N. 263 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 agosto 2013
Ordinanza del 7 agosto 2013 emessa dal Tribunale di Imperia nei procedimenti penali riuniti a carico di Molinari Linda e Cavaliere Beatrice. Reati e pene - Previdenza e assistenza - Reati di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti - Sanzione penale - Mancata previsione che il fatto sia punito solo qualora l'ammontare delle ritenute non versate sia superiore a 18.485 euro per ciascun periodo di imposta - Disparita' di trattamento rispetto al reato di omesso versamento di ritenute fiscali. - Decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, art. 2, comma 1-bis, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 1983, n. 638. - Costituzione, art. 3.(GU n.49 del 4-12-2013 )
IL TRIBUNALE Letti gli atti dei procedimenti riuniti indicati in epigrafe nei confronti di Molinari Linda, nata a Torino il 30/1/1970, difesa di ufficio dall'Avvocato Giancarlo Bongiorno Gallegra del Foro di Genova e di Cavaliere Beatrice, nata a Sanremo il 13/11/1973, difesa di ufficio dall'Avv. Nicola Ditta del Foro di Imperia, all'udienza del 7/8/2013 ha pronunciato la seguente ordinanza. 1. La questione che si sottopone al giudizio della Corte. Rilevanza. Con decreto in data 20/4/2011 il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Imperia ha disposto la citazione a giudizio di Molinari Linda per rispondere del reato di cui all'art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, conv. in l. 638/1983 per avere, quale datore di lavoro, omesso di versare all'I.N.P.S. le trattenute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, per un totale di € 1.544,00. Il Pubblico Ministero ha prodotto il prospetto inadempienze trasmesso dall'I.N.P.S. E' quindi stato sentito un teste indicato dalla Difesa e l'imputata si e' sottoposta ad esame. All'esito, all'udienza del 25/3/2013 la Difesa ha depositato memoria sollevato eccezione di legittimita' costituzionale della norma in contestazione. Con decreto in data 5/9/2012 a seguito di opposizione a decreto penale di condanna il G.I.P. presso il Tribunale di Imperia ha disposto la citazione a giudizio di Cavaliere Beatrice, per rispondere del medesimo titolo di reato in relazione all'omesso versamento di ritenute previdenziali pari ad € 1.804. Con memoria depositata il 28/6/2013 la Difesa, anche in questo caso, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale della norma contestata, chiedendo che la stessa fosse fatta propria dal Giudice. All'odierna udienza i due procedimenti sono stati riuniti, trattandosi di affrontare la medesima questione in diritto. Cio' premesso, questo Giudice dubita della legittimita' costituzionale della norma in esame, in relazione all'art. 3 della Costituzione, parametrando la stessa al disposto dell'art. 10-bis d.lgs. 74/2000, che disciplina in modo diverso una fattispecie da ritenersi - come si argomenta oltre - del tutto identica. L'art. 1 comma 1-bis D.L. 463/83, conv. dalla l. 638/83, dispone che "L'omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1 (ovvero le ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti) e' punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a € 1.032,00". L'art. 10-bis d.lgs. 74/2000 dispone invece che "E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore ad € 50.000,00 per ciascun periodo di imposta". La lesione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. si verifica a seguito della previsione di una - notevole - soglia di punibilita' nella seconda norma, soglia che non e' invece prevista dalla prima, con la conseguenza di punire con la sanzione penale (e con una sanzione non esigua, se si considera che si tratta di un delitto, punito con pena detentiva e pecuniaria) il datore di lavoro che ometta il versamento di ritenute previdenziali di minima o anche irrisoria entita' (anche di poche decine di Euro); e di non punire invece il datare di lavoro sostituto di imposta che, in una situazione identica sotto il profilo della somma non versata e/o dell'entita' dell'imponibile (in questo caso la retribuzione lorda), non versi l'importo delle ritenute fiscali operate. Evidente, innanzitutto, che la questione come sopra riassunta e' rilevante nel presente giudizio, in cui l'importo omesso e' pari rispettivamente ad € 1.544 ed € 1.804, corrispondenti ad una ritenuta previdenziale operata su una retribuzione lorda di circa € 16.801 ed € 19.630 (1) e non risultando che nel medesimo periodo di imposta vi siano state altre omissioni del versamento delle ritenute previdenziali. Il fatto contestato, pur se di disvalore piuttosto esiguo, integra comunque in assenza di soglie di punibilita' il reato di cui all'art. 2 cit. Se fosse invece prevista (come per l'art. 10-bis cit.) una soglia di punibilita', le omissioni contestate alle odierne imputate, non sarebbero rilevanti sotto il profilo penale, e cio': sia se si consideri quale parametro di riferimento l'entita' dell'omissione (ben inferiore, come detto, a 50.000 Euro); sia se si consideri invece il corrispondente presupposto di imposta, ovvero l'imponibile fiscale determinato dalla retribuzione lorda, su cui viene operata da un lato la ritenuta fiscale e dall'altro la ritenuta previdenziale e assistenziale: su retribuzioni quali quelle sopra indicate la ritenuta fiscale sarebbe ovviamente, parimenti, inferiore ad € 50.000. Dalla risoluzione della questione di costituzionalita' qui sollevata dipende quindi l'opzione tra la condanna delle imputate (sempre che se siano integrati gli elementi costitutivi del reato contestato) e la loro assoluzione, con la formula - in caso di accoglimento - "perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato". 2. Non manifesta infondatezza. Premessa sul precedente della Corte. Non sfugge allo scrivente che la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 206 dell'11/6/2003 - e pertanto in tempi relativamente recenti - e' gia' intervenuta su questione per molti versi analoga, ritenendola manifestamente infondata. Si trattava, in particolare, della questione relativa alla legittimita' costituzionale della medesima norma oggi in esame, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., parametrata alla fattispecie dell'omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro quale sostituto di imposta, che era in precedenza prevista come reato dall'art. 2 D.L. 429/82, conv. nella l. 516/82, ma abrogato dall'art. 25 d.lgs. 74/2000. La Corte argomento' ritenendo che le due situazioni messe a confronto (l'omesso versamento delle ritenute fiscali da parte del datore di lavoro sostituto di imposta da un lato; l'omesso versamento delle ritenute previdenziali operata dal datore di lavoro dall'altra) non erano omogenee perche' gli obblighi tributari e gli obblighi previdenziali di cui si tratta sono correlativi ad interessi diversi e perche' "il mancato adempimento dell'obbligo di versamento dei contributi previdenziali determina un rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela e' assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione (artt. 1, 4, 35, 38)". Oggi il panorama legislativo e' mutato, in quanto e' stato introdotto nel d.lgs. 74/2000 il citato art. 10-bis, che punisce nuovamente la fattispecie presa quale parametro di comparazione nell'ordinanza di rimessione esaminata dalla Corte. Ma non e' certo per tale motivo che si sottopone nuovamente la questione, giacche' semmai le due situazioni, sotto il profilo penale, si sono avvicinate e non allontanate. Si ritiene peraltro che l'ordinanza n. 206/2003 della Corte si fondi su presupposti erronei sia sotto il profilo giuridico che fattuale. E pertanto si richiede che la Corte, melius re perpensa, riconsideri la questione. Le esigenze di maggiore e piu' incisiva tutela nel caso in cui siano omessi i versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali sembrano basarsi, sotto il profilo giuridico, sulla costruzione del reato di cui all'articolo 2, comma 1-bis, cit., come una fattispecie specifica del reato di appropriazione indebita, per la cui integrazione e' naturalmente irrilevante l'entita' o il valore del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto dell'apprensione. Corollario fattuale di tale ricostruzione e' quello secondo cui l'omesso versamento delle ritenute (che consisterebbero in somme di denaro gia' entrate nel patrimonio del lavoratore, da cui l'"altruita'" necessaria per configurare un'appropriazione) cagioni un danno al lavoratore le cui ritenute non sono state versate. E (probabilmente) in applicazione di entrambi tali coronari la Corte Costituzionale ha ritenuto nell'ordinanza 206/2003 che la fattispecie censurata risponda ad esigenze di tutela dei lavoratori subordinati e, segnatamente, della loro posizione contributiva e previdenziale. Ma ritenere che la norma sia ispirata ad esigenze di tutela della situazione previdenziale del (singolo) lavoratore subordinato contrasta, da una parte, con una corretta costruzione giuridica della fattispecie, dall'altra con il disposto dell'art. 1126 c.c. e con la stessa prassi (legalmente orientata) degli Uffici I.N.P.S. 3. Critica della ricostruzione della norma in esame come fattispecie speciale di appropriazione indebita. Come gia' accennato, secondo opinione assai diffusa, l'omesso versamento delle ritenute previdenziali (e non invece - non e' ben chiara la motivazione - di quelle fiscali) operate dal datore di lavoro costituirebbe una forma di appropriazione indebita, vuoi considerando l'art. 2 comma 1-bis cit. una norma speciale rispetto all'art. 646 c.p., vuoi addirittura ritenendo che via sia concorso formale tra le due norme penali. Il tema della natura appropriativa della condotta di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, era lambito anche dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 28/5/2003 n. 27641 (Silvestri), a proposito della configurabilita' dell'art. 2, commi l e 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito dalla legge 11 novembre 1983, n. 683, in assenza del materiale esborso delle relative somme dovute al dipendente a titolo di retribuzione. La conclusione raggiunta, nel senso che il reato non e' configurabile a carico del datore di lavoro nel caso di mancata corresponsione della retribuzione ai dipendenti, veniva in tale decisione sostenuta, oltre che sulla base del riferimento testale alle "ritenute operate", sui rilievi: "che il legislatore con l'articolo 2 del decreto-legge n. 463 del 1983 ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, ma il piu' grave fatto commissivo dell'appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti"; "che quindi l'obbligo di versare le ritenute nasce solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate"; che, "ove cosi' non fosse, la differenza di trattamento tra le due fattispecie sarebbe del tutto irragionevole e potrebbe dare adito a dubbi di legittimita' costituzionale"; che al contrario "tale differenza di trattamento si giustifica perfettamente se si considera che il legislatore ha chiaramente assimilato il mancato versamento delle ritenute previdenziali e assicurative al delitto punito dall'articolo 646 del codice penale, la cui pena edittale - non certamente per un caso - e' assolutamente identica". A giustificazione di tale ultima asserzione, la sentenza Silvestri si limitava tuttavia a fare rimando alle considerazioni di Cass. Pen. Sez. 3, n. 39178 del 05/10/2001, Romagnoli, relativa all'omesso versamento di ritenute fiscali operate alla fonte sui redditi da lavoro dipendente, gia' sanzionato (come visto) dall'art. 2 D.L. 429/82, conv. nella l. 516/82, nella quale si concludeva nel senso che tale condotta non poteva trovare inquadramento e sanzione nell'art. 646 c.p. Per affermare cio', partiva dalla premessa che occorre distinguere tra l'ipotesi del datore di lavoro debitore in proprio verso l'amministrazione finanziaria - in relazione alla quale l'omesso pagamento non costituisce appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruita' - e l'ipotesi del datore di lavoro tenuto al pagamento di un debito altrui, come nel caso di quote di contributi previdenziali trattenute sulla retribuzione, in cui - si sosteneva - il mancato versamento integra invece appropriazione indebita. Riprendendo le argomentazioni di Cass. Pen. Sez. Unite, 20/10/2011 (dep. 2012) n. 37954 (su cui v. oltre), si osserva peraltro che il riferimento alla "appropriazione indebita" ad opera del datore di lavoro delle somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti per il pagamento di oneri previdenziali, contenuto nella sentenza Silvestri, appare estremamente indiretto, ed assume nell'economia della decisione un valore meramente, per cosi' dire, sostanziale. La materia viene ripresa l'anno successivo, nuovamente, dalle Sezioni Unite, 27/10/2004 n. 1327 (Li Calzi), che vanno di contrario avviso. In relazione alla specifica questione posta al suo esame, relativa alle ritenute da versare alla Cassa edile, la pronuncia evidenzia che il meccanismo previsto per il pagamento alla Cassa da parte del datore di lavoro e il conseguente diritto dei lavoratori ad ottenere da questa la corresponsione delle somme dovute - per ferie, festivita' e gratifiche natalizie - integra una delegazione di pagamento; la Cassa non diviene quindi obbligata nei confronti del lavoratore con il mero sorgere del rapporto di lavoro, bensi' solo con il pagamento, da parte del datore di lavoro, delle somme stesse. E cio', si aggiunge, a differenza di quanto avviene per l'I.N.P.S. in relazione al pagamento delle relative spettanze al lavoratore, nelle quali - come meglio si vedra', c'e' piena automaticita'. E ciononostante (e in questo caso dall'omissione il lavoratore subisce un serio danno diretto) ritengono le Sezioni Unite che non sussista "altruita'" e quindi (deve aggiungersi: in assenza di una norma che punisca specificamente l'omissione in argomento) illiceita' penale. Tentando, poi, di mettere ordine nella contraddittoria elaborazione giurisprudenziale in materia di somme a vario titolo trattenute, la sentenza Li Calzi osserva che non sono condivisibili gli orientamenti che ritengono sussistere il requisito dell'altruita' delle somme ritenute o trattenute alla fonte (specificamente: trattenute di somme da versare alla Cassa Edile e ritenute previdenziali), perche' detti orientamenti non sono coerenti con il principio affermato per la fattispecie delle ritenute sulle retribuzioni effettuate dal datore di lavoro a favore dell'erario, in realta' analoga e in relazione alla quale era al contrario gia' costantemente esclusa la configurabilita' del reato di appropriazione indebita, sia a danno dei lavoratori dipendenti sia nei confronti dello Stato, proprio sul presupposto della mancanza del requisito dalla "altruita'" delle somme trattenute. Rileva la Corte che, se la ragione per la quale e' esclusa dalla costante giurisprudenza la "altruita'" della somma trattenuta per il versamento all'Erario risiede nella liberazione del lavoratore dall'obbligo del pagamento del tributo, a maggior ragione dovrebbe escludersi la sussistenza di tale requisito nel caso delle trattenute sulla retribuzione da versarsi alle Cassa edile e delle ritenute per contributi previdenziali, atteso che anche in questo caso l'obbligazione grava, dal suo nascere ed anche per la quota spettante al lavoratore, unicamente sul datore di lavoro. In realta' - prosegue la sentenza Li Calzi -, la posizione del datore di lavoro-sostituto d'imposta e' completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali. In ciascuno di detti casi, difatti, si e' in presenza di un "accantonamento" di una somma determinata di denaro, finalizzata ad un fine determinato, da versarsi ad un terzo alle scadenze stabilite. Siffatte ipotesi - rimarca la sentenza - sono accomunate dalla caratteristica dell'obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore la retribuzione al netto di "ritenute" a vario titolo effettuate ("per debito di imposta, per contributi previdenziali, in forza di accordi economici o di contratti collettivi"), e sono inoltre tutte egualmente connotate dalla circostanza che "il denaro oggetto dell'appropriazione e' rappresentato da una quota ideale del «patrimonio» del possessore, indistinta da tutti gli altri beni e rapporti che contribuiscono a costituirlo". La somma trattenuta o ritenuta resta, in altri termini, nella esclusiva disponibilita' del datore di lavoro-possessore, non soltanto perche' non e' mai materialmente versata al lavoratore, ma soprattutto perche' mai puo' esserlo, avendo il dipendente soltanto il diritto di percepire la retribuzione al netto delle trattenute effettuate alla fonte dal datore di lavoro. Le "trattenute", percio', si risolvono "in una operazione meramente contabile diretta a determinare l'importo della somma che il datore di lavoro e' obbligato a versare, in base ad una norma di legge o avente forza di legge, alla scadenza pattuita in conseguenza della corresponsione della retribuzione". Al contrario - conclude la sentenza Li Calzi - in tutti i casi trattati dalla giurisprudenza e pacificamente ritenuti riconducibili all'appropriazione indebita, il denaro o la cosa mobile di cui l'agente si appropria, "non fanno mai parte ab origine del patrimonio del possessore", ma vi entrano "ab extrinseco", e con esso patrimonio non si confondono perche' connotati da una vincolo specifico di destinazione; sicche' di tali beni puo' dirsi che restano di "proprieta'" diretta od indiretta di altri. Dopo detta sentenza, il contrasto di giurisprudenza non si era tuttavia del tutto sopito. Da un lato si pongono, infatti, numerose pronunce che in fattispecie simili o analoghe, richiamando la sentenza Li Calzi, escludono la sussistenza dell'appropriazione indebita. Dall'altro militano, invece, Cass. Pen. Sez. 2, 7/2/2008 n. 8023, La Tona (non massimata) e Cass. Pen. Sez. 2, 18/4/2007 n. 23034, Altieri (non massimata), che, occupandosi di contestazioni relative, rispettivamente, all'omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali alla competente gestione dell'I.N.P.S. ed all'omesso versamento alla Cassa edile delle somme trattenute a tale titolo sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti, affermano la sussistenza del delitto di appropriazione indebita, non facendo menzione delle Sezioni Unite Li Calzi, ma rifacendosi invece direttamente ad orientamenti precedenti; nonche' Cass. Pen. Sez. 2, 18/3/2009 n. 19911, Montanucci, che ravvisa il delitto in questione nella condotta del datore di lavoro che omette di accantonare, e di versare all'INPS, le somme trattenute a titolo di trattamento di fine rapporto spettante al lavoratore, sull'assunto che i principi della sentenza Li Calzi, concernenti l'accantonamento di trattenute non aventi natura contributiva previdenziale e assistenziale, non riguardano la fattispecie in esame. Sul punto sono infine nuovamente intervenute le Sezioni Unite, con la citata pronuncia, 20/10/2011 (dep. 2012) n. 37954, che dopo avere nuovamente riassunto i termini della questione, con ampie citazioni della sentenza Li Calzi (2) , criticano le discordi sentenze successive, argomentando come segue: "Alla luce degli argomenti posti a fondamento della sentenza Li Calzi, e' pero' evidente che allorche' le Sezioni semplici hanno inteso sostenere, implicitamente o espressamente, che i principi in essa affermati non si riferivano all'omesso versamento di somme trattenute in vista dell'adempimento di obblighi di natura contributiva, previdenziale e assistenziale, hanno obliterato quanto a chiare lettere affermato in detta sentenza a proposito della comune connotazione alla stregua di somme mai uscite dal patrimonio del datore di lavoro delle trattenute imputabili a debiti retributivi, contributivi o d'imposta; della identica natura di accantonamenti puramente contabili della registrazione di tali trattenute; delle analoghe conseguenze che se ne dovevano trarre in punto di non configurabilita' dell'appropriazione indebita per difetto del requisito dell'altruita' degli importi trattenuti, trattandosi di somme non confluite dall'esterno nel patrimonio dell'obbligato con tale vincolo di destinazione, ma in quello sin dall'origine comprese. Tanto posto, ritiene il Collegio che non vi sono ragioni per dissentire, in ipotesi quali quella in esame, dagli approdi raggiunti delle Sezioni Unite con la sentenza Li Calzi". Puo' pertanto affermarsi che, secondo il diritto vivente, pienamente da condividere e sancito da ripetute pronunce delle Sezioni Unite penali, come sopra gia' riportato "la posizione del datore di lavoro-sostituto d'imposta e' completamente sovrapponibile a quella del datore di lavoro che effettua le trattenute sulle retribuzioni per riversarle alla Cassa edile, e, a maggior ragione, a quella del datore di lavoro che effettua le ritenute dei contributi previdenziali". Cio' basterebbe, almeno sotto il profilo della ricostruzione giuridica, per affermare l'irragionevolezza di una cosi' evidente disparita' di trattamento tra le due fattispecie. 4. Insussistenza di danni per il lavoratore. Non solo l'omesso versamento delle ritenute previdenziali non comporta alcuna appropriazione di somme che non sono mai entrate nel patrimonio altrui, ne' del lavoratore, ne' in quello dell'I.N.P.S. Ma vi e' altresi' assoluta indifferenza per il lavoratore in relazione al versamento o meno delle ritenute, in maniera del tutto analoga a quella del mancato versamento delle ritenute fiscali. L'art. 2116 c.c. sancisce infatti il principio di autonomia della prestazione previdenziale dall'effettivo pagamento dei contributi, disponendo che "Le prestazioni indicate nell'articolo 2114 (Previdenza ed assistenza obbligatorie) sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali. Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore e' responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro ". (3) Cio' e' possibile in quanto non sussiste tra il datore di lavoro, il lavoratore alle sue dipendenze e l'ente previdenziale un unico rapporto giuridico trilaterale ma, come osservato dalla giurisprudenza (4) , plurimi rapporti bilaterali tra loro indifferenti gli uni alle vicende patologiche degli altri e, specificamente: a) un rapporto contributivo tra datore di lavoro ed ente previdenziale (rapporto tra assicuratore ed assicurante); b) un rapporto previdenziale riguardante l'erogazione delle prestazioni, esistente tra l'istituto previdenziale ed il lavoratore dipendente (rapporto tra assicuratore ed assicurato); c) un rapporto tra il lavoratore ed il datore di lavoro (rapporto tra assicurato ed assicurante). Il sistema in esame e' stato considerato, incidentalmente, da una pronuncia della Corte Costituzionale (5) , secondo cui costituisce "una fondamentale garanzia per il lavoratore, intesa a non far ricadere su di lui il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi, e rappresenta un logico corollario delle finalita' di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l'invalidita', la vecchiaia ed i superstiti." Questo Giudice ha comunque ritenuto opportuno richiedere informazioni alla Direzione Provinciale dell'I.N.P.S. di Imperia, nei seguenti termini: "se in caso di mancato pagamento delle ritenute previdenziali da parte del datore di lavoro, vengano di fatto riconosciute al lavoratore le relative prestazioni previdenziali ai sensi dell'articolo 2116 del Codice Civile , ovvero sussistano ostacoli, giuridici o di fatto, a tale riconoscimento." Nella risposta, si comunica che "nel caso di mancato pagamento della quota trattenuta dal datore di lavoro, al lavoratore sono comunque riconosciute le prestazioni previdenziali." 5. Conseguente irragionevolezza della differenza di trattamento. Venuta meno la suddetta ricostruzione, il mancato versamento costituisce, in entrambi i casi, l'inadempimento di un debito del datore di lavoro. La previsione dell'art. 2 cit. si rivela pertanto come una norma che assicura una tutela penale all'ente previdenziale in misura piu' favorevole rispetto allo Stato, differenza che non trova alcuna ragionevolezza. Ritornando alle argomentazioni della Corte Costituzionale dell'ordinanza n. 206/2003, si e' gia' detto che non sussiste un rischio di pregiudizio per il lavoratore. La Corte osserva poi, correttamente, che "gli obblighi tributari e quelli previdenziali di cui si tratta, pur rientrando nell'ampia categoria delle obbligazioni pubbliche (sono) correlativi ad interessi diversi, rispettivamente presi in considerazione dai due diversi precetti costituzionali di cui agli articoli 53 e 38 della Costituzione" . Ma, appurato che si tratta in entrambi i casi di entrate finalizzate a sostenere spese pubbliche, occorre verificare se sussista una ragionevole motivo per cui l'una spesa (quella volta ad assicurare i mezzi economici necessari per provvedere ai benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori) debba trovare maggiore tutela penale dell'altra (quella "pubblica" piu' generalmente detta). Ed un ragionevole motivo non appare ravvisabile, sussistendo altre spese "pubbliche" meritevoli almeno di pari tutela (si pensi, per tutte, a quella sanitaria). E - va aggiunto - la previsione della fattispecie penale per l'omesso versamento delle ritenute previdenziali a prescindere da qualunque soglia di punibilita' non puo' certo derivare dalla maggiore meritevolezza di tutela del patrimonio dell'I.N.P.S. (e della correlativa spesa per le finalita' sopra indicate), non solo perche' - come appena affermato - non si ravvisano ragionevoli motivi per assicurate tale maggior tutela, ma anche tenuto conto che i contributi direttamente a carico del datore di lavoro adempiono alla stessa finalita' ed hanno identica natura, ma che ciononostante l'omesso versamento della quota di contributi a carico del datore di lavoro (ovvero quella di maggior peso) e' stata depenalizzata dalla l. 689/1981. (6) Deve concludersi che un cosi' differente trattamento tra due fattispecie (si porta, quale esempio estremo: l'omesso versamento di ritenute fiscali pari a 50.000 Euro in un periodo di imposta, privo di rilevanza penale; l'omesso versamento di ritenute previdenziali pari a 10 Euro, nel medesimo periodo, punito con la reclusione e la multa) appare manifestamente privo di qualsiasi ragionevolezza e, come tale, fortemente lesivo del principio di uguaglianza. 6. Individuazione della soglia di punibilita'. Accertata - sulla base delle superiori argomentazioni - l'assoluta irragionevolezza della previsione di una soglia di punibilita' non esigua ai sensi dell'art. 10-bis d.lgs. 74/2000 e, invece, dell'assenza di qualsiasi soglia nell'art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, conv. in l. 638/1983; ritenuta, pertanto, la necessita' di un intervento della Corte che ne dichiari l'illegittimita', si pone il serio problema di individuare una soglia. Si e' coscienti, infatti, che la Corte non puo' sostituirsi al legislatore nell'individuare la soglia "piu' adeguata". Ed allora, delle due l'una: 1) o e' possibile individuare tale soglia adottando un parametro oggettivo parametrabile a quello che porta alla determinazione della soglia di € 50.000 per le omesse ritenute fiscali; ed allora potra' ritenersi non manifestamente infondata la norma in esame nella parte in cui non prevede detta soglia di punibilita' cosi' individuata; 2) oppure tale operazione risulta impossibile, ed allora, ferma la necessita' sopra ritenuta, non potra' che ritenersi la norma incostituzionale tout court. Ritiene lo scrivente che possa percorrersi la strada sopra indicata sub 1), nei termini che seguono. Deve innanzitutto escludersi che possa individuarsi, quale soglia di punibilita' per l'art. 2 comma 1-bis, lo stesso importo non versato (€ 50.000). Assai rari sono i casi in cui vi sono omissioni tale entita' - sempre calcolate in ragione di anno - nel versamento di ritenute previdenziali, mentre si registrano nella prassi omissioni nel versamento di ritenute alla fonte superiori ad € 50.000; seguire tale strada porterebbe ad una quasi generalizzata depenalizzazione del reato di cui all'art. 2 comma 1-bis, incorrendo nel vizio opposto di legittimita' costituzionale. Il motivo di tale differenza sta nel fatto che il parametro di riferimento iniziale per calcolare la soglia di punibilita' non e' l'"importo soglia", ma e' il presupposto di imposta, ovvero l'imponibile fiscale determinato dalla retribuzione lorda, su cui viene operata la ritenuta, da un lato fiscale e dall'altro previdenziale. Ora, partendo dal tertium comparationis, ovvero dalla ritenuta alla fonte del datore di lavoro sostituto di imposta, il problema che si pone e' ovviamente dato dal fatto che l'importo delle retribuzioni, che porterebbero a ritenute pari ad € 50.000, non e' determinabile in misura fissa, poiche' l'imposta e' progressiva, con aliquote variabili tra il 23% ed il 43%. In particolare, la stessa e' pari al 23% per retribuzioni fino ad € 15.000, al 27% nello scaglione di reddito tra € 15.001 ed € 28.000, al 38% nello scaglione tra € 28.001 ed € 55.000, al 41% nello scaglione tra € 55.000 ed € 75.000, al 43% sopra ad € 75.000. Si evidenzia poi che a partire dal secondo scaglione in poi (quindi in caso di reddito maggiore rispetto a quello con aliquota base), si applica l'aliquota successiva solo per la parte eccedente di reddito. Pertanto, l'importo delle retribuzioni su cui sono state operate le ritenute non versate (ovvero l'imponibile fiscale) per un ammontare di queste ultime pari ad € 50.001 - rilevante penalmente - sara' minore qualora si tratti di un minor numero di' dipendenti con retribuzioni alte, maggiore qualora invece si tratti di un numero maggiore di dipendenti, con retribuzioni inferiori. Cio' posto, ritiene lo scrivente che debbano prendersi a parametro retribuzioni medie; e, a tal fine, che possano considerarsi le retribuzioni massime appartenenti al secondo scaglione (€ 28.000 lordi annui), ai quali e' applicata l'aliquota del 23% al reddito rientrante nel primo scaglione e del 27% alla parte di reddito eccedente. Sviluppando il conseguente calcolo, ad un ammontare di ritenute fiscali non versate pari ad € 50.000, corrispondono redditi lordi (sui quali, appunto, viene applicata la ritenuta, poi non versata) pari ad € 201.149. A questo punto, preso a parametro il suddetto ammontare di retribuzioni lorde, occorre calcolare a quanto ammonterebbero i rispettivi contributi previdenziali posti a carico del lavoratore, che vengano trattenuti dal datore di lavoro e poi non versati all'Ente previdenziale. L'aliquota generalmente applicata e' in tal caso pari, attualmente, al 9,13%, salvo alcuni casi residuali nei quali la stessa e' aumentata al 9,43%. Per gli stessi motivi sopra evidenziati (tenere conto, ai presenti fini, del caso generale e non del caso particolare o residuale), si prende a riferimento la prima aliquota (9,13%), ottenendo su redditi lordi pari ad € 201.149, un ammontare di ritenute previdenziali di € 18.485. Prendendo a riferimento il medesimo reddito imponibile (€ 185.185), l'art. 2 comma 1-bis oggetto di analisi, potra' pertanto ritenersi conforme all'art. 3 della Costituzione, solo qualora l'importo delle ritenute operate e non versate che faccia scattare la rilevanza penale dell'omissione sia superiore ad € 18.485 per ciascun periodo di imposta. In tal senso, si ritiene, in conclusione, rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' sollevata. (1) La ritenuta previdenziale da operarsi sulla retribuzione e' infatti pari, attualmente, al 9,19%. (2) Il presente paragrafo si fonda in gran parte sulle argomentazioni di tale pronuncia delle Sezioni Unite n. 37954/2012, cui si rinvia anche per piu' puntuali citazioni dei precedenti. (3) Nell'ipotesi in cui il credito vantato dal lavoratore dipendente sia prescritto, vi e' la possibilita' che sia costituita, nei suoi confronti, una rendita vitalizia, secondo quanto previsto dall'articolo 13 della legge 1338/1962. (4) Si vedano, in tal senso: Cassazione Civile, Sezioni Unite, ord. 683/2003; Corte di Cassazione, sez. V, n. 3339/2004. (5) Corte Costituzionale, sentenza 347/1997. (6) Non si affronta il problema della supposta disparita' di trattamento tra le due fattispecie del mancato versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro (mero illecito amministrativo) e di quelli a carico del lavoratore, oggetto di ritenute alla fonte (illecito penale); ci si limita ad evidenziare che in questo caso si tratta - si - di due fattispecie diverse, perche' nel primo caso il datore di lavoro omette di pagare un debito proprio e nell'altro caso un debito del lavoratore, al cui pagamento egli e' obbligato quale datore di lavoro. Solo nel secondo caso il legislatore conferisce al datore di lavoro il compito di pagare un debito altrui e si tratta di situazione che lo stesso legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalita', ben puo' ritenere meritevole di maggiore tutela.
P.Q.M. Visti gli articoli 134 Cost., 23 e segg. L. 87/1953 Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, conv. in l. 638/1983 nella parte in cui non prevede che il fatto e' punito solo qualora l'ammontare delle ritenute non versate sia superiore ad € 18.485 per ciascun periodo di imposta. Sospende il giudizio in corso e dispone la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza, a cura della Cancelleria, sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere. Imperia, 7 agosto 2013 Il Giudice: Colamartino