N. 52 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 gennaio 2013

Ordinanza del 23 gennaio 2013 emessa  dal  G.I.P.  del  Tribunale  di
Trapani nel procedimento penale a carico di C.T.. 
 
Mafia - Misure di prevenzione di carattere patrimoniale -  Condannati
  per associazione  di  stampo  mafioso  o  sottoposti  a  misure  di
  prevenzione indiziati  di  appartenenza  ad  associazioni  di  tipo
  mafioso - Omissione dell'obbligo  di  comunicazione  di  variazione
  patrimoniale - Trattamento sanzionatorio - Previsione di un  minimo
  edittale della reclusione di anni due e della multa di euro 10.329,
  nonche' della confisca  obbligatoria  del  bene  acquistato  o  del
  corrispettivo  per  l'alienazione  -  Violazione  dei  principi  di
  uguaglianza e di ragionevolezza, a  fronte  della  configurabilita'
  del delitto, secondo il diritto vivente, anche  quando  l'omissione
  riguardi operazioni immobiliari effettuate mediante atti pubblici e
  della previsione della medesima pena detentiva nel  minimo  (e  nel
  massimo) del reato di fraudolenta intestazione o  trasferimento  di
  valori - Violazione del principio della finalita' rieducativa della
  pena - Lesione del diritto di proprieta'. 
- Legge 13 settembre 1982, n.  646,  art.  31,  recepito,  in  parte,
  dall'art. 76, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n.
  159. 
- Costituzione, artt. 3, 27 e 42. 
(GU n.12 del 20-3-2013 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Ha emesso la  seguente  ordinanza,  nel  procedimento  penale  n.
2662/12 R. G.I.P., pendente nella fase del  giudizio  abbreviato  nei
confronti di C.T., imputato del reato previsto dagli artt.  30  e  31
della legge n. 646/82. 
    Il Giudice, rilevato che in data 5 ottobre  2012  il  Procuratore
della Repubblica di Trapani esercitava l'azione penale nei  confronti
di C.T., contestando allo stesso il reato di cui agli artt. 30  e  31
della legge n. 646/82 e che all'udienza  preliminare  del  giorno  21
dicembre  scorso  il  difensore  procuratore  speciale  chiedeva   la
celebrazione del rito abbreviato; 
        che il processo e' stato rinviato all'udienza odierna per  la
discussione; 
        che risulta dagli atti, e non e' posto in  discussione  dalla
difesa, quanto segue. 
    In data 20 aprile  2006  il  Tribunale  di  Trapani  emetteva  il
decreto n. 26/06 MP, con il quale sottoponeva il predetto C., su  cui
gravavano indizi  di  appartenenza  alla  consorteria  mafiosa,  alla
misura di prevenzione della  sorveglianza  speciale  con  obbligo  di
soggiorno per la durata di anni quattro,  ai  sensi  della  legge  n.
575/65. 
    Il suddetto decreto diveniva definitivo il  successivo  13  marzo
del 2007. 
    Da accertamenti compiuti dalla Guardia di Finanza emergeva che in
data  28  dicembre  2012,  e  dunque   in   epoca   successiva   alla
definitivita'  del  decreto  di  sottoposizione   alla   sorveglianza
speciale, il C., a mezzo del proprio procuratore Fiordilino  Onofrio,
nominato con regolare atto notarile al fine di amministrare l'impresa
individuale dell'odierno imputato, sottoposto a custodia cautelare in
carcere per il reato di cui all'art. 416-bis CP, aveva venduto ad  un
privato un fabbricato (di legittima provenienza) per un  controvalore
di € 480.000,00. 
    Il suddetto negozio giuridico  veniva  regolarmente  stipulato  a
mezzo di atto pubblico, rogato da un notaio, e ne' il C.  (detenuto),
ne' l'institore davano comunicazione nei trenta giorni  successivi  e
comunque entro il 31 gennaio dell'anno successivo, della  intervenuta
variazione  dell'entita'  patrimoniale,  determinata   dall'atto   di
compravendita; 
    che per tali fatti e per la ritenuta violazione degli artt. 30  e
31 della legge n. 646/82, il PM ha  esercitato  l'azione  penale  nei
termini sopra esposti; 
 
                               Osserva 
 
    Come e' noto, gli artt. 30 e 31 della legge  n.  646/82,  vennero
introdotti  come  strumenti  normativi  di  presidio   avanzato   nei
confronti di soggetti che, per la  loro  accertata  partecipazione  a
consorterie criminali sanzionate dall'art. 416-bis del codice penale,
o per la sottoposizione ad una misura di prevenzione ai  sensi  della
legge n. 575/65, in quanto indiziate di  appartenenza  ad  una  delle
associazioni previste dall'art. 1 del medesimo  complesso  normativo,
sono da ritenere pericolosi per  la  collettivita'  e  sui  quali  e'
opportuno esercitare un'attivita' di  monitoraggio,  anche  in  epoca
successiva  al  passaggio  in  giudicato  della   sentenza   o   alla
definitivita'  del  decreto,  con  riferimento  sia  alle   eventuali
variazioni patrimoniali, che alla composizione del patrimonio stesso. 
    L'art. 30, norma essenzialmente precettiva,  impone  ai  soggetti
che si trovino nelle descritte condizioni, di comunicare, nel termine
di  dieci  anni  dalla   definitivita'   dei   citati   provvedimenti
giurisdizionali  (sentenza  e/o  decreto),  tutte  le   vicende   che
comportino dette variazioni di  importo  non  inferiore  a  10.329,14
euro, individuando sia un termine con  riferimento  al  singolo  atto
dispositivo - trenta giorni -, sia un termine riferito  al  complesso
degli atti dispositivi  compiti  nell'anno  solare,  fissato  nel  31
gennaio dell'anno successivo. 
    L'art. 31 prevede la pena detentiva della reclusione da due a sei
anni e pecuniaria della multa da € 10.329  a  €  20.658,  alla  quale
segue la confisca obbligatoria dei beni a qualunque titolo acquistati
o del corrispettivo proveniente dall'atto di disposizione. 
    Il quadro normativa  di  riferimento,  anche  in  relazione  alla
questione di costituzionalita' che in questa sede si solleva, risulta
essere  stato  frammentato  dalla  entrata  in  vigore  del   decreto
legislativo  n.  159/11  che,  pur  caratterizzato  da  una  funzione
generalmente   ricognitiva   e   di   coordinamento   delle   diverse
disposizioni di legge contro la mafia e la criminalita'  organizzata,
ha tuttavia scisso la fattispecie originaria prevista dalle due norme
indicate in oggetto, recependo  agli  artt.  76  comma  7°  e  80  le
disposizioni sanzionatorie  e  precettive  rispettivamente  contenute
negli artt. 31 e 30 della legge n. 646/82,  seppur  limitatamente  ai
soggetti sottoposti a  misure  di  prevenzione,  lasciando  in  vita,
dunque, come espressamente disposto dall'art. 80 del  citato  decreto
legislativo,  l'art.  30  (e  di  conseguenza   la   relativa   norma
sanzionatoria contenuta nell'art. 31),  con  riguardo  agli  obblighi
imposti ai soggetti condannati con sentenza definitiva  per  i  reati
ivi indicati. 
    A tal proposito, va detto dell'ulteriore modifica introdotta  nel
complesso normativo di riferimento dalla legge delega n.  136/10  del
suddetto decreto legislativo, il cui art. 7, comma 6° lett. B)  aveva
sostituito il primo comma dell'art. 30  della  legge  n.  646/82,  ed
inserito tra i soggetti gravati dall'obbligo di  comunicazione  delle
variazioni patrimoniali, anche i condannati in via definitiva per uno
dei delitti previsti dall'art. 51 comma 3-bis del codice di procedura
penale e per il reato  di  cui  all'art.  12-quinquies  del  d.l.  n.
306/92; ed  inoltre,  novellando  l'art.  31,  previsto  la  confisca
(obbligatoria) per equivalente, nel caso di impossibile ricorso  alla
confisca del bene acquistato o del corrispettivo di quello venduto. 
    Fatta per chiarezza espositiva tale debita premessa, deve  subito
rilevarsi che i dubbi di costituzionalita' che questo Giudice intende
rimettere al vaglio del Giudice delle Leggi riguardano  il  contenuto
dell'art. 31 della legge n. 646/82, applicabile al caso di specie  in
quanto i fatti si verificarono prima  sia  della  novella  introdotta
dalla legge delega del 2010, sia dell'entrata in vigore  del  decreto
legislativo  n.  159/11;  e   che   tali   dubbi   si   trasferiscono
automaticamente sugli artt. 76 comma 7° del  decreto  legislativo  n.
159/11,  che,  come  si  e'   detto,   ha   integralmente   recepito,
limitatamente ai sorvegliati speciali, il contenuto dell'art. 31. 
    Ritiene questo giudice non manifestamente infondata la  questione
di costituzionalita' dell'art. 31 della  legge  n.  646/82  (oggi  76
comma 7° del d.lgs. n. 159/11), per violazione degli artt. 3,  42,  e
27 della Costituzione, nella parte in cui prevede il minimo  edittale
della reclusione di anni due e della multa di € 10.329 ed  in  quella
in cui prevede la confisca obbligatoria del  bene  acquistato  o  del
corrispettivo per l'alienazione. 
    Deve preliminarmente osservarsi che il decidente  non  ignora  il
fatto che codesta Corte e' stata piu' volte chiamata  a  pronunciarsi
sulla costituzionalita' degli artt. 30 e 31 della legge n. 646/82, in
alcuni casi proprio su richiesta di giudici di merito appartenenti al
medesimo ufficio giudiziario dello scrivente giudice, e che  in  tali
occasioni  fu  sempre  ritenuta  la  manifesta   infondatezza   delle
questioni sollevate (cfr. ordinanze della  Corte  costituzionale  nn.
442/01, 143 e 362/02). 
    In  quelle  circostanze  il   sospetto   di   incostituzionalita'
rappresentato dai giudici a quo, riguardante sia  l'intera  esistenza
del  precetto  che,  ovviamente,   quella   della   sanzione,   venne
sostanzialmente  ricusato  dai  Giudice  delle  Leggi   con   diverse
decisioni, aventi tuttavia due  comuni  denominatori:  per  un  verso
venne in  quelle  ordinanze  evidenziato  il  fatto  che  la  dedotta
irragionevolezza del  sistema,  appariva  frutto  di  una  soggettiva
valutazione  dei  remittenti  e  non  ancorata  a  cogenti  parametri
costituzionali;  e   che,   pertanto,   cosi   concepita,   non   era
individuabile alcuna violazione di  principi  contenuti  nella  Carta
fondamentale, essendo rimessa alla discrezionalita'  del  legislatore
la configurabilita' degli illeciti penali e le relative sanzioni. 
    Per altro verso la rilevata  iniquita'  della  sanzione  (pena  e
confisca) riferita a violazioni meramente formali,  di  per  se'  non
necessariamente indicative di intenti dissimulatori,  avrebbe  potuto
in concreto essere evitata, secondo la  Corte  costituzionale,  dalla
giurisprudenza    che,    secondo    una    lettura    delle    norme
costituzionalmente orientata, avrebbe dovuto escludere la sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato nei casi  in  cui  la  pubblicita'
dell'atto fosse comunque assicurata  e,  conseguentemente,  apparisse
impossibile l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione. 
    Senonche', quanto al secondo punto, proprio negli anni successivi
alle decisioni  della  Corte  costituzionale  si  e'  definitivamente
imposto l'indirizzo della Suprema Corte  di  cassazione,  secondo  il
quale il delitto di cui agli artt. 30 e 31 della legge n.  646/82  e'
configurabile   anche   quando   l'omissione   riguardi    operazioni
immobiliari  (o  altri  negozi  giuridici  di  natura   patrimoniale)
effettuate mediante atti pubblici, trattandosi di una fattispecie  di
pericolo  presunto,  avente  non  solo  la  finalita'  specifica   di
consentire   all'amministrazione   finanziaria   di   conoscere   con
immediatezza  il  dato  sensibile,  ma  anche   quella   di   rendere
obbligatoria  per  l'amministrazione  una  verifica  altrimenti  solo
eventuale (in tal senso  da  ultimo  Sez.  1°  23213/010,  10432/010,
12433/09 e numerose altre). 
    Dunque, l'interpretazione della norma suggerita dal Giudice delle
Leggi, cui per la  verita'  aveva  aderito  qualche  decisione  della
Suprema Corte dell'epoca, non e' stata successivamente fatta  propria
da quello di Legittimita',  che  ormai  con  giurisprudenza  costante
ritiene la punibilita' di chi, trovandosi nelle condizioni soggettive
previste  da  tale  norma,  non  abbia  effettuato  le  comunicazioni
previste dall'art. 30 della legge n. 646/82,  pur  avendo  venduto  o
acquistato un bene, o stipulato un mutuo per atto pubblico, rogato da
un  notaio,  comunicato  per   legge   all'agenzia   delle   Entrate,
articolazione, questa, collegata con la Guardia di Finanza attraverso
il sistema informatico SERPICO, grazie al quale in qualsiasi  momento
la polizia tributaria, digitando un nome, e' in  grado  di  conoscere
tutti i movimenti finanziari di un soggetto sottoposto  a  misura  di
prevenzione, anche in attuazione  del  disposto  dell'art.  25  della
legge 646/82, come modificato dall'art. 7 commi 1/6  della  legge  n.
136/2010. 
    Alcune recenti statuizioni del Giudice di  Legittimita'  giungono
persino a negare che l'ignoranza dell'obbligo di comunicazione  possa
avere l'effetto di escludera' il dolo,  posto  che  l'art.  30  della
legge n. 646/82, che impone tale obbligo, integra il precetto penale,
essendo irrilevante la sua mancata conoscenza (Sez. 6° n. 33590/12). 
    Accertato, quindi, che secondo il diritto vivente, la fattispecie
penale prevista dagli artt. 30 e  31  della  legge  n.  646/82  viene
applicata, e  dunque  ha  efficacia  nell'ordinamento  giuridico,  in
termini molto piu' restrittivi  di  quelli  suggeriti  dai  pregressi
interventi interpretativi della Corte costituzionale, va detto  della
irragionevolezza della pena principale e della confisca obbligatoria,
che a parere di  questo  remittente  non  e'  frutto  di  valutazioni
interpretative soggettive, ma, al contrario, nel caso di  specie,  si
pone in contrasto a precisi parametri costituzionali, e  precisamente
a quelli previsti dagli artt. 3, 42, e 27 della Costituzione. 
    Il possibile contrasto con l'art. 3 della Carta costituzionale, e
dunque del principio di eguaglianza e  di  quello  di  ragionevolezza
inteso come canone  di  coerenza  dell'ordinamento  giuridico,  va  a
parere di questo giudice individuato nella sproporzione con la  quale
l'illecito viene sanzionato ed in  particolar  modo  nella  eccessiva
pena minima - detentiva e pecuniaria -  fissata  dall'art.  31  della
legge n. 646/82 (e dall'art. 76 comma 7° del d.lgs.  n.  159/11);  ed
inoltre nella obbligatorieta' della confisca dei  beni  acquistati  o
del corrispettivo di quelli alienati. 
    Non puo' in questa  sede  omettersi  di  rilevare  che  la  norma
impugnata non sanziona in alcun modo la sospetta provenienza del bene
(in molti casi si tratta di beni o denaro di cui e'  stata  accertata
la  legittima  provenienza  e,  dunque,  sfuggiti  alla   misura   di
prevenzione patrimoniale), ma punisce una mera omissione formale - la
mancata  comunicazione  dell'operazione  nel  termine   previsto   -,
prescindendo,  alla  luce   della   giurisprudenza   oggi   costante,
dall'intento dissimulatorio, in quanto la pesante sanzione si abbatte
anche  nei  confronti  di  chi  ha  concluso  l'operazione  per  atto
pubblico, comunicato  immediatamente  alla  medesima  amministrazione
della quale fa parte la Guardia di Finanza (con la quale, come detto,
l'Agenzia delle Entrate e' in costante contatto attraverso il sistema
informatico SERPICO, non esistente al momento dell'introduzione della
disposizione in argomento). 
    Non e' ovviamente il caso di porre in discussione la  facolta'  e
la conseguente potesta' del legislatore  di  imporre  normativamente,
per questioni di carattere socialpreventivo e di  tutela  dell'ordine
pubblico,  la   comunicazione   ad   un   Nucleo   specializzato   di
investigatori delle  operazioni  sopra  soglia  poste  in  essere  da
soggetti dei quali sia stata accertata  la  pericolosita';  tuttavia,
pare difficilmente compatibile con il  principio  di  eguaglianza  la
creazione di un sistema irragionevole, nel quale la violazione di  un
obbligo meramente formale viene sanzionata con una pena  detentiva  e
pecuniaria  fissata  nel  minimo  in  due  anni  di   reclusione   ed
€ 10.329,00 di multa, e soprattutto con la confisca  obbligatoria  di
beni  o  valori  di  provenienza  legittima,  e,   dunque,   con   un
provvedimento ablatorio pesantemente, anzi massimamente incisivo  sul
diritto di proprieta' costituzionalmente garantito. 
    E non pare proprio che la dedotta irragionevolezza sia il  frutto
di una mera convinzione soggettiva del giudice remittente, posto  che
la norma impugnata sanziona un comportamento, che spesso  come  detto
non ha alcuna portata dissimulatone,  essendo  l'operazione  conclusa
per atto pubblico, con la medesima pena detentiva nel minimo  (e  nel
massimo),  prevista  per  il  reato  di  fraudolenta  intestazione  o
trasferimento di valori al fine di eludere la  legge  in  materia  di
misure di prevenzione o di commettere uno dei reati di cui agli artt.
648, 648-bis e 648-ter CP (art.  12-quinquies  del  decreto-legge  n.
306/92); ed anzi in modo piu' grave, in quanto l'art. 31 prevede  una
pena pecuniaria, non prevista dall'art. 12-quinquies. 
    Quindi, in definitiva, un soggetto che puo' avere gia' espiato la
pena o scontato interamente  il  periodo  di  sottoposizione  ad  una
misura di prevenzione e  che  vende  o  acquista  un  bene  per  atto
pubblico  e,  dunque,  automaticamente  comunica  all'amministrazione
finanziaria l'esistenza dell'operazione omettendo  di  darne  notizia
anche alla Guardia di Finanza, e' sanzionato con una pena fissata nel
minimo in misura pari a colui il quale per sfuggire  all'applicazione
di una misura di prevenzione o per agevolare la commissione di alcuni
gravi reati, trasferisce o intesta fittiziamente a terzi beni o altre
utilita'. 
    Ed e' inoltre soggetto alla confisca obbligatoria, a  prescindere
da  qualsiasi  valutazione  sulla  gravita'  del  suo  comportamento,
soprattutto   alla   luce   dell'ormai    consolidato    orientamento
giurisprudenziale  che  ritiene  ininfluente  ai  fini  dell'elemento
soggettivo  il  compimento  dell'operazione  per  atto  pubblico   ed
irrilevante anche la mancata conoscenza dell'obbligo di comunicazione
al Nucleo di Polizia Tributaria. 
    D'altra parte, la Corte costituzionale ha piu' volte  rivendicato
il compito di verificare che il legislatore, nell'esercizio dei  suoi
ampi  margini  di  discrezionalita',   rispetti   il   limite   della
ragionevolezza. 
    Lo ha fatto con la sentenza n. 409/89, laddove  ha  chiarito  che
«... il principio di uguaglianza, di cui  all'art.  3,  primo  comma,
Cost., esige che la pena sia proporzionata  al  disvalore  del  fatto
illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio  adempia  nel
contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela  delle
posizioni  individuali;  ...  le  valutazioni   all'uopo   necessarie
rientrano nell'ambito del potere discrezionale  del  legislatore,  il
cui  esercizio  puo'  essere  censurato,  sotto  il   profilo   della
legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non  sia  stato
rispettato il limite della  ragionevolezza»  (v.  pure  nello  stesso
senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). 
    Lo ha fatto, soprattutto, con la sentenza n. 341/94, con la quale
ha dichiarato  l'incostituzionalita'  dell'allora  vigente  reato  di
oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 C.P.), nella  parte  in  cui
prevedeva il minimo edittale della pena  detentiva  in  mesi  sei  di
reclusione. 
    Con detta decisione la Corte, richiamata  nuovamente  la  propria
potesta'  di  vagliare  la  ragionevolezza  e   la   coerenza   della
discrezionalita' del legislatore nel  processo  di  formazione  della
disciplina  penale,  ritenne  che  l'art.  341  del   codice   penale
prevedesse un minimo di pena (sei mesi di reclusione)  eccessivamente
alto, sia con  riferimento  alla  coscienza  sociale  maturata  nella
collettivita',  sia  con  riferimento  al  trattamento  sanzionatorio
estremamente piu' mite previsto per l'affine reato di ingiuria. 
    E specifico' che la dichiarazione  di  incostituzionalita'  della
norma allora oggetto di sindacato, nella parte in  cui  prevedeva  il
minimo edittale di mesi sei di reclusione, non avrebbe  creato  alcun
vulnus alla integrita' dell'ordinamento penale, posto che il  giudice
avrebbe a quel punto dovuto individuare il minimo edittale  nell'art.
23 del codice penale, norma generale che fissa in giorni quindici  il
minimo della pena della reclusione . 
    Anche nel caso che qui ci  riguarda,  dunque,  qualora  la  Corte
adita dovesse accogliere la questione di costituzionalita'  dell'art.
31  della  legge  n.   646/92,   si   potrebbe   fare   ricorso   per
l'individuazione del minimo edittale di pena agli artt. 23 e  24  del
codice penale. 
    Analogo discorso  va  fatto  per  la  previsione  della  confisca
obbligatoria, che si ritiene possa violare,  oltre  l'art.  3  per  i
motivi suddetti, anche l'art. 42 della Costituzione. 
    L'imporre ai giudice il provvedimento ablatorio, anche  nei  casi
in  cui  (e  sono  di  gran  lunga  i  piu'  frequenti)  l'operazione
patrimoniale su un bene di provenienza lecita  sia  stata  effettuata
per atto pubblico e dunque comunicata all'Agenzia delle Entrate, cio'
che consente  come  detto  alla  Guardia  di  Finanza  di  verificare
immediatamente l'esistenza della relativa operazione,  impedisce  una
adeguata graduazione della risposta statuale all'effettivo  disvalore
della  condotta,  ancorando  ad  una  mera  violazione  formale   una
eccessiva  compressione  del  diritto  di  proprieta',  anche  questo
costituzionalmente garantito  dall'art.  42  della  Costituzione,  in
assenza di qualsiasi rilievo di pericolosita' intrinseca del bene. 
    Come gia' evidenziato questo Giudice ritiene  non  manifestamente
infondata la questione di  costituzionalita'  della  norma  impugnata
anche con riferimento all'art. 27 comma 3° della Costituzione. 
    La norma richiamata precisa  che  le  pene  devono  tendere  alla
rieducazione  del  condannato  e  tale  principio,   implicando   una
necessaria proporzione tra disvalore del fatto e sanzione, impone  al
legislatore di evitare la previsione di sanzioni che possano incidere
negativamente sulla finalita' rieducativa della pena. 
    Quanto, viceversa, la pena e la  confisca  obbligatoria  previste
dall'art. 31 della  legge  n.  646/42  possano  essere  contrarie  al
principio  di   emenda   e'   dato   agevolmente   ricavabile   dalla
constatazione che non raramente tali  pesanti  sanzioni  incidono  su
soggetti che hanno finito di scontare la loro pena, e talvolta  anche
il periodo di sottoposizione alla misura  di  prevenzione,  e  che  a
distanza di parecchi anni, magari  intenti  a  costruirsi  una  nuova
vita, vengono pesantemente colpiti nella  liberta'  personale  e  nel
patrimonio (lecito)  per  un  comportamento  di  mera  disobbedienza,
quando non per una dimenticanza o per mera ignoranza del precetto (si
pensi che di solito tale obbligo non e' riportato tra quelli posti in
calce al provvedimento di  prevenzione),  allontanando  ulteriormente
tali soggetti da un gia' difficile percorso di recupero sociale. 
    E cio', come detto, a prescindere dal rilievo  di  una  effettiva
pericolosita' della condotta tenuta. 
    Per concludere va rilevato come  non  debba  apparire  strano  il
fatto che le richieste di vaglio costituzionale di' tale norma  siano
a piu' riprese provenute  da  uffici  giudiziari  siciliani,  ma,  al
contrario, come tale fenomeno  debba  essere  ritenuto  collegato  al
fatto  che  sovente  proprio  i  giudici  di  merito  chiamati   piu'
frequentemente a giudicare su tali  condotte,  anche  alla  luce  dei
rigidi   criteri    interpretativi    fissati    dalla    consolidata
giurisprudenza di legittimita', si trovino a dovere irrogare sanzioni
detentive, pecuniarie ed ablatorie che confliggono con  il  principio
di equita' e di emenda, in presenza di comportamenti di  fatto  privi
di reale danno o pericolosita' sociale. 
    Cio' posto, le questioni dedotte appaiono di  assoluta  rilevanza
nel processo in argomento, in quanto, come detto in premessa, il  C.,
soggetto  sottoposto  alla  sorveglianza  speciale  con  obbligo   di
soggiorno per la durata di anni quattro, con  provvedimento  divenuto
definitivo il 13 marzo del 2007, ha ceduto un  fabbricato  di  lecita
provenienza per  atto  pubblico,  regolarmente  registrato  e  dunque
agevolmente  conoscibile  dalla  Guardia  di  Finanza,  che  effettua
controlli periodici sui sorvegliati speciali ai  sensi  dell'art.  25
della legge n. 646/82, disposizione parzialmente  recepita  dall'art.
79 del d.lgs. n. 159/11, e, non avendo dato comunicazione nel termine
previsto di tale operazione al Nucleo di Polizia Tributaria, si trova
esposto, in assenza di elementi che possano  far  ritenere  l'assenza
dell'elemento soggettivo, anche in  considerazione  dell'orientamento
costante assunto a tal proposito dal Giudice di Legittimita', ad  una
sanzione detentiva e pecuniaria eccessiva nel minimo edittale ed alla
confisca obbligatoria del tantundem; e cio' nulla  avendo  fatto  per
dissimulare il negozio giuridico patrimoniale di cui sopra. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/53; 
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
costituzionalita' dell'art. 31 della legge n. 646/82,  oggi  recepito
in parte nell'art. 76 comma 7° del decreto legislativo n. 159/11, per
violazione degli artt. 3, 42 e 27 della Costituzione, nella parte  in
cui prevede il minimo edittale della reclusione di anni due  e  della
multa  di  € 10.329  ed  in  quella  in  cui  prevede   la   confisca
obbligatoria  dei   bene   acquistato   o   del   corrispettivo   per
l'alienazione. 
    Dispone  la  sospensione  del  procedimento   n.   2262/12   GIP,
attualmente nella fase del giudizio abbreviato, ed ordina l'immediata
trasmissione  degli  atti  alla  Corte   costituzionale,   ordinando,
altresi', che a cura della  Cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e  comunicata  ai
presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Ordinanza letta all'udienza del 23 gennaio  2013  che  vale  come
notifica al PM ed al difensore dell'imputato. 
        Trapani, 23 gennaio 2013 
 
                          Il G.U.P.: Corleo