furono commessi i primi due dei tre  omicidi  in
ordine ai quali il P. ha riportato condanna,  il  codice  processuale
prevedeva la possibilita' di accedere al rito abbreviato anche per  i
delitti puniti con la pena dell'ergastolo;  attesa  la  natura  «latu
sensu» penale (come ritenuta  dalla  Corte  EDU)  della  disposizione
processuale concernente gli effetti del rito abbreviato, deve  quindi
ritenersi  che  la  disciplina  «penale»  del  delitto  di   omicidio
aggravato prevedesse la possibilita' dell'irrogazione della  pena  di
trenta anni di reclusione, alla  condizione  della  celebrazione  del
rito abbreviato, che peraltro il P. richiese tempestivamente; 
        b) l'accesso a detto rito venne pero' escluso dal g.u.p.,  in
forza di una dichiarazione  di  incostituzionalita'  ad  opera  della
Corte costituzionale, sopravvenuta dopo la commissione dei primi  due
di due e prima del terzo  omicidio  in  ordine  ai  quali  il  P.  ha
riportato condanna. Il Giudice  dell'Udienza  Preliminare,  pertanto,
applico' retroattivamente al P. una disposizione che, limitatamente a
due dei tre episodi omicidiari di cui era chiamato a rispondere,  era
piu'  sfavorevole  e  che,  alla  stregua  della   citata   «sentenza
Scoppola», aveva natura sostanzialmente  penale,  cosi'  operando  in
violazione dell'art. 25 Cost. oltre  che  dell'art.  7  CEDU;  e  non
sembra a tal proposito aver rilevanza che detta piu' grave disciplina
discendesse da una pronunzia di incostituzionalita'  di  quella  piu'
favorevole vigente all'epoca dei fatti. Va infatti  a  tal  proposito
notato che l'art. 2 c.p., pur dopo la sentenza n. 51/1985 della Corte
costituzionale, non vede incluse, tra le eccezioni  al  principio  di
retroattivita' della disposizione piu' favorevole  e  di  divieto  di
retroattivita' di quella meno favorevole, la disciplina risultante da
eventuali  sentenze   dichiarative   di   incostituzionalita'   della
disposizione penale; ne' tale eccezione puo' esser  fatta  discendere
da un'applicazione  analogica  dei  principi  di  cui  alla  predetta
sentenza Corte costituzionale n. 51/85, atteso che il  fondamento  di
tale pronunzia risiede nel contrasto  della  previsione  dell'art.  2
comma 5 c.p. col dettato dell'art. 77 comma 3 Cost. (che  prevede  la
retroattivita' della perdita  di  efficacia  dei  decreti  legge  non
convertiti), laddove nessuna disposizione costituzionale prevede  che
le pronunzie di incostituzionalita' operate  dalla  Corte  comportino
l'originaria perdita di efficacia delle disposizioni coinvolte.  Tale
caso e' infatti disciplinato solo da norma di legge  ordinaria  (art.
30 comma 3 e 4 legge n. 87/1953) - e quindi da norma che comunque non
puo' porsi in contrasto ne' con la Costituzione,  ne'  con  le  norme
CEDU, pena la violazione dell'art. 117 Cost. - che  prevede  che  «le
norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione  dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione», pertanto,  con
chiara delineazione di una disciplina di inefficacia a retroattivita'
limitata ai rapporti non esauriti, atteso  che  l'unica  disposizione
che riguarda i  rapporti  gia'  definiti,  ed  avente  quindi  natura
dichiaratamente retroattiva, e' quella successiva di cui al  comma  4
dell'art. 30, che prevede che «quando  in  applicazione  della  norma
dichiarata   incostituzionale   e'   stata    pronunziata    sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti
penali». Deve poi ricordarsi che,  come  peraltro  gia'  sottolineato
anche dalla gia' menzionata sentenza C. Cass. SS.UU., n. 2297  del  6
marzo 1992, Peccillo + 1, la Corte costituzionale, con la sentenza n.
148/1983,   pur   riconoscendo   l'ammissibilita'   delle   questioni
concernenti norme penali di favore, ha tuttavia  tenuto  a  precisare
che «e' un fondamentale principio di civilta'  giuridica,  elevato  a
livello costituzionale dal secondo comma dell'art. 25 Cost.  ...,  ad
esigere certezza ed irretroattivita' dei reati e delle pene:  ne'  le
garanzie  che  ne   derivano   potrebbero   venire   meno,   se   non
compromettendo l'indispensabile coerenza dei dettati  costituzionali,
di fronte ad una decisione  di  accoglimento».  La  Corte  ha  quindi
significativamente aggiunto che  «sebbene  privata  di  efficacia  ai
sensi del primo comma dell'art. 136  Cost.  (e  resa  per  se  stessa
inapplicabile alla stregua dell'art. 30, comma 3 , della legge n.  87
del 1953), quanto al passato  la  norma  penale  di  favore  continua
percio' a rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la
retroattivita' delle norme incriminatrici»; 
        c) ne consegue  che  deve  affermarsi  che,  nella  normativa
vigente sia attualmente sia all'epoca in cui il P. chiese  di  essere
ammesso al rito abbreviato, la disciplina penale (e quindi anche  nel
senso adottato dalla Corte EDU con la cennata sentenza) eventualmente
piu' sfavorevole al  reo,  derivante  da  una  sentenza  della  Corte
costituzionale abrogativa  di  previgente  disposizione  ritenuta  in
contrasto  con  la   Costituzione,   non   possa   essere   applicata
retroattivamente, in quanto in tal caso si porrebbe in contrasto  sia
con l'art. 25 Cost. che con l'art. 7  CEDU;  sicche'  deve  ritenersi
oggettivamente illegittimo il diniego di accesso al  rito  abbreviato
opposto dal g.u.p. al P. quanto meno in relazione ai primi due  degli
omicidi per cui ha riportato condanna. Sempre a tal proposito, val la
pena  ricordare  che  la  Corte  costituzionale   ha   reiteratamente
affermato l'incostituzionalita' della disciplina del rito  abbreviato
(e segnatamente degli articoli 247  disp.  att.  c.p.p.,  442  e  438
c.p.p.) nella parte in cui non riconosceva il diritto allo sconto  di
pena, proprio del rito abbreviato, all'imputato al quale  detto  rito
fosse stato ingiustamente negato (cfr. sentenze Corte  costituzionale
n. 66/1990; n. 81/1991;  n.  23/1992;  n.  169/2003),  stabilendo  il
principio in forza del  quale  il  giudice  del  successivo  segmento
processuale ha il potere di  valutare  l'eventuale  ingiustificatezza
del diniego del rito, e se del caso procedere egli stesso ad  operare
la relativa riduzione di pena; ed il principio appare estensibile (in
senso tecnico, apparendo trattarsi di un'interpretazione estensiva di
una disciplina relativa al caso tipico e non eccezionale del  diniego
ingiustificato di rito)  senza  problema  alcuno  anche  al  caso  in
oggetto, in cui si e' effettivamente di fronte ad una vicenda in cui,
verificata la natura penale  del  rito  abbreviato  alla  stregua  di
quanto affermato dalla Corte  EDU,  deve  rilevarsi  che  il  g.u.p.,
rigettando la richiesta di tale rito adeguandosi al  diniego  opposto
dal p.m. in ragione della ritenuta non ammissibilita' del rito,  deve
affermarsi che si sia  operata  una  applicazione  retroattiva  della
norma  penale  piu'  sfavorevole,  e   pertanto   il   g.u.p.   abbia
illegittimamente rigettato la richiesta di rito abbreviato; 
        d) peraltro, nel momento in cui iniziarono  le  indagini  nei
confronti del P., e senz'altro allorche' ne venne chiesto il rinvio a
giudizio, la disciplina processuale vigente -  da  allora  sino  alla
data in cui la sentenza di condanna  venne  confermata  in  grado  di
appello; ma non cosi' allorche' venne emessa la  sentenza  definitiva
davanti alla Corte di Cassazione - non prevedeva la  possibilita'  di
accedere al giudizio abbreviato a chi fosse imputato dei  reati  che,
come  quelli  contestati  al  P.,  fossero   puniti   con   la   pena
dell'ergastolo; e tale divieto, quanto  all'ultimo  dei  tre  omicidi
commessi, non era - alla data dell'udienza  preliminare,  in  cui  la
richiesta di rito abbreviato venne rigettata - illegittimo  ai  sensi
degli articoli  25  Cost.  e  7  CEDU  per  come  interpretato  dalla
competente Corte; ma, come  accennato,  puo'  fondatamente  porsi  un
problema di incompatibilita' di tale disciplina  con  i  principi  di
eguaglianza e di diritto ad un processo giusto; 
        e) infatti, meno di un mese dopo  la  condanna  in  grado  di
appello, e prima che questa venisse confermata nel  giudizio  davanti
alla Suprema Corte di Cassazione, interveniva l'art. 30  della  legge
16 dicembre 1999, n. 479/1999, che da un  lato  trasformava  il  rito
abbreviato in un rito oggetto di un diritto potestativo dell'imputato
(abrogando gli articoli 439 e  440  c.p.p.  e  quindi  eliminando  le
precedenti condizioni di accessibilita' date dal consenso -  rectius,
assenza di immotivato dissenso - del  P.M.  e  dalla  valutazione  di
decidibilita' allo stato degli atti da parte del Giudice), dall'altro
reintroduceva la possibilita' di procedere con rito abbreviato  anche
per i delitti punibili con la pena dell'ergastolo;  e  la  successiva
legge n. 144/2000 (che convertiva  il  d.l.  n.  82/2000),  anch'essa
intervenuta  prima  della  emissione  della  sentenza  nel  grado  di
giudizio pendente davanti alla Suprema Corte di Cassazione, prevedeva
- per ragioni non solo deflattive, ma all'evidenza anche  di  parita'
di trattamento - con l'art. 4-ter, comma 2, segg., la riapertura  dei
termini per la proposizione di richieste di  rivo  abbreviato,  anche
per i giudizi relativi a reati puniti  con  la  pena  dell'ergastolo,
pendenti in primo e  secondo  grado  (purche',  rispettivamente,  non
fosse conclusa l'istruttoria dibattimentale  o  la  rinnovazione  del
dibattimento), nonche', alle stesse condizioni, in quelli di  rinvio,
mentre non prevedeva tale  riammissione  in  termini  per  i  giudizi
pendenti in Cassazione: era cioe' evidente che le esigenze -  sottese
alla norma  che  rimetteva  gli  imputati  in  termini  per  avanzare
richiesta di rito abbreviato - di evitare disparita'  di  trattamento
con  gli  imputati  cui  il  rito  fosse  stato  precedentemente  non
accessibile,  cedevano  comunque  alla  natura  deflattiva  del  rito
abbreviato   (e   dette   disparita'    non    apparivano    pertanto
irragionevoli), dato che la norma intendeva incentivare il ricorso al
nuovo rito abbreviato (svincolato, con  la  legge  n.  479/1999,  dal
consenso del p.m. e dalla valutazione  di  decidibilita'  allo  stato
degli atti) continuando comunque a subordinare il relativo sconto  di
pena alla condizione che l'ordinamento nel complesso  ne  traesse  il
beneficio di evitare comunque il dispendio di  attivita'  istruttorie
nel dibattimento di primo grado o nella sua eventuale rinnovazione in
grado di appello. Occorre  tuttavia  considerare  come,  per  la  sua
natura di  accettazione  del  giudizio  allo  stato  degli  atti,  la
richiesta  di  rito  e'  idonea,  nella  corrente  giurisprudenza  di
legittimita', a produrre la sanatoria per accettazione  di  tutte  le
nullita'  non   assolute,   il   superamento   delle   questioni   di
incompetenza, l'irrilevanza di ogni  questione  di  inutilizzabilita'
non patologica: in parole povere, anche con riferimento  al  giudizio
di Cassazione, non era da escludersi che la  riapertura  dei  termini
per richiedere il giudizio abbreviato avrebbe procurato  benefici  di
economia al processo e quindi all'ordinamento nel suo complesso;  nel
concreto (con riferimento cioe'  al  gravame  proposto  dal  P.),  ad
esempio, avrebbe comportato la rinunzia alle  eccezioni  di  nullita'
non assoluta, o comunque la sanatoria delle stesse, con  riferimento,
ad es., ai dedotti motivi di nullita' della sentenza di secondo grado
per difetto di motivazione, nonche' il decadere  delle  doglianze  di
nullita'  delle  sentenze  di  primo  e  secondo  grado  per  mancata
assunzione di prove ritenute decisive. Non  appare  invece  di  alcun
rilievo la circostanza  che  in  data  24  novembre  2000  sia  stato
promulgato il d.l. n. 341/2000 (poi convertito  con  modifiche  nella
legge n. 4/2001) che prevedeva che, nei  casi  di  reati  puniti  con
l'ergastolo con l'isolamento diurno (pena prevista dall'art. 72  c.p.
nel caso in cui - come e' appunto nella vicenda P. - reati puniti con
la  pena   dell'ergastolo   concorressero   con   altri   reati   che
comportassero la pena superiore ai cinque  anni  di  reclusione),  la
pena, in caso di rito abbreviato,  fosse  quella  dell'ergastolo;  si
tratta,  tuttavia,  di  normativa  senz'altro  non  applicabile  alla
stregua dei principi espressi dalla piu' volte citata sentenza  Corte
EDU nel caso Scoppola contro Italia, trattandosi appunto di una norma
sostanzialmente   penale   ed   in   suscettibile   di   applicazione
retroattiva. 
    Sino  a  tale  momento  storico,  la  sentenza  di  condanna  nei
confronti del P.  peraltro  non  era  ancora  definitiva,  in  quanto
pendeva ancora il giudizio davanti alla Suprema Corte di  Cassazione,
che solo in data 23 novembre 2001 rigettava  il  ricorso  avverso  la
sentenza emessa in data 19 novembre 1999 dalla Corte di  Appello.  La
sentenza che segna  l'irrevocabilita'  della  condanna  venne  quindi
emessa successivamente alla cristallizzazione definitiva (allo  stato
ed al netto delle pronunzie della Corte costituzionale e della  CEDU)
della normativa relativa al  giudizio  abbreviato,  e  quindi  in  un
quadro normativo interno (ed al netto degli  interventi  della  Corte
EDU) che, apparentemente, non avrebbe consentito al P. - al contrario
di chi come lui fosse imputato degli stessi reati, ma il cui giudizio
pendesse nella fase del primo  o  secondo  grado  e  residuassero  da
compiere atti di istruttoria dibattimentale  -  ne'  di  avanzare  la
richiesta  di  ammissione  al  rito  abbreviato  (perche'  la   norma
transitoria non lo rimetteva in termini pendendo il giudizio  davanti
alla Corte di  Cassazione),  ne'  comunque  di  vederla  accolta  con
riduzione della pena dall'ergastolo a  quella  temporanea  (in  forza
dell'ultimo intervento normativo prima della sentenza della Corte  di
Cassazione, in quanto la pena irrogatagli  era  stata  dell'ergastolo
con isolamento diurno). 
    La disciplina del giudizio abbreviato aveva peraltro gia'  subito
diversi  mutamenti  in  forza  delle  sentenze  emesse  dalla   Corte
costituzionale, ed altri ancora ne  subira'  negli  anni  successivi,
tutti accomunati dalla necessita'  di  prevedere  la  sindacabilita',
quale espressione del diritto di difesa tutelato dall'art. 24  Cost.,
dei dinieghi opposti al rito dal p.m. o dal  g.u.p.:  cosi',  con  la
sentenza n. 81/1991  la  Corte  costituzionale  gia'  aveva  ritenuto
l'incostituzionalita'  della  disciplina  nella  parte  in  cui   non
prevedeva che il dissenso del p.m. dovesse essere motivato, e che  il
giudice del dibattimento potesse sindacare detto diniego giungendo  a
riconoscere, sia pur in esito al  dibattimento,  lo  sconto  di  pena
previsto dal rito abbreviato, laddove il consenso del p.m. risultasse
essere stato ingiustamente negato; e con la sentenza n. 23/1992 aveva
ritenuto l'illegittimita' della disciplina del rito abbreviato, nella
parte in cui non  prevedeva  la  possibilita',  per  il  giudice  del
dibattimento ed all'esito del giudizio, di sindacare  la  valutazione
di non definibilita' allo  stato  degli  atti  espressa  dal  g.u.p.;
infine, da ultimo, nell'attuale  contesto  normativo  (ex  art.  438,
comma 5, c.p.p.) che prevede  la  possibilita'  del  rito  abbreviato
condizionato, con la  sentenza  n.  169/2003  la  Corte  ha  ritenuto
l'illegittimita' costituzionale di tale ultima norma nella  parte  in
cui non prevede che, in caso  di  rigetto  della  richiesta  di  rito
abbreviato condizionato da parte del  g.u.p.,  l'imputato  non  possa
rinnovare la richiesta prima  della  dichiarazione  di  apertura  del
dibattimento di primo grado, ed il giudice la possa accogliere. 
    6. - Conseguenti profili di illegittimita' (anche costituzionale)
del diniego opposto alla richiesta di rito abbreviato. 
    Si e' gia' detto della sentenza n.  176/1991  con  cui  la  Corte
costituzionale dichiaro'  l'illegittimita'  costituzionale  del  rito
abbreviato in relazione ai reati puniti con la  pena  dell'ergastolo,
osservando che, con la delega che il Parlamento aveva  rilasciato  al
Governo per l'emanazione del codice di procedura penale,  detto  caso
non era stato previsto; in particolare, non  era  stata  prevista  la
possibilita' di commutare, per effetto della scelta del rito, la pena
dell'ergastolo nella pena della reclusione nel massimo. Appare quindi
di rilievo che la Corte in detta occasione abbia affermato  che  «una
volta  riconosciuta  la  connessione  tra   giudizio   abbreviato   e
diminuzione della pena e, quindi,  l'impraticabilita'  del  primo  in
mancanza della possibilita' di operare della seconda, il  venir  meno
di quest'ultima, per effetto della  dichiarazione  di  illegittimita'
costituzionale,  rende  di  per   se'   inapplicabile   il   giudizio
abbreviato, quale disciplinato dagli articoli da 438 a 443 del codice
di procedura penale, ai processi  concernenti  delitti  punibili  con
l'ergastolo»: la Corte ritenne quindi che, stante la  coessenzialita'
tra premio e rito alternativo, la illegittimita'  costituzionale  del
primo comportasse l'illegittimita'  anche  del  secondo,  atteso  che
questa stessa coessenzialita'  induce  a  ritenere  che,  laddove  il
premio qualifichi il trattamento penale  del  reato  (come  affermato
dalla Corte EDU  nel  caso  Scoppola),  in  detto  trattamento  debba
rientrare  anche  la  possibilita'  di  accedere  al  rito  che  tale
trattamento preveda; e, peraltro, si e' gia' accennato che la  stessa
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza  n.  2297  del  6
marzo  1992,  Peccillo  +  1,  abbia  appunto  affermato  lo   stesso
principio, riconoscendo come sarebbe stato contrario al principio  di
divieto  retroattivita'  del  trattamento  penale  piu'   sfavorevole
disporre l'annullamento della sentenza  emessa  in  primo  grado  con
giudizio  abbreviato  (e  negare  il   relativo   sconto   di   pena)
all'imputato che al rito avesse acceduto prima della  sentenza  Corte
costituzionale n. 176/1991.  Giova  a  tal  proposito  ricordare  per
esteso alcuni passaggi di quella sentenza, per la puntuale  ed  acuta
applicazione  svolta  dei  principi  gia'   affermati   dalla   Corte
costituzionale, allorche' le Sezioni Unite della Suprema Corte ebbero
a  statuire  che  «La  diminuzione  di  un  terzo  della  pena  e  la
sostituzione  dell'ergastolo  con  la  reclusione  di   trenta   anni
costituiscono  trattamenti  penali  di  favore  con   caratteristiche
peculiari, perche' si ricollegano ad un  comportamento  dell'imputato
successivo al reato  e  di  natura  processuale,  ma  secondo  queste
Sezioni unite la peculiarita' dei trattamenti non rende inoperante il
limite di cui si e' detto. 
    E' vero che, nonostante autorevoli opinioni dottrinali  in  senso
diverso,  la  giurisprudenza  di   questa   Corte   e   della   Corte
costituzionale tende ad  escludere  la  riferibilita'  dell'art.  25,
comma 2 Cost., alle norme processuali, ma nella  specie  gli  aspetti
processuali sono  strettamente  collegati  con  aspetti  sostanziali,
perche' tali certamente sono quelli relativi alla diminuzione o  alla
sostituzione della pena e tali sono  stati  considerati  anche  dalla
Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 23 del 1992 che  ha
dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  di  varie  disposizioni
concernenti  il  giudizio  abbreviato,  nella  parte   in   cui   non
consentivano al giudice del dibattimento di verificare se il processo
avrebbe potuto essere definito allo stato degli atti e  di  applicare
in caso affermativo la riduzione di pena. Sottrarre  al  giudice  del
dibattimento il controllo sulla definibilita' allo stato  degli  atti
avrebbe infatti limitato secondo la  Corte  costituzionale  «in  modo
irragionevole il  diritto  di  difesa  dell'imputato,  nell'ulteriore
svolgimento del processo, su di un aspetto  che  ha  conseguenze  sul
piano sostanziale». 
    Non  importa  stabilire  la  natura  della  diminuzione  o  della
sostituzione della pena,  importa  piuttosto  rilevare  che  essa  si
risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore e che ai
fini della presente decisione rilevano gli aspetti sostanziali  della
disposizione  concernente  tale  trattamento,  aspetti  che   sarebbe
difficile contestare avendo presente un caso come quello oggetto  del
presente ricorso nel quale  l'adozione  del  giudizio  abbreviato  ha
determinato una diminuzione di pena  di  otto  anni  e  sei  mesi  di
reclusione. Ne' secondo queste Sezioni unite puo' rilevare  in  senso
negativo il fatto che il trattamento penale di favore dipenda  da  un
comportamento  successivo  alla  commissione  del  reato  perche'  la
garanzia dell'art. 25, comma 2 Cost., deve essere  intesa  nel  senso
che se la legge ricollega ad una condotta, anche successiva al reato,
un  trattamento   penale   non   puo'   un'eventuale   pronuncia   di
incostituzionalita'  di  quella  legge  comportare   un   trattamento
svantaggioso per chi ha tenuto quella condotta.». 
    Tanto si e' ritenuto di dover  ricordare,  in  quanto  appare,  a
parere di  questo  tribunale,  di  assoluto  rilievo  nella  corretta
applicazione al  caso  concreto  dei  principi  espressi  nella  nota
sentenza resa dalla Corte Europea  dei  Diritti  dell'Uomo  nel  caso
«Scoppola», apparendo di fondamentale rilevanza anche la  circostanza
che, allorche' la vicenda processuale del P. si concluse con sentenza
irrevocabile, il rito abbreviato era andato ormai  delineandosi  come
un rito la cui  adozione  dipendesse  dall'esercizio  di  un  diritto
potestativo dell'imputato, sottoposto al solo limite ordinario  della
tempestivita' di fase della  relativa  richiesta  (dovendo  di  norma
essere richiesto  entro  l'inizio  della  discussione  della  udienza
preliminare), con assegnazione al giudice  del  segmento  processuale
successivo del potere di sindacare la legittimita' o  meno  dell'atto
giurisdizionale impeditivo dell'accesso al rito. 
    Inoltre, come gia' si e' osservato, allorche'  il  P.  commise  i
primi  due  dei  tre  omicidi  per  cui  ha  riportato  condanna,  la
disciplina vigente del rito abbreviato consentiva il ricorso al  rito
abbreviato anche per quegli omicidi aggravati,  puniti  con  la  pena
dell'ergastolo da sostituirsi, in virtu' della scelta del  rito,  con
quella di anni trenta di reclusione. 
    7. - La illegittimita' del  diniego  di  giudizio  abbreviato  in
ordine  ai  primi  omicidi.  La  non  manifesta  infondatezza   della
questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4-ter  del  d.l.
n. 82/2000, quanto all'omicidio commesso in data 20 agosto 1991. 
    Come appare evidente, e riassumendo  quanto  sinora  esposto,  la
negazione dei benefici del rito  abbreviato  al  P.  appare  pertanto
porsi in contrasto: 
        a) con l'art.  7  CEDU  e  25  Cost.,  nella  parte  in  cui,
relativamente ai due omicidi commessi  prima  della  pronunzia  della
sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale, ha negato all'allora
imputato P. l'accesso al rito abbreviato ed  al  relativo  sconto  di
pena, previsti per i reati da lui commessi all'epoca  in  cui  il  P.
mise in atto le condotte sanzionate dalla legge; 
        b) con gli articoli 117  (avendo  per  norma  interposta  gli
articoli 6 e 7 della CEDU), e 3 della Costituzione,  nella  parte  in
cui ha posto  il  P.  in  una  posizione  di  trattamento  deteriore,
rispetto a chiunque altri avesse commesso lo stesso tipo di  reati  a
lui ascritti, privandolo dei benefici  sostanziali  propri  del  rito
abbreviato, pur avendolo egli peraltro tempestivamente  richiesto,  e
negandogli cosi' il diritto ad un processo equo  ed  all'applicazione
del  trattamento  penale  piu'  favorevole,  per  quel  che  riguarda
l'omicidio (e reati satellitari) commesso in data 20 agosto 1991. 
    Non  rileva,  pertanto,  a  parere  di   questo   tribunale,   la
circostanza che la Corte EDU abbia ripetutamente affermato (anche con
la sentenza resa nel caso Scoppola contro Italia) la  legittimita'  e
non contrarieta' ai principi della Convenzione del principio  «tempus
regit actum» in materia processuale, atteso che la  stessa  Corte  ha
gia' valutato  che  il  suddetto  principio,  espressamente  invocato
peraltro in quella causa dal rappresentante del Governo italiano, non
fosse tuttavia applicabile nel caso in oggetto, in  cui  dalla  norma
processuale discende in via diretta - e non come risultato  eventuale
dell'esito positivo o negativo del giudizio -  la  determinazione  di
una pena piu' favorevole. Pare poi al Tribunale che, per  le  ragioni
gia' dette, non sia manifestamente infondata  la  questione  relativa
alla incostituzionalita' - per contrasto con l'art. 3 Cost. e art.  6
della CEDU, quale norma interposta  rispetto  all'art.  117  Cost.  -
della norma transitoria che non rimetteva in termini per chiedere  il
giudizio abbreviato l'imputato il cui giudizio pendesse davanti  alla
Suprema Corte. 
    Occorre quindi distinguere la disciplina da applicarsi: 
        a)  ai   fatti   commessi   prima   della   decisione   Corte
costituzionale 21 aprile 1991: rispetto ad essi si e' avuta, ai sensi
dell'art. 7 CEDU come  interpretato  dalla  Corte  EDU,  applicazione
retroattiva di una norma penale sfavorevole, e  mancata  applicazione
retroattiva di una norma penale favorevole poi emanata  conformemente
a quella previgente. Come gia' si  e'  detto,  si  e'  di  fronte  ad
un'illegittima  negazione  del  rito  abbreviato,   sindacabile   nel
segmento processuale successivo e, come  meglio  oltre  si  dira'  al
paragrafo 8 seguente, appare essere questione risolvibile  applicando
i principi e  le  norme  gia'  esistenti,  individuando  nel  giudice
dell'esecuzione l'A.G. competente ratione  materiae,  atteso  che  si
verte nella fase dell'esecuzione e che non avrebbe senso ne' utilita'
alcuna una ricelebrazione del  giudizio  abbreviato,  atteso  che  la
responsabilita' dell'imputato  non  e'  in  discussione  e  cio'  che
all'A.G. e' pacificamente demandato operare,  nel  caso  di  indebito
diniego dell'accesso al rito abbreviato, e' solo  la  diminuzione  di
pena prevista per detto rito; 
        b) all'omicidio commesso in data 20  agosto  1991,  e  quindi
successivamente alla sentenza 21 aprile 1991, in relazione  al  quale
e' «solo» un problema di mancata applicazione retroattiva della norma
penale  favorevole   sopravvenuta,   connessa   peraltro   alla   non
accessibilita' del rito in forza di una disposizione interna che  non
lo ammetteva: trattasi  di  questione  in  relazione  alla  quale  si
pongono i problemi de: 
          1) conformita' a CEDU di una eventuale preclusione  formale
(da giudicato) alla possibilita' di far valere  nel  diritto  interno
eventuali violazioni  della  CEDU;  a  tal  proposito,  il  tribunale
ritiene tuttavia di dover rilevare come la sentenza resa dalla  Corte
EDU nel caso Scoppola contro Italia si atteggi  alla  stregua  di  un
fatto  normativo  (di  rilievo  costituzionale  ex  art.  117  Cost.)
sopravvenuto, pur non essendo ovviamente tale in senso  stretto;  ma,
di fatto, prima della pronunzia di tale sentenza, che peraltro  fonda
l'interpretazione  dell'art.  7  della  CEDU   anche   sull'effettivo
sopravvenire di norme (tra cui la c.d. «Carta  di  Nizza»,  approvata
successivamente al formarsi della irrevocabilita' della  sentenza  di
condanna del P.) assunte a parametro di definizione delle «tradizioni
costituzionali comuni», sarebbe stata  difficilmente  sostenibile  la
non conformita' a costituzione della decisione del g.u.p. - e/o della
disciplina  da  quegli  ritenuta  applicabile  -  che  negava  al  P.
l'accesso al rito  abbreviato  in  relazioni  ai  reati  di  omicidio
aggravato contestatigli, ed in  particolare  in  ordine  all'omicidio
consumato in data 20 agosto 1991;  a  parere  del  Tribunale,  stante
anche la peculiarita' del caso, che altrimenti  vedrebbe  lo  cortina
del  giudicato  calare  su  di  una  incostituzionale  situazione  di
trattamento deteriore dell'imputato che, prima  dell'irrevocabilita',
non sarebbe  stata  agevolmente  sostenibile,  si  pongono  quindi  i
presupposti  per  una  questione  di   costituzionalita'   prodromica
all'applicazione dell'art. 30 comma 4 della  legge  n.  87  del  1953
(«quando in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale  e'
stata pronunziata  sentenza  irrevocabile  di  condanna,  ne  cessano
l'esecuzione e tutti gli effetti penali»), attesa  la  rilevanza  che
assumono - nello stesso insegnamento della Corte costituzionale -  le
sentenze della Corte EDU nel definire i contorni di conformita' della
normativa nazionale rispetto a quella CEDU; 
          2)  conformita'  ad  articoli  117  (con  riferimento  agli
articoli 6 e 7 della CEDU) e  3  Cost.  -  ai  fini  di  un'eventuale
riammissione  in  termini  -  della  norma  che  non   prevedeva   la
possibilita' di avanzare una richiesta di  abbreviato  in  Cassazione
(salvo   poi   verificare   se   occorra,   riammesso   in   termini,
effettivamente rinnovare il giudizio o procedere in  executivis)  per
poter cosi' usufruire del  trattamento  sostanziale  piu'  favorevole
introdotto dallo ius superveniens, nonostante che tale rito, come  si
e' notato, avesse assunto le connotazioni dell'oggetto di un  diritto
potestativo dell'imputato. 
    Deve  poi,  a  questo  proposito,   sottolinearsi   che   nessuna
indicazione di senso contrario  puo'  trarsi  dalla  sentenza  emessa
dalla Corte EDU in data 21  aprile  2005  nel  c.d.  caso  Fera,  che
riguardava il caso di un imputato di reato punibile  con  l'ergastolo
che, chiesto di essere ammesso al rito  abbreviato,  se  l'era  visto
negare; tuttavia, dall'abstract, si  comprende  che  la  ragione  del
rifiuto non risiedeva nel divieto di  giudizio  abbreviato  per  tali
casi,  e  comunque  non  e'  stato  questo  il   profilo   preso   in
considerazione dalla  Corte  EDU,  che  in  detta  occasione  neppure
affronto' il problema della rilevanza del sopravvenuto  mutamento  di
disciplina del  rito  abbreviato,  con  trasformazione  dello  stesso
nell'oggetto di un diritto potestativo  dell'imputato;  quindi  sulla
specifica materia posta dal caso  del  P.  non  risulta  essersi  mai
pronunziata; in proposito, la decisione della Corte non e' reperibile
in lingua italiana, nella quale esiste solo l'«abstract»:  «il  fatto
che il giudice dell'udienza preliminare abbia rifiutato la  riduzione
del terzo della pena, ritenendo non immotivato il  rifiuto  del  p.m.
all'adozione del giudizio abbreviato ex art. 438,  comma  1.,  c.p.p.
non viola l'art.  6  paragrafo  1  CEDU.  Nella  fattispecie,  si  e'
ritenuto  che  le  giurisdizioni  nazionali   avessero   dei   motivi
ragionevoli per ritenere che non fosse possibile decidere «allo stato
degli atti», benche' vi fossero in realta' contestazioni  sul  punto,
considerato l'errore di valutazione commesso dai giudici d'appello  e
dalla Cassazione nella individuazione del momento in cui il difensore
del ricorrente  aveva  presentato  domanda  di  perizia  psichiatrica
(all'udienza preliminare invece che dopo l'udienza preliminare). 
    8. - La rilevanza della questione di  incostituzionalita'.  -  Lo
strumento  processuale  di  adeguamento  del  diritto  interno   alle
disposizioni CEDU nel caso del P. L'incidente di esecuzione. 
    Quanto sopra  esposto  vale  ad  individuare  ed  evidenziare  le
ragioni  della  non  manifesta  infondatezza   della   questione   di
incostituzionalita' dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella  parte
in cui non  prevedeva  la  possibilita'  di  richiedere  il  giudizio
abbreviato all'imputato il cui giudizio - come appunto era  nel  caso
del P. - pendesse in fase di Cassazione. 
    La rilevanza della questione appare evidente, nel senso che  solo
laddove  la   Corte   costituzionale   dichiarasse   l'illegittimita'
costituzionale di tale norma, sarebbe poi possibile rideterminare  la
pena da irrogarsi al P. nella misura di trenta  anni  di  reclusione,
atteso che, in caso contrario, l'applicazione diretta  (ad  opera  di
questo tribunale, in sede esecutiva, come tra breve si dira', e senza
necessita' di adire la Corte costituzionale, come si e'  gia'  detto)
della relativa riduzione della pena ai  due  omicidi  commessi  prima
della sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale, non sortirebbe
alcun effetto concreto, atteso che,  per  le  regole  in  materia  di
concorso di pene e  di  reati,  il  P.  dovrebbe  comunque  e  sempre
scontare la pena dell'ergastolo con isolamento  diurno  in  relazione
all'omicidio commesso in  data  successiva  al  21  aprile  1992,  in
continuazione con gli altri omicidi, giusta il disposto dell'art.  72
comma 3 c.p. 
    Tuttavia, ritiene il tribunale che potrebbe obiettarsi in  ordine
alla rilevanza della questione, sotto diverso profilo, e cioe' quello
attinente alla supposta incompetenza di questo Tribunale  a  decidere
della questione sottopostagli, laddove volesse opinarsi  che  non  si
tratti di materia dell'esecuzione, e che pertanto la decisione  della
questione sollevata non sarebbe rilevante, nel  concreto,  in  quanto
questo tribunale dovrebbe comunque dichiarare la propria incompetenza
e non affrontare il merito della decisione. E'  invece  opinione  del
collegio che la questione sollevata dal  P.  sia  per  l'appunto  una
questione che in sede esecutiva trova  la  sede  naturale  della  sua
risoluzione,  laddove  solo  si   osservi   come   sarebbe   assurda,
irragionevole, diseconomica e pertanto iniqua rispetto al diritto  ad
una pronta decisione ogni altra soluzione (e pertanto  in  violazione
degli articoli 3 e 117 Cost e 6 CEDU) , come quella di  rimettere  in
termini il P. per un nuovo  giudizio  abbreviato  davanti  al  g.u.p.
(soluzione  irragionevole  e  diseconomica,  atteso  che  il  P.  non
richiede ne' abbisogna - a differenza di  chi  chieda  per  la  prima
volta un giudizio abbreviato, cui  verrebbe  pertanto  senza  ragione
equiparato - di un nuovo giudizio sulla responsabilita' e sulla pena,
ma solo di un automatico adeguamento della stessa secondo  i  criteri
dell'art. 442 c.p.p.), o quella di affidare la soluzione del problema
ad un giudizio di revisione (di cui non ricorre alcun presupposto,  e
men che mai la astratta possibilita' di un esito diverso del giudizio
di responsabilita', sicche' dell'istituto si farebbe  un'applicazione
impropria ed atta a ritardare i tempi della decisione), o addirittura
ad una pronunzia della Corte EDU sulla sua questione. 
    In ordine alla individuazione dello strumento processuale atto  a
rimuovere la lesione ai diritti dell'imputato derivanti dal contrasto
della norma interna con la norma internazionale, con la  sentenza  n.
230/2010 dettata proprio nel caso Scoppola dopo  la  decisione  della
CEDU, la Corte di Cassazione ha espressamente statuito che,  in  base
ai principi desumibili dal vigente ordinamento, ed  in  primis  anche
quello di economia processuale  che  e'  espressione  del  piu'  lato
principio costituzionale di cui all'art. 111 Cost.  (e  convenzionale
ex art. 6 CEDU) del diritto ad una statuizione giudiziaria  in  tempi
ragionevoli,   sarebbe   ben   possibile   «affidare    al    giudice
dell'esecuzione il compito di sostituire  la  pena  inflitta  con  la
sentenza 10 gennaio 2002 della Corte di assise di appello di Roma  e'
pienamente conforme alla normativa vigente»,  pur  risolvendosi  poi,
per  ragioni  di  economia  processuale,  a  dar  corso  al   ricorso
straordinario ed in detta sede pronunziando sull'oggetto della  causa
rideterminando la pena inflitta allo Scoppola. 
    E' successivamente intervenuta la sentenza additiva  della  Corte
costituzionale, che ha  introdotto  un  nuovo  caso  di  giudizio  di
revisione quale strumento per l'adeguamento della decisione del  caso
concreto ai principi CEDU come ritenuti  da  applicarsi  dalla  Corte
EDU. E' bene  richiamarne  i  passaggi,  per  verificare  come  dalla
pronunzia della Corte costituzionale non si evinca affatto che, anche
nel caso in oggetto, lo strumento processuale  da  utilizzarsi  debba
essere individuato nel giudizio di revisione. 
    Il tribunale,  richiamate  le  osservazioni  svolte  dalla  Corte
costituzionale, e dalla stessa Corte di Cassazione nel  caso  Dorigo,
ritiene che in effetti, accertato dalla CEDU il contrasto  tra  norma
interna  e  norma  pattizia,  e  comunque  ricevuto   un   inequivoco
insegnamento in ordine al significato da assegnarsi alla disposizione
pattizia, e stante l'insegnamento della  Corte  costituzionale  sulla
incostituzionalita' delle norme interne  contrarie  alle  convenzioni
internazionali, e sulla immediata rilevanza interna delle statuizioni
della CEDU, debba  essere  il  giudice  nazionale  a  procedere  alla
ricerca  della  soluzione   maggiormente   rispettosa   dei   diritti
costituzionali del condannato, anche in applicazione del principio di
ragionevole durata del processo. 
    Va  quindi  in  primo  luogo  escluso  che  l'interessato   debba
necessariamente preventivamente rivolgersi alla Corte EDU, in  quanto
cio' comporterebbe un capovolgimento dello spirito della convenzione,
che vuole detto  ricorso  come  ultima  ratio  quando  gli  strumenti
interni si siano dimostrati inidonei ad assicurare il soddisfacimento
della richiesta dell'interessato. Non e' infatti ragionevole ritenere
che la soluzione possa risiedere  (e  ridursi)  nel  porre  l'istante
nella necessita' di rivolgersi  alla  Corte  EDU,  come  pure  si  e'
ritenuto in talune occasioni da alcuni giudici di  merito  di  questo
distretto; ed invero, non solo la logica e l'equita', se non  gia'  i
principi di rispetto del diritto di difesa e della ragionevole durata
del processo, impongono  di  non  gravare  il  cittadino  di  inutili
lungaggini ed adempimenti processuali prima  di  riconoscere  un  suo
diritto; ma gia' la stessa Corte EDU, e  proprio  con  la  richiamata
sentenza del caso Scoppola contro Italia, ha avuto modo  di  chiarire
(cfr. punto 68 della  decisione),  ricordando  peraltro  una  propria
precedente reiterata giurisprudenza, che «la regola  dell'esaurimento
delle vie di  ricorso  interne  si  propone  di  fornire  agli  Stati
contraenti l'opportunita' di prevenire o di correggere le  violazioni
allegate contro di loro prima che queste le  vengano  sottoposte  ...
omissis ... essa costituisce un aspetto importante del principio  che
vuole che il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla  Convenzione
assuma un carattere sussidiario  rispetto  ai  sistemi  nazionali  di
tutela dei diritti dell'uomo»,  e  non  mira  invece  ad  imporre  al
cittadino una inutile e gravosa «via  crucis»  processuale  prima  di
vedere riconosciuto il proprio diritto. 
    In questa ottica, la Corte EDU ha avuto anche modo  di  osservare
(in quella medesima sentenza del c.d. «caso Scoppola»: cfr.  i  punti
69 e 70 della  decisione)  che  «la  Convenzione  prescrive  soltanto
l'esaurimento dei ricorsi che siano al  tempo  stesso  relativi  alle
violazioni incriminate, disponibili e adeguati. Essi devono  esistere
con un sufficiente grado di certezza non soltanto in teoria ma  anche
in pratica, senza che manchino loro l'effettivita' e l'accessibilita'
volute», pervenendo quindi ad affermare che «l'art.  35  paragrafo  1
della Convenzione prevede una ripartizione  dell'onere  della  prova.
Per  quanto  riguarda  il  Governo,  quando  eccepisce   il   mancato
esaurimento, deve convincere la Corte che il ricorso era effettivo  e
disponibile sia in teoria che in pratica all'epoca dei  fatti,  ossia
che  era  accessibile,  era  possibile  offrire  al   ricorrente   la
correzione  di  quanto  contestato  nei  suoi  motivi  di  ricorso  e
presentava ragionevoli prospettive di  un  esito  positivo»;  con  la
conseguenza che la condizione dell'esaurimento delle vie  di  ricorso
interne sia comunque da  ravvisarsi  allorche',  secondo  il  diritto
interno, la proposizione della questione  non  avrebbe  avuto  alcuna
ragionevole prospettiva di accoglimento. 
    Tanto premesso, appare quindi evidente che il  giudice  nazionale
debba sforzarsi di pervenire egli  stesso,  in  forza  della  massima
estensione interpretativa degli istituti interni,  al  riconoscimento
del diritto derivante dal trattato CEDU. 
    La Corte di Cassazione, con la sentenza emessa nel caso  Scoppola
dopo la pronunzia della Corte EDU, peraltro, osserva che nulla osta a
che a provvedere sia il giudice dell'esecuzione, che anzi appare  nel
contesto di quella motivazione il giudice  naturale  della  questione
(pur avendo la Corte ritenuto  di  poter,  per  ragioni  di  economia
processuale,  procedere  essa  stessa   nelle   forme   del   ricorso
straordinario con cui era stata adita ex art. 625-bis c.p.p.).  Negli
stessi termini si poneva, sostanzialmente, anche la sentenza C. Cass.
Sez. 1^ sent.  1°  dicembre  2006  «Dorigo»,  la  quale  rilevava  la
necessita' che il giudice nazionale prestasse ossequio alle decisioni
della Corte EDU, senza che la mancanza  di  uno  specifico  strumento
processuale  potesse  o  dovesse  fungere  da  ostacolo,   rinvenendo
nell'incidente di esecuzione lo strumento naturale  per  adeguare  la
situazione processuale al dettato della  Corte  (ritenendo,  in  quel
caso, doversi negare efficacia  di  titolo  esecutivo  alla  sentenza
emessa in violazione dei principi di cui all'art. 6 della CEDU). 
    Si noti anche che la Corte costituzionale,  con  la  sentenza  n.
113/2011, che come noto ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva, tra le ipotesi
di revisione  del  processo,  quella  sorgente  dalla  necessita'  di
adeguare la decisione del caso concreto a quella assunta  dalla  CEDU
ai sensi dell'art. 46 della Convenzione,  non  ha  escluso  a  priori
l'idoneita' del procedimento dell'esecuzione, solo osservando che «Al
di la' di ogni altra possibile considerazione, il rimedio si  rivela,
infatti,  inadeguato:  esso  "congela"  il   giudicato,   impedendone
l'esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a  tempo  indeterminato
in  una  sorta  di  "limbo   processuale".   Soprattutto,   la   mera
declaratoria  di  ineseguibilita'  non  da'   risposta   all'esigenza
primaria: quella, cioe', della riapertura del processo, in condizioni
che  consentano  il  recupero   delle   garanzie   assicurate   dalla
Convenzione». Come puo' quindi notarsi, la  valutazione  di  parziale
inadeguatezza dell'incidente di esecuzione e'  stata  espressa  dalla
Corte con riferimento alle ipotesi di violazione  dell'art.  6  della
Convenzione, e sotto il profilo che lo  strumento  dell'incidente  di
esecuzione si limita a congelare l'esecutivita'  della  condanna,  ma
non a rimuoverla, ne' ad assicurare una decisione sul merito  assunta
in conformita' delle regole della Convenzione (cosi' come, osserva la
Corte costituzionale, anche lo strumento del ricorso straordinario di
cui all'art. 625-bis c.p.p., oltre che  improprio,  vede  la  propria
esperibilita' ed utilita' limitata ai casi in cui la  violazione  dei
principi costituzionali riguardi la sentenza emessa nel  giudizio  di
legittimita'), in quanto non consente la  rinnovazione  del  processo
nel rispetto delle garanzie assicurate dalla CEDU e violate nel  caso
concreto: il che attiene ad un problema affatto diverso da quello che
occupa nel presente caso, in  cui  la  «restituito  in  integrum»  (e
cioe', l'adozione di una decisione processuale conforme  ai  principi
CEDU, come puntualizzati in via generale dalla  giurisprudenza  Corte
EDU), non richiede una nuova celebrazione del processo, ma  solo  una
rideterminazione della pena secondo i criteri automatici, e scevri da
ogni apporto discrezionale del giudice, del rito abbreviato nella sua
formulazione storicamente piu' favorevole all'accusato  e  condannato
(in adesione  ai  principi  di  irretroattivita'  delle  disposizioni
penali sfavorevoli e di retroattivita'  di  quelle  favorevoli),  che
comporterebbe di sostituire alla  pena  dell'ergastolo  quella  della
reclusione per la durata di anni trenta. 
    A  tal  proposito,   osserva   il   tribunale   che,   a   favore
dell'esperibilita' del rimedio dell'incidente di esecuzione nel  caso
concreto,   e   quindi   della   rilevanza   della    questione    di
incostituzionalita' sempre nel caso  concreto,  operano  le  seguenti
considerazioni: 
        a) appartiene  ai  principi  codificati  nel  vigente  c.p.p.
quello di economia, che impone di  non  procedere  alla  rinnovazione
della fase di merito o comunque del giudizio, allorche' la  decisione
omessa o errata possa essere corretta con modalita' semplificate,  in
ragione   della   sua   evidenza,    non    controvertibilita',    ed
«automaticita'», nel senso cioe' di prescindere dalla  necessita'  di
valutazioni discrezionali: si richiamano a tal proposito  l'art.  183
disp. Att. c.p.p., che prevede che, allorche' alla condanna  consegua
una pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, e  di
essa si sia omessa la irrogazione col dispositivo della sentenza,  vi
si possa provvedere ad opera del giudice dell'esecuzione (che, in tal
caso,  provvede  addirittura  «de  plano»,  ai  sensi  del  combinato
disposto egli articoli 676 e 667, comma  4  c.p.p.);  ancora,  l'art.
619, comma 2 c.p.p. prevede che, allorche' nella  sentenza  impugnata
si deve soltanto rettificare la specie o la quantita' della pena  per
errore  di  denominazione  o  di  computo,  la  Corte   vi   provvede
direttamente senza pronunziare annullamento con rinvio; 
    b) l'esistenza di un giudicato sulla  quantita'  della  pena  non
costituisce  un  limite  ai  poteri   di   intervento   del   Giudice
dell'esecuzione: ne sono conferma gli articoli 671 c.p.p. e 188 disp.
Att. C.p.p., oltre che gli articoli 130 e 625-bis c.p.p.; 
        c) il limite posto dall'art. 2 comma 4 c.p., con  riferimento
alle  ipotesi  in  cui  occorra  applicare,  quale  ius  superveniens
rispetto alla formazione della irrevocabilita', una norma  prevedente
un trattamento penale piu' favorevole quanto alla pena, non  riguarda
le  ipotesi  in  cui  la  norma  favorevole  fosse  preesistente   al
giudicato,  ne'  l'ipotesi  in  cui  la  norma  sopravveniente  debba
ritenersi di rango costituzionale,  sia  pur  mediato  dall'art.  117
Cost. (in tal caso, l'art. 2 c.p., andrebbe  ritenuto  in  contrasto,
con l'art. 7 della  CEDU,  nell'interpretazione  datane  dalla  Corte
EDU); 
        d) ne' un limite appare rinvenibile nella nota sentenza Corte
costituzionale n. 113/2001, la quale ha infatti indicato la via della
revisione ex art. 630 c.p.p. quale strumento necessario solo  laddove
occorra: 
          d.1) adeguarsi ad una pronunzia resa  dalla  Corte  EDU  ex
par. 46 della Convenzione (e quindi, non gia' fare applicazione, come
e' nel presente caso, di un  principio  della  Convenzione  per  come
interpretato dalla Corte in altro giudizio), e 
          d.2) procedere ad un nuova celebrazione del processo  quale
unico strumento disponibile a rimuovere  il  pregiudizio  patito  dal
cittadino in violazione delle norme della Convenzione  (la  Corte  ha
infatti ricordato  che  «l'art.  630  cod.  proc.  pen.  deve  essere
dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio  perche'  (e  nella
parte in cui) non contempla un "diverso" caso di revisione,  rispetto
a quelli ora regolati, volto  specificamente  a  consentire  (per  il
processo definito con una delle pronunce indicate nell'art. 629  cod.
proc. pen.) la riapertura del processo - intesa,  quest'ultima,  come
concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione  di  attivita'
gia' espletate, e, se del caso, di quella integrale  del  giudizio  -
quando la riapertura stessa risulti necessaria,  ai  sensi  dell'art.
46,  paragrafo  1,  della  CEDU,  per  conformarsi  a  una   sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo  ...  .  Omissis
... La necessita' della riapertura andra'  apprezzata  oltre  che  in
rapporto alla natura oggettiva  della  violazione  accertata  (e'  di
tutta evidenza, cosi', ad esempio, che non  dara'  comunque  luogo  a
riapertura l'inosservanza del principio  di  ragionevole  durata  del
processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che  la  ripresa
delle  attivita'  processuali  approfondirebbe  l'offesa)  -  tenendo
naturalmente conto delle indicazioni contenute nella  sentenza  della
cui esecuzione si tratta ... omissis ...). 
    Ne consegue che, a  parere  di  questo  G.E.,  apparendo  fondata
l'istanza, appare da escludersi  la  necessita'  del  ricorso  ad  un
giudizio di revisione e conseguentemente, esclusa la competenza della
Corte di Appello a pronunziarsi sulla relativa richiesta (ove in tali
termini si volesse intendere la richiesta formulata a questo G.E.), e
debba invece  ritenersi  fondatamente  predicatile  la  competenza  a
provvedere da parte del G.E in ordine alla richiesta di  procedere  -
in via diretta o perfino previo apprezzamento  della  ricorrenza  dei
presupposti per una rimessione in termini - alla diminuzione di  pena
prevista dall'art. 442 c.p.p.: e cio' tanto piu' che la stessa  Corte
costituzionale, con la ricordata sentenza n. 113/2001,  ha  ricordato
che «ove si profili un eventuale contrasto fra una  norma  interna  e
una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto  la
praticabilita' di una interpretazione della prima in  senso  conforme
alla Convenzione, avvalendosi di ogni  strumento  ermeneutico  a  sua
disposizione»: ricerca di una  soluzione  interpretativa  che  appare
doversi estendere anche - dato il  contesto  in  cui  la  statuizione
della Suprema Corte si  pone  -  all'individuazione  degli  strumenti
processuali praticabili per rimuovere il contrasto  esistente  tra  a
decisione del caso concreto ed i principi espressi dalla  Convenzione
EDU. 
    Rimane tuttavia fermo che, quanto all'omicidio commesso  in  data
20 agosto 1991,  il  Tribunale  non  puo'  che  procedere  sollevando
questione di incostituzionalita' nei termini di cui  alla  precedente
parte motiva, per le ragioni gia' esposte. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara d'ufficio rilevante e non  manifestamente  infondata  la
questione di  costituzionalita'  dell'art.  4-ter  d.l.  n.  82/2000,
convertito nella legge n. 144/2000, per contrasto con gli articoli  3
e 117 della Costituzione (con riferimento agli articoli 6 e  7  della
CEDU), nella parte in cui non prevede la riammissione in termini  per
richiedere il giudizio abbreviato per gli imputati  il  cui  processo
penda o pendesse davanti alla Corte di Cassazione; 
    Ordina  la  notificazione  della  presente  ordinanza  al   p.m.,
all'istante ed al suo difensore e al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, e la sua comunicazione  ai  Presidenti  dei  due  rami  del
Parlamento; 
    Dispone la successiva trasmissione  della  presente  ordinanza  e
degli atti del procedimento,  previe  notifiche  e  comunicazioni  di
legge, ed unitamente alla prova dell'esecuzione di esse,  alla  Corte
costituzionale. 
    Manda alla Cancelleria per le comunicazioni e gli adempimenti  di
rito. 
        Lecce, addi' 20 marzo 2012 
 
                   Il presidente estensore: Sernia