N. 130 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 dicembre 2012

Ordinanza del 21 dicembre 2012 emessa dal Tribunale di  Velletri  nel
procedimento civile promosso da Bravetti Luciano contro/ASP S.p.a.. 
 
Lavoro e occupazione - Contratto di  lavoro  a  tempo  determinato  -
  Conversione  in   contratto   a   tempo   indeterminato   a   causa
  dell'illegittima apposizione del termine - Condanna del  datore  di
  lavoro  al  risarcimento  in  favore  dei  lavoratori  -   Prevista
  liquidazione da parte del giudice di un'indennita' onnicomprensiva,
  determinata tra un minimo di 2,5 ed un  massimo  di  12  mensilita'
  dell'ultima retribuzione globale di fatto - Previsione,  con  norma
  autoqualificata interpretativa, che l'indennita'  predetta  ristora
  per intero  il  pregiudizio  subito  dal  lavoratore,  comprese  le
  conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso
  fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il
  quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del  rapporto  di
  lavoro - Violazione  di  obblighi  internazionali  derivanti  dalla
  normativa  comunitaria  -  Richiamo  alla  sentenza   della   Corte
  costituzionale n. 303/2011. 
- Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, come  interpretato
  dall'art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92. 
- Costituzione, artt. 11 e 117, in relazione all'Accordo  quadro  sul
  lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, punto  8.3,  allegato
  alla direttiva 99/7/CE del 28 giugno 1999. 
(GU n.24 del 12-6-2013 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
     Il giudice del lavoro, letti gli atti e sciogliendo  la  riserva
assunta all'udienza del 15 novembre 2012; 
    Premesso che con ricorso depositato il 29 luglio  2009,  iscritto
al n. 3029/2009 R.G., Brevetti Luciano ha convenuto  in  giudizio  la
ASP s.p.a., in persona del legale  rappresentante  pro  tempore,  per
fare accertare l'illegittimita' del  termine  di  durata  apposto  al
contratto di lavoro stipulato  con  decorrenza  dal  7  aprile  2008,
nonche' della successiva proroga, e chiedere l'accertamento in ordine
alla sussistenza  di  un  rapporto  di  lavoro  subordinato  a  tempo
indeterminato ed il pagamento del trattamento retributivo  dovuto,  a
decorrere dall'estromissione dal rapporto sino alla  riammissione  in
servizio; 
    Rilevato che, successivamente all'introduzione del  giudizio,  il
legislatore ha limitato l'ammontare del risarcimento del danno dovuto
a seguito dell'illegittima apposizione del termine ad un contratto di
lavoro, con l'art. 32, comma 5 e 6, della  legge  n.  183/2010  (c.d.
collegato al lavoro), che cosi' statuisce: 
        «5.  Nei  casi  di  conversione   del   contratto   a   tempo
determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al  risarcimento
del lavoratore stabilendo un'indennita' onnicomprensiva nella  misura
compresa tra un  minimo  di  2,5  ed  un  massimo  di  12  mensilita'
dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai  criteri
indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. 
        6.  In  presenza  di  contratti  ovvero  accordi   collettivi
nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le  organizzazioni
sindacali comparativamente piu' rappresentative sul piano  nazionale,
che  prevedano  l'assunzione,  anche  a   tempo   indeterminato,   di
lavoratori gia' occupati  con  contratto  a  termine  nell'ambito  di
specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennita' fissata dal
comma 5 e' ridotto alla meta'»; 
    Ritenuto che detta previsione e' stata oggetto di interpretazione
autentica con la norma contenuta nell'art. l, comma 13, della legge n
92/2012, che ha cosi stabilito: «La disposizione di cui  al  comma  5
dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183,  si  interpreta
nel senso  che  l'indennita'  ivi  prevista  ristora  per  intero  il
pregiudizio  subito   dal   lavoratore,   comprese   le   conseguenze
retributive e  contributive  relative  al  periodo  compreso  fra  la
scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il
giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro»; 
    Considerato che tale complesso  normativo  si  applica  anche  ai
procedimenti in corso, ai sensi del comma 7 del citato art. 32, e che
la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 303 del 2011 - precedente
alla su richiamata norma di interpretazione autentica -  ha  ritenuto
conforme a Costituzione l'opzione legislativa volta a configurare una
sorta di penale ex lege a carico del  datore  di  lavoro,  stabilendo
un'indennita'   forfetizzata   ed   onnicomprensiva   per    l'intero
pregiudizio  arrecato  dalla  nullita'  del   termine   nel   periodo
cosiddetto intermedio, dalla scadenza del termine  alla  sentenza  di
«conversione»; 
    Rilevato che, all'udienza del 15 novembre  2012  le  parti  hanno
discusso la causa e parte ricorrente ha profilato la  sussistenza  di
una possibile questione di costituzionalita' dell'art. 32,  comma  5,
della legge  n.  183/2010,  chiedendo  al  decidente  di  dichiararla
ammissibile e rilevante e di sollevarla, trasmettendo gli  atti  alla
Corte costituzionale; 
    Considerato che la questione prospettata  e'  rilevante  ai  fini
della decisione, dal momento che dall'applicazione della disposizione
di legge in questione  puo'  dipendere  l'accoglimento  parziale  del
ricorso, determinando, in particolare, l'ammontare  del  risarcimento
del danno spettante al lavoratore, tenuto conto  che  dall'istruzione
effettuata, da un lato, non e' emersa la  sussistenza  delle  ragioni
addotte dalla parte datoriale per giustificare la clausola  negoziale
e, dall'altro, la stipulazione  della  proroga  risulta  formalizzata
soltanto dopo la scadenza del termine precedentemente pattuito  e  la
prosecuzione, in via di fatto, del rapporto, si' da dare luogo ad una
successione di contratti a termine, 
 
                               Osserva 
 
    Dubita  questo  decidente   della   legittimita'   costituzionale
dell'art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010,  come  autenticamente
interpretato dall'art. 1, comma  13,  della  legge  n.  92/2012,  per
violazione degli artt. 11 e 117  della  Costituzione,  sotto  profili
differenti da quelli gia' scrutinati dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 303/2011. 
    In  particolare,  dubita  il  decidente  che  la   normativa   in
questione, nel caso di  reiterazione  di  contratti  a  termine,  sia
conforme al punto 8.3 dell'accordo  quadro  allegato  alla  direttiva
1999/70/CE, arretrando il livello generale di tutela previsto  per  i
lavoratori a fronte di successive stipulazioni a tempo determinato. 
    Giova illustrare i passaggi argomentativi su cui poggia  siffatta
considerazione. 
    Com'e' noto, la normativa sul contratto a tempo determinato e' di
derivazione  europea,  in  quanto  volta  ad  attuare  la   direttiva
1999/70/CE,  a  sua  volta  recettiva  dell'accordo  quadro  tra   le
organizzazioni intercategoriali a carattere generale -  Unione  delle
confederazioni  delle  industrie  della  Comunita'  europea  (UNICE),
Centro  europeo  dell'impresa  a  partecipazione  pubblica  (CEEP)  e
Confederazione europea dei sindacati (CES) - del 18  marzo  1999  sul
lavoro a tempo determinato. 
    L'accordo quadro mirava a raggiungere due obiettivi. 
    Anzitutto, migliorare la qualita' del lavoro a tempo determinato,
garantendo il rispetto del principio  di  non  discriminazione;  poi,
creare un quadro normativo per la prevenzione degli  abusi  derivanti
dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti  a  tempo
determinato. 
    Al fine di  raggiungere  tale  scopo  sono  stati  concepiti  due
strumenti  essenziali  (confermati   nel   14°   considerando   della
direttiva): il principio di non discriminazione tra  lavoro  a  tempo
determinato e lavoro a tempo  indeterminato  (clausola  4.1,  4.4)  e
l'adozione di misure e requisiti minimi a tutela  dagli  abusi  nella
successione di contratti a termine (clausola 5.1 e 5.2). 
    Con  riferimento   specifico   all'adozione   delle   misure   di
prevenzione degli abusi, l'accordo ne stabiliva l'introduzione  negli
Stati membri, «in assenza di norme equivalenti»; in senso piu' ampio,
consentiva l'inserimento od  il  mantenimento  di  disposizioni  piu'
favorevoli  per  i  lavoratori   (clausola   8.1)   e   vietava   che
l'applicazione dell'accordo  stesso  potesse  costituire  motivo  per
ridurre il  livello  generale  di  tutela  che  ivi  era  offerto  ai
lavoratori (clausola 8.3). 
    Precisamente, la clausola 8.3 dell'accordo quadro  sul  lavoro  a
tempo determinato stabilisce che «l'applicazione del presente accordo
non costituisce un motivo valido per ridurre il livello  generale  di
tutela offerto ai lavoratori nell'ambito coperto dall'accordo stesso»
(c.d. clausola di non regresso). 
    Ora, sul piano delle conseguenze in  favore  del  lavoratore  nel
caso di illegittima  apposizione  del  termine  ad  un  contratto  di
lavoro, prima della novella  del  2010  era  del  tutto  pacifico  in
giurisprudenza che il dipendente, avendo cessato  l'esecuzione  delle
prestazioni  alla  scadenza   del   termine,   aveva   diritto   alla
retribuzione  dal  momento  in  cui  provvedeva  ad  offrire  le  sue
prestazioni  lavorative,  determinando   una   situazione   di   mora
accipiendi del datore di lavoro (cfr. Cass. 27 giugno 1996  n.  5930,
15 dicembre 1997 n. 12665, Cass. 27 febbraio 1998 n. 2192,  Cass.  26
maggio 2001, n. 7186). 
    Il suddetto principio trovava fondamento nella regola generale di
effettivita' e corrispettivita' delle  prestazioni  del  rapporto  di
lavoro, secondo la quale, al di fuori di specifiche deroghe legali  o
contrattuali, il diritto  alla  retribuzione  e'  sinallagmaticamente
correlato alla prestazione lavorativa e sussiste soltanto nel caso di
effettivo svolgimento dell'attivita' lavorativa, salvo che il  datore
di lavoro versi in una situazione di mora credendi nei confronti  dei
dipendenti; come corollario, si affermava che nel caso in cui non  vi
fosse stata offerta della  prestazione  lavorativa,  le  retribuzioni
perdute  non  potevano  neppure  essere  attribuite   a   titolo   di
risarcimento del danno, in quanto l'interruzione della  funzionalita'
di fatto del rapporto non conseguiva ad un'iniziativa del  datore  di
lavoro, il quale non aveva posto in essere  un  licenziamento  (cfr.,
per tutte, Cass. S.U. 8 dicembre 2002 n. 14381, Cass., sez. lav.,  n.
995 del 22 gennaio 2004, Cass., sez. lav., n.  17322  del  30  agosto
2004, Cass., sez. lav., n. 1291 del  24  gennaio  2006,  Cass.,  sez.
lav., n. 7966 del 5 aprile 2006, Cass., sez. lav.,  n.  8294  del  10
aprile 2006, Cass., sez. lav., 21 novembre 2006, n. 24655). 
    Invero,  l'unico  punto  controverso,  fermo  il   diritto   alla
prosecuzione del rapporto  di  lavoro  a  tempo  indeterminato  e  al
pagamento del  trattamento  economico  perduto  successivamente  alla
costituzione in mora, era  costituito  dal  titolo  dell'attribuzione
patrimoniale, se cioe' gli importi corrisposti dal datore  di  lavoro
avessero natura retributiva (come  pare  evincersi,  di  recente,  da
Cass., sez. lav., n. 17551 del 27 luglio 2010, Cass., sez.  lav.,  n.
21763 del 22 ottobre 2010, Cass., sez. lav., n. 21815 del 25  ottobre
2010), ovvero risarcitoria (cosi' Cass., sez. lav., n.  6010  del  12
marzo 2009, Cass., sez. lav., n. 7979 del 27 marzo 2008, Cass.,  sez.
lav., 13 aprile 2007 n. 8903). 
    Principi  consolidati  che,  a  seguito  della  riforma   operata
dall'art. 32, comma 5, della legge  n.  183/2010,  come  interpretata
autenticamente dall'art. 1, comma 13, della  legge  n.  92/2012,  non
possono piu' trovare applicazione. Nella funzione di  interpretazione
autentica del significato da attribuire alla  normativa  comunitaria,
la Corte di Giustizia della UE ha fornito un quadro  complessivo  che
assume specifica rilevanza sulla compatibilita' dell'art.  32,  comma
5, del collegato al lavoro al diritto dell'Unione. 
    La nozione di «ambito coperto dall'accordo»  e'  stata  disegnata
nel senso di  comprendere  l'insieme  delle  norme  che  regolano  il
contratto o rapporto a tempo  determinato,  sul  presupposto  che  la
verifica dell'esistenza di una reformatio in peius «deve  effettuarsi
in rapporto all'insieme delle disposizioni di diritto interno di  uno
Stato membro relative  alla  tutela  dei  lavoratori  in  materia  di
contratti di lavoro a tempo determinato»  (cfr.  sentenza  23  aprile
2009, Kiriaki Angelidaki, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07,
punti 120 e 124, e sentenza 24 giugno 2010, Sorge, C-98/09, punti  33
e 34). Il «campo»  coperto  dall'accordo  europeo,  dunque,  riguarda
l'intera  disciplina  del  lavoro  a  termine,  e  non  soltanto   le
specifiche disposizioni,  concernenti  tale  disciplina,  rinvenibili
all'interno dell'accordo. 
    Con  riferimento  al  concetto  di  «applicazione  del   presente
accordo», e' stato precisato che tale attuazione  riguarda  non  solo
l'iniziale trasposizione della  disciplina  europea,  ma  anche  ogni
altra successiva misura  che  completi  o  modifichi  gli  interventi
traspositivi gia' effettuati (cfr. sentenza  Angelidaki,  punto  131,
nonche' l'ordinanza 11 novembre 2010, C-20/10, Vino, punto 36). 
    Quanto al nodo cruciale, relativo al  concetto  dell'arretramento
della tutela, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, nella sopra
citata ordinanza Vino dell'11 novembre 2010, al punto 30 ha  ritenuto
di trarre la decisione richiamando la sua consolidata  giurisprudenza
ed i principi ricavabili, «in particolare dalle sentenze 22  novembre
2005, causa C-144/04, Mangold (Racc. pag. I-9981,  punti  44-54);  23
aprile 2009, cause riunite da C-378/07 a C-380/07,  Angelidaki  e  a.
(Racc. pag. 1-3071, punti 122-146), e 24 giugno 2010, causa  C-98/09,
Sorge (non ancora pubblicata nella Raccolta,  punti  27-48),  nonche'
dall'ordinanza  24  aprile  2009,  causa  C-519/08,   Koukou   (punti
103-124)». 
    Sulla base di questa premessa, al punto 31 e 32 ha stabilito  che
«... in forza  dello  stesso  dettato  della  clausola  8,  punto  3,
dell'accordo  quadro,  l'applicazione  di  detto  accordo  non   puo'
costituire un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela
precedentemente offerto  ai  lavoratori,  nell'ordinamento  giuridico
nazionale, nell'ambito dei contratti di lavoro  a  tempo  determinato
(cfv. citate sentenze Mangold, punti 50 e 52; Angelidaki e a.,  punti
111-121 e 125, e Sorge, punti 30-35, nonche' ordinanza Koukou,  cit.,
punto 113). 
    32 Da cio' consegue che una riduzione  della  tutela  offerta  ai
lavoratori nel settore dei contratti di lavoro  a  tempo  determinato
non e', in quanto tale, vietata  dall'accordo  quadro,  ma  che,  per
rientrare nel divieto sancito dalla clausola 8,  punto  3,  di  esso,
tale riduzione, da un lato, dev'essere collegata con l'«applicazione»
dell'accordo quadro e, dall'altro, deve avere ad oggetto il  «livello
generale di tutela» dei lavoratori a  tempo  determinato  (v.  citate
sentenze Mangold, punto 52, e Angelidaki e  a.,  punto  126,  nonche'
ordinanza Koukou, cit., punto 114)». 
    Al punto  37  la  Corte  cosi'  ha  proseguito:  «Nondimeno,  una
normativa nazionale non puo' essere  considerata  contraria  a  detta
clausola nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non
sia in alcun modo collegata con l'applicazione  dell'accordo  quadro.
Cio' potrebbe  avvenire  qualora  detta  reformatio  in  peius  fosse
giustificata non gia' dalla necessita' di applicare l'accordo quadro,
bensi' da quella di promuovere un altro obiettivo, distinto da  detta
applicazione (v. citate sentenze Mangold, punti 52 e 53, e Angelidaki
e a., punto 133, nonche' ordinanza Koukou, cit.,  punto  117)».  Alla
stregua di queste premesse al punto  41  la  Corte  ha  ritenuto  che
"l'adozione dell'art. 2, comma 1-bis, del decreto n. 368/2001  mirava
a consentire alle imprese operanti nel settore postale un certo grado
di flessibilita' allo scopo di  garantire,  ai  fini  dell'attuazione
della direttiva del Parlamento europeo e del  Consiglio  15  dicembre
1997, 97/67/CE, concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato
interno dei servizi  postali  comunitari  e  il  miglioramento  della
qualita' del servizio (GU 1998, L  15,  pag.  14),  un  funzionamento
efficace delle diverse operazioni  postali  rientranti  nel  servizio
universale e, pertanto,  perseguiva  uno  scopo  distinto  da  quello
consistente   nel   garantire   l'attuazione   dell'accordo    quadro
nell'ordinamento  nazionale.  Peraltro,  il   governo   italiano   ha
affermato, in sede di osservazioni scritte, che  questa  disposizione
mirava essenzialmente, nel quadro di misure destinate  a  limitare  e
razionalizzare  la  spesa  pubblica,  a  salvaguardare   l'equilibrio
economico e la gestione di Poste Italiane».  Come  gia'  ritenuto  in
dottrina, a parere di questo giudice la giurisprudenza della Corte di
Giustizia e'  molto  chiara  nell'affermare  che  sino  a  quando  la
normativa interna successiva si limita a modificare la disciplina del
lavoro a termine attuando un nuovo equilibrio nei rapporti tra datoci
di lavoro e lavoratori, aumentando o diminuendo gli  oneri  richiesti
per l'utilizzo  dell'istituto,  ovvero  aumentando  o  diminuendo  le
possibilita' di occupazione precaria, o, ancora, incidendo sul regime
relativo alle conseguenze derivanti  dall'abuso,  rimane  all'interno
dell'attuazione dell'accordo quadro. 
    Ed infatti, il passaggio argomentativo cruciale del  ragionamento
intessuto dai Giudici di Lussemburgo e'  il  seguente,  contenuto  al
punto 42 dell'ordinanza Vino: «e' giocoforza  constatare  che  nessun
elemento indicato nella decisione  di  rinvio  o  nelle  osservazioni
scritte  presentate   alla   corte   suggerisce   che   l'abrogazione
dell'obbligo per un  datore  di  lavoro,  quale  Poste  Italiane,  di
indicare le ragioni oggettive che  giustifichino  un  primo  o  unico
contratto di lavoro a tempo determinato  deriverebbe  dalla  volonta'
del legislatore nazionale di bilanciare, al fine di  alleggerire  gli
oneri  gravanti  sui  datori  di  lavoro,  le  nonne  di  tutela  dei
lavoratori introdotte dal d.lgs. n. 368/2001 riguardo  all'attuazione
dell'accordo quadro e di realizzare in tal modo un  nuovo  equilibrio
nei rapporti di lavoro tra datori di lavoro e lavoratori  nell'ambito
dei contratti di  lavoro  a  tempo  determinato  (v.,  per  analogia,
sentenza Sorge, cit., punto 40)». 
    Di recente, la Corte di Cassazione, con ragionamento che vale  la
pena riprodurre integralmente, ha cosi'  riassunto  il  problema  del
rispetto della clausola di non regresso, nella pronuncia n. 1931  del
27 gennaio 2011: 
        «e' stato di recente chiarito dalla  Corte  di  giustizia  CE
(cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. Riuniti da C  -
378/07 a C - 380/07, Kiriaki e altri nonche' sent. 22 novembre  2005,
C - 144/04, Mangold) che l'accordo quadro  trasfuso  nella  direttiva
1999/70/CE contiene nel preambolo e nel testo, sia norme  riguardanti
ogni tipo di contratto a termine, sia norme riferibili esclusivamente
al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto  e,  quindi,
ai lavoratori  dei  contratti  a  termine  cd.  successivi;  «risulta
infatti chiaramente sia  dall'obiettivo  perseguito  dalla  direttiva
1999/70,  sia  dall'accordo  quadro  e   dalla   formulazione   delle
pertinenti disposizioni di esso, che  ...  l'ambito  disciplinato  da
tale accordo non e' limitato ai  soli  lavoratori  con  contratti  di
lavoro a tempo determinato  successivi,  ma  che,  al  contrario,  si
estende a tutti i lavoratori che  forniscono  prestazioni  retribuite
nell'ambito di un determinato rapporto di lavoro che  li  vincola  ai
rispettivi  datori  di  lavoro,  indipendentemente  dal   numero   di
contratti a tempo determinato stipulati da  tali  lavoratori»  (punto
116 della sentenza Kiziaki); 
    in particolare, nella prima categoria rientra a pieno  titolo  la
clausola  8,  n.  3  dell'accordo,  alla  stregua  della  quale   "la
applicazione" (della direttiva) «non costituisce un motivo valido per
ridurre  il  livello  generale  di  tutela  offerto   ai   lavoratori
nell'ambito coperto dall'accordo»; 
    Tale clausola, cd.  di  non  regresso,  e'  stata  esplicitamente
ritenuta dalla Col.- te di giustizia come riferita  ad  ogni  aspetto
della disciplina nazionale del contratto a termine e quindi  anche  a
quella del primo o unico contratto a tempo determinato; 
    infatti: "la verifica dell'esistenza di una reformatio  in  pejus
ai sensi della clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro deve ritenersi  in
rapporto all'insieme delle disposizioni di  diritto  interno  di  uno
Stato membro relative  alla  tutela  dei  lavoratori  in  materia  di
contratti di lavoro a tempo determinato" (punto  120  della  medesima
sentenza); come e' stato recentemente rilevato in  dottrina,  in  tal
modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in  generale,  di
impedire  arretramenti  ingiustificati  della  tutela  nella  materia
considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di
modernizzazione dei  sistemi  sociali  nazionali,  flessibilita'  del
rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori". 
    Sulla base dei principi stabiliti dalla Corte di  Giustizia  -  e
debitamente tenuti in conto anche dalla  Corte  di  Cassazione  nella
pronuncia da ultima citata -, la norma contenuta nell'art. 32,  comma
5,  della  legge  n.  183/2010,  come   autenticamente   interpretata
dall'art. I, comma 13, della legge n. 92/2012, nel senso  di  ridurre
l'ammontare degli importi - da quest'angolo di visuale, invero,  poco
importa se di  natura  retributiva  o  risarcitoria  -  spettanti  al
lavoratore  illegittimamente  assunto  a  termine,  per  il   periodo
successivo alla costituzione in mora  della  parte  datoriale,  tanto
piu'  con  l'accessoria  privazione  del  trattamento  previdenziale,
rientra  nell'ambito  coperto  dall'accordo   quadro,   costituendone
applicazione. 
    Sotto questa angolazione, la finalita' della norma si  puo'  dare
per assodata in giurisprudenza. 
    Cristallina, al  riguardo,  e'  la  seguente  affermazione  della
Suprema Corte:  "Tale  disciplina,  applicabile  a  tutti  i  giudizi
pendenti,  anche  in  grado  di  legittimita'  (v.  gia'  Cass.  Ord.
28-1-2011 n.  2112),  alla  luce  della  sentenza  interpretativa  di
rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, e' fondata  sulla
natio legis diretta ad "introdurre un criterio  di  liquidazione  del
danno di piu' agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle
"obiettive incertezze verificatesi  nell'esperienza  applicativi  dei
criteri  di  commisurazione  del  danno   secondo   la   legislazione
previgente" (cfr. in termini, Cass., sez. lav., 31 gennaio  2012,  n.
1411). 
    Ancora di piu', la stessa Corte Costituzionale ha  rimarcato  che
"la normativa impugnata risulta, nell'insieme, adeguata a  realizzare
un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore
garantisce la conversione del contratto di lavoro  a  termine  in  un
contratto  di   lavoro   a   tempo   indeterminato,   unitamente   ad
un'indennita' che gli e' dovuta sempre e comunque,  senza  necessita'
ne' dell'offerta della prestazione, ne' di oneri probatori di  sorta.
Al datone di lavoro, per altro verso, assicura  la  predeterminazione
del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla
data d'interruzione del  rapporto  fino  a  quella  dell'accertamento
giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della  durata
indeterminata di esso. Ma non  oltre,  pena  la  vanificazione  della
statuizione giudiziale di un  rapporto  di  lavoro  sine  die"  (cfr.
sentenza n. 303/2011, cit.). 
    Si tratta, pertanto, di un intervento diretto in modo  univoco  a
modificare la  regolamentazione  del  profilo  patrimoniale  conciato
all'abuso della stipulazione a  termine,  e,  adottando  un  criterio
sostitutivo,  a  parere  del  decidente  potrebbe  tradursi   in   un
arretramento di tutela, tale da coinvolgere tutti lavoratori  assunti
a tempo determinato. 
    Infatti, "soltanto una reformatio in peius di  ampiezza  tale  da
influenzare complessivamente la normativa  nazionale  in  materia  di
contratti di lavoro a tempo determinato  puo'  rientrare  nell'ambito
applicativo della clausola 8, n.  3,  dell'accordo  quadro  (sentenza
Angeliclaki e a., cit., punto 140, nonche' ordinanza 24 aprile  2009,
causa C-519/08, Koukou, punto 119)" (cfr. sentenza Sorge, cit., punto
42). 
    Una norma di portata cosi' ampia  da  coinvolgere  l'insieme  dei
lavoratori a tempo determinato non assolve a nessun'altra ragione che
quella di ridisegnare il mercato di lavoro nel settore del  contratto
a termine e puo' essere  considerata  il  frutto  della  volonta'  di
bilanciare, al fine di alleggerire gli oneri gravanti sui  datori  di
lavoro, le norme di tutela  dei  lavoratori  introdotte  dal  decreto
legislativo n. 368/2001 riguardo all'attuazione dell'accordo  quadro,
senza che emerga una finalita'  chiaramente  identificata  e  diversa
(cfr. sentenza Sorge, cit., punto 40). 
    Del resto, l'ampiezza della portata applicativa e' ben  messa  in
luce  dalla  stessa  Corte  Costituzionale,  che   ha   espressamente
evidenziato  come  "la  innovativa  disciplina  in  questione  e'  di
carattere generale. Sicche', essa  non  favorisce  selettivamente  lo
Stato o  altro  ente  pubblico  (o  in  mano  pubblica),  perche'  le
controversie  su  cui  essa  e'  destinata  ad  incidere  non   hanno
specificamente  ad  oggetto  i  rapporti  di  lavoro  precario   alle
dipendenze di soggetti  pubblici,  ma  tutti  i  rapporti  di  lavoro
subordinato a termine" (cfr. sentenza n: 303/2011, cit.). 
    Sicche' detta disposizione legislativa riduce in modo consistente
il livello di tutela a fronte dell'abusiva stipulazione di  contratti
a termine, eliminando le conseguenze patrimoniali gravanti sul datore
di lavoro secondo le regole di diritto comune e fissando  i  risvolti
economici dell'illegittimo rifiuto  a  ripristinare  il  rapporto  di
lavoro  entro  margini  prefissati,  di  gran  lunga   inferiori   al
trattamento economico  che  sarebbe  spettato  in  forza  del  regime
previgente  -  anche  per  la  conelata  privazione  del  trattamento
previdenziale oltreche'  addossando  sul  lavoratore  le  conseguenze
negative della durata del processo. 
    Il profilo delle conseguenze patrimoniali gravanti sul datore  di
lavoro  che  abbia  reiteratamente  abusato  dell'apposizione   della
clausola  negoziale  del  termine  rappresenta,  infatti,   il   piu'
significativo argine, in chiave preventiva, al proliferare di un  uso
distorto dell'istituto, sicche' eliminare il diritto al pagamento del
trattamento retributivo maturato secondo le regole del diritto comune
- ovvero all'integrale  risarchnento  del  danno  patrimoniale  -  si
tradurrebbe non soltanto in una riduzione della sanzione gravante sul
datore di lavoro, ma, soprattutto - ed in cio' consiste il  disvalore
vietato dalla legislazione comunitaria -  in  una  diminuzione  della
tutela del lavoratore, a fronte di rapporti  in  cui  difettavano  in
radice le condizioni per l'apposizione del termine. 
    Tanto piu' quando l'arretramento della tutela patrimoniale non e'
compensa-to in alcun modo ed e' stato, anzi, introdotto,  secondo  il
combinato disposto dei  commi  1  e  4  dell'articolo,  un  ulteriore
limite, consistente nella previsione di un termine di  decadenza  per
l'impugnazione dell'illegittima stipulazione del  contratto  a  tempo
determinato, insussistente fino a quel momen-to. 
    Queste considerazioni prescindono dal fatto che la previsione  di
un indennizzo sino alla sentenza che statuisce la "conversione",  con
diritto da quella data al  pagamento  della  retribuzione,  in  luogo
dell'integrale risarcimento, possa essere una  sanzione  di  per  se'
legittima, perche' la prosecuzione del rapporto a tempo indeterminato
e il pagamento di una somma forfettaria rappresenterebbe  una  tutela
comunque adeguata a sanzionare l'abuso,  come  ritenuto  dalla  Corte
costituzionale nella sentenza n. 303/201l e dalla Corte di Cassazione
nella sentenza n, 1411/2012. 
    L'adeguatezza astratta della  soluzione  in  questione,  infatti,
risulta irrilevante nella  misura  in  cui,  in  ragione  del  quadro
normativo previgente,  essa  determina  un  effettivo  e  sostanziale
arretramento di tutela, vietato dall'accordo  quadro  per  la  stessa
ragione che  mira  "a  realizzare  un  equilibrato  componimento  dei
contrapposti interessi", sicche' il legislatore  "si  e'  limitato  a
nazionalizzare  con   un   intervento   di   carattere   generale   -
ponderaramente esteso ai rapporti  ancora  sub  indice  -  il  regime
risarcitorio del danno conseguente alla  violazione  della  normativa
vincolistica in materia di contratti di lavoro a termine" (cfr. Corte
Cost. n. 303/2011). 
    Quanto alle conseguenze della violazione della  clausola  di  non
regresso, la Corte di Giustizia, nella citata sentenza  Sorge,  punto
50, ha ritenuto che "la clausola 8, 11. 3,  dell'accordo  quadro  non
soddisfa i requisiti per essere direttamente produttiva  di  effetti.
Da un lato, infatti, detta clausola veste sulla sola «attuazione»  di
tale accordo da parte degli Stati membri  e/o  delle  parti  sociali,
obbligati a recepirlo nell'ordinamento  giuridico  interno,  vietando
loro di giustificare all 'atto di tale recepimento una reformatio  in
peius del livello generale di tutela dei lavoratori con la necessita'
di  applicare  l'accordo  quadro  in  parola.  Dall  'altro,  poiche'
suddetta clausola si limita a vietare, stando alla  sua  formulazione
stessa,  di  «ridurre  il  livello  generale  di  tutela  offerto  ai
lavoratori nell'anibito coperto dall'accordo quadro] », essa comporta
che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da  influenzare
complessivamente la normativa nazionale in materia  di  contratti  di
lavoro a tempo determinato  e'  idonea  a  ricadere  nel  suo  ambito
applicativo. Orbene, i  soggetti  dell  'ordinamento  non  potrebbero
fondare   sul   descritto   divieto   un   diritto   dal    contenuto
sufficientemente chiaro, preciso e categorico (sentenza Angelidaki  e
a., cit., punti 209-211, e ordinanza Koukou, cit., punto 128)". 
    E' vero che, ove non sia possibile invocare  un  effetto  diretto
della direttiva  in  una  controversia  giurisdizionale,  il  giudice
nazionale  e'  tenuto  ad  un'interpretazione  conforme  del  diritto
interno, principio inerente al sistema del  Trattato  CE,  in  quanto
permette di assicurare la piena  efficacia  delle  norme  comunitarie
(cfr. sentenza Impact del 15 aprile 2008,  C-268/06,  punto  99,  che
richiama i precedenti delle sentenze Pfeiffer al punto 114 e Adeneler
al punto 109). 
    Analogamente,  nell'ordinanza  Vassilakis  del  12  giugno  2008,
C-364/07, viene ribadito che i giudici nazionali devono, nella misura
del possibile, interpretare il diritto interno alla luce del testo  e
della finalita' della direttiva al fine di  raggiungere  i  risultati
perseguiti da  quest'ultima,  privilegiando  l'interpretazione  delle
disposizioni  nazionali  che  sia  maggiormente   conforme   a   tale
finalita', per giungere cosi' ad una  soluzione  compatibile  con  le
disposizioni della detta direttiva, fermo  restando,  come  precisato
nella citata sentenza Adeneler, punti 110-112, che l'obbligo  per  il
giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una  direttiva,
nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme  pertinenti  del
suo diritto nazionale, trova i suoi limiti nei principi generali  del
diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto  e  di  non
retroattivita',   e   non   puo'    servire    da    fondamento    ad
un'interpretazione  contra  legem  del  diritto  nazionale  (cfr,  in
termini, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, punti 44  e
47). 
    Anche nella sentenza Sorge,  punti  n.  51  e  52,  la  Corte  di
Giustizia ha puntualizzato che "i giudici nazionali  sono  tenuti  ad
interpretare il diritto interno, per quanto possibile, alla luce  del
testo e  dello  scopo  dell'accordo  quadro  in  parola  al  fine  di
raggiungere il risultato perseguito  da  queseultimo  e  conformarsi,
pertanto, all'art. 228, terzo cometa, TFUE",  ma  "l'obbligo  per  il
giudice nazionale di fare riferimento  al  contenuto  di  un  accordo
quadro  nell  'interpretazione  e  nell  'applicazione  delle   norme
pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi
generali del diritto,  in  particolare  in  quelli  di  certezza  del
diritto e di irretroattivita', e non puo' servire  da  fondamento  ad
un'interpretazione  contra  legem  del  diritto  nazionale  (v.,  per
analogia, sentenza Adeneler e a.,  cit.,  punto  110).  Nel  caso  di
specie, la norma di interpretazione autentica contenuta nell'art.  1,
comma  13,  della  legge  n.  92/2012  preclude  qualsiasi  tipo   di
interpretazione conforme, giacche' avalla  in  modo  ineludibile  una
opzione ermeneutica che direttamente si  pone  in  contrasto  con  la
clausola di non regresso contenuta al punto 8.3 dell'accordo  quadro,
nell'accezione alla stessa fornita dalla Corte di Lussemburgo. 
    Stante l'impossibilita' di disapplicare la norma interna,  ovvero
di  operarne  una   interpretazione   conforme,   la   questione   di
legittimita' costituzionale, per violazione  dei  principi  contenuti
negli artt. 11 e  117,  comma  1,  Cost.  non  sembra  manifestamente
infondata. 
    Invero, la stessa giurisprudenza costituzionale ha individuato il
sicuro fondamento del rapporto tra ordinamento  nazionale  e  diritto
comunitario nell'art. 11 Cost.,  in  forza  del  quale  la  Corte  ha
riconosciuto, tra l'altro, il principio  di  prevalenza  del  diritto
comunitario e, conseguentemente, il potere-dovere del giudice  comune
di dare immediata applicazione alle norme  comunitarie  provviste  di
effetto diretto in luogo di norme nazionali che  siano  con  esse  in
contrasto insanabile  in  via  interpretativi;  ovvero  di  sollevare
questione di  legittimita'  costituzionale  per  violazione  di  quel
parametro  costituzionale  quando  il  contrasto  fosse   con   norme
comunitarie prive di effetto diretto. Il novellato  art.  117,  primo
comma, Cost. - che pure ha colmato la lacuna della mancata  copertura
costituzionale per le  norme  internazionali  convenzionali,  escluse
dalla previsione  dell'art.  10,  primo  comma,  Cost.  -  ha  dunque
confermato espressamente, in parte, cio' che era stato gia' collegato
all'art. 11 Cost., e  cioe'  l'obbligo  del  legislatore,  statale  e
regionale,  di  rispettare  i  vincoli   derivanti   dall'ordinamento
comunitario (cfr., per tutte, Corte Cost. n. 227 del 21 giugno 2010). 
    Conclusivamente, alla luce delle considerazioni che precedono, va
sollevata la questione di legittimita' costituzionale nei termini  di
cui  in  dispositivo,  cui  si  rinvia  anche  per  i   provvedimenti
ulteriori. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23  della  legge  11  marzo  1953  n.  87,  dichiara
rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt.  11
e 117 Cost., la questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183,  come  interpretata
autenticamente dall'1, comma 13, della legge n. 92/2012, nell'ipotesi
di successione di piu' contratti a tempo determinato; 
    Solleva la predetta questione di legittimita' costituzionale; 
    Sospende il presente giudizio; 
    Dispone trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale; 
    Dispone che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza  sia
notificata alle parti in causa nonche' al  Presidente  del  Consiglio
del ministri e sia comunicata ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
    Cosi' deciso in Velletri, il 21 dicembre 2012. 
 
                          Il Giudice: Russo