N. 6 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 5 marzo 2013
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato in cancelleria il 5 marzo 2013. Parlamento - Immunita' parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico del senatore Raffaele Iannuzzi per le opinioni da questi espresse nei confronti del magistrato Guido Lo Forte - Deliberazione di insindacabilita' del Senato della Repubblica - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, sez. V penale - Denunciata mancanza di nesso funzionale tra le opinioni espresse e l'esercizio dell'attivita' parlamentare. - Deliberazione del Senato della Repubblica del 3 agosto 2010. - Costituzione, art. 68, primo comma.(GU n.17 del 24-4-2013 )
IL TRIBUNALE Nel procedimento penale n. 36253/08 P.M.RN.R. e n. 27180/10 Registro Generale a carico di: Iannuzzi Raffaele, nato a Grottolella (AV) il 20 febbraio 1928, domiciliato in Roma in via Giovan Battista De Rossi n. 32, presso lo studio dell'avvocato Grazia Volo, difeso di fiducia dall'avvocato Grazia Volo e dall'avvocato Dando Romagnino; Imputato per il delitto p. e p.: a) artt. 595 1°, 2°, e 3° co. c.p., 13 L. 47/48, 61 n. 10 c.p. perche' in qualita' di autore del libro intitolato «Lo sbirro e lo Stato» edizioni Koine' 2008, da intendersi qui trascritto, offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti determinati, la reputazione di Lo Forte Guido, magistrato gia' in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di Procuratore Aggiunto a causa dell'adempimento delle sue funzioni; in particolare, redigendo l'opera predetta: riproponeva i contenuti diffamatori dell'articolo pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato «Mafia: 13 anni di scontri tra PM e Carabinieri» nel quale si ricostruivano vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni il Lo Forte, indicandole come conseguenza o comunque espressione di una guerra promossa dalla Procura di Palermo contro il R.O.S. dei Carabinieri per delegittimare importanti esponenti dell'Arma, con finalita' diverse da quella istituzionale; affermava, sempre con riferimento all'attivita' della Procura di Palermo e quindi del Lo Forte; che «Bruno Contrada non e' il solo poliziotto, il solo servitore dello Stato perseguito e incriminato dai professionisti dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f.76); che «e' stato cosi per il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, il piu' fidato collaboratore del giudice Paolo Borsellino, che lo chiamava fratello, e che e' stato perseguitato e processato per anni soltanto perche' difendeva la memoria del M.llo Lombardo» (f. 76); che «e cosi e' stato per il Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che aveva avuto il torto di denunciare la fuga di notizie dalla Procura di' Palermo dell'inchiesta sulla mafia e sugli appalti» (f.76); che «e cosi il Maggiore Obinu che voleva riportare in Italia dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per testimoniare contro le false accuse mosse contro a Giulio Andreotti» (f.77); che «e cosi per il Colonnello Meli, che comandava il Gruppo dei Carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il pentito Baldassare Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura di Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando i suoi nemici» (f.77); che «e per il capitano Sergio Di Caprio, il leggendario capitano Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina, ed e' stato perseguito per anni e processato con l'accusa di non aver perquisito in tempo il covo di Riina per complicita' con la mafia» (f. 77); che «e con lui hanno perseguitato per anni e hanno processato il Generale Mario Mori, comandante dei R.O.S. e poi comandante del SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); che «e non contenti di una persecuzione che dura da 15 anni, nonostante che alla fine il Generale Mori e' stato assolto, assieme a Di Caprio, con la formula piena, i professionisti dell'Antimafia si apprestano a riprocessare Mori con l'accusa di non aver voluto arrestare Bernardo Provenzano, il Carabiniere che ha arrestato Toto Riina, sara' infamato ancora per anni e processato per non aver arrestato Provenzano» (f. 77); che «questi pentiti che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il magistrato suddetto era un «professionista dell'antimafia» la cui attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita' e ad intenti persecutori, comunque ispirata da finalita' illecite attuate mediante comportamenti devianti. In Roma nel febbraio 2008, querela del 12 luglio 2008. b) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48, 61 n.10 c.p. perche', in qualita' di autore del libre intitolato «Lo sbirro e lo Stato» edizioni Koine' 2008, da intendersi qui trascritte, offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti determinati, la reputazione di Caselli Giancarlo, magistrato gia' in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di Procuratore, a causa dell'adempimento delle sue funzioni; in particolare, redigendo l'opera predetta: riproponeva i contenuti diffamatori dell'articolo pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato «Mafia: 13 anni di scontri tra PM e Carabinieri» nel quale si ricostruivano vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni il Caselli, indicandole come conseguenza e comunque espressione di una guerra promossa dalla Procura di Palermo contro il R.O.S. dei Carabinieri per delegittimare importanti esponenti dell'Arma, con finalita' diverse da quelle della funzione istituzionale; affermava, sempre con riferimento all'attivita' della Procura di Palermo, e quindi del Caselli: che «Bruno Contrada non e' il solo poliziotto, il solo servitore dello Stato perseguito e incriminato dai professionisti dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f. 76); che «e' stato cosi per il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, il piu' fidato collaboratore del giudice Paolo Borsellino, che lo chiamava fratello, e che e' stato perseguitato e processato per anni soltanto perche' difendeva la memoria del M.llo Lombardo» (f. 76); che «cosi e' stato per il Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donna, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che aveva avuto il torto di denunciare la fuga di notizie dalla Procura di Palermo dell'inchiesta sulla mafia e sugli appalti» (f. 76); che «e' cosi il Maggiore Obinu che voleva riportare in Italia dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per testimoniare contro le false accuse mosse contro Giulio Andreotti» (f. 77); che «e' cosi per il Colonnello Meli, che comandava il Gruppo dei Carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il pentito Baldassare Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura di Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando i suoi nemici» (f. 77); che «e per il capitano Sergio Di Caprio, il leggendario capitano Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina, ed e' stato perseguito per anni e processato con l'accusa di non aver perquisito in tempo il covo di Riina per complicita' con la mafia» (f. 77); che «e con lui hanno perseguitato per anni e hanno processato il Generale Mario Mori, comandante dei R.O.S. e poi comandante del SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); che «e non contenti di una persecuzione che dura da 15 anni, nonostante che alla fine il Generale Mori e' stato assolto, assieme a Di Caprio, con la formula piena, i professionisti dell'Antimafia si apprestano a riprocessare Mori con l'accusa di non aver voluto arrestare Bernardo Provenzano, il Carabiniere che ha arrestata Toto Riina, sara' infamato ancora per anni e processato per non aver arrestato Provenzano» (f. 77); che «questi pentiti che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); che il Caselli sarebbe stato «spedito in fretta da Torino a Palermo giusto in tempo per processare Contrada, Andreotti, Carnevale e compagnia cantante ...Caselli che ci fa la figura del tonto della compagnia» (ff. 42 e 43); sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il magistrato suddetto era un «professionista dell'antimafia» la cui attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita' e ad intenti persecutori, comunque ispirata da finalita' illecite attuate mediante comportamenti devianti. In Roma febbraio 2008, querela del 17 luglio 2008. c) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48, 61 n. 10 c.p., perche', in qualita' di autore del libro intitolato «Lo sbirro e lo Stato» edizioni Koine' 2008, da intendersi qui trascritte, offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti determinati, la reputazione di De Francisci Ignazio, magistrato gia' in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' Sostituto Procuratore, a causa dell'adempimento delle sue funzioni; in particolare, redigendo l'opera predetta: riproponeva i contenuti diffamatori dell'articolo pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato «Mafia: 13 anni di scontri tra PM e Carabinieri» nel quale si ricostruivano vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni il De Francisci, indicandole come conseguenza o comunque espressione di una guerra promossa dalla Procura di Palermo contro il R.O.S. dei Carabinieri per delegittimare importanti esponenti dell'Arma, con finalita' diverse da quelle della funzione istituzionale; affermava, sempre con riferimento all'attivita' della Procura di Palermo, e quindi del De Francisci: che, in relazione alle informazioni su Contrada «Sinico rivela ad Ingroia, Ingroia rivela a Sinico, Mutolo rivela di aver rivelato a Borsellino, De Francisci rivela e piange sulla spalla di Sinico: fin dall'inizio la sintonia tra mafiosi «pentiti», poliziotti e magistrati e' perfetta, l'osmosi delle rivelazioni e' garantita» (f. 61); che «nella storia del suicidio del maresciallo Lombardo ebbe un ruolo non secondario lo stesso P.M. De Francisci, che piangeva la morte di Borsellino, calunniava Contrada e annunziava l'arresto di Lombardo» (f. 61) riconducendo poi il suicidio del maresciallo Lombardo alla responsabilita' del predetto magistrato (f. 76); che «questi pentiti che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il magistrato suddetto era un «professionista dell'antimafia» la cui attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita' e ad intenti persecutori, comunque ispirata da finalita' illecite attuate mediante comportamenti devianti. In Roma febbraio 2008, querela del 17 luglio 2008. d) artt. 595 1°, 2° e 3° co. c.p., 13 legge n. 47/48, 61 n. 10 c.p. perche' in qualita' di autore del libro intitolato «Lo sbirro e lo Stato» edizioni Koine' 2008, da intendersi qui trascritto, offendeva, con il mezzo della stampa e mediante attribuzione di fatti determinati, la reputazione di Ingroia Antonio, magistrato gia' in servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo in qualita' di Sostituto Procuratore, a causa dell'adempimento delle sue funzioni; in particolare, redigendo l'opera predetta: riproponeva i contenuti diffamatori dell'articolo pubblicato su Il Giornale del 7 novembre 2004 intitolato «Mafia: 13 anni di scontri tra PM e Carabinieri» nel quale si ricostruivano vicende giudiziarie cui aveva preso parte per le sue funzioni l'Ingroia, indicandole come conseguenza o comunque espressione di una guerra promossa dalla Procura di Palermo contro il R.O.S. dei Carabinieri per delegittimare importanti esponenti dell'Arma, con finalita' diverse da quella istituzionale; affermava, sempre con riferimento all'attivita' della Procura di Palermo e quindi dell'Ingroia: che «Bruno Contrada non e' il solo poliziotto, il solo servitore dello Stato perseguito e incriminato dai professionisti dell'Antimafia della Procura di Palermo» (f. 76); che «e' stato cosi per il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, il piu' fidato collaboratore del giudice Paolo Borsellino, che lo chiamava fratello, e che e' stato perseguitato e processato per anni soltanto perche' difendeva la memoria del M.llo Lombardo» (f. 76); che «e cosi e' stato per il Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno, il principale collaboratore di Giovanni Falcone, che aveva avuto il torto di denunciare la fuga di notizie dalla Procura di Palermo dell'inchiesta sulla mafia e sugli appalti» (f.76); che «e' cosi per il Maggiore Obinu che voleva riportare in Italia dagli Stati Uniti il boss Gaetano Badalamenti per testimoniare contro le false accuse mosse contro Giulio Andreotti» (f. 77); che «e' cosi per il Colonnello Meli, che comandava il Gruppo dei Carabinieri di Monreale, ed aveva scoperto che il pentito Baldassare Di Maggio, liberato dal carcere e pagato per ordine della Procura di Palermo, scorrazzava per la Sicilia ammazzando i suoi nemici» (f. 77); che «e per il capitano Sergio Di Caprio, il leggendario capitano Ultimo, che ha arrestato il capo della mafia Toto Riina, ed e' stato perseguito per anni e processato con l'accusa di non aver perquisito in tempo il covo di Riina per complicita' con la mafia» (f. 77); che «e con lui hanno perseguitato per anni e hanno processato il Generale Mario Mori, comandante dei R.O.S. e poi comandante del SISDE, il servizio segreto civile» (f. 77); che «e non contenti di una persecuzione che dura da 15 anni, nonostante che alla fine il Generale Mori e' stato assolto, assieme a Di Caprio, con la formula piena, i professionisti dell'Antimafia si apprestano a riprocessare Mori con l'accusa di non aver voluto arrestare Bernardo Provenzano, il Carabiniere che ha arrestato Toto Riina, sara' infamato ancora per anni e processato per non aver arrestato Provenzano» (f. 77); che «questi pentiti che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); con riferimento specifico all'Ingroia affermava: che all'udienza del 13 luglio 1995 «il P.M. si e' alzato a sorpresa e ha chiesto al Tribunale di introdurre a testimoniare un nuovo pentito, spuntato improvvisamente non si sa come e non si sa dove » (f. 19); che «i processi a Contrada sono basati esclusivamente sulle accuse dei pentiti e spesso si tratta di mafiosi assassini a cui e' stato proprio Contrada a dare la caccia, a trascinarli davanti al Giudice e a farli condannare, e che si sono vendicati, piu' o meno sollecitati e incoraggiati» (f. 21); che di un pentito «gli avvocati hanno scoperto, sempre nel corso del processo di appello, che era stato nascosto il verbale di un primo interrogatorio» (f. 23); che, a proposito della frase attribuita all'Ingroia «l 'accusa e' interessata solo ai documenti che sono a sostegno della tesi accusatoria» «lo Stato di diritto della Costituzione si declinano cosi nella cultura dei professionisti dell 'Antimafia ...questo Ingroria che nasconde i documenti della difesa e si esalta solo con quelli che accusano» (f. 48); che «i PP.MM. richiamano il pentito e gli fanno cambiare versione» (f. 53); che «il solito p.m. di Palermo, Antonio Ingroria, quello che ha sostenuto l'accusa contro Contrada ed e' lo stesso che ha sostenuto l'accusa contro Dell'Utri nel processo di 1° grado, e utilizzando gli stessi pentiti si e' dichiarato soddisfatto di come e' finita per Contrada in Cassazione dopo 15 anni» (f. 58); che, in relazione alle informazioni su Contrada «fin dall'inizio la sintonia tra mafia «pentiti» poliziotti e magistrati e' perfetta, l'osmosi delle rivelazioni e' garantita» (f. 61); che, parlando di un'accusa inventata contro Contrada, lo stesso «viene processato per strage, senza essere incriminato e senza essere rinviato a giudizio. Nel frattempo fingono di processarlo solo per concorso esterno» (f. 66); che «questi pentiti che vengono usati per incriminare e processare non i mafiosi ma i poliziotti e i carabinieri che combattono e arrestano i mafiosi» (f. 77); sosteneva nel contesto complessivo della pubblicazione che il magistrato suddetto era un «professionista dell' antimafia» la cui attivita' giudiziaria sarebbe stata improntata a dolosa faziosita' e ad intenti persecutori, comunque ispirata da finalita' illecite attuate mediante comportamenti devianti In Roma nel febbraio 2008, querela del 12 luglio 2008. Premesso che: Il 17 settembre 2009 il PM chiedeva il rinvio a giudizio di Iannuzzi Raffaele in relazione al delitto di diffamazione a mezzo stampa: nel libro «Lo sbirro e lo Stato» edizioni Koine' 2008 lo Iannuzzi avrebbe leso l'onore e la reputazione di Lo Forte Guido, Giancarlo Caselli, Antonio Ingroia, De Francisci Ignazio, accusandoli di aver svolte le loro funzioni di magistrati con finalita' illecite ed intenti persecutori nei confronti di alcuni esponenti dell'arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato, indirizzando le dichiarazioni dei pentiti contro di loro e sopprimendo prove a favore della difesa. All'udienza preliminare del 6 novembre 2009, dopo l'ammissione della costituzione di parte civile delle persone offese, la difesa sollevava eccezione d'insindacabilita' delle opinioni espresse dall'imputato: rilevava, infatti, che all'epoca della pubblicazione del libro Iannuzzi Raffaele era senatore della Repubblica e che il contenuto dello scritto doveva essere interpretato come «espressione dell'attivita' di divulgazione, denuncia politica e, piu' in generale, di critica connessa alla funzione parlamentare» (si veda memoria del 5 novembre 2009). A questa richiesta si opponeva il difensore delle parti civili che domandava, invece, la trasmissione degli atti al Senato della Repubblica ai sensi dell'art. 3 comma 4 L 140/03 per il procedimento di competenza. Con ordinanza dell'11 dicembre 2009 il giudice per le indagini preliminari, non ritenendo che le opinioni manifestate dallo Iannuzzi potessero ritenersi rese nell'esercizio delle funzioni parlamentari e che per esse non fosse invocabile l'insindacabilita' prevista dall'art. 68 primo Comma Cost., rigettava l'eccezione della difesa e ordinava la trasmissione di copia degli atti al Senato della Repubblica sospendendo il procedimento penale sino al 90° giorno dalla ricezione degli atti da parte del Senato. Trascorso questo termine, non essendo pervenuta la decisione del Senato, si procedeva a udienza preliminare e, il 16 luglio 2010, sentite le conclusioni delle parti, il giudice disponeva il rinvio a giudizio di Iannuzzi Raffaele avanti al giudice monocratico del Tribunale di Roma indicando l'udienza dell'8 febbraio 2011 per la comparizione delle parti. Nel frattempo, con delibera del 3 agosto 2010, l'Assemblea del Senato non approvava la proposta Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari che, a maggioranza, aveva concluso che le dichiarazioni rese da Iannuzzi (non piu' senatore) non costituivano opinioni espresse da un membro del parlamento e non ricadevano nell'ipotesi dell'art. 68 primo comma della Costituzione: il Senato ne affermava, cosi', l'insindacabilita'. All'udienza del 1° giugno 2011, preso atto di questa decisione, il PM ed il difensore delle parti civili chiedevano che fosse sollevato conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato ai sensi degli artt. 134 Cost. e degli artt. 37, 23, 25, 26 legge n. 87/1953 sostenendo che non competeva al Senato dichiarare l'insindacabilita' delle opinioni espresse da Raffaele Iannuzzi nel libro «Lo sbirro e lo Stato» e che, pertanto, con la delibera adottata il 3 agosto 2010 il Senato aveva invaso la competenza dell'autorita' giudiziaria. La difesa dell'imputato chiedeva, invece, che, in applicazione dell'art. 68 primo comma Cost. e dell'art. 3 comma 3 della legge n. 140 del 2033, si pronunciasse, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., una sentenza di non doversi a procedere in quanto il fatto contestato al Senatore Iannuzzi non era punibile. Osserva 1. La questione che e' stata proposta riguarda la sindacabilita' delle affermazioni contenute nel libro «Lo sbirro e lo Stato» pubblicato nel febbraio del 2008 quando il suo autore era senatore della Repubblica. Infatti, ai sensi dell'art. 68 Cost. i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Ora, e' indubbio che la garanzia dell'insindacabilita' si estende anche alle dichiarazioni rese da un appartenente al Parlamento della Repubblica fuori dall'ambito parlamentare. In questo caso, e' pero' necessario che sussista un nesso funzionale tra le affermazioni extra moenia e le funzioni in concreto svolte dal parlamentare che ne e' stato l'artefice. Tali dichiarazioni debbono cioe' essere espressione dell'esercizio di attivita' parlamentare effettivamente svolta (in questo senso si e' ripetutamente espressa la Corte costituzionale: si vedano tra le altre le sentenze n. 98 del 2011; n. 420, n. 410, n. 134 n. 171 del 2008, n. 11 e n. 10 del 2000). Non e' dunque sufficiente un semplice collegamento di argomento e/o di contesto politico tra l'attivita' parlamentare e le dichiarazioni rese ma le affermazioni debbono essere riproduttive delle opinioni sostenute in sede parlamentare ed avere la finalita' di renderle note ai cittadini (in questo senso da ultimo Corte cost. sentenza n. 82 del 2011). In caso contrario, saremmo di fronte non gia' al «riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita democratica mediante le proprie opinioni e i propri voti» ma all'esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21. della Costituzione (in questo senso Corte cost. sentenza n. 166 del 2007). La garanzia costituzionale dell'insindacabilita' non opera, quindi, sulla base di un mero collegamento con lo status di parlamentare in se' considerato (in questo senso Cort. cost. sentenza n. 98 del 2011): diversamente si trasformerebbe l'istituto previsto dall'art. 68 Cost. in un ingiustificato privilegio personale incompatibile con il principio di eguaglianza e con il diritto di accesso alla giustizia da parte dei cittadini che sarebbero esposti alla possibilita' di essere diffamati ogni qual volta le offese al proprio onore siano state pronunciate da un membro del Parlamento le cui le opinioni e le dichiarazioni sarebbero sempre e comunque sottratte a verifica giurisdizionale. Pertanto solo se le dichiarazioni sono effettivamente e sostanzialmente corrispondenti ai contenuti di attivita' tipicamente parlamentari e sono la divulgazione o la comunicazione all'esterno di atti gia' compiuti nell'ambito della stretta funzione parlamentare, potra' essere ravvisata l'esistenza del predetto nesso funzionale e, conseguentemente, fatta applicazione dell'art. 68 Cost. 2. Durante la sua audizione da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere, Iannuzzi Raffale ha indicato nel disegno di legge da lui, firmato insieme ad altri parlamentari ed avente ad oggetto l'istituzione di una commissione di inchiesta sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia (A.S 2292 delle XIV legislatura), l'attivita' parlamentare alla quale le opinioni espresse nel libro sarebbero funzionalmente collegate. In realta', il disegno di legge prevede la costituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia con il compito di verificare l'attuazione delle disposizioni del decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, convertito con modificazioni dalla legge 15 marzo 1993 n. 119, del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'interno 24 novembre 1994 n. 687 e della legge 13 febbraio 2001 n. 45. In particolare, l'art. 1. del disegno di legge stabilisce che l'istituenda Commissione dovrebbe accertare: a) le ragioni che hanno portato ad impiegare ingenti somme per soddisfare le richieste di alcuni collaboratori; b) se siano state recuperate da parte dello Stato le somme pagate ai collaboratori dei quali si e' successivamente accertato il mendacio o la violazione della convenzione stipulata; c) quanti anni di carcere siano stati espiati da chi accusato dai collaboratori e' risultato poi innocente e quali conseguenze concrete cio' ha comportato per il collaboratore; d) i rapporti economici tra i collaboratori e i loro difensori; e) gli ambiti del controllo del Servizio di Protezione sui collaboratori stessi; f) i criteri adottati per l'inserimento o l'espulsione del collaboratore nel programma di protezione; g) le vicende legate al fenomeno allarmante dei numerosissimi pentiti che sono tornati a delinquere. Il tema dell'iniziativa parlamentare e', quindi, di carattere generale in quanto affronta la questione della gestione dei pentiti e le conseguenze delle dichiarazioni da loro rese e neppure nella relazione che accompagna il disegno di legge vi e' qualsivoglia riferimento alle vicende giudiziarie di Bruno Contrada, del Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale, del Capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno, del Colonnello Meli Sergio, del Generale Mario Mori che - si sostiene nel libro - i magistrati della Procura di Palermo (persone offese nel processo per cui oggi si procede) avrebbero ingiustamente perseguitato ora creando prove a loro carico attraverso la manipolazione dei pentiti ora omettendo le prove a loro discarico. Si potrebbe, al piu', parlare di una contiguita' tra gli argomenti del libro e l'iniziativa parlamentare dello Iannuzzi ma non certo di un nesso funzionale secondo i principi dettati dalla Corte costituzionale. Peraltro tra la presentazione del disegno di legge e la pubblicazione del libro vi e' una distanza temporale talmente ampia (il disegno di legge e' stato presentato il 25 giugno 2003 mentre le affermazioni contenute nell'articolo oggetto del presente giudizio risalgono a febbraio 2008) da far escludere il carattere divulgativo del libro rispetto al disegno di legge. In conclusione, la condotta addebitabile al senatore Iannuzzi esula dall'esercizio delle funzioni parlamentari e non presenta oggettivamente alcun legame con atti parlamentari neppure nell'accezione piu' ampia e, come tale, dovrebbe essere sottoposte al sindacato giurisdizionale. 3. La difesa ha sostenuto che, nel caso in esame, ricorrerebbe un'ipotesi di ne bis in idem. Il libro «Lo sbirro e lo Stato», infatti, riproduce un articolo gia' pubblicato nel 2004 sul quotidiano Il Giornale che e' stato oggetto di un procedimento penale avanti al Tribunale di Milano, sempre a carico del senatore Iannuzzi, per il reato di diffamazione col mezzo della stampa. Sul contenuto dell'articolo il Senato si e' pronunciato nel senso dell'insindacabilita' delle opinioni espresse dal senatore Iannuzzi e, a seguito di questa delibera, il GIP ha sollevato conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale. Il ricorso e' stato, pero', dichiarato improcedibile in quanto l'atto introduttivo e' stato depositato oltre i termini previsti dalle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale. Conseguentemente il senatore Iannuzzi e' stato prosciolto dal GIP. Secondo la difesa, non si potrebbe, percio', sottoporre il senatore Iannuzzi ad un nuovo processo per il reato di diffamazione a mezzo stampa in quanto e' gia' stato giudicato per lo stesso fatto. Questa tesi non puo' essere condivisa. Oggetto dell'attuale procedimento non sono le affermazioni contenute nell'articolo pubblicato su Il Giornale ma piuttosto quelle contenute nell'intero libro che non si esaurisce nel precedente scritto. Peraltro, ove anche nel libro fosse stato solamente riprodotto l'articolo gia' pubblicato su Il Giornale saremmo comunque di fronte ad un reato diverso e autonomo rispetto a quello precedente giudicato in quanto la diffamazione col mezzo della stampa e' un reato istantaneo che si consuma nel tempo e nel luogo in cui lo stampato e' messo in circolazione (in questo senso Cass. pen. sez. 1, ord. n. 317 del 24 febbraio 1976) . In altre parole, l'edizione di un libro successiva alla prima non si risolve necessariamente in un fatto penalmente irrilevante perche' contrariamente ai meri atti riproduttivi di piu' esemplari mediante il procedimento della stampa essa e' compiutamente autonoma sul piano fenomenico e su quello giuridico amministrativo e sorretta dalla volonta' di diffondere la pubblicazione (cosi' Cass. pen. sez. 5, 29 settembre 1983, n. 6). 4. Per le ragioni sopra esposte e' opinione di questo Giudice che le dichiarazioni contenute nel libro «Lo sbirro e lo Stato» siano del tutto svincolate dall'attivita' parlamentare del suo autore e che pertanto la decisione del Senato della Repubblica - che ha ritenuto le stesse coperte da insindacabilita' ex art. 68 Cost. - sia venuta a ledere le prerogative dell'ordine giurisdizionale. Ricorrendone i presupposti soggettivi (il Tribunale di Roma e' competente a decidere sui reati contestati a Iannuzzi Raffaele) che oggettivi (la menzionata deliberazione del Senato deve ritenersi lesiva della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita), occorre sollevare conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.
P.Q.M. Visti gli artt. 134 Cost., 37 legge 11 marzo 1953, n. 87; dispone la sospensione del giudizio in corso a carico di Iannuzzi Raffaele sino alla risoluzione del conflitto e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sollevando conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e chiede che la Corte: dichiari ammissibile il presente conflitto; dichiari che non spettava al Senato della Repubblica la valutazione della condotta addebitabile al senatore Iannuzzi in quanto estranea alla previsione di cui all'art. 68 Cost.; annulli la delibera del Senato della Repubblica adottata il 3 agosto 2010. Manda alla Cancelleria per quanto di competenza. Cosi' deciso in Roma il 23 settembre 2011. Il Giudice: Trani Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 13/2013 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale, 1ª s.s., n. 7 del 13 febbraio 2013.