N. 7 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 marzo 2012
Ordinanza del 26 marzo 2012 emessa dal Tribunale di Lecce nel procedimento di esecuzione nei confronti di P. G.. Processo penale - Giudizio abbreviato - Reati puniti con la pena dell'ergastolo - Rimessione in termini per la richiesta di giudizio abbreviato per gli imputati il cui processo penda o pendesse davanti alla Corte di cassazione - Mancata previsione - Violazione del principio di uguaglianza - Inosservanza dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, con riferimento ai principi del giusto processo e della retroattivita' della legge penale piu' favorevole, affermati dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU). - Decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, art. 4-ter, convertito, con modificazioni, nella legge 5 giugno 2000, n. 144. - Costituzione, artt. 3 e 117, primo comma, in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia diritti dell'uomo e liberta' fondamentali (CEDU).(GU n.6 del 6-2-2013 )
IL TRIBUNALE ORDINARIO Decidendo in ordine alla richiesta, pervenuta in data 12 maggio 2011, avanzata nell'interesse di P. G., nato il ... a Lecce, con la quale lo stesso chiede di essere rimesso in termini al fine di poter ottenere la riduzione di pena per il rito abbreviato, a suo tempo negatagli, sottolineandosi come la applicazione retroattiva dell'art. 7 del D.L. n. 341/2000 sia stata ritenuta contraria ai principi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo dalla competente Corte, la quale ha sancito che la diminuzione di pena discendente dal rito abbreviato, pur legata ad una scelta processuale, abbia natura sostanziale e debba pertanto trovare applicazione retroattiva ai sensi dell'art. 7 della Convenzione, secondo l'interpretazione datane dalla Corte, come comprensiva non solo del divieto di retroattivita' della pena piu' grave, ma anche di retroattivita' della pena piu' favorevole; Rilevato che con memoria in atti, la difesa chiede poi la diretta applicazione, in sede esecutiva, della riduzione di pena discendente dalla scelta del rito abbreviato; Osservato che con questione sollevata all'udienza del giorno 2 novembre 2011, la difesa del condannato ha poi sollevato questione di incostituzionalita' dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella parte in cui non prevedeva la possibilita' di richiedere il giudizio abbreviato all'imputato il cui giudizio - come appunto era nel caso del P. - pendesse in fase di Cassazione; Disposta in detta udienza l'acquisizione dei verbali, nella parte relativa alle questioni preliminari, delle udienze tenutesi davanti al g.u.p. ed in primo e secondo grado, al fine di una compiuta verifica delle questioni fatte valere dal P. davanti a tali giudizi; Sentito il Presidente relatore e ricevute le conclusioni delle parti, ha pronunziato la seguente ordinanza. 1. - La competenza di questa A.G. a conoscere dell'incidente di esecuzione. Va in primo luogo richiamata, per quel che attiene la trattazione del presente incidente, la competenza di questa A.G. a norma dell'art. 665 comma 4 c.p.p., risultando che l'ultima sentenza di condanna divenuta irrevocabile ed in esecuzione e' quella emessa in data 6 dicembre 2002 dal Tribunale di Lecce. 2. - L'oggetto della istanza e brevissima sintesi della vicenda processuale. Come anticipato in epigrafe, il presente incidente di esecuzione ha sostanzialmente ad oggetto la richiesta del P. di essere messo nella condizione di godere dello sconto di pena previsto per il rito abbreviato, che egli ebbe a richiedere in udienza preliminare e cui non fu ammesso avendo il p.m. negato il proprio consenso (ed essendosi a tale posizione conformato il g.u.p.) in quanto all'epoca la legge non prevedeva piu' (in forza della sentenza Corte costituzionale n. 176/91) la possibilita' di accedere a tale rito in relazione ai reati contestatigli (tre omicidi aggravati e reati satellitari), per i quali era prevista la pena dell'ergastolo. Il P. non pote' poi nemmeno richiedere detto rito neanche nelle successive fasi del giudizio, atteso che la riforma del rito abbreviato, che reintrodusse la possibilita' del rito abbreviato per i reati puniti con pena dell'ergastolo, e sottrasse la percorribilita' del rito al consenso del p.m. ed alla valutazione di decidibilita' allo stato degli atti da parte del g.u.p., intervenne quando le fasi di merito erano gia' esaurite ed il processo pendeva davanti alla Suprema Corte di Cassazione, davanti alla quale le norme transitorie non consentivano di avanzare istanza di ammissione al rito abbreviato. Egli chiede quindi che la pena dell'ergastolo con isolamento diurno, irrogatagli in primo e secondo grado, venga sostituita con quella di trenta anni di reclusione; cio' in quanto tale sarebbe, nel suo caso, l'effetto della nota sentenza emessa dalla Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia, allorche', come noto, ha affermato che, ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, deve intendersi per norma penale, soggetta al principio di irretroattivita' della disposizione sfavorevole, e di retroattivita' di quella favorevole, sia la norma che modifichi i casi in cui un fatto costituisca reato, sia quella che comunque influisca sulla pena irrogabile per detti fatti, anche se di collocazione e natura processuale: cosi' riconoscendo natura sostanzialmente penale alla disposizione dell'art. 442 c.p.p. Per pervenire al risultato richiesto, l'istante ha operato per due vie alternative: a) una richiesta di rimessione in termini, per poter avanzare al g.u.p. la richiesta di ammissione al rito abbreviato; b) una richiesta di immediata applicazione della riduzione della pena ad opera del Giudice dell'Esecuzione prospettando, in via eventuale, una questione di incostituzionalita' dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella parte in cui non prevedeva la possibilita' di richiedere il giudizio abbreviato all'imputato il cui giudizio - come appunto era nel caso del P. - pendesse in fase di Cassazione. In esito al parere espresso dal p.m. in via preliminare, su sollecitazione del Presidente del collegio, nessuna delle due istanze e' apparsa manifestamente infondata, e tale da consentire la possibilita' di un decreto di inammissibilita' ex art. 666, comma 2, c.p.p.; ed invero, la citata sentenza della Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia ha assegnato alla riduzione di pena propria del rito abbreviato la natura di norma sostanzialmente penale, e come tale sottoposta al principio della retroattivita' della norma favorevole e della non retroattivita' della norma meno favorevole; mentre la disciplina del rito abbreviato formatasi nel tempo, e comunque prima che la sentenza emessa nei confronti del P. divenisse irrevocabile (come meglio oltre si vedra'), vedeva ormai in via generale riconoscere, a colui che fosse imputato di un reato, la titolarita' di un vero e proprio diritto potestativo al rito abbreviato, con la previsione di uno sconto premiale sulla pena - ivi compresa quella dell'ergastolo con isolamento diurno - connesso alla rinunzia a facolta' difensive, foriera di economie processuali a beneficio dell'ordinamento nel suo complesso. La peculiarita' del caso concreto, rispetto a quello oggetto del suddetto «caso Scoppola» e di cui tra breve si dira', e' ovviamente data dalla circostanza che il P. non e' stato ammesso al rito abbreviato, e pertanto questo non e' stato celebrato, sicche' egli chiede una riduzione di pena riconnettendo tale sua istanza alla mera circostanza di aver chiesto, a suo tempo, l'ammissione al rito alternativo, la cui applicabilita' venne esclusa dal g.i.p. in forza della normativa interna all'epoca vigente, peraltro discendente da una sentenza con la quale la Corte costituzionale aveva escluso la legittimita' costituzionale, per eccesso di delega, dell'art. 442 c.p.p., nella parte in cui ammetteva alla definibilita' con rito abbreviato anche i procedimenti relativi a reati puniti con la pena dell'ergastolo. Tale peculiarita' non appare tuttavia di natura tale da imporre di ritenere manifestamente infondata la istanza avanzata dal P., dovendosi ricordare come l'ordinamento processuale gia' conosca ed abbia conosciuto ipotesi in cui, per effetto di pronunzie della Corte costituzionale, si sia affermato il diritto dell'imputato alla riduzione di pena per il rito abbreviato quando lo avesse richiesto, ma gli fosse stato ingiustificatamente rifiutato. La presente decisione non puo' pertanto prescindere dalla valutazione circa l'eventuale illegittimita' di tale esclusione, con particolare riferimento a quanto affermato dalla accennata sentenza della Corte EDU nella causa Scoppola contro Italia, e valutando la incidenza dei principi CEDU, come interpretati dalla Corte EDU, nel loro potenziale contrasto con una disciplina interna derivante da una sentenza (nel caso in oggetto: la n. 176/1991) della Corte costituzionale ed in ordine alla possibile rilevanza che tale eventuale illegittimita' possa assumere, secondo gli strumenti attivabili nel diritto interno, ed eventualmente ricorrendo all'applicazione sia diretta che, alla bisogna, analogica anche di altre disposizioni (ad es. l'art. 30, comma 4, della legge n. 87/1953 anche alla luce delle statuizioni contenute in Corte costituzionale sent. n. 148/1983; l'art. 448, comma 1, c.p.p.; l'art. 438, comma 6, c.p.p., come risultante dall'effetto della sentenza Corte costituzionale n. 169/2003 e l'art. 442 c.p.p. come risultante dall'effetto della sentenza Corte costituzionale n. 23/1992; nonche' alla luce dei principi espressi dalle sentenze Corte costituzionale numeri 81/1991 e 66/1990), sia pure assunti come espressione di principi generali dell'ordinamento processuale, nel caso in cui la vicenda processuale, decisa con indebito rifiuto del rito abbreviato, sia stata anche definita con sentenza irrevocabile di condanna; o se invece detta irrevocabilita' non si atteggi a limite invalicabile, superabile solo attraverso il ricorso alla Corte EDU. Punto di partenza appare dover essere l'esame piu' analitico della decisione emessa dalla Corte EDU nel citato caso Scoppola contro Italia; il che postula che detta sentenza svolga effetti generali nel diritto interno anche al di fuori della decisione del caso specifico cui si e' riferita; occorre quindi ovviamente muovere le mosse anche dalla valutazione della rilevanza processuale che, nell'ordinamento interno, possano assumere le norme della CEDU e le sentenze della Corte EDU, con riferimento a casi diversi da quelli nei quali sono state emesse. Si passera' quindi a valutare la vicenda processuale del P. nella sua scansione cronologica, con riferimento anche alla disciplina del rito abbreviato contemporaneamente vigente, e si vagliera' l'incidenza che, in detta situazione, possano assumere i principi espressi dalla sentenza Corte EDU nel citato caso Scoppola contro Italia. 3. - La sentenza della Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia. Si e' gia' accennato che - come noto - la Corte EDU, con la sentenza 17 settembre 2009 nella causa Scoppola contro Italia (cfr. in particolare i punti 103 segg. della decisione), ha affermato che, incidendo sulla determinazione della pena, la norma di cui all'art. 442 ha carattere sostanziale e deve pertanto essere soggetta, in forza dei principi desumibili dagli articoli 7 e 6 della Convenzione Europea, al principio della applicazione retroattiva se piu' favorevole rispetto alla pena prevista all'epoca di commissione del fatto; con la precisazione che il richiamo all'art. 6 della Convenzione e' stato operato - cfr. punti 137 segg. della sentenza - perche' la Corte ha ritenuto non equo un processo in cui, in corso di causa, si siano mutati «in peius» gli effetti del rito richiesto dall'imputato: profilo che pero' non riguarda direttamente il caso presente, in cui semmai occorre valutare che rilevanza possa avere - anche sotto il profilo del diritto ad un giusto processo - una disciplina processuale che non consenta all'imputato di accedere ad un rito premiale, allorche' sopravvenga una norma che rimuova un preesistente ostacolo all'ammissibilita' del rito, con connesso sconto di pena, che l'imputato aveva peraltro tempestivamente richiesto senza venirvi ammesso perche' la norma all'epoca esistente lo escludeva invece da tale beneficio. Cio' che quindi senz'altro distingue il caso presente da quello oggetto della sentenza Scoppola, e' dato, come gia' accennato, dalla circostanza che il P. non e' stato ammesso al rito abbreviato, in quanto, sebbene l'accesso a detto rito fosse previsto all'epoca in cui commise due dei tre omicidi per i quali ha riportato condanna, la normativa vigente all'epoca in cui egli venne giudicato non lo consentiva piu', pur se, in corso di causa, la norma era stata comunque modificata in termini tali da consentire l'accesso al rito ad altri soggetti imputati, e financo gia' condannati in primo grado, dello stesso genere di fatti ascritti al P. ma a quest'ultimo l'accesso al rito non era comunque consentito a causa della fase processuale in cui pendeva il suo processo. Ove cio' costituisse un dato di differenza (rispetto al caso Scoppola contro Italia) troppo marcato, e tale da non consentire l'accoglimento della istanza alla luce dei principi affermati dalla suddetta sentenza, occorre quindi verificare se, sotto il profilo del diritto ad un equo processo (art. 6 della Convenzione EDU) e del rispetto del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., non sia ravvisabile una illegittimita' costituzionale (per contrasto quindi, rispettivamente, con gli articoli 117, 24 e 3 Cost.) dell'art. 4-ter della legge n. 144/2000, nella parte in cui non consentiva l'accesso al rito abbreviato all'imputato la cui causa pendesse davanti alla Corte di Cassazione. Ai fini di una piu' completa visione dei vari passaggi processuali che hanno caratterizzato la vicenda del P., il tribunale ha comunque ritenuto necessario acquisire i verbali dell'udienza preliminare e quelli relativi alla trattazione delle questioni preliminari nei vari gradi di giudizio, anche per avere certezza che almeno in uno di detti gradi, avesse avanzato la relativa istanza, apparendo altrimenti non esservi ragione per lo stesso esame del presente incidente, che avrebbe manifestato, con la sua manifesta infondatezza, la propria inammissibilita' ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p.; sono state acquisite anche le sentenze emesse nei tre gradi di giudizio, ed i motivi di impugnazione presentati nelle fasi di gravame. Dai verbali di udienza acquisiti, relativi alla trattazione delle questioni preliminari in primo e secondo grado, ed al giudizio di Cassazione, non risulta che l'istanza di ammissione al rito abbreviato sia piu' stata sollevata dopo il rigetto della richiesta nel corso dell'udienza preliminare. Tanto precisato, la soluzione non puo' non muovere, in primo luogo, dalla puntuale analisi del contenuto della decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel c.d. «caso Scoppola», allorche' ha ritenuto che, ai sensi dell'art. 7 della CEDU, sia oggetto della convenzione, alla luce delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, anche quello della retroattivita' della legge penale piu' favorevole; principio che, vale la pena di notare, in quanto oggetto di convenzioni cui l'Italia ha aderito - cfr. ad es. anche l'art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua risoluzione 2200 A (XXI) del 16 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976, e' cosi' formulato: «1. Nessuno puo' essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Cosi' pure, non puo' essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, il colpevole deve beneficiarne»; negli stessi termini si pronunzia la Carta di Nizza o Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, il cui art. 49, intitolato «Principi della legalita' e della proporzionalita' dei reati e delle pene», e' formulato nella maniera seguente: «1. Nessuno puo' essere condannato per un'azione o un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena piu' lieve, occorre applicare questa ultima.» - deve ritenersi comporti la costituzionalizzazione, ai sensi dell'art. 117 Cost., anche a prescindere dalla interpretazione che della CEDU dia la competente Corte (interpretazione cui comunque la Corte costituzionale ricorda deve attenersi il giudice nazionale: cfr. la gia' richiamata sentenza Corte costituzionale n. 348/2007) del principio della retroattivita' della norma penale piu' favorevole. E' bene poi ricordare come l'art. 7 della CEDU affermi in prima battuta anche il principio, gia' oggetto dell'art. 25 Cost., in forza del quale nessuno puo' essere sottoposto ad una pena piu' grave rispetto a quella vigente al momento in cui commise il fatto per cui e' condannato; come si avra' modo di argomentare meglio piu' avanti, tale principio assume una fondamentale rilevanza una volta che si assegni una valenza sostanziale - e cioe' «penale» - all'effetto premiale del rito, atteso che i primi due degli omicidi per cui il P. ha riportato condanna risultano essere stati consumati in vigenza della ammissibilita' del rito abbreviato anche per tali delitti. 4. - La rilevanza interna delle norme della Convenzione EDU e gli effetti delle sentenze della Corte EDU. Sono ormai assodati i principi, piu' volte ribaditi dalla Corte di Cassazione e dalla Corte costituzionale (cfr. le citate sentenze n. 348 e n. 349/2007 nonche', da ultimo, anche la nota sentenza n. 113/2011 attesi, tra gli altri, i richiami ivi contenuti alla giurisprudenza CEDU in tema di «restitutio in integrum» quale parametro di verificazione del rispetto del contenuto dell'art. 46 della Convenzione; per quel che piu' specificamente attiene all'efficacia indiretta, nell'ordinamento interno, della normativa CEDU grazie all'interposizione dell'art. 117 Cost., vedi anche le sentenze della Corte costituzionale numeri n. 1 del 2011; le n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; le n. 317 e n. 311 del 2009, la n. 39 del 2008; sulla perdurante validita' di tale ricostruzione anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011), e che peraltro il tribunale ovviamente condivide, secondo i quali le norme della CEDU: a) devono essere rispettate dalla normativa nazionale, atteso che l'art. 117 Cost. impone l'adeguamento del diritto interno a quello internazionale pattizio, con la conseguenza che la norma interna in contrasto con la norma CEDU (o altra norma convenzionale internazionale) si pone altresi' in violazione dell'art. 117 Cost., e ne va pertanto dichiarata la incostituzionalita' a seguito dell'ordinario procedimento di rilievo della relativa eccezione ai sensi degli articoli 23 segg. legge n. 87/1953; appare meritevole di menzione, in particolare, che con le sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007 la Corte costituzionale abbia statuito che «il nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost., se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall'altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiche' gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimita' costituzionale.»; b) dette norme non si rivolgono solo agli Stati contraenti per disciplinarne l'attivita' normativa, ma hanno anche (ove non vi sia ostacolo in una norma interna, di cui occorrera' allora promuovere l'annullamento ad opera della Corte costituzionale secondo quanto esposto al punto a) che precede), efficacia diretta negli ordinamenti interni e vanno quindi applicate dal giudice nazionale, sia pure eventualmente solo utilizzandole come norma interposta ai fini del vaglio di costituzionalita' della normativa interna rispetto all'art. 117 Cost.; c) nella lettura ed applicazione delle norme della CEDU, il giudice nazionale dovra' uniformarsi all'interpretazione offertane dalla Corte EDU, che la Convenzione pone ad interprete vincolante della Convenzione stessa: sul punto cfr. ad es. la sentenza 6 dicembre 2006, n. 6023/2006, della Suprema Corte di Cassazione, nonche' Corte costituzionale che, con le sentenze numeri 348/2007 e 349/2007, a chiarissime lettere, ha ricordato che «La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, cui e' affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l'art. 32, paragrafo 1, stabilisce: "La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47". Poiche' le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione e' che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi e' quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione». Deve quindi procedersi, da un lato, alla ricognizione dell'esatta vicenda processuale del P., e, dall'altro, alla attenta lettura dei principi sanciti dalla menzionata sentenza della CEDU; verifiche tanto piu' necessarie, in quanto la presente vicenda non e' esattamente incastonabile in quella che dette luogo alla suddetta pronunzia, il caso del P. presentando notevoli particolarita' (in primis, la mancata celebrazione del rito abbreviato essendo stata la relativa richiesta perche' presentata in un momento storico in cui il rito in oggetto - pur previsto all'epoca della commissione della maggior parte dei delitti per cui il P. e' stato condannato - non era piu' ammesso per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo) che impongono una valutazione particolarmente attenta ed approfondita della interpretazione che la Corte EDU ha offerto dell'art. 7 della CEDU. 5. - La vicenda processuale di P. G. Passando quindi alla situazione del P., va osservato quanto segue. Raggiunto da richiesta di rinvio a giudizio in relazione alla commissione di tre omicidi aggravati, punibili con la pena dell'ergastolo ai sensi degli articoli 576 e 577 c.p., in concorso con altri reati, commessi (quanto agli omicidi) alle date del 17 ottobre 1990, 21 gennaio 1991, 20 agosto 1991, all'udienza preliminare del 5 marzo 1997 il P. chiedeva di essere ammesso al rito abbreviato, forse contando sulla possibilita' di un'applicazione della norma penale piu' favorevole ex art. 2 c.p., in forza della affermazione della natura anche sostanziale della disposizione di cui all'art. 442 c.p.p. espressa nella sentenza (in verita' non citata nella istanza) della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 2297 del 6 marzo 1992, Peccillo + 1 (peraltro richiamata anche dalla sentenza Corte EDU nel «caso Scoppola», ma con erronea indicazione del nome dell'imputato in «Merletti»); su diniego del p.m., il g.u.p. rigettava l'istanza, non potendosi procedere col rito richiesto, avendo la Corte costituzionale con la sentenza n. 176/91 del 21 aprile 1991, emessa quindi pochi mesi dopo la consumazione del penultimo dei reati contestati al P. (e 4 mesi circa prima della consumazione dell'ultimo di essi), dichiarato l'illegittimita' costituzionale, per eccesso dalla delega, dell'art. 442 c.p.p. (come e' noto, il codice di procedura penale e' un decreto legislativo, emanato dal Governo su delega del Parlamento e pertanto non poteva, ai sensi degli articoli 76 e 77 Cost., superare i limiti della legge delega, che non aveva previsto la possibilita' del rito abbreviato per i reati puniti con l'ergastolo) nella parte in cui ammetteva la procedibilita' con rito abbreviato per i reati puniti con l'ergastolo, quali appunto erano quelli contestati al P. Il P. veniva quindi rinviato a giudizio e riportava condanna in primo e secondo grado (in quest'ultimo con sentenza del 19 novembre 1999 della Corte di Appello di Lecce), alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno, come si evince dalla lettura del dispositivo delle sentenze, acquisite in atti; e cio' avvenne nonostante che, nel frattempo, dopo la sentenza di secondo grado, ma prima della decisione del ricorso in Cassazione, la disciplina del rito abbreviato fosse risultata profondamente mutata, ed in termini tali che avrebbero comportato l'accoglimento della sua originaria richiesta di accesso al rito, come tra breve si argomentera'. 5-bis. - La disciplina del rito abbreviato vigente dall'epoca di commissione dei fatti sino alla irrevocabilita' della sentenza e le interferenze, su di essa, dei principi di cui alla sentenza Corte EDU nella causa «Scoppola» contro Italia. Come risulta da quanto esposto in precedenza, deve quindi evidenziarsi che: a) allorche' furono commessi i primi due dei tre omicidi in ordine ai quali il P. ha riportato condanna, il codice processuale prevedeva la possibilita' di accedere al rito abbreviato anche per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo; attesa la natura «latu sensu» penale (come ritenuta dalla Corte EDU) della disposizione processuale concernente gli effetti del rito abbreviato, deve quindi ritenersi che la disciplina «penale» del delitto di omicidio aggravato prevedesse la possibilita' dell'irrogazione della pena di trenta anni di reclusione, alla condizione della celebrazione del rito abbreviato, che peraltro il P. richiese tempestivamente; b) l'accesso a detto rito venne pero' escluso dal g.u.p., in forza di una dichiarazione di incostituzionalita' ad opera della Corte costituzionale, sopravvenuta dopo la commissione dei primi due di due e prima del terzo omicidio in ordine ai quali il P. ha riportato condanna. Il Giudice dell'Udienza Preliminare, pertanto, applico' retroattivamente al P. una disposizione che, limitatamente a due dei tre episodi omicidiari di cui era chiamato a rispondere, era piu' sfavorevole e che, alla stregua della citata «sentenza Scoppola», aveva natura sostanzialmente penale, cosi' operando in violazione dell'art. 25 Cost. oltre che dell'art. 7 CEDU; e non sembra a tal proposito aver rilevanza che detta piu' grave disciplina discendesse da una pronunzia di incostituzionalita' di quella piu' favorevole vigente all'epoca dei fatti. Va infatti a tal proposito notato che l'art. 2 c.p., pur dopo la sentenza n. 51/1985 della Corte costituzionale, non vede incluse, tra le eccezioni al principio di retroattivita' della disposizione piu' favorevole e di divieto di retroattivita' di quella meno favorevole, la disciplina risultante da eventuali sentenze dichiarative di incostituzionalita' della disposizione penale; ne' tale eccezione puo' esser fatta discendere da un'applicazione analogica dei principi di cui alla predetta sentenza Corte costituzionale n. 51/85, atteso che il fondamento di tale pronunzia risiede nel contrasto della previsione dell'art. 2 comma 5 c.p. col dettato dell'art. 77 comma 3 Cost. (che prevede la retroattivita' della perdita di efficacia dei decreti legge non convertiti), laddove nessuna disposizione costituzionale prevede che le pronunzie di incostituzionalita' operate dalla Corte comportino l'originaria perdita di efficacia delle disposizioni coinvolte. Tale caso e' infatti disciplinato solo da norma di legge ordinaria (art. 30 comma 3 e 4 legge n. 87/1953) - e quindi da norma che comunque non puo' porsi in contrasto ne' con la Costituzione, ne' con le norme CEDU, pena la violazione dell'art. 117 Cost. - che prevede che «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», pertanto, con chiara delineazione di una disciplina di inefficacia a retroattivita' limitata ai rapporti non esauriti, atteso che l'unica disposizione che riguarda i rapporti gia' definiti, ed avente quindi natura dichiaratamente retroattiva, e' quella successiva di cui al comma 4 dell'art. 30, che prevede che «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali». Deve poi ricordarsi che, come peraltro gia' sottolineato anche dalla gia' menzionata sentenza C. Cass. SS.UU., n. 2297 del 6 marzo 1992, Peccillo + 1, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 148/1983, pur riconoscendo l'ammissibilita' delle questioni concernenti norme penali di favore, ha tuttavia tenuto a precisare che «e' un fondamentale principio di civilta' giuridica, elevato a livello costituzionale dal secondo comma dell'art. 25 Cost. ..., ad esigere certezza ed irretroattivita' dei reati e delle pene: ne' le garanzie che ne derivano potrebbero venire meno, se non compromettendo l'indispensabile coerenza dei dettati costituzionali, di fronte ad una decisione di accoglimento». La Corte ha quindi significativamente aggiunto che «sebbene privata di efficacia ai sensi del primo comma dell'art. 136 Cost. (e resa per se stessa inapplicabile alla stregua dell'art. 30, comma 3 , della legge n. 87 del 1953), quanto al passato la norma penale di favore continua percio' a rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la retroattivita' delle norme incriminatrici»; c) ne consegue che deve affermarsi che, nella normativa vigente sia attualmente sia all'epoca in cui il P. chiese di essere ammesso al rito abbreviato, la disciplina penale (e quindi anche nel senso adottato dalla Corte EDU con la cennata sentenza) eventualmente piu' sfavorevole al reo, derivante da una sentenza della Corte costituzionale abrogativa di previgente disposizione ritenuta in contrasto con la Costituzione, non possa essere applicata retroattivamente, in quanto in tal caso si porrebbe in contrasto sia con l'art. 25 Cost. che con l'art. 7 CEDU; sicche' deve ritenersi oggettivamente illegittimo il diniego di accesso al rito abbreviato opposto dal g.u.p. al P. quanto meno in relazione ai primi due degli omicidi per cui ha riportato condanna. Sempre a tal proposito, val la pena ricordare che la Corte costituzionale ha reiteratamente affermato l'incostituzionalita' della disciplina del rito abbreviato (e segnatamente degli articoli 247 disp. att. c.p.p., 442 e 438 c.p.p.) nella parte in cui non riconosceva il diritto allo sconto di pena, proprio del rito abbreviato, all'imputato al quale detto rito fosse stato ingiustamente negato (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 66/1990; n. 81/1991; n. 23/1992; n. 169/2003), stabilendo il principio in forza del quale il giudice del successivo segmento processuale ha il potere di valutare l'eventuale ingiustificatezza del diniego del rito, e se del caso procedere egli stesso ad operare la relativa riduzione di pena; ed il principio appare estensibile (in senso tecnico, apparendo trattarsi di un'interpretazione estensiva di una disciplina relativa al caso tipico e non eccezionale del diniego ingiustificato di rito) senza problema alcuno anche al caso in oggetto, in cui si e' effettivamente di fronte ad una vicenda in cui, verificata la natura penale del rito abbreviato alla stregua di quanto affermato dalla Corte EDU, deve rilevarsi che il g.u.p., rigettando la richiesta di tale rito adeguandosi al diniego opposto dal p.m. in ragione della ritenuta non ammissibilita' del rito, deve affermarsi che si sia operata una applicazione retroattiva della norma penale piu' sfavorevole, e pertanto il g.u.p. abbia illegittimamente rigettato la richiesta di rito abbreviato; d) peraltro, nel momento in cui iniziarono le indagini nei confronti del P., e senz'altro allorche' ne venne chiesto il rinvio a giudizio, la disciplina processuale vigente - da allora sino alla data in cui la sentenza di condanna venne confermata in grado di appello; ma non cosi' allorche' venne emessa la sentenza definitiva davanti alla Corte di Cassazione - non prevedeva la possibilita' di accedere al giudizio abbreviato a chi fosse imputato dei reati che, come quelli contestati al P., fossero puniti con la pena dell'ergastolo; e tale divieto, quanto all'ultimo dei tre omicidi commessi, non era - alla data dell'udienza preliminare, in cui la richiesta di rito abbreviato venne rigettata - illegittimo ai sensi degli articoli 25 Cost. e 7 CEDU per come interpretato dalla competente Corte; ma, come accennato, puo' fondatamente porsi un problema di incompatibilita' di tale disciplina con i principi di eguaglianza e di diritto ad un processo giusto; e) infatti, meno di un mese dopo la condanna in grado di appello, e prima che questa venisse confermata nel giudizio davanti alla Suprema Corte di Cassazione, interveniva l'art. 30 della legge 16 dicembre 1999, n. 479/1999, che da un lato trasformava il rito abbreviato in un rito oggetto di un diritto potestativo dell'imputato (abrogando gli articoli 439 e 440 c.p.p. e quindi eliminando le precedenti condizioni di accessibilita' date dal consenso - rectius, assenza di immotivato dissenso - del P.M. e dalla valutazione di decidibilita' allo stato degli atti da parte del Giudice), dall'altro reintroduceva la possibilita' di procedere con rito abbreviato anche per i delitti punibili con la pena dell'ergastolo; e la successiva legge n. 144/2000 (che convertiva il d.l. n. 82/2000), anch'essa intervenuta prima della emissione della sentenza nel grado di giudizio pendente davanti alla Suprema Corte di Cassazione, prevedeva - per ragioni non solo deflattive, ma all'evidenza anche di parita' di trattamento - con l'art. 4-ter, comma 2, segg., la riapertura dei termini per la proposizione di richieste di rivo abbreviato, anche per i giudizi relativi a reati puniti con la pena dell'ergastolo, pendenti in primo e secondo grado (purche', rispettivamente, non fosse conclusa l'istruttoria dibattimentale o la rinnovazione del dibattimento), nonche', alle stesse condizioni, in quelli di rinvio, mentre non prevedeva tale riammissione in termini per i giudizi pendenti in Cassazione: era cioe' evidente che le esigenze - sottese alla norma che rimetteva gli imputati in termini per avanzare richiesta di rito abbreviato - di evitare disparita' di trattamento con gli imputati cui il rito fosse stato precedentemente non accessibile, cedevano comunque alla natura deflattiva del rito abbreviato (e dette disparita' non apparivano pertanto irragionevoli), dato che la norma intendeva incentivare il ricorso al nuovo rito abbreviato (svincolato, con la legge n. 479/1999, dal consenso del p.m. e dalla valutazione di decidibilita' allo stato degli atti) continuando comunque a subordinare il relativo sconto di pena alla condizione che l'ordinamento nel complesso ne traesse il beneficio di evitare comunque il dispendio di attivita' istruttorie nel dibattimento di primo grado o nella sua eventuale rinnovazione in grado di appello. Occorre tuttavia considerare come, per la sua natura di accettazione del giudizio allo stato degli atti, la richiesta di rito e' idonea, nella corrente giurisprudenza di legittimita', a produrre la sanatoria per accettazione di tutte le nullita' non assolute, il superamento delle questioni di incompetenza, l'irrilevanza di ogni questione di inutilizzabilita' non patologica: in parole povere, anche con riferimento al giudizio di Cassazione, non era da escludersi che la riapertura dei termini per richiedere il giudizio abbreviato avrebbe procurato benefici di economia al processo e quindi all'ordinamento nel suo complesso; nel concreto (con riferimento cioe' al gravame proposto dal P.), ad esempio, avrebbe comportato la rinunzia alle eccezioni di nullita' non assoluta, o comunque la sanatoria delle stesse, con riferimento, ad es., ai dedotti motivi di nullita' della sentenza di secondo grado per difetto di motivazione, nonche' il decadere delle doglianze di nullita' delle sentenze di primo e secondo grado per mancata assunzione di prove ritenute decisive. Non appare invece di alcun rilievo la circostanza che in data 24 novembre 2000 sia stato promulgato il d.l. n. 341/2000 (poi convertito con modifiche nella legge n. 4/2001) che prevedeva che, nei casi di reati puniti con l'ergastolo con l'isolamento diurno (pena prevista dall'art. 72 c.p. nel caso in cui - come e' appunto nella vicenda P. - reati puniti con la pena dell'ergastolo concorressero con altri reati che comportassero la pena superiore ai cinque anni di reclusione), la pena, in caso di rito abbreviato, fosse quella dell'ergastolo; si tratta, tuttavia, di normativa senz'altro non applicabile alla stregua dei principi espressi dalla piu' volte citata sentenza Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia, trattandosi appunto di una norma sostanzialmente penale ed in suscettibile di applicazione retroattiva. Sino a tale momento storico, la sentenza di condanna nei confronti del P. peraltro non era ancora definitiva, in quanto pendeva ancora il giudizio davanti alla Suprema Corte di Cassazione, che solo in data 23 novembre 2001 rigettava il ricorso avverso la sentenza emessa in data 19 novembre 1999 dalla Corte di Appello. La sentenza che segna l'irrevocabilita' della condanna venne quindi emessa successivamente alla cristallizzazione definitiva (allo stato ed al netto delle pronunzie della Corte costituzionale e della CEDU) della normativa relativa al giudizio abbreviato, e quindi in un quadro normativo interno (ed al netto degli interventi della Corte EDU) che, apparentemente, non avrebbe consentito al P. - al contrario di chi come lui fosse imputato degli stessi reati, ma il cui giudizio pendesse nella fase del primo o secondo grado e residuassero da compiere atti di istruttoria dibattimentale - ne' di avanzare la richiesta di ammissione al rito abbreviato (perche' la norma transitoria non lo rimetteva in termini pendendo il giudizio davanti alla Corte di Cassazione), ne' comunque di vederla accolta con riduzione della pena dall'ergastolo a quella temporanea (in forza dell'ultimo intervento normativo prima della sentenza della Corte di Cassazione, in quanto la pena irrogatagli era stata dell'ergastolo con isolamento diurno). La disciplina del giudizio abbreviato aveva peraltro gia' subito diversi mutamenti in forza delle sentenze emesse dalla Corte costituzionale, ed altri ancora ne subira' negli anni successivi, tutti accomunati dalla necessita' di prevedere la sindacabilita', quale espressione del diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost., dei dinieghi opposti al rito dal p.m. o dal g.u.p.: cosi', con la sentenza n. 81/1991 la Corte costituzionale gia' aveva ritenuto l'incostituzionalita' della disciplina nella parte in cui non prevedeva che il dissenso del p.m. dovesse essere motivato, e che il giudice del dibattimento potesse sindacare detto diniego giungendo a riconoscere, sia pur in esito al dibattimento, lo sconto di pena previsto dal rito abbreviato, laddove il consenso del p.m. risultasse essere stato ingiustamente negato; e con la sentenza n. 23/1992 aveva ritenuto l'illegittimita' della disciplina del rito abbreviato, nella parte in cui non prevedeva la possibilita', per il giudice del dibattimento ed all'esito del giudizio, di sindacare la valutazione di non definibilita' allo stato degli atti espressa dal g.u.p.; infine, da ultimo, nell'attuale contesto normativo (ex art. 438, comma 5, c.p.p.) che prevede la possibilita' del rito abbreviato condizionato, con la sentenza n. 169/2003 la Corte ha ritenuto l'illegittimita' costituzionale di tale ultima norma nella parte in cui non prevede che, in caso di rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionato da parte del g.u.p., l'imputato non possa rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ed il giudice la possa accogliere. 6. - Conseguenti profili di illegittimita' (anche costituzionale) del diniego opposto alla richiesta di rito abbreviato. Si e' gia' detto della sentenza n. 176/1991 con cui la Corte costituzionale dichiaro' l'illegittimita' costituzionale del rito abbreviato in relazione ai reati puniti con la pena dell'ergastolo, osservando che, con la delega che il Parlamento aveva rilasciato al Governo per l'emanazione del codice di procedura penale, detto caso non era stato previsto; in particolare, non era stata prevista la possibilita' di commutare, per effetto della scelta del rito, la pena dell'ergastolo nella pena della reclusione nel massimo. Appare quindi di rilievo che la Corte in detta occasione abbia affermato che «una volta riconosciuta la connessione tra giudizio abbreviato e diminuzione della pena e, quindi, l'impraticabilita' del primo in mancanza della possibilita' di operare della seconda, il venir meno di quest'ultima, per effetto della dichiarazione di illegittimita' costituzionale, rende di per se' inapplicabile il giudizio abbreviato, quale disciplinato dagli articoli da 438 a 443 del codice di procedura penale, ai processi concernenti delitti punibili con l'ergastolo»: la Corte ritenne quindi che, stante la coessenzialita' tra premio e rito alternativo, la illegittimita' costituzionale del primo comportasse l'illegittimita' anche del secondo, atteso che questa stessa coessenzialita' induce a ritenere che, laddove il premio qualifichi il trattamento penale del reato (come affermato dalla Corte EDU nel caso Scoppola), in detto trattamento debba rientrare anche la possibilita' di accedere al rito che tale trattamento preveda; e, peraltro, si e' gia' accennato che la stessa Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 2297 del 6 marzo 1992, Peccillo + 1, abbia appunto affermato lo stesso principio, riconoscendo come sarebbe stato contrario al principio di divieto retroattivita' del trattamento penale piu' sfavorevole disporre l'annullamento della sentenza emessa in primo grado con giudizio abbreviato (e negare il relativo sconto di pena) all'imputato che al rito avesse acceduto prima della sentenza Corte costituzionale n. 176/1991. Giova a tal proposito ricordare per esteso alcuni passaggi di quella sentenza, per la puntuale ed acuta applicazione svolta dei principi gia' affermati dalla Corte costituzionale, allorche' le Sezioni Unite della Suprema Corte ebbero a statuire che «La diminuzione di un terzo della pena e la sostituzione dell'ergastolo con la reclusione di trenta anni costituiscono trattamenti penali di favore con caratteristiche peculiari, perche' si ricollegano ad un comportamento dell'imputato successivo al reato e di natura processuale, ma secondo queste Sezioni unite la peculiarita' dei trattamenti non rende inoperante il limite di cui si e' detto. E' vero che, nonostante autorevoli opinioni dottrinali in senso diverso, la giurisprudenza di questa Corte e della Corte costituzionale tende ad escludere la riferibilita' dell'art. 25, comma 2 Cost., alle norme processuali, ma nella specie gli aspetti processuali sono strettamente collegati con aspetti sostanziali, perche' tali certamente sono quelli relativi alla diminuzione o alla sostituzione della pena e tali sono stati considerati anche dalla Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 23 del 1992 che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale di varie disposizioni concernenti il giudizio abbreviato, nella parte in cui non consentivano al giudice del dibattimento di verificare se il processo avrebbe potuto essere definito allo stato degli atti e di applicare in caso affermativo la riduzione di pena. Sottrarre al giudice del dibattimento il controllo sulla definibilita' allo stato degli atti avrebbe infatti limitato secondo la Corte costituzionale «in modo irragionevole il diritto di difesa dell'imputato, nell'ulteriore svolgimento del processo, su di un aspetto che ha conseguenze sul piano sostanziale». Non importa stabilire la natura della diminuzione o della sostituzione della pena, importa piuttosto rilevare che essa si risolve indiscutibilmente in un trattamento penale di favore e che ai fini della presente decisione rilevano gli aspetti sostanziali della disposizione concernente tale trattamento, aspetti che sarebbe difficile contestare avendo presente un caso come quello oggetto del presente ricorso nel quale l'adozione del giudizio abbreviato ha determinato una diminuzione di pena di otto anni e sei mesi di reclusione. Ne' secondo queste Sezioni unite puo' rilevare in senso negativo il fatto che il trattamento penale di favore dipenda da un comportamento successivo alla commissione del reato perche' la garanzia dell'art. 25, comma 2 Cost., deve essere intesa nel senso che se la legge ricollega ad una condotta, anche successiva al reato, un trattamento penale non puo' un'eventuale pronuncia di incostituzionalita' di quella legge comportare un trattamento svantaggioso per chi ha tenuto quella condotta.». Tanto si e' ritenuto di dover ricordare, in quanto appare, a parere di questo tribunale, di assoluto rilievo nella corretta applicazione al caso concreto dei principi espressi nella nota sentenza resa dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nel caso «Scoppola», apparendo di fondamentale rilevanza anche la circostanza che, allorche' la vicenda processuale del P. si concluse con sentenza irrevocabile, il rito abbreviato era andato ormai delineandosi come un rito la cui adozione dipendesse dall'esercizio di un diritto potestativo dell'imputato, sottoposto al solo limite ordinario della tempestivita' di fase della relativa richiesta (dovendo di norma essere richiesto entro l'inizio della discussione della udienza preliminare), con assegnazione al giudice del segmento processuale successivo del potere di sindacare la legittimita' o meno dell'atto giurisdizionale impeditivo dell'accesso al rito. Inoltre, come gia' si e' osservato, allorche' il P. commise i primi due dei tre omicidi per cui ha riportato condanna, la disciplina vigente del rito abbreviato consentiva il ricorso al rito abbreviato anche per quegli omicidi aggravati, puniti con la pena dell'ergastolo da sostituirsi, in virtu' della scelta del rito, con quella di anni trenta di reclusione. 7. - La illegittimita' del diniego di giudizio abbreviato in ordine ai primi omicidi. La non manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, quanto all'omicidio commesso in data 20 agosto 1991. Come appare evidente, e riassumendo quanto sinora esposto, la negazione dei benefici del rito abbreviato al P. appare pertanto porsi in contrasto: a) con l'art. 7 CEDU e 25 Cost., nella parte in cui, relativamente ai due omicidi commessi prima della pronunzia della sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale, ha negato all'allora imputato P. l'accesso al rito abbreviato ed al relativo sconto di pena, previsti per i reati da lui commessi all'epoca in cui il P. mise in atto le condotte sanzionate dalla legge; b) con gli articoli 117 (avendo per norma interposta gli articoli 6 e 7 della CEDU), e 3 della Costituzione, nella parte in cui ha posto il P. in una posizione di trattamento deteriore, rispetto a chiunque altri avesse commesso lo stesso tipo di reati a lui ascritti, privandolo dei benefici sostanziali propri del rito abbreviato, pur avendolo egli peraltro tempestivamente richiesto, e negandogli cosi' il diritto ad un processo equo ed all'applicazione del trattamento penale piu' favorevole, per quel che riguarda l'omicidio (e reati satellitari) commesso in data 20 agosto 1991. Non rileva, pertanto, a parere di questo tribunale, la circostanza che la Corte EDU abbia ripetutamente affermato (anche con la sentenza resa nel caso Scoppola contro Italia) la legittimita' e non contrarieta' ai principi della Convenzione del principio «tempus regit actum» in materia processuale, atteso che la stessa Corte ha gia' valutato che il suddetto principio, espressamente invocato peraltro in quella causa dal rappresentante del Governo italiano, non fosse tuttavia applicabile nel caso in oggetto, in cui dalla norma processuale discende in via diretta - e non come risultato eventuale dell'esito positivo o negativo del giudizio - la determinazione di una pena piu' favorevole. Pare poi al Tribunale che, per le ragioni gia' dette, non sia manifestamente infondata la questione relativa alla incostituzionalita' - per contrasto con l'art. 3 Cost. e art. 6 della CEDU, quale norma interposta rispetto all'art. 117 Cost. - della norma transitoria che non rimetteva in termini per chiedere il giudizio abbreviato l'imputato il cui giudizio pendesse davanti alla Suprema Corte. Occorre quindi distinguere la disciplina da applicarsi: a) ai fatti commessi prima della decisione Corte costituzionale 21 aprile 1991: rispetto ad essi si e' avuta, ai sensi dell'art. 7 CEDU come interpretato dalla Corte EDU, applicazione retroattiva di una norma penale sfavorevole, e mancata applicazione retroattiva di una norma penale favorevole poi emanata conformemente a quella previgente. Come gia' si e' detto, si e' di fronte ad un'illegittima negazione del rito abbreviato, sindacabile nel segmento processuale successivo e, come meglio oltre si dira' al paragrafo 8 seguente, appare essere questione risolvibile applicando i principi e le norme gia' esistenti, individuando nel giudice dell'esecuzione l'A.G. competente ratione materiae, atteso che si verte nella fase dell'esecuzione e che non avrebbe senso ne' utilita' alcuna una ricelebrazione del giudizio abbreviato, atteso che la responsabilita' dell'imputato non e' in discussione e cio' che all'A.G. e' pacificamente demandato operare, nel caso di indebito diniego dell'accesso al rito abbreviato, e' solo la diminuzione di pena prevista per detto rito; b) all'omicidio commesso in data 20 agosto 1991, e quindi successivamente alla sentenza 21 aprile 1991, in relazione al quale e' «solo» un problema di mancata applicazione retroattiva della norma penale favorevole sopravvenuta, connessa peraltro alla non accessibilita' del rito in forza di una disposizione interna che non lo ammetteva: trattasi di questione in relazione alla quale si pongono i problemi de: 1) conformita' a CEDU di una eventuale preclusione formale (da giudicato) alla possibilita' di far valere nel diritto interno eventuali violazioni della CEDU; a tal proposito, il tribunale ritiene tuttavia di dover rilevare come la sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Scoppola contro Italia si atteggi alla stregua di un fatto normativo (di rilievo costituzionale ex art. 117 Cost.) sopravvenuto, pur non essendo ovviamente tale in senso stretto; ma, di fatto, prima della pronunzia di tale sentenza, che peraltro fonda l'interpretazione dell'art. 7 della CEDU anche sull'effettivo sopravvenire di norme (tra cui la c.d. «Carta di Nizza», approvata successivamente al formarsi della irrevocabilita' della sentenza di condanna del P.) assunte a parametro di definizione delle «tradizioni costituzionali comuni», sarebbe stata difficilmente sostenibile la non conformita' a costituzione della decisione del g.u.p. - e/o della disciplina da quegli ritenuta applicabile - che negava al P. l'accesso al rito abbreviato in relazioni ai reati di omicidio aggravato contestatigli, ed in particolare in ordine all'omicidio consumato in data 20 agosto 1991; a parere del Tribunale, stante anche la peculiarita' del caso, che altrimenti vedrebbe lo cortina del giudicato calare su di una incostituzionale situazione di trattamento deteriore dell'imputato che, prima dell'irrevocabilita', non sarebbe stata agevolmente sostenibile, si pongono quindi i presupposti per una questione di costituzionalita' prodromica all'applicazione dell'art. 30 comma 4 della legge n. 87 del 1953 («quando in applicazione di una norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali»), attesa la rilevanza che assumono - nello stesso insegnamento della Corte costituzionale - le sentenze della Corte EDU nel definire i contorni di conformita' della normativa nazionale rispetto a quella CEDU; 2) conformita' ad articoli 117 (con riferimento agli articoli 6 e 7 della CEDU) e 3 Cost. - ai fini di un'eventuale riammissione in termini - della norma che non prevedeva la possibilita' di avanzare una richiesta di abbreviato in Cassazione (salvo poi verificare se occorra, riammesso in termini, effettivamente rinnovare il giudizio o procedere in executivis) per poter cosi' usufruire del trattamento sostanziale piu' favorevole introdotto dallo ius superveniens, nonostante che tale rito, come si e' notato, avesse assunto le connotazioni dell'oggetto di un diritto potestativo dell'imputato. Deve poi, a questo proposito, sottolinearsi che nessuna indicazione di senso contrario puo' trarsi dalla sentenza emessa dalla Corte EDU in data 21 aprile 2005 nel c.d. caso Fera, che riguardava il caso di un imputato di reato punibile con l'ergastolo che, chiesto di essere ammesso al rito abbreviato, se l'era visto negare; tuttavia, dall'abstract, si comprende che la ragione del rifiuto non risiedeva nel divieto di giudizio abbreviato per tali casi, e comunque non e' stato questo il profilo preso in considerazione dalla Corte EDU, che in detta occasione neppure affronto' il problema della rilevanza del sopravvenuto mutamento di disciplina del rito abbreviato, con trasformazione dello stesso nell'oggetto di un diritto potestativo dell'imputato; quindi sulla specifica materia posta dal caso del P. non risulta essersi mai pronunziata; in proposito, la decisione della Corte non e' reperibile in lingua italiana, nella quale esiste solo l'«abstract»: «il fatto che il giudice dell'udienza preliminare abbia rifiutato la riduzione del terzo della pena, ritenendo non immotivato il rifiuto del p.m. all'adozione del giudizio abbreviato ex art. 438, comma 1., c.p.p. non viola l'art. 6 paragrafo 1 CEDU. Nella fattispecie, si e' ritenuto che le giurisdizioni nazionali avessero dei motivi ragionevoli per ritenere che non fosse possibile decidere «allo stato degli atti», benche' vi fossero in realta' contestazioni sul punto, considerato l'errore di valutazione commesso dai giudici d'appello e dalla Cassazione nella individuazione del momento in cui il difensore del ricorrente aveva presentato domanda di perizia psichiatrica (all'udienza preliminare invece che dopo l'udienza preliminare). 8. - La rilevanza della questione di incostituzionalita'. - Lo strumento processuale di adeguamento del diritto interno alle disposizioni CEDU nel caso del P. L'incidente di esecuzione. Quanto sopra esposto vale ad individuare ed evidenziare le ragioni della non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalita' dell'art. 4-ter del d.l. n. 82/2000, nella parte in cui non prevedeva la possibilita' di richiedere il giudizio abbreviato all'imputato il cui giudizio - come appunto era nel caso del P. - pendesse in fase di Cassazione. La rilevanza della questione appare evidente, nel senso che solo laddove la Corte costituzionale dichiarasse l'illegittimita' costituzionale di tale norma, sarebbe poi possibile rideterminare la pena da irrogarsi al P. nella misura di trenta anni di reclusione, atteso che, in caso contrario, l'applicazione diretta (ad opera di questo tribunale, in sede esecutiva, come tra breve si dira', e senza necessita' di adire la Corte costituzionale, come si e' gia' detto) della relativa riduzione della pena ai due omicidi commessi prima della sentenza n. 176/1991 della Corte costituzionale, non sortirebbe alcun effetto concreto, atteso che, per le regole in materia di concorso di pene e di reati, il P. dovrebbe comunque e sempre scontare la pena dell'ergastolo con isolamento diurno in relazione all'omicidio commesso in data successiva al 21 aprile 1992, in continuazione con gli altri omicidi, giusta il disposto dell'art. 72 comma 3 c.p. Tuttavia, ritiene il tribunale che potrebbe obiettarsi in ordine alla rilevanza della questione, sotto diverso profilo, e cioe' quello attinente alla supposta incompetenza di questo Tribunale a decidere della questione sottopostagli, laddove volesse opinarsi che non si tratti di materia dell'esecuzione, e che pertanto la decisione della questione sollevata non sarebbe rilevante, nel concreto, in quanto questo tribunale dovrebbe comunque dichiarare la propria incompetenza e non affrontare il merito della decisione. E' invece opinione del collegio che la questione sollevata dal P. sia per l'appunto una questione che in sede esecutiva trova la sede naturale della sua risoluzione, laddove solo si osservi come sarebbe assurda, irragionevole, diseconomica e pertanto iniqua rispetto al diritto ad una pronta decisione ogni altra soluzione (e pertanto in violazione degli articoli 3 e 117 Cost e 6 CEDU) , come quella di rimettere in termini il P. per un nuovo giudizio abbreviato davanti al g.u.p. (soluzione irragionevole e diseconomica, atteso che il P. non richiede ne' abbisogna - a differenza di chi chieda per la prima volta un giudizio abbreviato, cui verrebbe pertanto senza ragione equiparato - di un nuovo giudizio sulla responsabilita' e sulla pena, ma solo di un automatico adeguamento della stessa secondo i criteri dell'art. 442 c.p.p.), o quella di affidare la soluzione del problema ad un giudizio di revisione (di cui non ricorre alcun presupposto, e men che mai la astratta possibilita' di un esito diverso del giudizio di responsabilita', sicche' dell'istituto si farebbe un'applicazione impropria ed atta a ritardare i tempi della decisione), o addirittura ad una pronunzia della Corte EDU sulla sua questione. In ordine alla individuazione dello strumento processuale atto a rimuovere la lesione ai diritti dell'imputato derivanti dal contrasto della norma interna con la norma internazionale, con la sentenza n. 230/2010 dettata proprio nel caso Scoppola dopo la decisione della CEDU, la Corte di Cassazione ha espressamente statuito che, in base ai principi desumibili dal vigente ordinamento, ed in primis anche quello di economia processuale che e' espressione del piu' lato principio costituzionale di cui all'art. 111 Cost. (e convenzionale ex art. 6 CEDU) del diritto ad una statuizione giudiziaria in tempi ragionevoli, sarebbe ben possibile «affidare al giudice dell'esecuzione il compito di sostituire la pena inflitta con la sentenza 10 gennaio 2002 della Corte di assise di appello di Roma e' pienamente conforme alla normativa vigente», pur risolvendosi poi, per ragioni di economia processuale, a dar corso al ricorso straordinario ed in detta sede pronunziando sull'oggetto della causa rideterminando la pena inflitta allo Scoppola. E' successivamente intervenuta la sentenza additiva della Corte costituzionale, che ha introdotto un nuovo caso di giudizio di revisione quale strumento per l'adeguamento della decisione del caso concreto ai principi CEDU come ritenuti da applicarsi dalla Corte EDU. E' bene richiamarne i passaggi, per verificare come dalla pronunzia della Corte costituzionale non si evinca affatto che, anche nel caso in oggetto, lo strumento processuale da utilizzarsi debba essere individuato nel giudizio di revisione. Il tribunale, richiamate le osservazioni svolte dalla Corte costituzionale, e dalla stessa Corte di Cassazione nel caso Dorigo, ritiene che in effetti, accertato dalla CEDU il contrasto tra norma interna e norma pattizia, e comunque ricevuto un inequivoco insegnamento in ordine al significato da assegnarsi alla disposizione pattizia, e stante l'insegnamento della Corte costituzionale sulla incostituzionalita' delle norme interne contrarie alle convenzioni internazionali, e sulla immediata rilevanza interna delle statuizioni della CEDU, debba essere il giudice nazionale a procedere alla ricerca della soluzione maggiormente rispettosa dei diritti costituzionali del condannato, anche in applicazione del principio di ragionevole durata del processo. Va quindi in primo luogo escluso che l'interessato debba necessariamente preventivamente rivolgersi alla Corte EDU, in quanto cio' comporterebbe un capovolgimento dello spirito della convenzione, che vuole detto ricorso come ultima ratio quando gli strumenti interni si siano dimostrati inidonei ad assicurare il soddisfacimento della richiesta dell'interessato. Non e' infatti ragionevole ritenere che la soluzione possa risiedere (e ridursi) nel porre l'istante nella necessita' di rivolgersi alla Corte EDU, come pure si e' ritenuto in talune occasioni da alcuni giudici di merito di questo distretto; ed invero, non solo la logica e l'equita', se non gia' i principi di rispetto del diritto di difesa e della ragionevole durata del processo, impongono di non gravare il cittadino di inutili lungaggini ed adempimenti processuali prima di riconoscere un suo diritto; ma gia' la stessa Corte EDU, e proprio con la richiamata sentenza del caso Scoppola contro Italia, ha avuto modo di chiarire (cfr. punto 68 della decisione), ricordando peraltro una propria precedente reiterata giurisprudenza, che «la regola dell'esaurimento delle vie di ricorso interne si propone di fornire agli Stati contraenti l'opportunita' di prevenire o di correggere le violazioni allegate contro di loro prima che queste le vengano sottoposte ... omissis ... essa costituisce un aspetto importante del principio che vuole che il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione assuma un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela dei diritti dell'uomo», e non mira invece ad imporre al cittadino una inutile e gravosa «via crucis» processuale prima di vedere riconosciuto il proprio diritto. In questa ottica, la Corte EDU ha avuto anche modo di osservare (in quella medesima sentenza del c.d. «caso Scoppola»: cfr. i punti 69 e 70 della decisione) che «la Convenzione prescrive soltanto l'esaurimento dei ricorsi che siano al tempo stesso relativi alle violazioni incriminate, disponibili e adeguati. Essi devono esistere con un sufficiente grado di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, senza che manchino loro l'effettivita' e l'accessibilita' volute», pervenendo quindi ad affermare che «l'art. 35 paragrafo 1 della Convenzione prevede una ripartizione dell'onere della prova. Per quanto riguarda il Governo, quando eccepisce il mancato esaurimento, deve convincere la Corte che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all'epoca dei fatti, ossia che era accessibile, era possibile offrire al ricorrente la correzione di quanto contestato nei suoi motivi di ricorso e presentava ragionevoli prospettive di un esito positivo»; con la conseguenza che la condizione dell'esaurimento delle vie di ricorso interne sia comunque da ravvisarsi allorche', secondo il diritto interno, la proposizione della questione non avrebbe avuto alcuna ragionevole prospettiva di accoglimento. Tanto premesso, appare quindi evidente che il giudice nazionale debba sforzarsi di pervenire egli stesso, in forza della massima estensione interpretativa degli istituti interni, al riconoscimento del diritto derivante dal trattato CEDU. La Corte di Cassazione, con la sentenza emessa nel caso Scoppola dopo la pronunzia della Corte EDU, peraltro, osserva che nulla osta a che a provvedere sia il giudice dell'esecuzione, che anzi appare nel contesto di quella motivazione il giudice naturale della questione (pur avendo la Corte ritenuto di poter, per ragioni di economia processuale, procedere essa stessa nelle forme del ricorso straordinario con cui era stata adita ex art. 625-bis c.p.p.). Negli stessi termini si poneva, sostanzialmente, anche la sentenza C. Cass. Sez. 1^ sent. 1° dicembre 2006 «Dorigo», la quale rilevava la necessita' che il giudice nazionale prestasse ossequio alle decisioni della Corte EDU, senza che la mancanza di uno specifico strumento processuale potesse o dovesse fungere da ostacolo, rinvenendo nell'incidente di esecuzione lo strumento naturale per adeguare la situazione processuale al dettato della Corte (ritenendo, in quel caso, doversi negare efficacia di titolo esecutivo alla sentenza emessa in violazione dei principi di cui all'art. 6 della CEDU). Si noti anche che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113/2011, che come noto ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva, tra le ipotesi di revisione del processo, quella sorgente dalla necessita' di adeguare la decisione del caso concreto a quella assunta dalla CEDU ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, non ha escluso a priori l'idoneita' del procedimento dell'esecuzione, solo osservando che «Al di la' di ogni altra possibile considerazione, il rimedio si rivela, infatti, inadeguato: esso "congela" il giudicato, impedendone l'esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di "limbo processuale". Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilita' non da' risposta all'esigenza primaria: quella, cioe', della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione». Come puo' quindi notarsi, la valutazione di parziale inadeguatezza dell'incidente di esecuzione e' stata espressa dalla Corte con riferimento alle ipotesi di violazione dell'art. 6 della Convenzione, e sotto il profilo che lo strumento dell'incidente di esecuzione si limita a congelare l'esecutivita' della condanna, ma non a rimuoverla, ne' ad assicurare una decisione sul merito assunta in conformita' delle regole della Convenzione (cosi' come, osserva la Corte costituzionale, anche lo strumento del ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis c.p.p., oltre che improprio, vede la propria esperibilita' ed utilita' limitata ai casi in cui la violazione dei principi costituzionali riguardi la sentenza emessa nel giudizio di legittimita'), in quanto non consente la rinnovazione del processo nel rispetto delle garanzie assicurate dalla CEDU e violate nel caso concreto: il che attiene ad un problema affatto diverso da quello che occupa nel presente caso, in cui la «restituito in integrum» (e cioe', l'adozione di una decisione processuale conforme ai principi CEDU, come puntualizzati in via generale dalla giurisprudenza Corte EDU), non richiede una nuova celebrazione del processo, ma solo una rideterminazione della pena secondo i criteri automatici, e scevri da ogni apporto discrezionale del giudice, del rito abbreviato nella sua formulazione storicamente piu' favorevole all'accusato e condannato (in adesione ai principi di irretroattivita' delle disposizioni penali sfavorevoli e di retroattivita' di quelle favorevoli), che comporterebbe di sostituire alla pena dell'ergastolo quella della reclusione per la durata di anni trenta. A tal proposito, osserva il tribunale che, a favore dell'esperibilita' del rimedio dell'incidente di esecuzione nel caso concreto, e quindi della rilevanza della questione di incostituzionalita' sempre nel caso concreto, operano le seguenti considerazioni: a) appartiene ai principi codificati nel vigente c.p.p. quello di economia, che impone di non procedere alla rinnovazione della fase di merito o comunque del giudizio, allorche' la decisione omessa o errata possa essere corretta con modalita' semplificate, in ragione della sua evidenza, non controvertibilita', ed «automaticita'», nel senso cioe' di prescindere dalla necessita' di valutazioni discrezionali: si richiamano a tal proposito l'art. 183 disp. Att. c.p.p., che prevede che, allorche' alla condanna consegua una pena accessoria predeterminata nella specie e nella durata, e di essa si sia omessa la irrogazione col dispositivo della sentenza, vi si possa provvedere ad opera del giudice dell'esecuzione (che, in tal caso, provvede addirittura «de plano», ai sensi del combinato disposto egli articoli 676 e 667, comma 4 c.p.p.); ancora, l'art. 619, comma 2 c.p.p. prevede che, allorche' nella sentenza impugnata si deve soltanto rettificare la specie o la quantita' della pena per errore di denominazione o di computo, la Corte vi provvede direttamente senza pronunziare annullamento con rinvio; b) l'esistenza di un giudicato sulla quantita' della pena non costituisce un limite ai poteri di intervento del Giudice dell'esecuzione: ne sono conferma gli articoli 671 c.p.p. e 188 disp. Att. C.p.p., oltre che gli articoli 130 e 625-bis c.p.p.; c) il limite posto dall'art. 2 comma 4 c.p., con riferimento alle ipotesi in cui occorra applicare, quale ius superveniens rispetto alla formazione della irrevocabilita', una norma prevedente un trattamento penale piu' favorevole quanto alla pena, non riguarda le ipotesi in cui la norma favorevole fosse preesistente al giudicato, ne' l'ipotesi in cui la norma sopravveniente debba ritenersi di rango costituzionale, sia pur mediato dall'art. 117 Cost. (in tal caso, l'art. 2 c.p., andrebbe ritenuto in contrasto, con l'art. 7 della CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte EDU); d) ne' un limite appare rinvenibile nella nota sentenza Corte costituzionale n. 113/2001, la quale ha infatti indicato la via della revisione ex art. 630 c.p.p. quale strumento necessario solo laddove occorra: d.1) adeguarsi ad una pronunzia resa dalla Corte EDU ex par. 46 della Convenzione (e quindi, non gia' fare applicazione, come e' nel presente caso, di un principio della Convenzione per come interpretato dalla Corte in altro giudizio), e d.2) procedere ad un nuova celebrazione del processo quale unico strumento disponibile a rimuovere il pregiudizio patito dal cittadino in violazione delle norme della Convenzione (la Corte ha infatti ricordato che «l'art. 630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio perche' (e nella parte in cui) non contempla un "diverso" caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell'art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo - intesa, quest'ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attivita' gia' espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio - quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo ... . Omissis ... La necessita' della riapertura andra' apprezzata oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (e' di tutta evidenza, cosi', ad esempio, che non dara' comunque luogo a riapertura l'inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attivita' processuali approfondirebbe l'offesa) - tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta ... omissis ...). Ne consegue che, a parere di questo G.E., apparendo fondata l'istanza, appare da escludersi la necessita' del ricorso ad un giudizio di revisione e conseguentemente, esclusa la competenza della Corte di Appello a pronunziarsi sulla relativa richiesta (ove in tali termini si volesse intendere la richiesta formulata a questo G.E.), e debba invece ritenersi fondatamente predicatile la competenza a provvedere da parte del G.E in ordine alla richiesta di procedere - in via diretta o perfino previo apprezzamento della ricorrenza dei presupposti per una rimessione in termini - alla diminuzione di pena prevista dall'art. 442 c.p.p.: e cio' tanto piu' che la stessa Corte costituzionale, con la ricordata sentenza n. 113/2001, ha ricordato che «ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilita' di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione»: ricerca di una soluzione interpretativa che appare doversi estendere anche - dato il contesto in cui la statuizione della Suprema Corte si pone - all'individuazione degli strumenti processuali praticabili per rimuovere il contrasto esistente tra a decisione del caso concreto ed i principi espressi dalla Convenzione EDU. Rimane tuttavia fermo che, quanto all'omicidio commesso in data 20 agosto 1991, il Tribunale non puo' che procedere sollevando questione di incostituzionalita' nei termini di cui alla precedente parte motiva, per le ragioni gia' esposte.
P. Q. M. Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 4-ter d.l. n. 82/2000, convertito nella legge n. 144/2000, per contrasto con gli articoli 3 e 117 della Costituzione (con riferimento agli articoli 6 e 7 della CEDU), nella parte in cui non prevede la riammissione in termini per richiedere il giudizio abbreviato per gli imputati il cui processo penda o pendesse davanti alla Corte di Cassazione; Ordina la notificazione della presente ordinanza al p.m., all'istante ed al suo difensore e al Presidente del Consiglio dei ministri, e la sua comunicazione ai Presidenti dei due rami del Parlamento; Dispone la successiva trasmissione della presente ordinanza e degli atti del procedimento, previe notifiche e comunicazioni di legge, ed unitamente alla prova dell'esecuzione di esse, alla Corte costituzionale. Manda alla Cancelleria per le comunicazioni e gli adempimenti di rito. Lecce, addi' 20 marzo 2012 Il presidente estensore: Sernia