N. 101 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 17 dicembre 2013
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale depositato in cancelleria il 17 dicembre 2013 (della Regione Veneto). Beni culturali - Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali - Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita' culturali e del turismo - Modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004 - Decoro dei complessi monumentali ed altri immobili - Previsione che le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le Sovrintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri la necessita', l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico - Ricorso della Regione Veneto - Denunciata introduzione, operata in sede di conversione del decreto-legge impugnato, di un ulteriore comma 1-bis nell'art. 52 del d.lgs. n. 42 del 2004, in assenza del necessario coordinamento legislativo e con un testo, riproduttivo di una circolare ministeriale, di contenuto diametralmente opposto a quello immediatamente precedente, risultando assegnata nel precedente la competenza amministrativa in materia al Comune - Irragionevolezza dell'intervento normativo comportante incertezza giuridica - Omessa delimitazione dell'ambito applicativo della disposizione - Incidenza sul corretto esercizio della potesta' legislativa regionale - Violazione del principio di sussidiarieta' - Violazione del principio di buon andamento e imparzialita' della pubblica amministrazione - Violazione della potesta' legislativa regionale nella materia concorrente relativa alla valorizzazione dei beni culturali - Violazione della potesta' legislativa residuale regionale in tema di commercio e turismo - Incidenza sulla potesta' amministrativa regionale - Violazione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, art. 4-bis, introdotto dalla legge 7 ottobre 2013, n. 112. - Costituzione, artt. 3, 97, 117, commi terzo e quarto, 118 e 120; decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 5, 17, comma 1, e 18, comma 2.(GU n.2 del 8-1-2014 )
Ricorso proposto dalla Regione Veneto (C.F. 80007580279), in persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale dott. Luca Zaia (C.F. ZAILCU68C27C957O), a cio' autorizzato con D.G.R. n. 2183 del 3 dicembre 2013 allegata, rappresentato e difeso, giusta mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti Ezio Zanon (C.F. ZNNZEI57L07B563K) Coordinatore dell'Avvocatura regionale, Daniela Palumbo (C.F. PLMDNL57D69A266Q) della Direzione regionale Affari Legislativi e Luigi Manzi (C.F. MNZLGU34E15H501Y) del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri n. 5 (per eventuali comunicazioni: fax 06/3211370, posta elettronica certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org. Nei confronti del Presidente pro tempore del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'articolo 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 recante: «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita' culturali.» nel testo risultante per effetto della conversione della legge 7 ottobre 2013, n. 112, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 236 dell'8 ottobre 2013. F a t t o Con la legge 7 ottobre 2013, n. 112, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 236 dell'8 ottobre 2013, e' stato convertito in legge il decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, recante: «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita' culturali.». In particolare l'articolo 4-bis del decreto-legge citato e' stato introdotto in sede di conversione, operata con la legge n. 112 del 2013, ed aggiunge il comma 1-bis al comma 1 dell'articolo 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il c.d. Codice dei beni culturali e del paesaggio", assegnando alle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici, «sentiti gli enti locali», il compito di adottare «apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le firme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri la necessita', l'uso individuale della aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico.». Tale intervento sarebbe stato motivato dal legislatore statale in ragione della dichiarata esigenza di «contrastare l'esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attivita' commerciali ed artigiane in forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale». La rigida disposizione si fonderebbe, pertanto, sulla necessita' di «assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti.». Infine, l'ambito territoriale della disposizione citata si estenderebbe, secondo il dettato normativo, anche alle «aree contermini» ai complessi monumentali ed agli altri immobili del demanio culturale, mentre l'ambito oggettivo potrebbe riguardare anche «qualsiasi altra attivita' non compatibile» senza alcuna indicazione, seppur minima, di criteri o parametri di riferimento vincolanti il potere discrezionale delle Direzioni regionali per i beni culturali e del paesaggio e le Sovrintendenze chiamate ad attuarla. D i r i t t o La Regione del Veneto ritiene che l'articolo 4-bis del decreto-legge n. 91 del 2013, nel testo risultante dalla conversione operata con la legge n. 112 del 2013, presenti taluni profili di lesivita' e conflitto con le prerogative garantite all'ente territoriale dalla Carta fondamentale, per i motivi di seguito partitamente indicati. Violazione degli articoli 3 e 97, della Costituzione. Innanzitutto, per cio' che si presume essere un evidente e non ancora sanato vizio di tecnica legislativa, la formulazione dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 42/2004, come modificato dal decreto-legge n. 91/2013 nel testo convertito in legge, presenta un doppio comma 1-bis e, correlativamente, due disposizioni completamente diverse, in violazione del principio di certezza del diritto. Infatti, il primo comma 1-bis, introdotto dall'articolo 2-bis della legge di conversione, recita: «Fermo restando quanto previsto dall'articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresi' i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attivita' di artigianato tradizionale e altre attivita' commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell'identita' culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della liberta' di iniziativa economica di cui all'articolo 41 della Costituzione.». La novella in argomento pur avendo imposto, altresi', la doverosa integrazione della rubrica dell'articolo di cui si tratta con l'inserimento delle parole «e nei locali storici tradizionali», ha tuttavia lasciato inalterata la competenza, di cui al comma 1, assegnata ai comuni circa l'individuazione delle aree pubbliche nelle quali imporre il divieto o limitazioni all'esercizio del commercio, per preminenti ragioni di tutela di beni o siti di valenza archeologica, storica, artistica e paesaggistica. Correlativamente, peraltro, per effetto del comma 1-bis, attribuisce ai comuni medesimi anche la potesta' di individuare i locali da destinare ad attivita' di artigianato tradizionale ed altre attivita' commerciali tradizionali, con finalita' tutt'altro che impeditive, ma anzi promozionali, trattandosi di forme di espressione dell'identita' culturale collettiva, attuata in conformita' ai precetti di rango costituzionale ed ai consueti principi di derivazione comunitaria, formalizzati, per giunta, in accordi internazionali. La suddescritta armonia legislativa, pero', risulta completamente stravolta proprio a causa della medesima legge di conversione n. 112/2013, atteso che l'articolo 4-bis introduce un ulteriore comma 1-bis nell'art. 52 del d.lgs. n. 42/2004, in assenza del necessario, basilare coordinamento normativo e con un testo di contenuto diametralmente opposto a quello immediatamente precedente. Lungi dal censurare superficialmente eventuali accadimenti di frettolosa scrittura dei testi normativi, che per cio' stesso comunque sono facilmente foderi di possibili degenerazioni, quello che il patrocinio regionale sottopone all'esame di codesto Ecc.mo Collegio la perdurante inerzia del legislatore statale e la singolarita' del fenomeno in esame, che incide profondamente nella certezza del diritto. Nell'attuale fattispecie, infatti, si registra una sostanziale differenza rispetto ad altri episodi consimili gia' verificatisi nel passato, per i quali l'intervento del legislatore statale era stato diligentemente pronto, oppure non si ponevano rilevanti discrasie ordinamentali, come nel caso dell'articolo 21-quinquies rubricato «Revoca del provvedimento» contenuto nella piu' volte modificata legge 7 agosto 1990, n. 241, nel quale era stata rispettata la sequenza numerica delle disposizioni, ma il contenuto del comma 1-bis risultava identico al comma 1-ter. Questo perche' tale ultimo comma era stato aggiunto dal comma 1-bis dell'art. 12, del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, per poi essere abrogato, a decorrere dal 6 giugno 2012, dal comma 1 dell'art. 62 e dalla Tabella A allegata al D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35. In riferimento alla novella operata dall'art. 4-bis di cui alla legge n. 112/2013, il testo dell'art. 52 del d.lgs. n. 42/2004 che ne risulta presenta notevoli fratture logiche ed ordinamentali e conduce ad opzioni ermeneutiche differenti che si risolvono in altrettanti dubbi applicativi e, inevitabilmente, si riflettono sul l'operato delle pubbliche amministrazioni, siano essi i comuni o gli organi periferici del Ministero per i beni culturali, con effetti significativamente pregiudizievoli per le competenze, variamente declinate, che, particolarmente in materia di commercio e turismo, intaccano anche le prerogative normative ed amministrative regionali salvaguardate dalla Costituzione. Ed invero, nei primi due commi dell'art. 52 predetto, e cioe' il comma 1, ed il comma 1-bis introdotto dall'articolo 2-bis della legge n. 112/2013, l'unico ente effettivamente tributario ad esercitare la competenza amministrativa in materia appare il comune, atteso che alle Sovrintendenze residuano mere funzioni consultive. Per converso, il comma 1-bis, introdotto dall'articolo 4-bis della legge n. 112 del 2013, sovverte le posizioni dei soggetti istituzionali gia' individuati, assegnando una funzione di amministrazione attiva alle Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici ed alle Sovrintendenze, relegando contestualmente i comuni in un ruolo di interlocutore con funzioni consultive obbligatorie ma non vincolanti. Appare cosi' difficilissimo, se non impossibile, attesa la distanza dicotomica rinvenibile nelle due norme, tentare di armonizzare i contenuti precettivi propri delle disposizioni dei due commi «1-bis», peraltro inseriti dalla stessa legge di conversione. Infatti, mentre il comma 1-bis di cui all'articolo 2-bis della legge n. 112/2013 incentiva e promuove le attivita' artigianali e commerciali tradizionali, in quanto espressione di identita' culturale collettiva contemplate addirittura da convenzioni internazionali, per converso, il comma 1-bis di cui all'articolo 4-bis della legge n. 112 del 2013 vieta gli usi da ritenere incompatibili con le esigenze di tutela e di valorizzazione dei beni culturali, senza alcuna distinzione od eccezione. A rigore, quindi, l'articolo 52 del decreto legislativo n. 42/2004, nell'attuale formulazione, al comma 1 obbliga l'amministrazione comunale ad individuare le aree di particolare valore culturale in cui imporre vincoli e condizioni limitative all'esercizio del commercio; al comma 1-bis, introdotto dall'articolo 2-bis della legge n. 112/2013, obbliga il comune medesimo ad individuare i locali storici tradizionali in cui promuovere l'artigianato e le attivita' commerciali simbolo dell'identita' culturale; infine, al comma 1-bis, introdotto dall'art. 4-bis della legge n. 112/2013, assegna alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze, il potere di adottare ulteriori provvedimenti interdittivi e regolatori che, nella prima ipotesi, si aggiungono a quelli comunali e, nella seconda ipotesi, si sostituiscono a qualsiasi intervento regolatorio autorizzatorio o concessorio, neutralizzando anche gli effetti promozionali dell'artigianato e del commercio tradizionale locale. Da cio' l'assoluta irragionevolezza dell'intervento normativo attuato in spregio all'articolo 3 della Costituzione. Appare cosi' utile, traendo lo spunto dall'intervento legislativo in esame, l'ultimo in ordine di tempo, ripercorrere brevemente l'excursus ordinamentale che ha interessato le diverse competenze ripartite tra comuni ed organi statali in subiecta materia, per effetto di successivi ritocchi normativi. Risalendo al d.lgs. 31 marzo 1998 n. 114, recante la nuova riforma della disciplina relativa al settore del commercio, tuttora in vigore, si osserva che l'art. 10 prevede, tra l'altro, relativamente ai «centri storici, aree o edifici aventi valore storico, archeologico, artistico e ambientale, l'attribuzione di maggiori poteri ai comuni», per cio' che concerne la «localizzazione» ed «apertura degli esercizi di vendita», soprattutto «al fine di rendere compatibili i servizi commerciali con le funzioni territoriali in ordine alla viabilita', alla mobilita' dei consumatori e all'arredo urbano, utilizzando anche specifiche misure di agevolazione tributaria e di sostegno finanziario». Inoltre, il successivo articolo 28, dello stesso decreto, prevede espressamente che per la regolamentazione dell'esercizio delle attivita' sulle aree pubbliche, mediante posteggio o in forma itinerante, i comuni debbano adottare un'apposita deliberazione che individui le aree culturali nelle quali l'esercizio del commercio e' vietato o sottoposto a condizioni particolari ai fini della salvaguardia delle medesime. Di poco successivo al decreto considerato e' il d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, recante il Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, il cui articolo 53, rubricato «Esercizio del commercio in aree di valore culturale», assegnava al Sovrintendente il potere di individuare aree di pregio culturale in cui l'esercizio del commercio fosse vietato, ovvero sottoposto a particolari limitazioni previo proprio nulla osta. Per inciso, va precisato che una disposizione di contenuto analogo, gia' presente nella legge 28 marzo 1991, n. 112, nella parte finalizzata alla disciplina del commercio nelle aree pubbliche, era stata poi abrogata proprio dal d.lgs. n. 114/1998, secondo un meccanismo di rimbalzi disciplinatori quantomeno singolare. Successivamente, il nuovo ed attuale decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in ossequio, presumibilmente, anche alla nota riforma della Costituzione, per quanto specificamente attiene il novellato art. 114 della medesima, con l'art. 52 riattribuisce la competenza in materia ai comuni, che, proprio mediante quelle «deliberazioni previste dalla normativa in materia di rifirma della disciplina relativa al settore del commercio» di cui al d.lgs. n. 114/1998, sentito il Sovrintendente, devono individuare le aree pubbliche nelle quali vietare o sottoporre a particolari condizioni l'esercizio del commercio. Ed appunto l'art. 52 in argomento ha generato due diverse direttive emanate dal Ministero per i beni e le attivita' culturali. La prima di queste, datata 9 novembre 2007 ed indirizzata alle Direzioni regionali e alle Sovrintendenze, sostanzialmente traeva fondamento dalla «situazione di crescente e grave degrado urbano a causa della crescita del fenomeno del commercio ambulante», e, conseguentemente, invitava i destinatari ad attivarsi per garantire la puntuale attuazione delle disposizioni in materia di beni culturali, in sintonia con le amministrazioni comunali, allo scopo di conseguire il piu' efficace contemperamento degli interessi coinvolti. Ma tale direttiva, peraltro riferita esclusivamente al possibile degrado cagionato dalla diffusione incontrollata del commercio ambulante, e' stata recentemente replicata in una seconda direttiva, datata 10 ottobre 2012, anch'essa ovviamente destinata soltanto agli organi statali periferici competenti in materia di beni culturali che, inopinatamente, ha straordinariamente esteso i confini dell'azione amministrativa rimessa agli organi statali dal contesto legislativo supra delineato. Per un verso, infatti, si e' ampliato l'ambito applicativo territoriale della direttiva, laddove le arre aree pubbliche oggetto di tutela perche' di particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico ove sono presenti i complessi monumentali o gli altri immobili del demanio culturale, si sono dilatate sino a ricomprendere le aree ad essi contermini; per altro verso, e' stato indebitamente allargato l'oggetto dell'intervento statale che, a termini della Direttiva de qua, potrebbe colpire in modo indifferenziato ogni attivita' commerciale ed artigianale esercitata in forma ambulante o su posteggio, nonche' qualsiasi altra attivita', innominata e generica, laddove sia ritenuta non compatibile, secondo canoni e parametri peraltro ignoti, con presunte e generiche esigenze di tutela. In proposito, si richiama l'attenzione di codesta Ecc.ma Corte proprio sulla circostanza che il contenuto della Direttiva del 2012 che, si ribadisce, costituisce una mera circolare interna diretta agli uffici gerarchicamente subordinati al Ministero per i beni e le attivita' culturali, e' stata trasfuso nell'articolo 4-bis della legge n. 112/2013, odiernamente censurato. Evidentemente siffatta operazione, per quanto poco attenta e poco meditata, di legificazione dei contenuti di un documento destinato alle amministrazioni periferiche del dicastero, integra l'indispensabile presupposto normativo preordinato alla costruzione dei requisiti di legittimita' della Direttiva stessa, che, altrimenti, sarebbe addirittura incompatibile con la Carta Fondamentale, atteso che l'articolo 23 della Costituzione statuisce il principio per il quale «nessuna prestazione personale o patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge». E tale principio e' a fortiori invocabile laddove si tratti di interventi con effetti caducatori di provvedimenti rilasciati da altre amministrazioni nel legittimo esercizio delle proprie potesta' regolamentari e, nel caso delle Regioni, con effetti immediatamente ricadenti sull'efficacia delle disposizioni normative eventualmente emanate, senza contare il grave pregiudizio arrecato alle posizioni giuridiche soggettive proprie degli operatori economici. In realta', cio' che rileva nella fattispecie in esame e' che nella direttiva 10 ottobre 2012 si denuncia, indirettamente, l'assenza totale di vigilanza da parte degli organi periferici sull'attuazione dei provvedimenti comunali. Infatti, per un verso il Ministero impone una ricognizione dei provvedimenti di vincolo gia' emanati, ivi compresi quelli adottati dai comuni proprio ai sensi dell'articolo 52 del d.lgs. n. 42/2004, e, per altro verso, pare attribuire agli uffici statali medesimi una funzione di garanzia circa l'effettivita' della vigilanza posta in essere in ordine al rispetto delle prescrizioni impartite. Il particolare fenomeno di jus superveniens su descritto, quindi, disgiunto dal necessario, conseguente, riordino ordinamentale ed istituzionale, ha creato un affastellamento normativo, fonte di grave incertezza giuridica, precludendo, altresi', il ricorso a quei meccanismi di collaborazione e concertazione posti a presidio della regolazione di ambiti connotati da un rilevante intreccio di una pluralita' di interessi pubblici. L'irragionevolezza che ne deriva e fonda il vizio di legittimita' di cui all'articolo 3 della Costituzione, e' indiscutibile e travalica il mero vizio di tecnica legislativa ascrivibile alla scorretta progressione numerica che evidenzia ancora, allo scadere dei termini per l'impugnazione del D.L. n. 91/2013, come convertito, la coesistenza di due commi «1-bis», introdotti da due articoli diversi della stessa legge di conversione inseriti quasi simultaneamente nel medesimo articolo 52 del d.lgs. n. 42/2004. Ma, ad avviso dello scrivente patrocinio, tale incertezza incide soprattutto sul corretto esercizio della potesta' legislativa regionale che, specialmente in contesti di potesta' normativa residuale, quale certamente e' quello relativo al commercio, subisce restrizioni cosi' rilevanti da risultarne svuotata. Per quanto specificamente attiene la rilevanza del rispetto del principio di certezza del diritto, nonche' sulle ricadute lesive che la violazione di tale principio produce in ordine alle attribuzioni legislative regionali, ovvero sulle relazioni intercorrenti tra il vulnus apportato all'art. 3 della Costituzione e la lesione delle prerogative tutelate ed assicurate dall'art. 117 della medesima, si richiama quanto riaffermato da codesta Ecc.ma Corte costituzionale anche nella recente decisione n. 200 del 2012 in relazione all'articolo 3 del D.L. n. 138/2011. In tale norma, infatti, in nome del principio di liberalizzazione delle attivita' economiche, il legislatore statale aveva operato, in assenza di qualsiasi direttrice, la generalizzata soppressione di disposizioni reputate genericamente incompatibili con tale principio. In quella pronuncia e' stato cosi' sancito che «l'automaticita' dell'abrogazione, unita all'indeterminatezza della sua portata, rende impraticabile l'interpretazione conforme a Costituzione, di talche' risulta impossibile circoscrivere sul piano interpretativo gli effetti della disposizione impugnata ai soli ambiti di competenza statale. Infine, poiche' la previsione censurata dispone la soppressione per incompatibilita', senza individuare puntualmente quali normative risultino abrogate, essa pone le Regioni in una condizione di obiettiva incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare le loro normative ai mutamenti dell'ordinamento statale. Infatti, le singole Regioni, stando alla norma censurata, dovrebbero ricostruire se le singole disposizioni statali, che presentano profili per esse rilevanti, risultino ancora in vigore a seguito degli effetti dell'art. 3, comma 3, primo periodo. La valutazione sulla perdurante vigenza di normative statali incidenti su ambiti di competenza regionale spetterebbe a ciascun legislatore regionale, e potrebbe dare esiti disomogenei, se non addirittura divergenti. Una tale prospettiva determinerebbe ambiguita', incoerenza e opacita' su quale sia la regolazione vigente per le varie attivita' economiche, che potrebbe inoltre variare da Regione a Regione, con ricadute dannose anche per gli operatori economici. Di conseguenza, l'art. 3, comma 3, appare viziato sotto il profilo della ragionevolezza, determinando una violazione che si ripercuote sull'autonomia legislativa regionale garantita dall'art. 117 Cost., perche', anziche' favorire la tutela della concorrenza, finisce per ostacolarla, ingenerando grave incertezza fra i legislatori regionali e fra gli operatori economici.». Ad avviso della difesa regionale, la situazione gia' vagliata da codesta Ecc.ma Corte non risulta sostanzialmente difforme rispetto all'altra odiernamente interloquita, in quanto l'art. 4-bis non delimita correttamente l'ambito applicativo della disposizione, ne' per quanto si riferisce all'individuazione delle «aree contermini» ai complessi monumentali ed agli altri immobili del demanio culturale; ne' con riferimento all'identificabilita' certa e pacifica di «qualsiasi altra attivita' non compatibile». Per di piu', la disposizione non offre neppure canoni e parametri omogenei che consentano alle Direzioni regionali per i beni culturali ed alle Sovrintendenze l'esercizio uniforme del potere discrezionale di cui si ritrovano ad essere tributari e che, in assenza dei necessari criteri regolativi, risulta talmente ampio ed incondizionato da generare il sospetto che sia suscettibile di generare abusi, in violazione dell'articolo 97 della Costituzione. L'illegittimita' di un simile assetto amministrativo, privo di limiti e contemperamenti, e' gia' stata stigmatizzata da codesta Ecc.ma Corte nella sentenza n. 115 del 2011 in relazione alla facolta' riconosciuta ai sindaci di adottare, in qualita' di ufficiali di governo, ordinanze «anche» non contingibili ed urgenti. In quell'occasione, codesto Ecc.mo Collegio non ha mancato di osservare che: «si deve rilevare la violazione di legge dell'articolo 97 della Cost., che istituisce anch'esso una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l'imparzialita' della pubblica amministrazione, la quale soltanto puo' dare attuazione, anche con determinazioni ulteriori, a quanto in via generale e' previsto dalla legge. Tale limite e' posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale.» (...) «L'assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che l'imparzialita' dell'agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorche' non dettagliato, nella legge.». Gli assunti pronunciati da codesta Ecc. Corte dispiegano particolarissima valenza proprio in relazione alla potesta' inibitoria prepotentemente riconosciuta alle Direzioni regionali del Ministero ed alle Sovrintendenze in ordine ad attivita' commerciali o artigianali, che pure erano state preventivamente autorizzate dall'autorita' competente in osservanza della legge in vigore in quel momento. Alla discrasia normativa che ne consegue non puo' reputarsi estraneo il disallineamento nelle fonti del diritto che l'ha cagionata. Infatti, la sostanziale identita' di contenuto tra il comma 1-bis dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 42 del 2004, come introdotto dall'articolo 4-bis della legge n. 112 del 2013, e la direttiva del Ministero datata 10 ottobre 2012, puo' al piu' dare ragione di un intervento redazionale approssimativo, ma pone, nel contempo, la questione della compatibilita' delle previsioni della direttiva con il principio di legalita' e, quindi, della conformita' della norma, successivamente posta a fondamento e legittimazione della direttiva, con i precetti costituzionali. Dunque, la cristallizzazione normativa del contenuto di una circolare interna, operata mediante l'introduzione nel tessuto ordinamentale dell'articolo 4-bis del D.L. n. 91/2013, come convertito, laddove sottende e genera la previsione di potesta' sia legislative che amministrative in capo ad organi di estrazione statale, produce necessariamente violazioni dei precetti costituzionali, qualora la novella incida in ambiti nei quali sussistono consolidate attribuzioni legislative regionali, a potesta' concorrente o residuale, ovvero competenze amministrative, anche, sicuramente regionali. Violazione degli articoli 117 commi terzo e quarto e 118 della Costituzione. Premesso quanto suesposto, perche' indefettibilmente prodromico all'analitica trattazione delle numerose norme contenute nella disposizione censurata, la difesa regionale contesta radicalmente le finalita' apoditticamente enunciate dal legislatore statale nel testo, nel tentativo, a dire il vero velleitario, di ricondurre le previsioni dell'articolo impugnato nell'alveo dell'articolo 117 della Costituzione, quale legittima espressione di una competenza legislativa esclusiva statale. Innanzitutto, nell'incipit della disposizione medesima e' enunciato il proposito di «contrastare l'esercizio» (...) «delle attivita' commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile» allo scopo dichiarato di «assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale (...) nonche' delle aree a essi contermini.». Orbene tale finalita', piu' che ad esigenze di tutela del patrimonio culturale riservata allo Stato dall'art. 117, comma secondo lettera s) della Costituzione, pare piuttosto ascrivibile alla c.d. valorizzazione dei beni culturali di cui al comma terzo della Costituzione, e l'assunto trova, oltretutto, puntuale conferma proprio nel testo della disposizione in esame che le menziona espressamente. In realta', ad avviso dello scrivente patrocinio, per circoscrivere correttamente l'ambito materiale di cui si tratta, enucleandolo in ragione della competenza funzionale esercitabile in relazione all'amplissima categoria costituita dal patrimonio culturale, appare utile richiamare la sentenza n. 212 del 2006, nella quale codesta Ecc.ma Corte ha chiaramente delineato l'elemento qualificante il profilo sussumibile nel termine «valorizzazione», argomentando nel contesto dei beni ambientali. Nello specifico, e' stata individuata la competenza regionale, ai sensi dell'articolo 117, comma terzo della Costituzione, in tema di valorizzazione del patrimonio tartuficolo, quale risorsa ambientale della Regione suscettibile di razionale sfruttamento. Conseguentemente, senza alcun diaframma logico od ermeneutico, se si considera che il precetto costituzionale di cui all'articolo 117, comma terzo, della Costituzione pone la «valorizzazione dei beni ambientali» in endiadi con la «valorizzazione dei beni culturali», appare ragionevole supporre che rappresenti un criterio distintivo certo, ai fini della demarcazione della competenza in materia, la suscettibilita' del patrimonio culturale ad essere oggetto di un razionale sfruttamento, anche attuato mediante le attivita' turistiche, commerciali ed artigianali contigue a tale patrimonio ed indotte dall'afflusso turistico che in tali aree risulta alquanto consistente, il che vale a dire che il patrimonio culturale e' indubitabilmente una risorsa la cui valorizzazione compete alla Regione. Sul punto, peraltro, gia' nella sentenza n. 9 del 2004, codesto Ecc.mo Collegio non aveva mancato di individuare le direttrici normative della materia de qua anche per quanto attiene le funzioni amministrative correlate, particolarmente laddove affermava che: "Il quadro complessivo della disciplina dei beni culturali va ricostruito sulla base di molteplici dati normativi, eterogenei per il loro contesto specifico e per il rango della fonte. In particolare, benche' il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sia stato emanato in un momento antecedente la riforma di cui alla legge costituzionale n. 3 del 2001, questa Corte ha gia' riconosciuto (V. sentenza n. 94 del 2003) che utili elementi per la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali possono essere desunti dagli artt. 148, 149, 150 e 152 di tale decreto. L'art. 148 stabilisce che ai fini del decreto stesso s'intende per tutela «ogni attivita' diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali»; per gestione «ogni attivita' diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalita' di tutela e valorizzazione»; per valorizzazione «ogni attivita' diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione». L'art. 149, comma 1, prescrive che «ai sensi dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge 15 marzo 1997, n. 59, sono riservate allo Stato le funzioni e i compiti di tutela dei beni culturali la cui disciplina generale e' contenuta nella legge 1° giugno 1939, n. 1089, e nel decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409, e loro successive modifiche e integrazioni». L'art. 150 disciplina il trasferimento della gestione di alcuni beni, secondo il principio di sussidiarieta', alle regioni, alle province o ai comuni. L'art. 152 prevede al comma 1 che lo Stato, le regioni e gli enti locali curino, ciascuno nel proprio ambito, la valorizzazione dei beni culturali e che, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 59 del 1997, la valorizzazione venga di norma attuata mediante firme di cooperazione strutturali e funzionali tra Stato, regioni ed enti locali, secondo guanto previsto dagli articoli 154 e 155 dello stesso decreto legislativo. Il comma 3 dell'art. 152 stabilisce che le funzioni e i compiti di valorizzazione comprendono, in particolare, le attivita' concernenti: «a) il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrita' e valore; b) il miglioramento dell'accesso ai beni e la diffusione della loro conoscenza anche mediante riproduzioni, pubblicazioni ed ogni altro mezzo di comunicazione; c) la fruizione agevolata dei beni da parte delle categorie meno favorite; d) l'organizzazione di studi, ricerche ed iniziative scientifiche anche in collaborazione con universita' ed istituzioni culturali e di ricerca; e) l'organizzazione di attivita' didattiche e divulgative anche in collaborazione con istituti di istruzione; j) l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati; g) l'organizzazione di eventi culturali connessi a particolari aspetti dei beni o ad operazioni di recupero, restauro o ad acquisizione; h) l'organizzazione di itinerari culturali, individuati mediante la connessione fra beni culturali e ambientali diversi, anche in collaborazione con gli enti e organi competenti per il turismo». A sua volta il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (Istituzione del Ministero per i beni e le attivita' culturali), all'art. 10, comma 1, lettera b-bis) - disposizione aggiunta con l'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, successivamente quindi all'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, e poi modificata dal comma 52 dell'art. 80 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e dall'art. 6 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 - nel prevedere la possibilita' di dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, tramite l'emanazione di un regolamento che disciplini tali concessioni, indica tra i criteri e le garanzie cui il regolamento dovra' uniformarsi la salvezza della riserva statale sulla tutela dei beni. 7. - I dati normativi riferiti permettono di affermare quanto segue. La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative anteriori all'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, sono state considerate attivita' strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili. Cosi' l'art. 148 del d.lgs. n. 112 del 1998 annovera, come s'e' visto, tra le attivita' costituenti tutela quella diretta «a conservare i beni culturali e ambientali», mentre include tra quelle in cui si sostanzia la valorizzazione quella diretta a «migliorare le condizioni di conservazione dei beni culturali e ambientali». La gestione, poi, nella definizione che ne da' il medesimo articolo, e' funzionale sia alla tutela sia alla valorizzazione. Il menzionato art. 152 dello stesso decreto legislativo considera la valorizzazione come compito che Stato, regioni ed enti locali avrebbero dovuto curare ciascuno nel proprio ambito. Tuttavia le espressioni che, isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano che la prima e' diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed e' significativo che la prima attivita' in cui si sostanzia la tutela e' quella del riconoscere il bene culturale come tale. La valorizzazione e' diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicche' anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa. Occorre infine rilevare che in nessun atto normativo precedente la modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione la tutela dei beni culturali viene attribuita a soggetti diversi dallo Stato; successivamente a questa, anzi, il citato comma 1, lettera b-bis), dell'art. 10 del d.lgs. n. 368 del 1998, nel prevedere le concessioni per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, stabilisce, come s'e' detto, che deve restare ferma la riserva statale sulla tutela dei beni. Alla luce delle suesposte considerazioni la riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali e' legata anche alla peculiarita' del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza. Essi vanno considerati nel loro complesso come un tutt'uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato. Nel modificare il quadro costituzionale delle competenze di Stato e Regioni per la parte che qui interessa, il legislatore costituente ha tenuto conto sia delle caratteristiche del patrimonio storico-artistico italiano, sia della normativa esistente, attribuendo allo Stato la potesta' legislativa esclusiva e la conseguente potesta' regolamentare in materia di tutela dei beni culturali e ambientali (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.) ed alla legislazione concorrente di Stato e Regioni la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (art. 117, terzo comma, Cost.). Se ne deduce che la valorizzazione e' diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicche' anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione e con riferimento ai modi di questa. Conseguentemente, i divieti o i limiti imponibili, come previsti nella norma interloquita, laddove finalizzati alla maggior fruizione dei beni monumentali o degli altri immobili interessati da flussi turistici, e' ascrivibile ineludibilmente alla materia «valorizzazione dei beni culturali.». L'esaustiva ricostruzione rinvenibile nell'articolata disamina che precede, come parzialmente riportata, evidenzia inequivocabilmente come il fulcro della questione consista non tanto nell'apposizione di vincoli all'esercizio di determinate attivita', quanto piuttosto nell'individuazione dei soggetti istituzionali competenti, sinora normativamente indicati secondo una metodologia ondivaga, oscillante nel tempo tra Stato ed enti locali, senza tenere in debita considerazione la molteplicita' delle diverse potesta' correlate alla cura degli interessi pubblici, nei differenti ambiti del commercio e della cultura, in una logica di necessario contemperamento delle posizioni eventualmente contrapposte. I limiti apponibili all'esercizio del commercio, infatti, sono plurimi e attualmente contemplati all'articolo 3 del D.L. n. 138 del 2011, gia' supra evocato, il cui comma I viene riportato di seguito. 1. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e contrasto con l'utilita' sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica.». Appare pleonastico sottolineare come la predetta norma si configuri, principalmente, quale limite alla liberta' di iniziativa economica sancita all'articolo 41 della Costituzione e, come tale, e' correttamente correlata alla salvaguardia di beni integranti altrettanti valori della Costituzione perche' ritenuti di preminente rilevanza, quali la sicurezza, la salute, l'ambiente e la finanza pubblica. E, in proposito, in forza dell'elementare principio di sussidiarieta' applicato in subiecta materia, e' quella comunale l'amministrazione deputata a presidiare, mediante l'esercizio di un'adeguata potesta' regolamentare, il rispetto delle norme disciplinatorie stabilite dai soggetti titolari della potesta' legislativa, e necessariamente emanate in conformita' ai precetti costituzionali. A tale posizionamento istituzionale devono essere ricondotti i poteri enunciati nell'articolo 54 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 che il Sindaco esercita in qualita' di ufficiale del Governo e che sono connotati da un'ampiezza tale da non subire compromissioni o contenimenti neppure in ossequio ai noti, prevalenti e talvolta prevaricanti principi di liberta' di iniziativa economica, tutela della concorrenza e del mercato e liberalizzazione commerciale. E l'indiscutibile estensione delle anzidette potesta' sindacali trova un'ulteriore, recentissima conferma proprio nella circolare esplicativa n. 3644/C del 28 ottobre 2011, con la quale, successivamente all'abrogazione dei limiti di orario e degli obblighi di chiusura degli esercizi commerciali, avuto specifico riguardo all'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, il Ministero dello sviluppo economico ha espressamente riconosciutola legittimita' di «eventuali specifici atti provvedimentali, adeguatamente motivati e finalizzati a limitare le aperture notturne o a stabilire orari di chiusura correlati alla tipologia e alle modalita' di esercizio dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande per motivi di pubblica sicurezza o per specifiche esigenze di tutela» (...) «potendosi legittimamente sostenere che trattasi di «vincoli» necessari ad evitare «danno alla sicurezza» (...) «e indispensabili per la protezione della salute umana (...) dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale». In ogni caso, alla potesta' amministrativa comunale senza dubbio tuttora sussistente, non soltanto nelle linee generali ed amplissime sopra cennate, ma anche a termini dello stesso comma 1 dell'articolo 52 del d.lgs. n. 42/2004, si aggiunge una potesta' legislativa regionale ai sensi del decreto legislativo n. 114 del 1998 che individua le Regioni quali soggetti istituzionali titolari del potere normativo in materia di commercio, con previsione, peraltro, convalidata dalla successiva giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, che ha espressamente ricondotto l'ambito settoriale in argomento nel quarto comma dell'articolo 117 della Costituzione. Ed in punto, la Regione ha esercitato tale potere inserendo il comma 4-bis nell'articolo 4 della legge regionale 6 aprile 2001, n. 10 «Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche» introdotto dall'articolo 16 della legge regionale 25 febbraio 2005, n. 7. La disposizione, ancora in vigore ed oggetto di applicazione, prevede espressamente il divieto di esercitare il commercio su aree pubbliche in forma itinerante nei centri storici dei comuni con popolazione superiore ai cinquantamila abitanti. La norma e' stata censurata con giudizio promosso in via incidentale dal TAR Veneto che ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale perche' discriminatoria nei confronti di una vasta platea di piccoli imprenditori. La sentenza n. 247 del 2010, conclusiva del giudizio de quo, appare significativamente rilevante per l'odierna controversia poiche', per un verso, ribadisce la competenza regionale nella materia commercio "Per non limitarsi alla, pur inequivoca, intitolazione («Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche»), appare indubbio che le disposizioni della legge in esame - avendo quale oggetto specifico la normativa regionale del commercio su aree pubbliche - siano riconducibili immediatamente alla materia «commercio», di competenza residuale delle regioni (sentenze n. 165 e n. 64 del 2007); "e, per altro verso, ha riscontrato la coerenza della norma regionale rispetto alla ratio," essendo del tutto naturale che, nell'ambito di una generale regolamentazione della specifica attivita' del commercio in forma itinerante, vada ricompresa anche la possibilita' di disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonche' quella di vietarne l'esercizio in ragione della particolare situazione di talune aree metropolitane (centri storici dei Comuni con popolazione superiore a cinquantamila abitanti, di modo che l'esercizio del commercio stesso avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni ambientali e culturali. Infatti, la ratio del divieto trova altresi' giustificazione nello scopo di garantire, indirettamente, attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione, la valorizzazione dei maggiori centri storici delle citta' d'arte del Veneto a forte vocazione turistica." La correttezza dell'operato del legislatore regionale e' stata valutata in ragione dalla determinatezza e puntualita' dell'intervento che, in quanto circoscritto a specifiche condizioni, e' risultato essere proporzionale e ragionevole rispetto all'obiettivo perseguito. Nella pronuncia, infatti, si legge che «La norma censurata, pertanto, non produce alcuna lesione di regole a tutela della concorrenza, giacche' il divieto sancito dalla Regione Veneto non incide, ne' direttamente ne' indirettamente, sulla liberta' di concorrenza; esso si colloca infatti - senza introdurre discriminazioni fra differenti categorie di operatori economici che esercitano l'attivita' in posizione identica o analoga - nel diverso solco della semplice regolamentazione territoriale del commercio (disciplinata in coerenza con la salvaguardia dei beni culturali caratterizzanti la specifica realta' del territorio regionale) ed appare razionalmente giustificato dalle concrete e localizzabili esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale. Come gia' detto, la disposizione censurata assicura un contemperamento ragionevole fra la liberta' dell'esercizio del commercio su aree pubbliche in forma itinerante (la cui autorizzazione, peraltro, abilita all'esercizio della relativa attivita' in tutto il territorio nazionale: art. 4, comma 2, della legge regionale n. 10 del 2001) e l'introduzione di limitate eccezioni, oggettivamente motivate dall'esigenza di non superare i limiti posti a tutela dei centri storici delle grandi citta' d'arte della Regione. Ma tutto quanto prima esposto alimenta il dubbio che la disposizione regionale vigente e quella odiernamente censurata dalla regione Veneto siano suscettibili di sovrapposizioni quantomeno potenziali e possano generare perplessita' ermeneutiche circa l'individuazione della normativa concretamente applicabile perche' prevalente ed assorbente entrambi i profili disciplinatori afferenti tanto il commercio quanto la cultura, senza conflitti di competenze. In tal senso, la norma regionale menzionata si configura come correttamente delimitata tanto territorialmente, essendo riferita ai centri storici dei comuni con popolazione superiore a «cinquantamila abitanti», quanto oggettivamente, poiche' concerne appunto il «commercio su aree pubbliche in forma in itinerante». Anche sotto tale profilo la disposizione statale appare incidente con la disciplina regionale, proprio perche', a differenza della norma regionale veneta, contempla indistintamente tutte le aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, senza alcun criterio discretivo, ulteriore rispetto alla presenza di complessi monumentali o di altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti. Per effetto della novella statale oggetto del presente giudizio, quindi, la portata precettiva delle disposizioni regionali, che avessero trovato puntuale attuazione nelle conseguenti e consequenziali determinazioni comunali, potrebbe subire un'inammissibile compromissione a seguito di un atto provvedimentale emanato dal Sovrintendente nell'esercizio di potesta' amministrative connotate da un'estensione tale da travolgere qualsiasi competenza costituzionalmente garantita, sino a rasentare l'arbitrio. Cio' che sconcerta sono appunto le modalita' indiscriminate, e destrutturanti il contesto ordinamentale, con le quali l'intervento de quo e' stato legislativamente concepito, non certo le esigenze di valorizzazione e migliore fruibilita' del patrimonio culturale allo stesso sottese. E' per riaffermare tali esigenze, salvaguardando tuttavia gli assetti disciplinatori regionali gia' vigenti ed efficacemente operanti, che la difesa regionale ha promosso in via principale la presente questione di legittimita' costituzionale, sollecitando la pronuncia di codesta Ecc.ma Corte affinche' chiarisca la reale portata legislativa della disposizione impugnata ed eventualmente la espunga dal quadro non-nativo di riferimento perche' con esso incompatibile, restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e ricomponendo in termini di coerenza quello che attualmente e' un insieme frammentario e non coordinato di una pluralita' di competenze soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti. Tale esigenza chiarificatrice pare corroborata anche dall'inciso contenuto nella disposizione statale che, specificando ulteriormente l'area suscettibile di valorizzazione in termini di presenza di «immobili interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti», attrae nell'alveo materiale delle norme anche la disciplina del turismo, che e' esso pure ambito soggetto alla potesta' legislativa residuale regionale. Se dunque, sia la potesta' normativa in tema di commercio, che quella in materia di turismo sono di attribuzione regionale; se, parimenti regionale e' la competenza legislativa, seppure concorrente, in ordine agli interventi destinati alla valorizzazione del patrimonio culturale, nei cui confronti si configurano come insussistenti tanto una potesta' trasversale statale ricondotta alla tutela della concorrenza di cui alla lettera e) del comma secondo dell'articolo 117 della Costituzione, quanto la stessa potesta' esclusiva afferente la tutela del predetto patrimonio di cui all'art. 117, comma secondo, lettera s) della vigente Costituzione, trattandosi di limiti e divieti all'esercizio di attivita' piccolo-imprenditoriale, risulta incomprensibile e sistematicamente inaccettabile il disallineamento afferente l'esercizio delle potesta' amministrative che la disposizione impugnata determina. Sul punto, e' certamente indiscutibile che possa ed anzi debba essere esercitata la potesta' amministrativa comunale anche in riferimento alla vastissima categoria dei beni qualificabili come «culturali», che, come precisato nell'articolo 10 del d.lgs. n. 42/2004, include i beni immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, ivi comprese le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico. Ma gli anzidetti poteri comunali presentano altresi' profili di presidio e preservazione, laddove, ad esempio, devono garantire l'osservanza di norme particolarmente rigorose, quali l'art. 20 del medesimo decreto, che sanziona autonomamente, qualificandoli di peculiare gravita', gli atti di distruzione, deterioramento o danneggiamento di beni culturali, i quali, peraltro, sono normativamente sottratti anche ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione. Indubbiamente, sino all'intervento legislativo in esame, tutte le cennate potesta' amministrative sono state esercitate nel rigoroso rispetto del potere consultivo di cui sono tributari gli organi statali, che, ora, invece, per effetto della novella, diventano i protagonisti dell'amministrazione attiva, secondo un modello di rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad un ruolo meramente valutativo, e neppure vincolante, con riverberi decisivi sulla restante e rilevantissima attivita' di governo del territorio, sia pianificatoria che organizzativa. Correlativamente, la potesta' legislativa regionale rimane paralizzata a causa dell'indeterminatezza dei parametri di riferimento e della concreta impossibilita' di statuire norme destinate a disciplinare ambiti nei quali la potesta' esercitata e' di rango statale. Nella gia' citata decisione n. 247 del 2010, codesto Ecc.mo Collegio ha appunto riconosciuto la competenza comunale in materia in relazione al disposto dell'articolo 52, comma 1, del d.lgs. n. 42/2004, nel testo all'epoca vigente, affermando che: D'altronde, di tale esigenza si e' fatto carico anche il legislatore statale con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che - rendendo esplicito che le pubbliche piazze, le vie, le strade e gli altri spazi urbani di interesse artistico o storico rientrano fra i beni culturali, e che essi sono pertanto oggetto di tutela ai fini della conservazione del patrimonio artistico e del decoro urbano (art. 10, comma 4, lettera g) - ha ribadito, in conformita' di quanto gia' stabilito dall'art. 28, comma 16, del d.lgs. n. 114 del 1998, che i Comuni «individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del commercio» (art. 52). Non possono, quindi, condividersi, perche' oltretutto immotivate, le ragioni fondanti la trasmigrazione della competenza amministrativa attiva dagli enti locali allo Stato, in assenza di qualsiasi coordinamento istituzionale con la potesta' amministrativa comunale, che a tutti gli effetti rimane, ed incidendo surrettiziamente sulle attribuzioni legislative regionali, utilizzando a pretesto un ambito, quale quello della «valorizzazione dei beni culturali», particolarmente duttile per la complessita' dei profili che involge. E cio', sebbene proprio l'articolo 1, comma 3 del d.lgs. n. 42/2004 assegni espressamente alle Regioni un ruolo determinante appunto per la valorizzazione dei beni culturali come gia' abbondantemente evidenziato. Ecco perche' anche a voler ammettere una diversa valutazione degli interessi pubblici correlati ai contesti attratti dal legislatore statale nella regolamentazione in argomento, comunque l'intervento normativo in esame appare contrario al terzo comma all'articolo 117 della Costituzione, ove e' allocata la valorizzazione dei beni culturali, atteso che, trattandosi di ambito soggetto a potesta' legislativa concorrente, esso avrebbe dovuto essere contenuto nei margini che gli sono propri e cioe' nei limiti dell'enucleazione dei principi fondamentali. Invece, la disposizione interloquita ha attribuito ad un organo statale un potere coercitivo generale ed indeterminato, del tutto analogo a quello previsto nel previgente testo unico in materia di beni culturali di cui al d.lgs. n. 490/1999, senza porre la minima attenzione al riparto di competenze di estrazione costituzionale attualmente esistente. Infine, ad avviso dello scrivente patrocinio, e' giuridicamente preoccupante la previsione, pure contenuta nell'articolo 4-bis della legge n. 112/2013, che, in riferimento alle aree individuabili per l'applicazione dei provvedimenti statali regolatori o inibitori, non si limita alle locuzioni utilizzate, che gia' risultano singolarmente indeterminate e non identificabili, come supra eccepito, ma include, altresi', le «aree a essi contermini», laddove «essi» puo' indicare anche i complessi monumentali o semplicemente i beni immobili. Correlativamente, non meno criptica si configura la possibilita' di estendere l'oggetto dell'intervento amministrativo statale sino a ricomprendere «qualsiasi altra attivita' non compatibile», in spregio dell'art. 97 della Costituzione. E sicuramente, si ribadisce, tale indeterminatezza non puo' non riflettersi negativamente anche sulla potesta' amministrativa regionale di cui all'articolo 118 della Costituzione, laddove quest'ultima sia finalizzata alla pianificazione e programmazione delle attivita' sia commerciali, che artigianali, che turistiche, rilevata l'assenza di qualsiasi parametro di valutazione, nonche' di qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale, che consenta il legittimo esercizio delle predette attribuzioni secondo i noti criteri di economicita', efficacia ed efficienza, senza spreco di risorse, perseguendo quegli obiettivi di valorizzazione del patrimonio culturale che non possono essere disgiunti da metodi di ottimizzazione e finalita' di sviluppo. Si rammenta, infatti, che la consultazione obbligatoria, ma non vincolante, e' prevista esclusivamente con le amministrazioni comunali. Violazione dell'articolo 120 della Costituzione. I dubbi ermeneutici e l'incertezza delle pluriformi normative che si sono progressivamente sovrapposte hanno, tra l'altro, generato notevoli cesure tra i vari livelli di governo che risultano tuttora alieni dal pieno e soddisfacente utilizzo degli strumenti di concertazione strutturati per essere destinati nelle sedi deputate al necessario confronto ed alla collaborazione interistituzionale. Ed invero, come e' noto, al comma 6 dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 «Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3». e' espressamente previsto che il Governo possa promuovere intese in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire l'armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni. Va adeguatamente considerato che esempi attuativi di tale disposto normativo si ravvisano anche in settori, quale quello del turismo, di competenza esclusiva regionale. In tale contesto, infatti, le forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni si sono sviluppate sino a divenire lo strumento privilegiato di coordinamento delle diverse legislazioni regionali e di definizione di standard comuni in tutto il territorio nazionale. In particolare, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 ottobre 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 34 dell'11 febbraio 2009, e' stato emanato in attuazione dell'articolo 2, comma 193, lettera a) della legge 24 dicembre 2007, n. 244, che prevedeva, appunto, l'adozione di un decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri per definire «le tipologie dei servizi forniti dalle imprese turistiche rispetto a cui vi e' necessita' di individuare caratteristiche similari e omogenee su tutto il territorio nazionale tenuto conto delle specifiche esigenze connesse alle capacita' ricettiva e di fruizione dei contesti territoriali», d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. In termini piu' generali, la necessita' di una convergenza in questo particolare ambito di legislazione, nel quale i settori del commercio e del turismo si intrecciano con quello afferente la valorizzazione dei beni culturali, appare di indiscutibile pregnanza, attesa la ragionevolezza ed assoluta condivisibilita' di interventi regolatori dell'attivita' imprenditoriale per contemperare le esigenze di salvaguardia del diritto di impresa con quelle afferenti altri valori costituzionalmente garantiti. D'altro canto, la necessita' di avviare il confronto interistituzionale e' espressamente indicata anche nelle stesse premesse della ripetutamente evocata direttiva del Ministero datata 10 ottobre 2012 laddove, oltre a ribadire che «lo svolgimento di attivita' non compatibili puo' impedire di assicurare livelli di valorizzazione qualitativamente adeguati allo straordinario valore dei beni interessi, con effetti pregiudizievoli anche sullo sviluppo e la promozione del turismo culturale», si precisa, nel contempo, che «il conseguimento degli obiettivi e il soddisfacimento delle esigenze, sopra indicati, di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale richiede la piena e leale collaborazione tra le diverse Istituzioni pubbliche a vario titolo competenti, nell'esercizio dei rispettivi poteri e attribuzioni.». Ma, in realta', l'intero testo della predetta direttiva e' costellato da riferimenti al principio di leale collaborazione, e cosi', al punto 3.1 della medesima si legge che «gli Uffici del Ministero collaboreranno con le Amministrazioni locali»; ed ancora «L'esercizio congiunto dei poteri in questione potra' essere opportunamente racchiuso nella forma dell'accordo tra pubbliche amministrazioni volto a disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attivita' di interesse comune ai sensi dell'articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241.»; ed infine al punto 3.2.3, con riferimento all'individuazione dei soggetti titolari di diritti di uso individuale, e' imposta agli uffici governativi la collaborazione con i competenti enti territoriali. Al riguardo, si sottolinea come l'articolo 5 del decreto legislativo n. 42/2004 abbia cristallizzato in norma il principio di leale collaborazione di cui all'articolo 120 della Costituzione proprio in riferimento all'esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni culturali, utilizzando il termine atecnico di «cooperazione». E tale norma si aggiunge ad altre disposizioni del medesimo decreto legislativo, che declinano una multiforme varieta' di modelli di intesa e coordinamento tra lo Stato e le Regioni stabilite per l'esercizio delle rispettive competenze amministrative. In dettaglio, l'articolo 17, comma 1, del decreto in argomento, in relazione alle funzioni amministrative di catalogazione, stabilisce che «Il Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei beni culturali e coordina le relative attivita'»; ed ancora, il successivo articolo 18, al comma 2, in riferimento alle funzioni di vigilanza sulle cose su cui sussiste un interesse culturale, prevede che «Sulle cose di cui all'articolo 12, comma 1, che appartengano alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, il Ministero provvede alla vigilanza anche mediante forme di intesa e di coordinamento con le regioni medesime.». Ne' pare potersi obiettare, a contrariis, che, vertendosi in tema di potesta' legislativa concorrente, lo Stato, nella complessa disposizione odiernamente interloquita, avrebbe dettato semplicemente i principi fondamentali, per i quali non puo' essere invocato il rispetto del principio di leale collaborazione. E' di tutta evidenza, invece, come, in realta', nella fattispecie in esame lo Stato abbia travalicato il proprio ambito di intervento astrattamente ammissibile, dettagliando le statuizioni ed attribuendo agli organi statali un potere prescrittivo ed operativo che diverge notevolmente dalla semplice indicazione dei principi fondamentali (cfr., la sentenza n. 222 del 2008). Infine, non si puo' non rinviare al terzo comma dell'art. 118 della Costituzione, ove si impone alla legge statale la disciplina di forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali. Con cio' si intende, salvo il contrario avviso di codesto Ecc.mo Collegio, che qualora si reputi riconducibile la disposizione censurata all'ambito di competenza esclusiva statale di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione, si impone una pronuncia interpretativa che armonizzi gli assunti, ripetutamente espressi da codesta Ecc.ma Corte, che escludono il principio di leale collaborazione nelle materie di competenza esclusiva statale o concorrente, limitatamente all'individuazione dei principi fondamentali, ed il precetto di rango costituzionale evocato che riafferma la necessita' di coordinare l'esercizio delle potesta' amministrative in tale materia mediante forme di intesa e coordinamento. E quanto prospettato tiene conto dell'orientamento ermeneutico secondo il quale la certezza, dell'ascrivibilita' di una disposizione impugnata in un ambito materiale riservato alla potesta' legislativa statale, preclude l'obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato e Regione, atteso che gli stessi debbono, in linea di principio, essere necessariamente previsti solo quando vi sia una concorrenza di competenze nazionali e regionali, per la quale non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri( v. le sentenze n. 234 del 2012, n. 88 del 2009 e n. 219 del 2005). Al riguardo, per le considerazioni proposte relativamente alla disposizione impugnata, proprio perche' non e' sicura la prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, mentre e' sicuramente identificabile solo l'intreccio di una pluralita' di competenze, si configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra i vari livelli di governo.
P. Q. M. Per tutto quanto sopra esposto e con riserva di ulteriormente dedurre ed argomentare con memoria aggiuntiva da depositare in prossimita' dell'udienza di discussione, la Regione del Veneto ut supra rappresentata e difesa, chiede 1. che codesta Ecc.ma Corte, respinta ogni contraria istanza, voglia accogliere il suesteso ricorso e, per l'effetto, dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 4-bis del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, recante: «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita' culturali.» nel testo risultante per effetto della conversione della legge 7 ottobre 2013, n. 112, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 236 dell'8 ottobre 2013 per violazione degli articoli 3, 97, 117, commi terzo e quarto, 118 della Costituzione, nonche' del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione. Si deposita copia conforme all'originale della D.G.R. n. 2183 del 3 dicembre 2013 di autorizzazione alla proposizione del ricorso e affidamento dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale. Venezia-Roma, addi' 9 dicembre 2013 Avv. Zanon - Avv. Palumbo - Avv. Manzi