N. 224 SENTENZA 16 - 19 luglio 2013

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Disposizioni in materia di rapporto  di  lavoro  a
  tempo parziale - Provvedimenti di concessione della  trasformazione
  del rapporto di lavoro da tempo pieno  a  tempo  parziale  adottati
  prima della riforma del 2008, secondo la  regola  della  soggezione
  del datore di lavoro pubblico al diritto potestativo attribuito  ai
  lavoratori - Prevista possibilita' per la Pubblica  Amministrazione
  di rivedere i provvedimenti medesimi  nel  termine  di  centottanta
  giorni - Asserita violazione di obblighi  internazionali  derivanti
  dalla normativa comunitaria - Insussistenza - Interpretazione della
  norma censurata che  subordina  la  determinazione  del  datore  di
  lavoro pubblico a serie ragioni organizzative  e  gestionali  e  al
  rispetto dei principi di correttezza e buona fede - Non  fondatezza
  della questione. 
- Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 16. 
- Costituzione, artt. 10,  35,  terzo  comma,  e  117,  primo  comma;
  direttiva 97/81/CE, allegato accordo quadro 6 giugno 1997, clausola
  5, punto 2. 
(GU n.30 del 24-7-2013 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Franco GALLO; 
Giudici :Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE,  Giuseppe
  TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe   FRIGO,   Alessandro
  CRISCUOLO, Paolo  GROSSI,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Sergio  MATTARELLA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo
  CORAGGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale  dell'art.  16  della
legge 4 novembre 2010, n. 183  (Deleghe  al  Governo  in  materia  di
lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative
e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per  l'impiego,  di
incentivi   all'occupazione,   di   apprendistato,   di   occupazione
femminile, nonche' misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in
tema di lavoro pubblico e di controversie di  lavoro),  promosso  dal
Tribunale ordinario di Forli' nel procedimento vertente tra  F.N.  ed
altri e il Comune di Forli' ed altro, con  ordinanza  del  27  giugno
2012 iscritta al n. 14 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  7,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    Udito nella camera di consiglio del  5  giugno  2013  il  Giudice
relatore Luigi Mazzella. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - Il Tribunale di Forli', in funzione di giudice  del  lavoro,
con ordinanza del 27 giugno 2012, iscritta  al  n.  14  del  registro
ordinanze dell'anno 2013,  ha  sollevato  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 16 della  legge  4  novembre  2010,  n.  183
(Deleghe   al   Governo   in   materia   di   lavori   usuranti,   di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico e di controversie di lavoro), con riferimento agli  articoli
10, 35, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione,  nonche'
all'art. 5, comma 2, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo  parziale
allegato alla direttiva 97/81/CE del 15 dicembre  1997  (attuata  con
decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61), 
    1.1. - Riferisce il giudice rimettente di avere riunito tre cause
concernenti  il  controverso  diritto  di  cinque   ricorrenti   alla
conservazione del rapporto  di  lavoro  part-time  che  le  pubbliche
amministrazioni convenute (Ministero di giustizia e Comune di Forli')
avevano sottoposto a rivalutazione in forza dell'art. 16 della  legge
n. 183 del 2010, a tenore del quale «in sede  di  prima  applicazione
delle disposizioni introdotte dall'articolo 73 del  decreto-legge  25
giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo  economico,
la  semplificazione,  la  competitivita',  la  stabilizzazione  della
finanza pubblica  e  la  perequazione  tributaria),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, le  amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo  30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle
dipendenze   della   amministrazioni   pubbliche),    e    successive
modificazioni, entro centottanta giorni  dalla  data  di  entrata  in
vigore della presente legge, nel rispetto dei principi di correttezza
e buona fede, possono sottoporre a nuova valutazione i  provvedimenti
di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro  da  tempo
pieno a tempo parziale gia' adottati prima della data di  entrata  in
vigore del citato decreto-legge n.  112  del  2008,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008»; che in tutti e cinque  i
casi  sottoposti  a  giudizio,   le   ricorrenti   avevano   ricevuto
comunicazioni dai  rispettivi  enti  datori  di  lavoro  che  i  loro
rapporti di lavoro erano stati sottoposti a revisione  ai  sensi  del
citato art. 16 ed alcuni erano stati «ricostituiti  a  tempo  pieno»,
mentre un altro rapporto era  stato  trasformato  da  tempo  parziale
orizzontale con prestazione  lavorativa  al  50%  in  tempo  parziale
orizzontale con prestazione lavorativa al 66,67%. 
    1.2. - Osserva il rimettente, innanzitutto, che la  questione  e'
rilevante, perche' concerne precisamente il  «titolo»  in  forza  del
quale  gli  enti  hanno  agito:  laddove  la  norma  fosse   ritenuta
costituzionalmente illegittima, infatti, essa non  potrebbe  incidere
sulla  regolamentazione  del  rapporto,  come  invece  pretendono  il
Ministero ed il Comune resistenti; la trasformazione del rapporto  di
lavoro da tempo parziale  a  tempo  pieno  (ovvero  la  sua  modifica
ampliativa della durata della prestazione  lavorativa)  e'  avvenuta,
infatti, contro il volere delle ricorrenti e  precisamente  in  forza
della  disposizione  sopra  ricordata,  sicche'  la  valutazione   di
legittimita' della pretesa datoriale  presupporrebbe  necessariamente
la validita' della norma dalla medesima applicata. 
    1.3. - Ad avviso del giudice a quo, la questione non  e'  neppure
manifestamente infondata. 
    Ai sensi della clausola  5,  punto  2,  dell'accordo  quadro  sul
lavoro a tempo parziale, allegato alla direttiva del Consiglio  delle
Comunita' europee 97/81 del 15  dicembre  1997,  «il  rifiuto  di  un
lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad  uno  a
tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire
motivo  valido  per  il  licenziamento,  senza  pregiudizio  per   la
possibilita' di procedere, conformemente  alle  leggi,  ai  contratti
collettivi  e  alle  prassi  nazionali,  a  licenziamenti  per  altre
ragioni,  come  quelle  che  possono  risultare  da   necessita'   di
funzionamento  dello  stabilimento  considerato».  Ma  che  si  possa
procedere a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che  possono
risultare  da  necessita'   di   funzionamento   dello   stabilimento
considerato,  non  parrebbe   sterilizzare   il   pregiudizio   della
conversione autoritativa del rapporto. 
    Dissente sotto questo aspetto il  rimettente  da  quell'indirizzo
della giurisprudenza di merito che ha riconosciuto la  compatibilita'
della norma interna sul presupposto che  «la  disposizione  va  [...]
intesa nel senso  che  qualora  vi  siano  esigenze  organizzative  o
tecniche o produttive che impongano la trasformazione del rapporto da
tempo parziale a tempo pieno o viceversa, il  datore,  a  fronte  del
rifiuto del lavoratore a dette trasformazioni, potrebbe procedere  al
licenziamento per ragioni risultanti da «necessita' di  funzionamento
dello stabilimento» (assimilabili alla nozione di giustificato motivo
oggettivo ex art. 3 della legge  15  luglio  1966,  n.  604,  recante
«Norme sui licenziamenti individuali»). Con la conseguenza che se poi
il lavoratore non acconsentisse alla trasformazione del  rapporto  da
tempo parziale a tempo pieno e cio' integrasse un giustificato motivo
oggettivo, si esporrebbe al rischio di esser licenziato. E cio',  con
il conforto della migliore dottrina,  che  interpreta  l'art.  5  del
decreto  legislativo  25  febbraio  2000,  n.  61  (Attuazione  della
direttiva 97/81/CE relativa all'accordo-quadro  sul  lavoro  a  tempo
parziale concluso dall'UNICE, dal CEEP e dalla CES)  -  la'  dove  ha
recepito la norma comunitaria prescrivendo  che  «il  rifiuto  di  un
lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno
in rapporto a tempo parziale, o il proprio rapporto di lavoro a tempo
parziale in rapporto a  tempo  pieno,  non  costituisce  giustificato
motivo di licenziamento» - nel  senso  che  «vieta  il  licenziamento
motivato  di  per  se'  (cioe',  esclusivamente)  dal  rifiuto  della
trasformazione, ferma rimanendo la possibilita' di  pervenire  ad  un
valido recesso in presenza  di  elementi  che  lo  giustifichino  per
ragioni diverse, rispetto alle quali l'elemento della  prestazione  a
tempo parziale rileva solo di riflesso»  (e'  citata,  in  proposito,
l'ordinanza del Tribunale di Trieste, 29 settembre  2011,  in  RG  n.
632/11). 
    Altra sarebbe,  pero',  la  valenza  giuridica  del  rifiuto  del
lavoratore, ad avviso del rimettente, a seconda che lo  si  consideri
espressione  di  una  facolta'  del   dipendente   ovvero   una   sua
inosservanza di disposizioni datoriali. Prima  dell'emanazione  della
norma in esame, infatti, il lavoratore bene avrebbe potuto  rifiutare
una prestazione full-time, esponendosi virtualmente al rischio di  un
licenziamento per giustificato motivo  oggettivo,  il  quale  avrebbe
dovuto, pero', presentare i requisiti di legittimita' di questo  tipo
di recesso. Oggi, invece, soggiunge il giudice a quo, alla luce della
predetta norma, se ritenuta  legittima,  il  rifiuto  del  lavoratore
sarebbe di per se' illegittimo, poiche' inottemperante alla richiesta
datoriale, e giustificherebbe il recesso datoriale per inadempimento,
integrando pero', di fatto, precisamente le condizioni vietate  dalla
norma comunitaria (recepita nell'ordinamento interno con il d.lgs. n.
61 del 2000, in particolare, per quanto qui rileva, all'art. 5, primo
comma, prima parte). L'opposizione del dipendente alla trasformazione
del  rapporto  finirebbe,  infatti,  per  rappresentare,   sia   pure
attraverso il veicolo disciplinare,  la  precisa  e  sola  causa  del
licenziamento. Insomma, in questo secondo caso, proprio il rifiuto in
se', con le sue conseguenze disciplinari (rimesse al datore di lavoro
e certamente sottratte alla disponibilita' del dipendente),  verrebbe
ad integrare la causa del licenziamento, in contrasto  con  la  ratio
della norma comunitaria, della quale la norma nazionale risulterebbe,
dunque, elusiva. 
    La norma confliggerebbe, quindi, con l'art. 10 Cost., nella parte
in cui impegna lo Stato ad uniformarsi al diritto internazionale, con
l'art. 35, terzo comma, Cost.,  laddove  si  sancisce  la  promozione
degli accordi internazionali intesi a regolare i diritti del  lavoro,
con l'art. 117 Cost., che impone il rispetto  dei  vincoli  derivanti
dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. 
    Ne' la natura transitoria della  disposizione  -  valorizzata  da
altra giurisprudenza di  merito  (in  particolare  del  Tribunale  di
Bologna) - apparirebbe idonea a superare il vizio  sopra  ipotizzato,
in mancanza di un riferimento normativo che consenta di  sacrificare,
per la transitorieta' della norma, la permanenza dei suoi effetti  in
danno dei diritti dalla medesima violati. 
    Neppure rileverebbe, nella valutazione della norma incidente  sul
diritto in esame, la diversa genesi di esso, sorto non gia' a seguito
di  contrattazione  inter  privatos,  bensi'  sulla   base   di   una
disposizione di legge secondo cui «La trasformazione del rapporto  di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale avviene automaticamente  entro
sessanta giorni dalla domanda, nella quale  e'  indicata  l'eventuale
attivita' di lavoro subordinato o autonomo che il dipendente  intende
svolgere» (art. 1, comma 558, della legge 23 dicembre 1996,  n.  662,
recante  «Misure  di  razionalizzazione  della  finanza   pubblica»),
potendosi affermare che in entrambi i casi il diritto deve  ritenersi
acquisito al patrimonio del soggetto. 
    Tanto  meno  concorrenti  ragioni  di  contenimento  della  spesa
pubblica,  pur  invocabili  a  maggior  ragione   a   seguito   della
costituzionalizzazione  del  principio  del  pareggio  di   bilancio,
potrebbero  prevalere  sulla  sistematica  dell'ordinamento,  per  la
possibilita' che per il raggiungimento  dei  medesimi  fini,  vengano
adottati strumenti diversi, come, rispetto  al  caso  di  specie,  il
recesso per  giustificato  motivo  oggettivo.  Peraltro,  proprio  la
predicata «coerenza con l'ordinamento dell'Unione  europea»  dovrebbe
essere intesa, nel complesso delle norme della Carta e in difetto  di
ulteriori  specificazioni,  in  un'accezione  ampia,  nel  senso  che
l'equilibrio dei bilanci e  la  sostenibilita'  del  debito  pubblico
siano assicurati in una complessiva armonizzazione con  l'ordinamento
dell'Unione europea, oltre i confini  meramente  economici  suggeriti
dalla terminologia della norma espressiva del principio anzidetto. 
    Il rimettente non ignora che esigenze contingenti possano indurre
a scelte normative di carattere temporaneo ed eccezionale, ma  reputa
estranea alle competenze del giudice ordinario «una valutazione tanto
pregnante  delle  priorita'  politico-sociali   ed   economiche   che
sottostanno alla normazione». 
    Ne' ritiene di poter ovviare  alla  contraddizione  rilevata  «in
base al generale principio secondo il quale il giudice nazionale deve
disapplicare la norma interna, qualora sia incompatibile col  diritto
comunitario, anche se contenuto in una direttiva  rimasta  inattuata»
(Corte di cassazione, sezione lavoro, 14 ottobre 2004, n. 20275): non
si tratterebbe, infatti, nella specie di disapplicare  la  norma  per
far rivivere quella  comunitaria,  poiche'  quest'ultima  attiene  al
diverso aspetto della diretta correlazione tra  recesso  datoriale  e
rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto, mentre nel
caso di specie l'effetto  sarebbe  solo  indiretto  e  mediato  dalla
previa  soggezione  del  lavoratore  alla  «nuova  valutazione»   dei
provvedimenti di concessione della  trasformazione  del  rapporto  di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale gia' adottati. 
    Quanto poi alla possibile  incompatibilita'  della  norma  a  suo
tempo istitutiva del diritto potestativo ora in  discussione  con  il
principio generale del buon andamento della pubblica amministrazione,
opina  il  giudice  a  quo  che  solo  la  previa   declaratoria   di
illegittimita'  costituzionale   di   questa   disposizione   potesse
consentire di regolamentare il rapporto di lavoro  con  le  modalita'
autoritative dell'art. 16 della legge n. 183 del 2010. 
    2. - Con atto depositato il  4  marzo  2013  e'  intervenuto  nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei  Ministri,  rappresentato  e
difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  instando   per   la
declaratoria d'irrilevanza  o,  in  subordine,  d'infondatezza  della
prospettata questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  16
della legge n. 183 del 2010 in relazione agli  artt.  10,  35  e  117
della  Costituzione  e  all'art.  5,  punto  2,  dell'accordo  quadro
allegato alla direttiva 97/81/CE (nella  parte  in  cui  consente  di
trasformare un rapporto di lavoro a tempo  parziale  in  rapporto  di
lavoro a tempo pieno). 
    2.1. - In ordine all'eccepita irrilevanza, la difesa dello  Stato
sintetizza la questione sollevata dal Tribunale di Forli' nel  timore
che l'introduzione della norma censurata comporti, in violazione  dei
principi sanciti dalla suddetta direttiva  europea,  la  possibilita'
per il datore di lavoro pubblico di recedere dal rapporto  di  lavoro
sulla  sola  base  del  rifiuto  del  lavoratore  di   aderire   alla
trasformazione del rapporto da part-time a full-time.  L'oggetto  dei
giudizi (riuniti) a quibus, tuttavia, e'  esclusivamente  l'esercizio
da parte delle pubbliche amministrazioni della facolta' di sottoporre
a nuova  valutazione  i  rapporti,  mentre  nessun  provvedimento  di
licenziamento risulterebbe in concreto essere stato adottato. 
    Soltanto nel caso che si vertesse in  ipotesi  di  licenziamento,
osserva la difesa dello Stato, la questione potrebbe essere  ritenuta
rilevante, mentre, trovandocisi semplicemente nella  fase  di  «nuova
valutazione» prevista dal citato art. 16, il timore del licenziamento
deriverebbe soltanto dall'interpretazione  che  il  rimettente  vuole
dare della norma; sarebbe, cioe', solo eventuale e non attuale. E tra
una interpretazione conforme alla Costituzione ed una  contraria,  il
giudice sarebbe tenuto a dare la prevalenza alla prima. 
    2.2. - L'Avvocatura generale dello Stato sottolinea, inoltre,  la
singolarita' del riferimento all'art. 35, terzo comma, Cost. (secondo
cui  la  Repubblica  «promuove  e  favorisce   gli   accordi   e   le
organizzazioni  internazionali  intesi  ad  affermare  e  regolare  i
diritti   del   lavoro»),   perche'   l'Unione   europea    non    e'
un'organizzazione  internazionale  diretta  alla  regolamentazione  o
affermazione del diritto del lavoro. L'unico collegamento della norma
sospettata con l'art.  35  Cost.  starebbe  nel  fatto  che  entrambi
possano essere genericamente considerati come riguardanti il  diritto
del lavoro, ma il collegamento sarebbe, appunto,  cosi  generico  che
non si potrebbe configurare una violazione del secondo per via  della
prima. 
    2.3. - In ogni caso, secondo la difesa dello Stato, la  questione
non e' fondata, perche' la disciplina contenuta nel  citato  art.  16
non violerebbe alcuna delle norme costituzionali indicate dal giudice
rimettente e, tanto meno, l'art.  5,  comma  2,  dell'accordo  quadro
allegato alla direttiva 97/81/CE. 
    2.3.1. - Il giudice a quo sarebbe, anzitutto, incorso in un grave
errore di diritto censurando la norma in questione per contrasto  con
l'art. 10 Cost. E cio', in quanto l'art. 10 Cost. non si riferisce al
diritto internazionale tout court,  bensi'  alle  norme  del  diritto
internazionale generalmente riconosciute, mentre in questa  sede  non
verrebbe   in   rilievo   una   norma   di   diritto   internazionale
consuetudinario, ma  una  direttiva,  tra  l'altro  gia'  debitamente
recepita nell'ordinamento interno. 
    2.3.2. - Sarebbe, inoltre, palesemente infondato  il  riferimento
all'art. 5, punto 2,  dell'accordo  quadro  allegato  alla  direttiva
97/81/CE e all'art. 117  Cost.,  in  base  ad  un  ragionamento  piu'
sistemico che, diversamente da quanto sostenuto dal  giudice  a  quo,
dovrebbe  condurre   a   ritenere   prevalente,   in   un'ottica   di
bilanciamento, l'interesse al contenimento della spesa pubblica. 
    Innanzitutto,  perche'  dopo  l'inserimento  del  principio   del
pareggio  di  bilancio  in  Costituzione  tale  valore  e'   protetto
direttamente da  essa,  mentre  il  diritto  alla  conservazione  del
rapporto di lavoro part-time e' protetto indirettamente dall'art. 117
Cost., in quanto obbligo derivante dall'ordinamento  comunitario.  Il
che potrebbe, gia' di per se',  far  supporre  una  superiorita'  del
primo interesse nei confronti del secondo. 
    In secondo luogo, perche' entrambi gli obblighi in  questione,  e
cioe' quello della conservazione del rapporto part-time e quello  del
pareggio di bilancio, derivano da impegni comunitari (salvo il  fatto
gia'   menzionato   della   costituzionalizzazione    del    secondo,
ulteriormente deponente, come detto, a favore della sua  preminenza),
per cui sarebbe utile cercare di ponderare i due valori dal punto  di
vista dell'ordinamento europeo. In tale ottica,  sostiene  la  difesa
dello Stato, essendo l'Unione europea soprattutto unione economica  e
monetaria che deriva gran parte dei propri fondi da  risorse  erogate
dai fondi degli Stati membri, il pareggio di  bilancio  di  essi  non
potrebbe che risultare  incomparabilmente  prevalente  rispetto  alla
tutela del lavoro part-time. Tanto e' vero che  il  mancato  rispetto
degli obblighi di bilancio, soprattutto da parte di Paesi  importanti
dentro l'Unione come  l'Italia,  potrebbe  portare  all'uscita  dalla
moneta  unica  e  addirittura  allo   scioglimento   dell'ordinamento
dell'Unione. Dunque, nella prospettiva di un'analisi comparativa  dei
probabili  effetti  economici  del  mancato   rispetto   dell'uno   o
dell'altro obbligo da parte dell'Italia, la conclusione  sarebbe  che
sono potenzialmente molto piu' pesanti quelli derivanti  dal  mancato
rispetto degli obblighi di bilancio. 
    Rileva, infine, la difesa dello Stato che la  tutela  del  lavoro
part-time non mira a proteggere questo tipo di contratto  come  tale,
essendo, invece, diretta alla tutela del lavoro intesa come  maggiore
occupazione. E  chiosa  che  «siccome  in  nessun  caso,  le  analisi
teoriche possono prescindere dal  contesto  storico  di  riferimento,
considerare la  possibilita'  di  poter  lavorare  di  piu'  come  un
disvalore  e  addirittura  come  incostituzionale  risulta   alquanto
singolare». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Il Tribunale ordinario di Forli' dubita, in  relazione  agli
artt. 10, 35, terzo comma, e 117, primo  comma,  della  Costituzione,
della legittimita' costituzionale dell'art. 16 della legge 4 novembre
2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di  lavori  usuranti,  di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico  e  di  controversie   di   lavoro),   che   consente   alle
amministrazioni pubbliche, entro centottanta  giorni  dalla  data  di
entrata in vigore della medesima legge, di rivalutare,  nel  rispetto
dei  principi  di  correttezza  e  buona  fede,  i  provvedimenti  di
concessione della trasformazione del  rapporto  di  lavoro  da  tempo
pieno a tempo parziale  gia'  adottati  nel  regime  previgente  alla
novella di cui all'art. 73 del decreto-legge 25 giugno 2008,  n.  112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la  semplificazione,
la competitivita', la stabilizzazione della  finanza  pubblica  e  la
perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla  legge
6 agosto 2008, n. 133. 
    Nel regime precedente alla riforma del 2008, l'art. 1, comma 558,
della legge 23 dicembre 1996, n.  662  (Misure  di  razionalizzazione
della finanza pubblica), riconosceva ai lavoratori pubblici un vero e
proprio diritto  potestativo  alla  trasformazione  del  rapporto  di
lavoro da tempo pieno a tempo parziale. L'amministrazione non  poteva
rifiutarlo se non in caso di conflitto di interessi con la  specifica
attivita' di servizio del dipendente e,  pur  in  presenza  di  grave
pregiudizio  alla  funzionalita'  dell'organizzazione,  poteva   solo
differirlo per un periodo massimo semestrale, giammai negarlo. 
    Successivamente, l'art. 73 del decreto-legge  n.  112  del  2008,
modificando il citato art. 1, comma 558, della legge n. 662 del 1996,
concedeva alla pubblica amministrazione la facolta' di valutare entro
sessanta giorni dalla domanda di part-time se accoglierla o  meno  e,
segnatamente,  di  ricusare  la  trasformazione  in  tal  senso   del
rapporto, non solo nel caso in cui l'attivita' lavorativa (ulteriore)
di lavoro autonomo o subordinato comporti un conflitto  di  interessi
con la specifica attivita' di  servizio  svolta  dal  dipendente,  ma
anche tutte le volte che la trasformazione  determini,  in  relazione
alle  mansioni  e  alla   posizione   organizzativa   ricoperta   dal
dipendente, un pregiudizio  alla  funzionalita'  dell'amministrazione
stessa. 
    ?, quindi, intervenuto l'art. 16 della legge n. 183 del 2010, che
prevede   la   rivalutazione   ad    iniziativa    delle    pubbliche
amministrazioni dei rapporti di lavoro gia' trasformati da  full-time
a part-time alla stregua del disposto originario dell'art.  1,  comma
558, della legge n. 662 del 1996. 
    In particolare, il giudice a quo sospetta la norma  in  questione
d'illegittimita' per contrasto con il divieto  di  licenziamento  del
lavoratore  che  rifiuti  la  trasformazione  del  rapporto,  divieto
sancito dalla clausola 5, punto 2, dell'accordo quadro 6 giugno  1997
allegato alla direttiva del Consiglio delle Comunita'  europee  97/81
del 15 dicembre 1997 (Direttiva del  Consiglio  relativa  all'accordo
quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall''UNICE, dal  CEEP  e
dalla CES), attuata in Italia con il decreto legislativo 25  febbraio
2000,  n.  61   (Attuazione   della   direttiva   97/81/CE   relativa
all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale  concluso  dall'UNICE,
dal CEEP e dalla CES), che ha recepito detta specifica  clausola  sub
art. 5, comma 1. 
    Ad avviso del giudice rimettente, infatti,  l'anzidetta  clausola
dev'essere intesa nel senso che la  trasformazione  del  rapporto  di
lavoro da tempo parziale a tempo pieno (o  viceversa)  non  puo'  mai
avvenire senza il consenso del lavoratore.  Donde  l'inosservanza  di
essa  da  parte  della  disposizione  interna  censurata,  che   cio'
consentirebbe, invece, anche contro la sua volonta'. 
    2.   -   Preliminarmente,   dev'essere   rigettata    l'eccezione
d'inammissibilita' proposta dalla difesa dello Stato sul  presupposto
che la questione in esame sarebbe  prematura  ed  ipotetica.  E  cio'
perche'   a   suo   dire   sollevata   sulla   base   della   dedotta
incompatibilita' della norma censurata con  l'anzidetta  disposizione
della direttiva che prevede  l'illegittimita'  di  un  licenziamento,
occasionato dal rifiuto dei lavoratori di passare al full-time,  allo
stato soltanto eventuale ed  estraneo  alla  materia  dei  giudizi  a
quibus. 
    A ben vedere,  invece,  la  disposizione  europea  che  vieta  il
licenziamento per il mero rifiuto della trasformazione  del  rapporto
opposto dal lavoratore e' invocata dal rimettente solo per dimostrare
che tale trasformazione non possa essere attuata unilateralmente,  ma
con il consenso necessario del lavoratore stesso. Con la  conseguenza
che nell'ottica del giudice a quo una norma come quella  in  oggetto,
permettendo al datore di lavoro pubblico d'imporre  alla  controparte
l'orario pieno, sarebbe,  gia'  di  per  se',  contraria  alla  ratio
sottesa alla regola di derivazione comunitaria. 
    2.1. - Quanto, poi, alla pertinenza dei parametri  costituzionali
richiamati, e' pur vero che gli artt. 10 e  35,  terzo  comma,  Cost.
isolatamente considerati, non si attagliano alla  dedotta  violazione
di una direttiva comunitaria. Il primo,  perche'  si  riferisce  alle
norme di carattere consuetudinario (ordinanza n. 364 del 1989) e  non
e' utilizzabile per le norme internazionali convenzionali diverse  da
quelle di cui al secondo comma (sentenza n. 284 del 2007, punto n.  2
del Considerato in diritto).  Il  secondo,  perche'  la  Comunita'  e
l'Unione   europea   non   sono   riconducibili   al   novero   delle
organizzazioni  internazionali  tout  court,  tanto  meno  di  quelle
specificamente  dirette  all'affermazione  o  alla  regolazione   dei
diritti del lavoro. 
    Nondimeno, nella prospettazione del rimettente - che, come visto,
e' tutta imperniata sulla lesione del principio  della  modificazione
consensuale del part-time desunto dalla clausola 5,  punto  2,  della
direttiva 97/81/CE - essi fanno corpo con il  dedotto  contrasto  con
l'art.  117,  primo  comma,  Cost.  di  cui  sarebbe  espressione  la
violazione della normativa europea costituente il  nucleo  unificante
della questione proposta dal Tribunale di Forli'. 
    2.2. - Sotto altro profilo, la questione in esame e' ammissibile,
perche' il rimettente, ancorche' stringatamente,  ha  motivato  circa
l'impossibilita' di disapplicare l'art. 16 della  legge  n.  183  del
2010,  ancorche'  a  suo  parere  in  contrasto  con  una   direttiva
comunitaria evidentemente non munita di efficacia  diretta,  ma  cio'
non  significa  che  la  norma  interna  censurata  «sia  immune  dal
controllo di conformita' al diritto comunitario, che spetta a  questa
Corte, davanti alla quale il  giudice  puo'  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale, per asserita violazione dell'art. 11  ed
oggi anche dell'art. 117, primo comma, Cost. (ex  plurimis,  sentenze
n. 170 del 1984, n. 317 del 1986, n. 284 del 2007)» (sentenza  n.  28
del 2010). 
    3. - Nel merito, la questione non e' fondata. 
    3.1. - L'art.  16  della  legge  n.  183  del  2010  riguarda  la
posizione dei dipendenti pubblici che avevano ottenuto di passare  da
full-time a part-time ai sensi del dettato  originario  dell'art.  1,
comma 558, della legge  n.  662  del  1996.  Con  tale  disposizione,
infatti, si riconosceva in capo ai lavoratori un diritto  potestativo
in tal senso. La norma censurata allinea la posizione  predetta,  con
una cautela che vuole limitato nel tempo l'intervento, con quella dei
lavoratori a tempo pieno aspiranti ad un rapporto  a  tempo  parziale
alla  stregua  delle  nuove  regole  introdotte  dall'art.   73   del
decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con  modificazioni,  nella
legge n. 133 dello stesso anno. In base a quest'ultima  disposizione,
infatti, il soddisfacimento delle richieste di part-time avanzate dai
lavoratori pubblici non e' piu' automatico, come in  passato,  ma  e'
subordinato alla mancanza di  pregiudizio  (verificata  di  volta  in
volta) per il buon andamento dell'organizzazione. 
    La  disposizione  censurata  consente,  dunque,  alle   pubbliche
amministrazioni di rinnovare la valutazione - ancorche'  nel  termine
circoscritto di centottanta giorni dalla data della  sua  entrata  in
vigore e, beninteso, nel rispetto dei principi di correttezza e buona
fede - dei "vecchi" provvedimenti di concessione della trasformazione
dei rapporti di lavoro da  tempo  pieno  a  tempo  parziale:  quelli,
cioe', obbligatoriamente adottati prima della riforma  del  2008  per
effetto della soggezione del datore di  lavoro  pubblico  al  diritto
potestativo attribuito ai lavoratori dalla disciplina previgente.  In
forza del censurato art. 16, la riconferma di tali provvedimenti puo'
essere negata nell'arco temporale di un semestre. Solo, pero', quando
questi siano tali da arrecare alla funzionalita' dell'amministrazione
un pregiudizio analogo a quello che preclude  la  trasformazione  del
rapporto  da  tempo  pieno  a  tempo  parziale   secondo   le   nuove
disposizioni. Quindi, non a caso, dichiaratamente «in sede  di  prima
applicazione»  delle  stesse.  E  cio',   anche   per   ampliare   le
possibilita'  di  accoglimento  delle   istanze   di   trasformazione
presentate dopo  l'entrata  in  vigore  della  novella.  Invero  esse
sarebbero state maggiormente ridotte se le amministrazioni  pubbliche
non avessero potuto mai piu' in alcun modo ricondurre al tempo  pieno
quei rapporti che, sotto l'impero della normativa antecedente,  erano
state vincolate a trasformare in part-time. 
    A ulteriore giustificazione della maggiore rigidita' dell'accesso
al part-time dei dipendenti pubblici  full-time,  rilevano,  inoltre,
gli effetti  sulla  gestione  dei  vincoli  di  assunzione  di  nuovo
personale. Vincoli all'origine  tanto  della  nuova  disciplina  piu'
rigorosa sulla concessione del regime ad orario  ridotto,  quanto  di
quella transitoria in  questione  sui  rapporti  gia'  in  precedenza
divenuti a tempo parziale su mera richiesta dei dipendenti. 
    3.2. - La clausola 5, punto 2, dell'accordo quadro 6 giugno  1997
allegato alla direttiva  97/81/CE,  prevede  che  il  rifiuto  di  un
lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno  a  uno  a
tempo parziale, o viceversa, non deve,  in  quanto  tale,  costituire
motivo valido per  il  licenziamento  (e  tale  precetto  ha  trovato
attuazione nel diritto interno con l'art. 5  del  d.lgs.  n.  61  del
2000). Tuttavia, la stessa disposizione  comunitaria  precisa  subito
dopo che, in tale evenienza, il licenziamento e',  comunque,  ammesso
(conformemente alle leggi, ai  contratti  collettivi  e  alle  prassi
nazionali) per altre ragioni, segnatamente  per  quelle  che  possono
risultare  da  «necessita'  di  funzionamento   dello   stabilimento»
(assimilabili al giustificato motivo  oggettivo  di  cui  all'art.  3
della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante «Norme sui  licenziamenti
individuali»,  ergo  alle  ragioni   organizzative   della   pubblica
amministrazione). 
    Cio' vuol dire che il licenziamento e'  vietato  solo  quando  il
rifiuto della trasformazione da parte del lavoratore  costituisce  la
sua ragione esclusiva e mancano motivi ulteriori  rispetto  ai  quali
l'elemento della prestazione a tempo parziale venga in  rilievo  solo
di  riflesso.   In   presenza,   infatti,   di   effettive   esigenze
organizzative, tecniche o produttive che impongano la  trasformazione
del rapporto, l'indisponibilita' del lavoratore al mutamento  risulta
ingiustificata e puo' dare anche  luogo,  in  casi  estremi,  al  suo
licenziamento. 
    In  buona  sostanza,  il   diritto   europeo   e'   primariamente
finalizzato a tutelare il lavoro part-time e a impedirne  ogni  forma
di discriminazione, anche in fase di trasformazione del rapporto. Nel
contempo, pero', esso  da'  la  necessaria  rilevanza  alle  esigenze
organizzative, tecniche o produttive che  possono  imporre  modifiche
della  posizione  lavorativa  ovvero  del  regime   temporale   della
prestazione.  Solo  in  tali  circostanze,  il  rifiuto  opposto  dal
lavoratore alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo
pieno  puo'  autorizzarne,  al  limite,  l'estromissione  dal   posto
(sempreche' sia da escludere qualunque possibilita' di mantenerlo  in
servizio part-time). 
    3.3. - Pertanto,  alla  luce  di  un'interpretazione  sistematica
della normativa europea evocata dal  rimettente  (che,  accanto  alla
protezione  del  lavoratore  dalla  trasformazione  unilaterale   del
proprio rapporto ad iniziativa del datore di lavoro, prende  pure  in
considerazione le esigenze organizzative di quest'ultimo),  la  norma
censurata, rettamente inserita nello specifico contesto  del  diritto
interno, non collide con la direttiva 97/81/CE. 
    Diversamente da quanto opinato dal giudice  a  quo,  infatti,  il
potere di rivalutazione dei rapporti di lavoro part-time a suo  tempo
concessi automaticamente, in applicazione della normativa dell'epoca,
non e' arbitrario, ne' indiscriminato, ma  saldamente  ancorato  alla
presenza  obiettiva  di  verificabili   esigenze   di   funzionalita'
dell'organizzazione amministrativa  e  condizionato  a  modalita'  di
esercizio  scrupolosamente  rispettose   dei   canoni   generali   di
correttezza  e  di  buona  fede.  Ne  sono  espressione,   a   titolo
esemplificativo, la tutela delle  peculiari  situazioni  personali  e
familiari consolidatesi in capo ai singoli lavoratori,  da  valutarsi
in contraddittorio con gli stessi, il vaglio  della  fattibilita'  di
soluzioni alternative alla revoca del part-time, la concessione di un
congruo periodo  di  preavviso  prima  che  la  trasformazione  (cio'
nonostante disposta) divenga operativa. In tal  modo,  i  criteri  di
correttezza e di buona fede cui le pubbliche  amministrazioni  devono
attenersi nell'esercizio della suddetta "rivalutazione"  si  prestano
ad esaltare,  in  una  prospettiva  costituzionalmente  orientata  di
stampo solidaristico, proprio la  salvaguardia  delle  ragioni  della
controparte, senza comportare un apprezzabile sacrificio. 
    In   definitiva,    il    lavoratore    non    e'    assoggettato
incondizionatamente alle determinazioni  unilaterali  del  datore  di
lavoro  pubblico  ai  fini  della  trasformazione  del  rapporto   da
part-time a full-time.  L'iniziativa  dell'amministrazione,  infatti,
dev'essere sorretta da serie ragioni organizzative  e  gestionali  ed
attuata nel rispetto dei principi di correttezza  e  buona  fede.  In
mancanza di  tali  presupposti,  il  dipendente  puo'  legittimamente
rifiutare di passare al tempo pieno e, per cio' solo,  non  puo'  mai
essere licenziato. Cosi' interpretata, la possibilita' di "revisione"
del part-time riconosciuta alle pubbliche  amministrazioni  dall'art.
16 della legge n. 183 del 2010 (oltre tutto  contenuta  entro  limiti
stringenti di tempo) e' da ritenere perfettamente compatibile  con  i
principi  desumibili  dall'invocata  clausola  5,  punto   2,   della
direttiva 97/81/CE,  donde  la  non  fondatezza  della  questione  di
legittimita' costituzionale sollevata, con la interposizione di detta
clausola,  in   relazione   al   rispetto   dei   vincoli   derivanti
dall'ordinamento comunitario. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'articolo 16 della legge 4 novembre  2010,  n.  183  (Deleghe  al
Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione  di  enti,
di congedi, aspettative e permessi,  di  ammortizzatori  sociali,  di
servizi   per   l'impiego,   di   incentivi    all'occupazione,    di
apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'  misure  contro  il
lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro  pubblico  e  di
controversie di lavoro), sollevata, in relazione  agli  articoli  10,
35,  terzo  comma,  e  117,  primo  comma,  della  Costituzione,  dal
Tribunale ordinario di Forli' con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2013. 
 
                                F.to: 
                      Franco GALLO, Presidente 
                      Luigi MAZZELLA, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 19 luglio 2013. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI