N. 137 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 dicembre 2012

Ordinanza del 18 dicembre  2012  emessa  dal  Tribunale  -  Sez.  del
riesame di Cagliari nel procedimento penale a carico di M.M.. 
 
Processo penale - Misure cautelari  personali  -  Criteri  di  scelta
  delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in  carcere
  quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto
  di cui all'art. 630 cod. pen. (Sequestro  di  persona  a  scopo  di
  rapina  o  di  estorsione)  -  Mancata  previsione  della  salvezza
  dell'ipotesi  in  cui  siano  acquisiti  elementi   specifici,   in
  relazione al caso concreto,  dai  quali  risulti  che  le  esigenze
  cautelari  possono  essere   soddisfatte   con   altre   misure   -
  Ingiustificata parificazione ai delitti di  mafia  -  Irragionevole
  assoggettamento  a  un  medesimo  regime  cautelare  di  tutte   le
  possibili manifestazioni dell'indicata figura criminosa - Contrasto
  con i principi di inviolabilita' della liberta' personale e di  non
  colpevolezza sino alla sentenza di condanna definitiva. 
- Codice di procedura penale, art.  275,  comma  3,  come  modificato
  dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio  2009,  n.  11,
  convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38. 
- Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, e 27, comma secondo. 
(GU n.25 del 19-6-2013 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    A scioglimento della  riserva  formulata  all'esito  dell'udienza
celebrata il 14 dicembre 2012, ha pronunciato la  seguente  ordinanza
sull'appello proposto dal difensore avverso l'ordinanza  in  data  13
novembre 2012, con la quale  il  Giudice  procedente  Corte  d'Assise
d'Appello, costituita presso la locale Corte d'Appello, ha  rigettato
l'istanza di sostituzione della misura della  custodia  cautelare  in
carcere, attualmente in esecuzione nei  confronti  di  M.  M. nato  a
Samassi il 15 febbraio 1971. 
 
                             Motivazione 
 
    Il pregiudicato M.M. e' imputato  dei  delitti  di  sequestro  di
persona a scopo di estorsione e di rapina aggravata  in  concorso  in
danno dell'ultraottantenne S.B., commesso in Samassi  dal  14  al  15
maggio 2010, data del suo arresto in flagranza, ed, in ordine a  tali
reati, si trova da allora in stato di custodia cautelare in  carcere.
Nel frattempo lo  stesso,  con  sentenza  in  data  12  luglio  2011,
pronunciata, all'esito di giudizio abbreviato,  dal  Giudice  per  le
indagini preliminari, e' stato dichiarato  colpevole  di  entrambi  i
reati ascrittigli, unificati  dal  vincolo  della  continuazione,  e,
esclusi gli effetti della recidiva, riconosciute  le  attenuanti  del
vizio parziale di mente e le generiche, e' stato condannato alla pena
di anni dieci e mesi due  di  reclusione,  oltre  ad  accessori.  Con
sentenza in data 5 marzo 2012 la Corte d'Assise d'Appello ha concesso
al medesimo le ulteriori attenuanti di  cui  agli  artt.  630,  comma
quarto, del cod. pen., limitatamente al sequestro di persona,  e  62,
n. 6, del cod. pen., limitatamente  alla  rapina,  e,  ritenuto  piu'
grave quest'ultimo delitto, ha  rideterminato  la  pena  complessiva,
riducendola viepiu' ad anni otto  di  reclusione  ed  euro  mille  di
multa. 
    Nelle more del giudizio di  Cassazione,  il  M.  ha,  tramite  il
difensore, chiesto la sostituzione della  custodia  intramuraria  con
gli  arresti  domiciliari  presso  la  casa  famiglia,   gestita   da
religiose, «Giovani in Cammino», sedente in agro del Comune di Sorso.
A  sostegno  ha  invocato  il   lungo   tempo   decorso   dall'inizio
dell'esecuzione della  misura  e  dal  fatto  di  reato;  l'immediata
collaborazione prestata in favore degli inquirenti,  che  aveva  reso
possibile la piu' pronta  liberazione  dell'ostaggio;  l'episodicita'
della condotta ed il pentimento manifestato, tali, a suo  avviso,  da
indurre a ritenere che il residuo pericolo di  recidiva,  l'unico  in
effetti ancora ravvisabile, potesse  essere  contenuto  con  la  meno
gravosa misura richiesta. 
    Con ordinanza in data  13  novembre  2012  il  Giudice  adito  ha
rigettato   l'istanza,   sui   rilievi   che    l'atteggiamento    di
collaborazione fosse stato non spontaneo, ma semplicemente volontario
e mosso da intenti utilitaristici;  che  la  confessione  resa  fosse
stata soltanto parziale e che non avesse  fatto  piena  chiarezza  su
tutti i contorni della vicenda, ne' su tutti i soggetti in  essa,  in
ipotesi, coinvolti; che, nonostante la seminfermita',  il  reo  fosse
stato comunque capace di ideare un piano rudimentale  ma  di  elevato
spessore criminale, prevedente l'isolamento, in una  cella  sistemata
sotto terra, di un uomo di oltre ottant'anni, la cui vita  era  stata
esposta a  mortale  pericolo;  che  la  somma  versata  a  titolo  di
risarcimento del danno fosse parziale e che fosse stata  versata  non
da lui, ma dalla moglie; che il tempo decorso fosse comunque breve  e
che dagli atti  non  emergesse  alcun  concreto  elemento  dal  quale
desumere indici di resipiscenza o  di  mutamento  della  condotta  di
vita. 
    Avverso la predetta ordinanza ha proposto appello il difensore. 
    A sostegno ha ribadito che l'arco di tempo decorso  in  stato  di
custodia cautelare in carcere, data la sua lunghezza, avrebbe  dovuto
essere considerato, nel coacervo delle altre risultanze  processuali,
come rilevante ai fini dell'attenuazione della pericolosita' sociale,
anche perche' il reato era stato commesso  oltre  due  anni  e  mezzo
prima; che l'asserzione riguardante il mancato pentimento si porrebbe
in contrasto col riconoscimento, in sentenza,  dell'attenuante  della
dissociazione; che, ugualmente, l'assunto secondo cui il  M.  sarebbe
soggetto  particolarmente  pericoloso  non  troverebbe  riscontro  in
alcuno degli indici soggettivi di cui all'art.  133  del  cod.  pen.,
alla luce della natura bagatellare e della  risalenza  dei  due  soli
precedenti penali dai quali il  M.  stesso  era  gravato,  delle  sue
condizioni di disagio psichico e dell'assenza di carichi  pendenti  e
che, in conclusione, la rimanente pericolosita'  ben  avrebbe  potuto
essere  controllata  con  la  misura   degli   arresti   domiciliari,
oltretutto previsti in una casa famiglia che assicurava  un  continuo
controllo, ubicata in luogo molto distante da quello in cui  i  fatti
si erano svolti. 
    Ad avviso del Collegio sussisterebbero tutte  le  condizioni  per
accogliere l'appello. 
    In primo luogo, infatti, va senz'altro esclusa la sussistenza dei
pericoli  di  fuga  e  di  inquinamento  delle  prove,  peraltro  mai
ravvisati in tutto il corso del procedimento, atteso che: i)  non  si
ha notizia che il M. si sia dato alla fuga, ne' emergono  dagli  atti
elementi di sorta da cui inferire  la  qualificata  probabilita'  che
egli  possa  rendersi  irreperibile   per   sottrarsi   all'eventuale
esecuzione della pena, e che ii) di fronte al grado in cui  si  trova
il processo, ormai giunto all'esame della Corte di Cassazione, ed  al
quadro probatorio di riferimento, ampiamente consolidato, non  appare
seriamente immaginabile, neppure in  astratto,  alcuna  attivita'  di
inquinamento delle prove. 
    In secondo  luogo,  poi,  deve  ritenersi  che  la  pericolosita'
sociale   dell'imputato,   scontata   nella   stessa   richiesta   di
sostituzione, possa essere contenuta anche con la meno gravosa misura
degli arresti  domiciliari,  dovendosi  affermare  con  tranquillante
certezza che egli sia in grado di rispettare le prescrizioni ad  essa
inerenti,  come  emerge  in  maniera  chiara  dall'esame  della   sua
personalita', condotto con i criteri indicati nell'art. 133 del  cod.
pen. e dalle modalita' e circostanze del fatto. 
    Il M., invero, ha due soli precedenti penali (uno  per  il  reato
continuato di guida senza patente di  veicolo  munito  di  targa  non
propria, commesso nel 1991, da tempo depenalizzato,  ed  uno  per  il
reato di minaccia, commesso nell'anno 2000, sanzionato con la pena di
lire 50.000,00, pari ad euro 25,82,  di  multa);  non  risulta  avere
carichi pendenti, ne'  pregiudizi  di  polizia;  ha  reso  pressoche'
immediata confessione, chiamando in correita' il suo complice; si  e'
attivato per consentire la piu' rapida liberazione dell'ostaggio;  ha
espresso pentimento per il misfatto commesso; si e' adoperato per far
conseguire alla vittima un parziale risarcimento del danno subito  ed
ha agito non  in  attuazione  di  una  scelta  di  vita,  liberamente
maturata  nel  tempo,  improntata  al   crimine   ed   al   dispregio
dell'Autorita' costituita e delle regole  da  essa  imposte,  che  lo
renderebbe totalmente inaffidabile, ma sulla base  di  una  decisione
d'impeto, connotata da elementi di  irrazionalita',  indotta  da  una
situazione del tutto contingente ed in parte riconducibile anche alle
sue condizioni di disagio mentale. 
    Le stesse  modalita'  dell'evento  (concepito  e  realizzato  con
«ingenuita'», come si legge nella sentenza di primo  grado)  denotano
come l'imputato presenti una ridotta capacita' a  delinquere  ed  una
non particolare pericolosita' sociale. 
    In definitiva, dunque, valutata la personalita'  del  M.,  tenuto
conto della sua storia giudiziaria ed apprezzate le circostanze nelle
quali i reati per cui si procede sono stati programmati e  consumati,
puo' concludersi nel  senso  che  il  medesimo  sia  sufficientemente
affidabile e che possieda  una  dose  di  autocontrollo  adeguata  ad
assicurare la spontanea osservanza delle prescrizioni  inerenti  alla
meno gravosa misura degli arresti domiciliari. 
    A maggior ragione se non si pretermette di considerare  che  tale
misura dovrebbe essere eseguita presso una casa famiglia  ubicata  in
luogo distante  da  quello  dei  fatti,  gestita  da  religiose,  che
garantirebbe comunque una continua sorveglianza del sottoposto. 
    Per tutti i motivi teste' indicati non resterebbe al Collegio che
riformare  l'ordinanza  appellata,  nei   termini   sollecitati   dal
ricorrente, ed adottare le coerenti determinazioni consequenziali. 
    Tale soluzione, nondimeno, e', allo stato, assolutamente preclusa
dal chiaro tenore dell'art. 275, comma 3,  del  cod.  proc.  pen.,  a
mente del quale, come  e'  tanto  noto  da  non  richiedere  apposita
dimostrazione, quando sussistono  gravi  indizi  di  colpevolezza  in
ordine, tra gli altri, al reato di cui all'art. 630 del cod. pen.  e'
applicata e mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo (e fino
a)  che  siano   stati   acquisiti   elementi   dai   quali   risulti
l'insussistenza di esigenze cautelari. 
    Ebbene, ad avviso del Tribunale, la norma teste' citata  presenta
profili di illegittimita' costituzionale, con riferimento agli  artt.
3, 13, primo comma, e 27, secondo comma,  della  Carta  Fondamentale,
nella parte in cui, prevedendo che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 630 del cod.  pen.,
e' sempre applicata la misura della custodia  cautelare  in  carcere,
salvo che non ricorrano esigenze cautelari, non fa  salva,  altresi',
l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione  al
caso concreto, dai quali risulti che le  esigenze  cautelari  possono
essere soddisfatte con altre misure. 
    Secondo la costante giurisprudenza di codesta Corte, infatti,  il
legislatore puo', conformemente ai principi costituzionali, prevedere
in linea generale  delle  fattispecie  delittuose  in  cui,  data  la
ricorrenza di gravi indizi di colpevolezza e ritenuta la  sussistenza
di  esigenze  cautelari,  sia  presunta,  anche  iuris  et  de  iure,
l'adeguatezza e la proporzionalita' della misura  della  custodia  in
carcere, ma codesta  discrezionalita'  puo'  esercitare  solamente  a
condizione  che  le  fattispecie  medesime  siano  non  solamente  di
particolare  gravita',  ma   anche   connotate   da   una   struttura
necessariamente implicante,  da  un  punto  di  vista  sociologico  e
criminologico, l'esistenza di un rapporto permanente  col  delitto  e
tendenzialmente irreversibile, si' da giustificare, nei confronti  di
chi sia gravemente indiziato di  aver  commesso  dei  fatti  in  esse
sussumibili,  di  fronte  all'accertamento  di  pericula  libertatis,
sempre ed in ogni caso l'ineludibilita' di una sorveglianza costante,
che solamente la custodia in carcere puo' permettere di realizzare. 
    Sempre secondo codesta Corte tale ratio non  puo'  invece  essere
estesa a reati, seppure gravi ed  odiosi,  nei  quali  non  vale  una
analoga  regola  di  esperienza  generalizzata,  ricollegabile   alla
struttura stessa ed alle  peculiarita'  criminologiche  della  figura
delittuosa, a mente della quale le  esigenze  cautelati  non  possono
altrimenti essere garantite se non con la carcerazione dell'indagato. 
    In applicazione degli esposti principi si e' dunque affermata, da
un lato, la legittimita' costituzionale della presunzione assoluta di
adeguatezza e di proporzionalita' della custodia  in  carcere  per  i
reati di  criminalita'  organizzata  di  stampo  mafioso,  atteso  il
coefficiente  di  pericolosita'  per  le  condizioni  di  base  della
convivenza e della sicurezza collettiva che a quel tipo di  illeciti,
secondo l'id quod plerumque  accidit,  ordinariamente  si  accompagna
(ordinanza 18 ottobre 1995, n. 450), e, dall'altro,  si  e'  ritenuta
irragionevole   la   presunzione   assoluta    di    adeguatezza    e
proporzionalita' della carcerazione preventiva,  ad  esempio,  per  i
reati di violenza  sessuale,  di  atti  sessuali  con  minorenni,  di
prostituzione minorile (sent.  21  luglio  2010,  n.  265),  omicidio
(sent. 12 maggio 2011, n. 164), associazione finalizzata al  traffico
di  sostanze  stupefacenti  (sent.  22  luglio  2011,  n.   231)   ed
associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei  delitti
di cui agli artt. 473 e 474 del cod. pen. (sent. 3  maggio  2012,  n.
110), in quanto, in dette fattispecie, ben possono  proporsi,  giusta
la comune  esperienza,  esigenze  cautelari  suscettibili  di  essere
soddisfatte con misure leviori. 
    Ad avviso di questo  Tribunale  ad  identica  soluzione  dovrebbe
pervenirsi con riferimento alla presunzione fissata per il delitto di
sequestro di persona a scopo  di  estorsione,  perche'  anche  questo
reato puo' essere espressione di iniziative individuali, concepite al
di fuori di qualsivoglia rapporto con la criminalita' organizzata,  e
puo' assumere diversa gravita' in concreto,  per  la  varieta'  delle
possibili forme di manifestazione  e  per  la  personalita'  del  suo
autore, tali da non postulare  necessariamente,  secondo  una  regola
d'esperienza  costantemente  verificata  ed  unanimemente  condivisa,
esigenze cautelari affrontabili soltanto con la custodia in  carcere,
come, del resto, e' stato riconosciuto  nella  recente  sentenza,  23
marzo  2012,  n.  68,  di  illegittimita'   costituzionale   parziale
dell'art. 630, cit., nella parte in cui non prevede che la  pena  ivi
comminata sia diminuita quando, per la natura, la specie, i  mezzi  o
le modalita' dell'azione, ovvero  per  la  particolare  tenuita'  del
danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entita'. 
    Anche nel caso in  esame,  dunque,  la  presunzione  assoluta  di
proporzionalita' ed adeguatezza della custodia cautelare  in  carcere
viola  gli  art.  3,  13,  primo  comma,  e  27  della   Cost.,   per
l'ingiustificata  parificazione   ai   delitti   di   mafia   e   per
l'irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare di tutte
le possibili forme di manifestazione dell'indicata figura  criminosa;
per la violazione  del  canone  secondo  cui  la  privazione  in  via
cautelare della liberta' personale  e'  possibile  soltanto  in  casi
eccezionali,  quando  ogni  altra  alternativa  risulti  in  concreto
impraticabile, e  per  l'inevitabile  attribuzione  alla  coercizione
personale, laddove essa eccede le specifiche finalita'  sue  proprie,
di tratti funzionali tipici della pena. 
    In  conclusione,  quindi,  deve  ritenersi   che,   nei   termini
specificati, la questione di legittimita' in parte qua dell'art.  275
del cod. proc. pen. sia rilevante  nel  presente  giudizio,  perche',
qualora la stessa dovesse essere accolta, la  decisione  del  ricorso
sarebbe diversa da quello invece allo stato imposta dalla norma della
cui  costituzionalita'  si  dubita,  oltre  che  non   manifestamente
infondata, per i motivi supra rappresentati. 
    Non resta, pertanto, che investire della questione stessa codesta
Corte, sospendendo il giudizio nelle more della decisione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 134  della  Costituzione,  1  della  l.  cost.  9
febbraio 1948, n. 1, e 23 della l. 11 marzo 1953, n. 87: 
      1)  Solleva  d'ufficio,  in  via  incidentale,   questione   di
legittimita' costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 13,  primo
comma, e 27 della Cost. dell'art. 275, comma 3, del cod. proc.  pen.,
come modificato dall'art.  2  del  d.l.  23  febbraio  2009,  n.  11,
convertito con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n.  38,  nella
parte  in  cui  nel  prevedere  che,  ricorrendo  gravi   indizi   di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 630 del cod.  proc.
pen, e' applicata la custodia cautelare in  carcere,  salvo  che  non
sussistano esigenze cautelari, non fa altresi' salva l'ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione  al  caso  concreto,
dai  quali  risulti  che  le  esigenze   cautelari   possono   essere
soddisfatte con altre misure; 
      2) Sospende il procedimento; 
      3) Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
      4) Manda alla Cancelleria di notificare la  presente  ordinanza
al Presidente del Consiglio dei  Ministri,  all'imputato  ed  al  suo
difensore e di comunicarla ai Presidenti della Camera dei Deputati  e
del Senato della Repubblica. 
 
        Cagliari, 10 dicembre 2012 
 
                  Il Presidente estensore: Poddighe