N. 262 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 agosto 2013

Ordinanza del 7 agosto 2013  emessa  dal  Tribunale  di  Imperia  nel
procedimento penale a carico di Bulzomi' Carmelo. 
 
Reati e pene - Previdenza e assistenza - Reati di  omesso  versamento
  di ritenute previdenziali e assistenziali  sulle  retribuzioni  dei
  lavoratori  dipendenti  -  Sanzione  penale  -  Denunciata  mancata
  previsione di una soglia di punibilita' - Disparita' di trattamento
  rispetto al reato di omesso versamento di ritenute fiscali. 
- Decreto-legge 12 settembre 1983,  n.  463,  art.  2,  comma  1-bis,
  convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 1983, n. 638. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.49 del 4-12-2013 )
 
                            IL TRIBUNALE 
 
    Letti  gli  atti  del  procedimento  indicato  in  epigrafe   nei
confronti di Bulzomi' Carmelo, nato a Torino il  1/8/1966  difeso  di
ufficio dall'Avvocato Ingrid Mamino del Foro di Imperia,  all'udienza
del 7/8/2013 ha pronunciato la seguente ordinanza. 
1. La questione che si sottopone al giudizio della Corte. Rilevanza. 
    Con decreto in data 4/7/2011  il  Pubblico  Ministero  presso  il
Tribunale di Imperia ha disposto la citazione a giudizio di  Bulzomi'
Carmelo per rispondere del reato di cui all'art. 2 comma  1-bis  D.L.
463/1983, conv. in l. 638/1983 per avere,  quale  datore  di  lavoro,
omesso di  versare  all'I.N.P.S.  le  trattenute  sulle  retribuzioni
corrisposte ai lavoratori dipendenti, per un totale di € 24,00  (Euro
ventiquattro//00). 
    Nella contumacia dell'imputato, il Pubblico Ministero ha prodotto
il  prospetto  inadempienze  trasmesso  dall'I.N.P.S.   Il   Giudice,
all'esito, ha richiesto informazioni all'I.N.P.S. - sede di Imperia. 
    Cio'  premesso,  questo   Giudice   dubita   della   legittimita'
costituzionale della norma in esame, in relazione  all'art.  3  della
Costituzione, parametrando la stessa  al  disposto  dell'art.  10-bis
d.lgs. 74/2000, che disciplina in modo  diverso  una  fattispecie  da
ritenersi - come si argomenta oltre - del tutto identica. 
    L'art. 1 comma 1-bis D.L. 463/83, conv. dalla l. 638/83,  dispone
che "L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1 (ovvero  le
ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di  lavoro
sulle retribuzioni  dei  lavoratori  dipendenti)  e'  punito  con  la
reclusione fino a tre anni e con la multa fino a € 1.032,00". 
    L'art. 10-bis d.lgs. 74/2000 dispone invece che "E' punito con la
reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine
previsto  per  la  presentazione  della  dichiarazione   annuale   di
sostituto  di  imposta  ritenute  risultanti   dalla   certificazione
rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore  ad  € 50.000,00
per ciascun periodo di imposta". 
    La lesione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost.
si verifica a seguito della previsione di una - notevole - soglia  di
punibilita' nella seconda norma, soglia che non  e'  invece  prevista
dalla prima, con la conseguenza di punire con la sanzione  penale  (e
con una sanzione non esigua, se si considera  che  si  tratta  di  un
delitto, punito con pena detentiva e pecuniaria) il datore di  lavoro
che ometta il versamento di ritenute previdenziali di minima o  anche
irrisoria entita' (anche di poche decine di Euro, come avviene  nella
fattispecie in esame); e di non punire invece  il  datore  di  lavoro
sostituto di imposta che, in una situazione identica sotto il profilo
della somma non versata e/o dell'entita' dell'imponibile  (in  questo
caso la retribuzione  lorda),  non  versi  l'importo  delle  ritenute
fiscali operate. 
    Evidente, innanzitutto, che la questione come sopra riassunta  e'
rilevante nel presente giudizio, in cui l'importo omesso e'  pari  ad
€ 28, corrispondente ad una ritenuta  previdenziale  operata  su  una
retribuzione lorda di circa €  308  (1)  e  non  risultando  che  nel
medesimo periodo di  imposta  vi  siano  state  altre  omissioni  del
versamento delle ritenute previdenziali. Il fatto contestato, pur  se
di disvalore assai esiguo, integra comunque in assenza di  soglie  di
punibilita' il reato di cui all'art. 2 cit. Se fosse invece  prevista
(come per l'art. 10-bis cit.) una soglia di punibilita',  l'omissione
contestata all'odierno  imputato,  non  sarebbe  rilevante  sotto  il
profilo penale, e cio':  sia  se  si  consideri  quale  parametro  di
riferimento l'entita' dell'omissione (ben inferiore,  come  detto,  a
50.000  Euro);  sia  se  si  consideri   invece   il   corrispondente
presupposto di imposta, ovvero l'imponibile fiscale determinato dalla
retribuzione lorda, su cui viene  operata  da  un  lato  la  ritenuta
fiscale e dall'altro la ritenuta previdenziale  e  assistenziale:  su
una retribuzione di € 304 la  ritenuta  fiscale  sarebbe  ovviamente,
parimenti, inferiore ad € 50.000. 
    Dalla  risoluzione  della  questione  di  costituzionalita'   qui
sollevata dipende quindi  l'opzione  tra  la  condanna  dell'imputato
(sempre che se siano integrati gli  elementi  costitutivi  del  reato
contestato) e la sua  assoluzione,  con  la  formula  -  in  caso  di
accoglimento - "perche' il fatto non e'  previsto  dalla  legge  come
reato". 
2. Non manifesta infondatezza. Premessa sul precedente della Corte. 
    Non sfugge  allo  scrivente  che  la  Corte  Costituzionale,  con
ordinanza n. 206 dell'11/6/2003 - e pertanto in  tempi  relativamente
recenti - e' gia' intervenuta su questione per molti  versi  analoga,
ritenendola manifestamente infondata. Si  trattava,  in  particolare,
della  questione  relativa  alla  legittimita'  costituzionale  della
medesima norma oggi in esame, sempre in riferimento all'art. 3 Cost.,
parametrata alla fattispecie dell'omesso  versamento  delle  ritenute
fiscali da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta, che
era in precedenza prevista come reato dall'art. 2 D.L. 429/82,  conv.
nella l. 516/82, ma abrogato dall'art. 25 d.lgs. 74/2000. 
    La Corte argomento' ritenendo  che  le  due  situazioni  messe  a
confronto (l'omesso versamento delle ritenute fiscali  da  parte  del
datore di lavoro sostituto di imposta da un lato; l'omesso versamento
delle ritenute previdenziali operata dal datore di lavoro dall'altra)
non erano omogenee perche' gli  obblighi  tributari  e  gli  obblighi
previdenziali di cui si tratta sono correlativi ad interessi  diversi
e perche' "il mancato  adempimento  dell'obbligo  di  versamento  dei
contributi previdenziali determina  un  rischio  di  pregiudizio  del
lavoro e dei lavoratori, la cui tutela e' assicurata da un  complesso
di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali  e
nella parte I della Costituzione (artt. 1, 4, 35, 38)". 
    Oggi il panorama  legislativo  e'  mutato,  in  quanto  e'  stato
introdotto nel d.lgs. 74/2000 il  citato  art.  10-bis,  che  punisce
nuovamente la  fattispecie  presa  quale  parametro  di  comparazione
nell'ordinanza di rimessione esaminata dalla Corte. Ma non  e'  certo
per tale motivo che si sottopone nuovamente  la  questione,  giacche'
semmai le due situazioni, sotto il profilo penale, si sono avvicinate
e non allontanate. 
    Si ritiene peraltro che l'ordinanza n. 206/2003  della  Corte  si
fondi su presupposti erronei  sia  sotto  il  profilo  giuridico  che
fattuale. E pertanto si richiede che la Corte,  melius  re  perpensa,
riconsideri la questione. 
    Le esigenze di maggiore e piu' incisiva tutela nel  caso  in  cui
siano  omessi  i   versamenti   dei   contributi   previdenziali   ed
assistenziali sembrano basarsi, sotto  il  profilo  giuridico,  sulla
costruzione del reato di cui all'articolo 2, comma 1-bis, cit.,  come
una fattispecie specifica del reato di appropriazione  indebita,  per
la cui integrazione e' naturalmente irrilevante l'entita' o il valore
del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto dell'apprensione. 
    Corollario fattuale di tale ricostruzione e' quello  secondo  cui
l'omesso versamento delle ritenute (che consisterebbero in  somme  di
denaro  gia'  entrate  nel  patrimonio   del   lavoratore,   da   cui
l'"altruita'" necessaria per configurare  un'appropriazione)  cagioni
un danno al lavoratore le cui ritenute non sono state versate. 
    E (probabilmente) in applicazione di entrambi tali  corollari  la
Corte Costituzionale  ha  ritenuto  nell'ordinanza  206/2003  che  la
fattispecie censurata risponda ad esigenze di tutela  dei  lavoratori
subordinati e, segnatamente,  della  loro  posizione  contributiva  e
previdenziale. 
    Ma ritenere che la norma sia ispirata ad esigenze di tutela della
situazione  previdenziale  del   (singolo)   lavoratore   subordinato
contrasta, da una parte, con una corretta costruzione giuridica della
fattispecie, dall'altra con il disposto dell'art. 1126 c.c. e con  la
stessa prassi (legalmente orientata) degli Uffici I.N.P.S. 
3. Critica della ricostruzione della norma in esame come  fattispecie
speciale di appropriazione indebita. 
    Come gia' accennato, secondo  opinione  assai  diffusa,  l'omesso
versamento delle ritenute previdenziali (e non invece -  non  e'  ben
chiara la motivazione - di quelle  fiscali)  operate  dal  datore  di
lavoro costituirebbe  una  forma  di  appropriazione  indebita,  vuoi
considerando l'art. 2 comma 1-bis cit. una  norma  speciale  rispetto
all'art. 646 c.p., vuoi addirittura ritenendo che  via  sia  concorso
formale tra le due norme penali. 
    Il tema della  natura  appropriativa  della  condotta  di  omesso
versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate  dal
datore di lavoro sulle retribuzioni dei  lavoratori  dipendenti,  era
lambito anche dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 28/5/2003  n.
27641 (Silvestri), a proposito della  configurabilita'  dell'art.  2,
commi 1 e 1-bis, d.l. 12 settembre 1983,  n.  463,  convertito  dalla
legge 11 novembre 1983, n. 683,  in  assenza  del  materiale  esborso
delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione. 
    La  conclusione  raggiunta,  nel  senso  che  il  reato  non   e'
configurabile a carico del datore  di  lavoro  nel  caso  di  mancata
corresponsione della  retribuzione  ai  dipendenti,  veniva  in  tale
decisione sostenuta, oltre che sulla  base  del  riferimento  testale
alle  "ritenute  operate",  sui  rilievi:  "che  il  legislatore  con
l'articolo 2 del decreto-legge n. 463 del 1983  ha  inteso  reprimere
non il fatto omissivo del mancato versamento dei  contributi,  ma  il
piu' grave fatto commissivo dell'appropriazione indebita da parte del
datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori
dipendenti"; "che quindi l'obbligo di versare le ritenute nasce  solo
al momento della effettiva corresponsione della  retribuzione,  sulla
quale le ritenute stesse debbono essere operate"; che, "ove cosi' non
fosse, la differenza di trattamento tra le  due  fattispecie  sarebbe
del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di legittimita'
costituzionale"; che al contrario "tale differenza di trattamento  si
giustifica perfettamente  se  si  considera  che  il  legislatore  ha
chiaramente  assimilato  il   mancato   versamento   delle   ritenute
previdenziali e assicurative al delitto unito dall'articolo  646  del
codice penale la cui pena edittale - non certamente per un caso -  e'
assolutamente identica". 
    A  giustificazione  di  tale  ultima  asserzione,   la   sentenza
Silvestri si limitava tuttavia a fare rimando alle considerazioni  di
Cass. Pen. Sez. 3,  n.  39178  del  05/10/2001,  Romagnoli,  relativa
all'omesso versamento di ritenute  fiscali  operate  alla  fonte  sui
redditi da lavoro dipendente, gia' sanzionato (come visto)  dall'art.
2 D.L. 429/82, conv. nella l. 516/82, nella quale si  concludeva  nel
senso che tale condotta non poteva trovare inquadramento  e  sanzione
nell'art. 646 c.p. 
    Per  affermare  cio',  partiva   dalla   premessa   che   occorre
distinguere tra l'ipotesi del datore di lavoro  debitore  in  proprio
verso  l'amministrazione  finanziaria  -  in  relazione  alla   quale
l'omesso  pagamento  non  costituisce  appropriazione  indebita   per
difetto del requisito dell'altruita' -  e  l'ipotesi  del  datore  di
lavoro tenuto al pagamento di un debito  altrui,  come  nel  caso  di
quote di contributi previdenziali trattenute sulla  retribuzione,  in
cui  -  si  sosteneva  -  il  mancato   versamento   integra   invece
appropriazione indebita. 
    Riprendendo  le  argomentazioni  di  Cass.   Pen.   Sez.   Unite,
20/10/2011 (dep. 2012)  n.  37954  (su  cui  v.  oltre),  si  osserva
peraltro che il riferimento alla "appropriazione indebita"  ad  opera
del datore di lavoro delle somme  prelevate  dalla  retribuzione  dei
lavoratori  dipendenti  per  il  pagamento  di  oneri  previdenziali,
contenuto nella sentenza Silvestri, appare estremamente indiretto, ed
assume nell'economia della decisione un valore meramente,  per  cosi'
dire, sostanziale. 
    La materia viene ripresa  l'anno  successivo,  nuovamente,  dalle
Sezioni Unite, 27/10/2004 n. 1327 (Li Calzi), che vanno di  contrario
avviso. 
    In  relazione  alla  specifica  questione  posta  al  suo  esame,
relativa alle ritenute da versare  alla  Cassa  edile,  la  pronuncia
evidenzia che il meccanismo previsto per il pagamento alla  Cassa  da
parte del datore di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad
ottenere da questa la corresponsione delle somme dovute - per  ferie,
festivita' e  gratifiche  natalizie  -  integra  una  delegazione  di
pagamento; la Cassa non diviene quindi obbligata  nei  confronti  del
lavoratore con il mero sorgere del rapporto di  lavoro,  bensi'  solo
con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme  stesse.
E cio', si aggiunge, a differenza di quanto avviene per l'I.N.P.S. in
relazione al pagamento delle relative spettanze al lavoratore,  nelle
quali  -  come  meglio  si  vedra',  c'e'  piena   automaticita'.   E
ciononostante (e in questo caso dall'omissione il lavoratore  subisce
un serio danno diretto) ritengono le Sezioni Unite che  non  sussista
"altruita'" e quindi (deve aggiungersi: in assenza di una  norma  che
punisca specificamente l'omissione in argomento) illiceita' penale. 
    Tentando,  poi,   di   mettere   ordine   nella   contraddittoria
elaborazione giurisprudenziale in materia di  somme  a  vario  titolo
trattenute, la sentenza Li Calzi osserva che non  sono  condivisibili
gli orientamenti che ritengono sussistere il requisito dell'altruita'
delle  somme  ritenute  o  trattenute  alla  fonte   (specificamente:
trattenute  di  somme  da  versare  alla  Cassa  Edile   e   ritenute
previdenziali), perche' detti orientamenti non sono coerenti  con  il
principio  affermato  per  la  fattispecie   delle   ritenute   sulle
retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell'erario, in
realta' analoga e in relazione  alla  quale  era  al  contrario  gia'
costantemente esclusa la configurabilita' del reato di appropriazione
indebita, sia a danno dei lavoratori  dipendenti  sia  nei  confronti
dello Stato, proprio sul presupposto  della  mancanza  del  requisito
dalla "altruita'" delle somme trattenute. 
    Rileva la Corte che, se la ragione per la quale e' esclusa  dalla
costante giurisprudenza la "altruita'" della somma trattenuta per  il
versamento  all'Erario  risiede  nella  liberazione  del   lavoratore
dall'obbligo del pagamento del tributo, a  maggior  ragione  dovrebbe
escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute
sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile e delle ritenute  per
contributi  previdenziali,  atteso   che   anche   in   questo   caso
l'obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la quota spettante
al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro. 
    In realta' - prosegue la sentenza Li Calzi -,  la  posizione  del
datore di lavoro-sostituto d'imposta e' completamente  sovrapponibile
a quella del datore  di  lavoro  che  effettua  le  trattenute  sulle
retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a
quella del datore di lavoro che effettua le ritenute  dei  contributi
previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si e' in  presenza
di  un  "accantonamento"  di  una  somma   determinata   di   denaro,
finalizzata ad un fine determinato, da  versarsi  ad  un  terzo  alle
scadenze stabilite. 
    Siffatte ipotesi - rimarca la sentenza -  sono  accomunate  dalla
caratteristica dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere  al
lavoratore la retribuzione al netto  di  "ritenute"  a  vario  titolo
effettuate ("per debito di imposta, per contributi previdenziali,  in
forza di accordi  economici  o  di  contratti  collettivi"),  e  sono
inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che  "il  denaro
oggetto dell'appropriazione e' rappresentato da una quota ideale  del
«patrimonio» del possessore, indistinta da tutti  gli  altri  beni  e
rapporti che contribuiscono a costituirlo".  La  somma  trattenuta  o
ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilita'  del
datore  di  lavoro-possessore,  non  soltanto  perche'  non  e'   mai
materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perche' mai  puo'
esserlo, avendo il dipendente soltanto il  diritto  di  percepire  la
retribuzione al netto delle  trattenute  effettuate  alla  fonte  dal
datore di lavoro. 
    Le  "trattenute",  percio',  si  risolvono  "in  una   operazione
meramente contabile diretta a determinare l'importo della  somma  che
il datore di lavoro e' obbligato a versare, in base ad una  norma  di
legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in  conseguenza
della corresponsione della retribuzione". 
    Al contrario - conclude la sentenza Li Calzi - in  tutti  i  casi
trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti  riconducibili
all'appropriazione indebita, il  denaro  o  la  cosa  mobile  di  cui
l'agente si appropria, "non fanno mai parte ab origine del patrimonio
del possessore", ma vi entrano "ab extrinseco", e con esso patrimonio
non si confondono perche'  connotati  da  una  vincolo  specifico  di
destinazione;  sicche'  di  tali  beni  puo'  dirsi  che  restano  di
"proprieta'" diretta od indiretta di altri. 
    Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza  non  si  era
tuttavia del tutto sopito. Da un lato si pongono,  infatti,  numerose
pronunce  che  in  fattispecie  simili  o  analoghe,  richiamando  la
sentenza  Li  Calzi,  escludono  la  sussistenza  dell'appropriazione
indebita. Dall'altro militano, invece, Cass. Pen. Sez. 2, 7/2/2008 n.
8023, La Tona (non massimata) e  Cass.  Pen.  Sez.  2,  18/4/2007  n.
23034, Alfieri (non massimata),  che,  occupandosi  di  contestazioni
relative,  rispettivamente,  all'omesso  versamento  delle   ritenute
previdenziali ed assistenziali alla competente gestione dell'I.N.P.S.
ed all'omesso versamento alla Cassa edile delle  somme  trattenute  a
tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori  dipendenti,
affermano la sussistenza del delitto di appropriazione indebita,  non
facendo menzione delle Sezioni Unite Li Calzi, ma rifacendosi  invece
direttamente ad orientamenti precedenti; nonche' Cass. Pen.  Sez.  2,
18/3/2009 n. 19911, Montanucci, che ravvisa il delitto  in  questione
nella condotta del datore di lavoro che omette di accantonare,  e  di
versare all'INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine
rapporto spettante al lavoratore, sull'assunto che i  principi  della
sentenza Li Calzi, concernenti  l'accantonamento  di  trattenute  non
aventi  natura  contributiva  previdenziale  e   assistenziale,   non
riguardano la fattispecie in esame. 
    Sul punto sono infine nuovamente intervenute  le  Sezioni  Unite,
con la citata pronuncia, 20/10/2011 (dep. 2012) n.  37954,  che  dopo
avere nuovamente riassunto  i  termini  della  questione,  con  ampie
citazioni della sentenza Li Calzi (2)  criticano le discordi sentenze
successive, argomentando come segue: "Alla luce degli argomenti posti
a fondamento della sentenza Li Calzi, e' pero' evidente che allorche'
le  Sezioni  semplici  hanno  inteso  sostenere,   implicitamente   o
espressamente, che i principi in essa  affermati  non  si  riferivano
all'omesso versamento di somme trattenute in  vista  dell'adempimento
di obblighi di natura contributiva,  previdenziale  e  assistenziale,
hanno obliterato quanto a chiare lettere affermato in detta  sentenza
a proposito della comune  connotazione  alla  stregua  di  somme  mai
uscite  dal  patrimonio  del  datore  di  lavoro   delle   trattenute
imputabili a debiti  retributivi,  contributivi  o  d'imposta;  della
identica  natura  di   accantonamenti   puramente   contabili   della
registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze  che  se
ne   dovevano   trarre   in    punto    di    non    configurabilita'
dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruita'
degli  importi  trattenuti,  trattandosi  di  somme   non   confluite
dall'esterno  nel  patrimonio  dell'obbligato  con  tale  vincolo  di
destinazione, ma in quello sin dall'origine  comprese.  Tanto  posto,
ritiene il Collegio che  non  vi  sono  ragioni  per  dissentire,  in
ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle  Sezioni
Unite con la sentenza Li Calzi". 
    Puo'  pertanto  affermarsi  che,  secondo  il  diritto   vivente,
pienamente da  condividere  e  sancito  da  ripetute  pronunce  delle
Sezioni Unite penali, come sopra gia'  riportato  "la  posizione  del
datore di lavoro-sostituto d'imposta e' completamente  sovrapponibile
a quella del datore  di  lavoro  che  effettua  le  trattenute  sulle
retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a
quella del datore di lavoro che effettua le ritenute  dei  contributi
previdenziali". 
    Cio' basterebbe, almeno  sotto  il  profilo  della  ricostruzione
giuridica, per affermare l'irragionevolezza  di  una  cosi'  evidente
disparita' di trattamento tra le due fattispecie. 
4. Insussistenza di danni per il lavoratore. 
    Non solo l'omesso versamento  delle  ritenute  previdenziali  non
comporta alcuna appropriazione di somme che non sono mai entrate  nel
patrimonio altrui, ne' del lavoratore, ne' in quello dell'I.N.P.S. Ma
vi e' altresi' assoluta indifferenza per il lavoratore  in  relazione
al versamento o meno delle ritenute, in maniera del tutto  analoga  a
quella del mancato versamento delle ritenute fiscali. 
    L'art. 2116 c.c. sancisce infatti il principio di autonomia della
prestazione previdenziale dall'effettivo  pagamento  dei  contributi,
disponendo  che   "Le   prestazioni   indicate   nell'articolo   2114
(Previdenza ed assistenza obbligatorie) sono dovute al prestatore  di
lavoro, anche quando l'imprenditore non  ha  versato  regolarmente  i
contributi dovuti alle istituzioni di  previdenza  e  di  assistenza,
salvo diverse disposizioni delle leggi speciali. 
    Nei casi in cui, secondo tali  disposizioni,  le  istituzioni  di
previdenza e di assistenza, per mancata o  irregolare  contribuzione,
non sono tenute a corrispondere in tutto o in  parte  le  prestazioni
dovute, l'imprenditore e' responsabile del danno  che  ne  deriva  al
prestatore di lavoro". (3) 
    Cio' e' possibile in quanto non sussiste tra il datore di lavoro,
il lavoratore alle sue dipendenze e  l'ente  previdenziale  un  unico
rapporto   giuridico   trilaterale   ma,   come    osservato    dalla
giurisprudenza  (4)  ,   plurimi   rapporti   bilaterali   tra   loro
indifferenti  gli  uni  alle  vicende  patologiche  degli  altri   e,
specificamente: a) un rapporto contributivo tra datore di  lavoro  ed
ente previdenziale (rapporto tra assicuratore ed assicurante); b)  un
rapporto previdenziale riguardante  l'erogazione  delle  prestazioni,
esistente tra l'istituto previdenziale ed  il  lavoratore  dipendente
(rapporto tra assicuratore ed assicurato);  c)  un  rapporto  tra  il
lavoratore ed  il  datore  di  lavoro  (rapporto  tra  assicurato  ed
assicurante). 
    Il sistema in esame e' stato considerato, incidentalmente, da una
pronuncia della Corte Costituzionale (5) secondo cui costituisce "una
fondamentale garanzia per il lavoratore, intesa a non far ricadere su
di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro  in
ordine agli obblighi contributivi, e rappresenta un logico corollario
delle  finalita'  di  protezione  sociale  inerente  ai  sistemi   di
assicurazione obbligatoria  per  l'invalidita',  la  vecchiaia  ed  i
superstiti." 
    Questo  Giudice  ha  comunque   ritenuto   opportuno   richiedere
informazioni alla Direzione Provinciale dell'I.N.P.S. di Imperia, nei
seguenti termini: "se in caso di  mancato  pagamento  delle  ritenute
previdenziali da  parte  del  datore  di  lavoro,  vengano  di  fatto
riconosciute al lavoratore le relative prestazioni  previdenziali  ai
sensi dell'articolo  2116  del  Codice  Civile  ,  ovvero  sussistano
ostacoli, giuridici o di fatto, a tale riconoscimento." 
    Nella risposta, si comunica che "nel caso  di  mancato  pagamento
della quota trattenuta dal  datore  di  lavoro,  al  lavoratore  sono
comunque riconosciute le prestazioni previdenziali." 
5. Conseguente irragionevolezza della differenza di trattamento. 
    Venuta meno la  suddetta  ricostruzione,  il  mancato  versamento
costituisce, in entrambi i casi, l'inadempimento  di  un  debito  del
datore di lavoro. 
    La previsione dell'art. 2 cit. si rivela pertanto come una  norma
che assicura una tutela penale all'ente previdenziale in misura  piu'
favorevole rispetto allo  Stato,  differenza  che  non  trova  alcuna
ragionevolezza. 
    Ritornando  alle  argomentazioni   della   Corte   Costituzionale
dell'ordinanza n. 206/2003, si e' gia'  detto  che  non  sussiste  un
rischio di pregiudizio per  il  lavoratore.  La  Corte  osserva  poi,
correttamente, che "gli obblighi tributari e quelli previdenziali  di
cui si tratta, pur rientrando nell'ampia categoria delle obbligazioni
pubbliche (sono) correlativi ad  interessi  diversi,  rispettivamente
presi in considerazione dai due diversi  precetti  costituzionali  di
cui agli articoli 53 e 38 della Costituzione" . 
    Ma, appurato  che  si  tratta  in  entrambi  i  casi  di  entrate
finalizzate  a  sostenere  spese  pubbliche,  occorre  verificare  se
sussista un ragionevole motivo per cui l'una spesa (quella  volta  ad
assicurare i mezzi economici necessari  per  provvedere  ai  benefici
assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori) debba  trovare
maggiore   tutela   penale   dell'altra   (quella   "pubblica"   piu'
generalmente detta). Ed un ragionevole motivo non appare ravvisabile,
sussistendo altre spese "pubbliche" meritevoli almeno di pari  tutela
(si pensi, per tutte, a quella sanitaria). 
    E - va aggiunto - la  previsione  della  fattispecie  penale  per
l'omesso versamento delle ritenute  previdenziali  a  prescindere  da
qualunque  soglia  di  punibilita'  non  puo'  certo  derivare  dalla
maggiore meritevolezza di  tutela  del  patrimonio  dell'I.N.P.S.  (e
della correlativa spesa per le finalita' sopra  indicate),  non  solo
perche' - come appena affermato - non si ravvisano ragionevoli motivi
per assicurate tale maggior tutela,  ma  anche  tenuto  conto  che  i
contributi direttamente a carico del datore di lavoro adempiono  alla
stessa finalita' ed  hanno  identica  natura,  ma  che  ciononostante
l'omesso versamento della quota di contributi a carico del datore  di
lavoro (ovvero quella di maggior peso) e' stata  depenalizzata  dalla
l. 689/1981 (6) 
    Deve concludersi che un  cosi'  differente  trattamento  tra  due
fattispecie (si porta, quale esempio estremo: l'omesso versamento  di
ritenute fiscali pari a 50.000 Euro in un periodo di  imposta,  privo
di rilevanza penale; l'omesso versamento  di  ritenute  previdenziali
pari a 10 Euro, nel medesimo periodo, punito con la reclusione  e  la
multa) appare manifestamente privo  di  qualsiasi  ragionevolezza  e,
come tale, fortemente lesivo del principio di uguaglianza. 
6. Individuazione della soglia di punibilita'. 
    Accertata  -  sulla  base  delle   superiori   argomentazioni   -
l'assoluta  irragionevolezza  della  previsione  di  una  soglia   di
punibilita' non esigua ai sensi dell'art. 10-bis  d.lgs.  74/2000  e,
invece, dell'assenza di qualsiasi soglia nell'art. 2 comma 1-bis D.L.
463/1983, conv. in l. 638/1983; ritenuta, pertanto, la necessita'  di
un intervento della Corte che ne dichiari l'illegittimita',  si  pone
il serio problema di individuare una soglia. 
    Si e' coscienti, infatti, che la Corte non  puo'  sostituirsi  al
legislatore nell'individuare la soglia "piu' adeguata". 
    Ed allora, delle due l'una: 
        1) o  e'  possibile  individuare  tale  soglia  adottando  un
parametro  oggettivo  parametrabile   a   quello   che   porta   alla
determinazione della  soglia  di  € 50.000  per  le  omesse  ritenute
fiscali; ed allora potra' ritenersi non manifestamente  infondata  la
norma in esame nella  parte  in  cui  non  prevede  detta  soglia  di
punibilita' cosi' individuata; 
        2) oppure tale operazione  risulta  impossibile,  ed  allora,
ferma la necessita' sopra ritenuta, non potra' che ritenersi la norma
incostituzionale tout court. 
    Ritiene lo scrivente, nella presente  ordinanza,  che  non  possa
percorrersi la strada sopra indicata sub 1). 
    Deve innanzitutto escludersi che possa individuarsi, quale soglia
di punibilita' per l'art.  2  comma  1-bis,  lo  stesso  importo  non
versato (€ 50.000). Assai rari sono i casi in cui vi  sono  omissioni
tale entita' - sempre calcolate in ragione di anno -  nel  versamento
di  ritenute  previdenziali,  mentre  si  registrano   nella   prassi
omissioni nel versamento  di  ritenute  alla  fonte  superiori  ad  €
50.000; seguire tale strada porterebbe  ad  una  quasi  generalizzata
depenalizzazione del reato di cui all'art. 2 comma 1-bis,  incorrendo
nel vizio opposto di legittimita' costituzionale. 
    Il motivo di tale differenza sta nel fatto che  il  parametro  di
riferimento iniziale per calcolare la soglia di  punibilita'  non  e'
l'"importo  soglia",  ma  e'  il  presupposto  di   imposta,   ovvero
l'imponibile fiscale determinato dalla  retribuzione  lorda,  su  cui
viene  operata  la  ritenuta,  da  un  lato  fiscale   e   dall'altro
previdenziale. 
    Ora, partendo dal tertium comparationis,  ovvero  dalla  ritenuta
alla fonte del datore di lavoro sostituto di imposta, il problema che
si  pone  e'  ovviamente  dato  dal   fatto   che   l'importo   delle
retribuzioni, che porterebbero a ritenute pari ad  € 50,000,  non  e'
determinabile in misura fissa, poiche' l'imposta e' progressiva,  con
aliquote variabili tra il 23% ed il 43%. In particolare, la stessa e'
pari al 23% per retribuzioni fino ad € 15.000, al 27% nello scaglione
di reddito tra € 15.001 ed € 28.000, al 38%  nello  scaglione  tra  €
28.001 ed € 55.000, al 41% nello scaglione tra € 55.000, ed € 75.000,
al 43% sopra ad € 75.000. 
    Pertanto, l'importo delle retribuzioni su cui sono state  operate
le  ritenute  non  versate  (ovvero  l'imponibile  fiscale)  per   un
ammontare di queste ultime pari ad € 50.001 - rilevante penalmente  -
sara' minore qualora si tratti di un minor numero di  dipendenti  con
retribuzioni alte, maggiore qualora invece si  tratti  di  un  numero
maggiore di dipendenti, con retribuzioni inferiori. 
    Cio' posto, ritiene lo scrivente che, per quanto  possa  apparire
ragionevole  prendere  a  riferimento  le  retribuzioni   medie,   si
tratterebbe pur  sempre  di  un  intervento  nella  norma  di  natura
discrezionale, spettante al legislatore. 
    Ed in assenza di parametri  oggettivi  e  fissi  di  riferimento,
dovra' concludersi che nella materia un intervento  correttivo  della
Corte non appare praticabile. 
    Cio' non fa venir meno l'ingiustificata disparita' di trattamento
in senso deteriore, per i motivi sopra esposti, del datore di  lavoro
che ometta il versamento di ritenute previdenziali per importi esigui
rispetto al datore di lavoro  sostituto  di  imposta  che  ometta  il
versamento  di  analoghe   ritenute   fiscali.   Dovendosi   pertanto
concludere per l'illegittimita' costituzionale della norma in esame. 
    In tal  senso,  si  ritiene,  in  conclusione,  rilevante  e  non
manifestamente infondata la questione di costituzionalita' sollevata. 

(1) La ritenuta  previdenziale  da  operarsi  sulla  retribuzione  e'
    infatti pari, attualmente, al 9,19%. 

(2) Il presente paragrafo si fonda in gran parte sulle argomentazioni
    di tale pronuncia delle  Sezioni  Unite  n.  37954/2012,  cui  si
    rinvia anche per piu' puntuali citazioni dei precedenti. 

(3) Nell'ipotesi in cui il credito vantato dal lavoratore  dipendente
    sia prescritto, vi e' la possibilita'  che  sia  costituita,  nei
    suoi confronti, una rendita vitalizia,  secondo  quanto  previsto
    dall'articolo 13 della legge 1338/1962. 

(4) Si vedano, in tal senso: Cassazione Civile, Sezioni  Unite,  ord.
    683/2003; Corte di Cassazione, sez. V, n. 3339/2004. 

(5) Corte Costituzionale, sentenza 347/1997. 

(6) Non  si  affronta  il  problema  della  supposta  disparita'   di
    trattamento tra le due fattispecie  del  mancato  versamento  dei
    contributi previdenziali a carico  del  datore  di  lavoro  (mero
    illecito amministrativo) e di quelli  a  carico  del  lavoratore,
    oggetto di ritenute alla fonte (illecito penale); ci si limita ad
    evidenziare  che  in  questo  caso  si  tratta  -  si  -  di  due
    fattispecie diverse, perche' nel primo caso il datore  di  lavoro
    omette di pagare un debito proprio e nell'altro  caso  un  debito
    del lavoratore, al cui pagamento egli e' obbligato  quale  datore
    di lavoro. Solo nel secondo caso  il  legislatore  conferisce  al
    datore di lavoro il compito di  pagare  un  debito  altrui  e  si
    tratta di situazione che lo  stesso  legislatore,  nell'esercizio
    della sua  discrezionalita',  ben  puo'  ritenere  meritevole  di
    maggiore tutela. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli articoli 134 Cost., 23 e segg. L. 87/1953 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 2 comma  1-bis  D.L.  463/1983,
conv. in 1. 638/1983. 
    Sospende il giudizio in corso e dispone la immediata trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che la presente ordinanza, a cura della  Cancelleria,  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e  comunicata  ai
Presidenti delle due Camere. 
        Imperia, 7 agosto 2013 
 
                       Il Giudice: Colamartino