N. 101 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 17 dicembre 2013

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 17 dicembre 2013 (della Regione Veneto). 
 
Beni culturali - Esercizio del commercio in aree di valore  culturale
  e nei locali storici tradizionali -  Disposizioni  urgenti  per  la
  tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle  attivita'
  culturali e del turismo - Modifiche al codice dei beni culturali  e
  del paesaggio di cui  al  d.lgs.  n.  42  del  2004  -  Decoro  dei
  complessi  monumentali  ed  altri  immobili  -  Previsione  che  le
  Direzioni regionali per i  beni  culturali  e  paesaggistici  e  le
  Sovrintendenze,  sentiti  gli  enti   locali,   adottano   apposite
  determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non  compatibili
  con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione,  comprese
  le forme  di  uso  pubblico  non  soggette  a  concessione  di  uso
  individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche',
  ove se ne riscontri la necessita',  l'uso  individuale  delle  aree
  pubbliche di pregio  a  seguito  del  rilascio  di  concessioni  di
  posteggio o di  occupazione  di  suolo  pubblico  -  Ricorso  della
  Regione Veneto  -  Denunciata  introduzione,  operata  in  sede  di
  conversione del decreto-legge  impugnato,  di  un  ulteriore  comma
  1-bis nell'art. 52 del d.lgs.  n.  42  del  2004,  in  assenza  del
  necessario coordinamento legislativo e con un  testo,  riproduttivo
  di una circolare ministeriale, di contenuto diametralmente  opposto
  a  quello  immediatamente  precedente,  risultando  assegnata   nel
  precedente la competenza amministrativa  in  materia  al  Comune  -
  Irragionevolezza dell'intervento normativo  comportante  incertezza
  giuridica -  Omessa  delimitazione  dell'ambito  applicativo  della
  disposizione - Incidenza  sul  corretto  esercizio  della  potesta'
  legislativa regionale - Violazione del principio di  sussidiarieta'
  - Violazione del principio di buon andamento e imparzialita'  della
  pubblica amministrazione - Violazione  della  potesta'  legislativa
  regionale nella materia concorrente  relativa  alla  valorizzazione
  dei  beni  culturali  -  Violazione  della   potesta'   legislativa
  residuale regionale in tema di  commercio  e  turismo  -  Incidenza
  sulla potesta' amministrativa regionale - Violazione del  principio
  di leale collaborazione. 
- Decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, art.  4-bis,  introdotto  dalla
  legge 7 ottobre 2013, n. 112. 
- Costituzione, artt. 3, 97, 117, commi terzo e quarto,  118  e  120;
  decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, artt. 5, 17, comma 1, e
  18, comma 2. 
(GU n.2 del 8-1-2014 )
    Ricorso proposto dalla  Regione  Veneto  (C.F.  80007580279),  in
persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale dott.  Luca
Zaia (C.F. ZAILCU68C27C957O), a cio' autorizzato con D.G.R.  n.  2183
del 3 dicembre 2013 allegata, rappresentato e difeso, giusta  mandato
a margine del presente atto, tanto unitamente quanto  disgiuntamente,
dagli  avv.ti  Ezio  Zanon   (C.F.   ZNNZEI57L07B563K)   Coordinatore
dell'Avvocatura regionale, Daniela  Palumbo  (C.F.  PLMDNL57D69A266Q)
della Direzione regionale Affari  Legislativi  e  Luigi  Manzi  (C.F.
MNZLGU34E15H501Y) del Foro di Roma, con domicilio  eletto  presso  lo
studio di quest'ultimo in Roma, Via Confalonieri n. 5 (per  eventuali
comunicazioni:  fax   06/3211370,   posta   elettronica   certificata
luigimanzi@ordineavvocatiroma.org. 
    Nei confronti  del  Presidente  pro  tempore  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  Generale  dello
Stato, presso la quale e'  domiciliato  ex  lege  in  Roma,  via  dei
Portoghesi  n.   12,   per   la   dichiarazione   di   illegittimita'
costituzionale dell'articolo 4-bis del decreto-legge 8  agosto  2013,
n. 91 recante: «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione
e il rilancio dei  beni  e  delle  attivita'  culturali.»  nel  testo
risultante per effetto della conversione della legge 7 ottobre  2013,
n. 112, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  n.  236  dell'8  ottobre
2013. 
 
                              F a t t o 
 
    Con la legge 7 ottobre 2013, n. 112,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale n. 236 dell'8 ottobre 2013, e' stato convertito in legge il
decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91,  recante:  «Disposizioni  urgenti
per la tutela, la valorizzazione e  il  rilancio  dei  beni  e  delle
attivita' culturali.». 
    In particolare l'articolo 4-bis del decreto-legge citato e' stato
introdotto in sede di conversione, operata con la legge  n.  112  del
2013, ed aggiunge il comma 1-bis al  comma  1  dell'articolo  52  del
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante  il  c.d.  Codice
dei beni  culturali  e  del  paesaggio",  assegnando  alle  Direzioni
regionali per i beni culturali e  paesaggistici,  «sentiti  gli  enti
locali», il compito di  adottare  «apposite  determinazioni  volte  a
vietare gli  usi  da  ritenere  non  compatibili  con  le  specifiche
esigenze di tutela e di valorizzazione,  comprese  le  firme  di  uso
pubblico non soggette a concessione  di  uso  individuale,  quali  le
attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri  la
necessita', l'uso  individuale  della  aree  pubbliche  di  pregio  a
seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione  di
suolo pubblico.». 
    Tale intervento sarebbe stato motivato dal legislatore statale in
ragione della dichiarata esigenza di «contrastare l'esercizio,  nelle
aree  pubbliche  aventi  particolare  valore  archeologico,  storico,
artistico e paesaggistico, di attivita' commerciali ed  artigiane  in
forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra  attivita'
non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio  culturale».
La rigida disposizione si fonderebbe, pertanto, sulla  necessita'  di
«assicurare  il  decoro  dei  complessi  monumentali  e  degli  altri
immobili  del  demanio  culturale  interessati  da  flussi  turistici
particolarmente rilevanti.». 
    Infine,  l'ambito  territoriale  della  disposizione  citata   si
estenderebbe,  secondo  il  dettato  normativo,  anche   alle   «aree
contermini» ai complessi  monumentali  ed  agli  altri  immobili  del
demanio culturale,  mentre  l'ambito  oggettivo  potrebbe  riguardare
anche  «qualsiasi  altra  attivita'  non  compatibile»  senza  alcuna
indicazione, seppur minima, di criteri  o  parametri  di  riferimento
vincolanti il potere discrezionale delle Direzioni  regionali  per  i
beni culturali e  del  paesaggio  e  le  Sovrintendenze  chiamate  ad
attuarla. 
 
                            D i r i t t o 
 
    La  Regione  del  Veneto  ritiene  che   l'articolo   4-bis   del
decreto-legge n. 91 del 2013, nel testo risultante dalla  conversione
operata con la legge n. 112 del  2013,  presenti  taluni  profili  di
lesivita'  e  conflitto  con  le   prerogative   garantite   all'ente
territoriale dalla  Carta  fondamentale,  per  i  motivi  di  seguito
partitamente indicati. 
Violazione degli articoli 3 e 97, della Costituzione. 
    Innanzitutto, per cio' che si presume essere un  evidente  e  non
ancora  sanato  vizio  di  tecnica   legislativa,   la   formulazione
dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 42/2004, come  modificato
dal decreto-legge n. 91/2013 nel testo convertito in legge,  presenta
un  doppio  comma  1-bis  e,   correlativamente,   due   disposizioni
completamente diverse, in violazione del principio  di  certezza  del
diritto. 
    Infatti, il primo comma  1-bis,  introdotto  dall'articolo  2-bis
della legge di conversione, recita: «Fermo restando  quanto  previsto
dall'articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano
altresi' i locali, a chiunque appartenenti,  nei  quali  si  svolgono
attivita' di artigianato tradizionale e altre  attivita'  commerciali
tradizionali, riconosciute quali espressione dell'identita' culturale
collettiva ai sensi delle  convenzioni  UNESCO  di  cui  al  medesimo
articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e
salvaguardia, nel rispetto della liberta' di iniziativa economica  di
cui all'articolo 41 della Costituzione.». 
    La novella in argomento pur avendo imposto, altresi', la doverosa
integrazione  della  rubrica  dell'articolo  di  cui  si  tratta  con
l'inserimento delle parole «e nei locali  storici  tradizionali»,  ha
tuttavia lasciato inalterata  la  competenza,  di  cui  al  comma  1,
assegnata ai comuni circa l'individuazione delle aree pubbliche nelle
quali imporre il divieto o limitazioni all'esercizio  del  commercio,
per  preminenti  ragioni  di  tutela  di  beni  o  siti  di   valenza
archeologica, storica, artistica e  paesaggistica.  Correlativamente,
peraltro, per effetto del comma 1-bis, attribuisce ai comuni medesimi
anche la potesta' di individuare i locali da destinare  ad  attivita'
di  artigianato   tradizionale   ed   altre   attivita'   commerciali
tradizionali,  con  finalita'  tutt'altro  che  impeditive,  ma  anzi
promozionali, trattandosi  di  forme  di  espressione  dell'identita'
culturale collettiva, attuata in conformita'  ai  precetti  di  rango
costituzionale ed ai consueti principi  di  derivazione  comunitaria,
formalizzati, per giunta, in accordi internazionali. 
    La suddescritta armonia legislativa, pero', risulta completamente
stravolta proprio a causa della  medesima  legge  di  conversione  n.
112/2013, atteso che l'articolo 4-bis introduce  un  ulteriore  comma
1-bis nell'art. 52 del d.lgs. n. 42/2004, in assenza del  necessario,
basilare  coordinamento  normativo  e  con  un  testo  di   contenuto
diametralmente opposto a quello immediatamente precedente. 
    Lungi dal censurare  superficialmente  eventuali  accadimenti  di
frettolosa  scrittura  dei  testi  normativi,  che  per  cio'  stesso
comunque sono facilmente foderi di  possibili  degenerazioni,  quello
che il patrocinio regionale sottopone  all'esame  di  codesto  Ecc.mo
Collegio  la  perdurante  inerzia  del  legislatore  statale   e   la
singolarita' del fenomeno in esame, che  incide  profondamente  nella
certezza del diritto. 
    Nell'attuale fattispecie, infatti, si  registra  una  sostanziale
differenza rispetto ad altri episodi consimili gia' verificatisi  nel
passato, per i quali l'intervento del legislatore statale  era  stato
diligentemente pronto, oppure non  si  ponevano  rilevanti  discrasie
ordinamentali, come nel  caso  dell'articolo  21-quinquies  rubricato
«Revoca del provvedimento»  contenuto  nella  piu'  volte  modificata
legge 7 agosto 1990, n.  241,  nel  quale  era  stata  rispettata  la
sequenza numerica delle disposizioni, ma il contenuto del comma 1-bis
risultava identico al comma 1-ter. Questo perche' tale  ultimo  comma
era stato aggiunto dal comma 1-bis dell'art. 12, del D.L.  25  giugno
2008,  n.  112,  nel  testo  integrato  dalla   relativa   legge   di
conversione, per poi essere abrogato, a decorrere dal 6 giugno  2012,
dal comma 1 dell'art. 62  e  dalla  Tabella  A  allegata  al  D.L.  9
febbraio 2012, n. 5, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  4
aprile 2012, n. 35. 
    In riferimento alla novella operata dall'art. 4-bis di  cui  alla
legge n. 112/2013, il testo dell'art. 52 del d.lgs. n. 42/2004 che ne
risulta presenta notevoli fratture logiche ed ordinamentali e conduce
ad opzioni ermeneutiche differenti che si  risolvono  in  altrettanti
dubbi applicativi e, inevitabilmente,  si  riflettono  sul  l'operato
delle pubbliche amministrazioni, siano essi i  comuni  o  gli  organi
periferici  del  Ministero  per  i  beni   culturali,   con   effetti
significativamente  pregiudizievoli  per  le  competenze,  variamente
declinate, che, particolarmente in materia di  commercio  e  turismo,
intaccano anche le prerogative normative ed amministrative  regionali
salvaguardate dalla Costituzione. 
    Ed invero, nei primi due commi dell'art. 52 predetto, e cioe'  il
comma 1, ed il comma 1-bis introdotto dall'articolo 2-bis della legge
n. 112/2013, l'unico ente effettivamente tributario ad esercitare  la
competenza amministrativa in materia appare  il  comune,  atteso  che
alle Sovrintendenze residuano mere funzioni consultive. Per converso,
il comma 1-bis, introdotto dall'articolo 4-bis della legge n. 112 del
2013,  sovverte  le  posizioni  dei   soggetti   istituzionali   gia'
individuati, assegnando una funzione di amministrazione  attiva  alle
Direzioni regionali per i beni  culturali  e  paesaggistici  ed  alle
Sovrintendenze, relegando contestualmente i comuni  in  un  ruolo  di
interlocutore con funzioni consultive obbligatorie ma non vincolanti. 
    Appare  cosi'  difficilissimo,  se  non  impossibile,  attesa  la
distanza  dicotomica  rinvenibile  nelle  due   norme,   tentare   di
armonizzare i contenuti precettivi propri delle disposizioni dei  due
commi «1-bis», peraltro inseriti dalla stessa legge di conversione. 
    Infatti, mentre il comma 1-bis di cui  all'articolo  2-bis  della
legge n. 112/2013 incentiva e promuove  le  attivita'  artigianali  e
commerciali  tradizionali,  in  quanto   espressione   di   identita'
culturale   collettiva   contemplate   addirittura   da   convenzioni
internazionali, per converso, il  comma  1-bis  di  cui  all'articolo
4-bis della  legge  n.  112  del  2013  vieta  gli  usi  da  ritenere
incompatibili con le esigenze di tutela e di valorizzazione dei  beni
culturali, senza alcuna distinzione od eccezione. 
    A rigore,  quindi,  l'articolo  52  del  decreto  legislativo  n.
42/2004,   nell'attuale   formulazione,   al    comma    1    obbliga
l'amministrazione comunale ad  individuare  le  aree  di  particolare
valore culturale in  cui  imporre  vincoli  e  condizioni  limitative
all'esercizio del commercio; al comma 1-bis, introdotto dall'articolo
2-bis  della  legge  n.  112/2013,  obbliga  il  comune  medesimo  ad
individuare  i  locali  storici  tradizionali   in   cui   promuovere
l'artigianato  e  le  attivita'  commerciali  simbolo  dell'identita'
culturale; infine, al comma 1-bis, introdotto dall'art.  4-bis  della
legge n. 112/2013,  assegna  alle  Direzioni  regionali  per  i  beni
culturali ed alle Sovrintendenze, il  potere  di  adottare  ulteriori
provvedimenti interdittivi e regolatori che, nella prima ipotesi,  si
aggiungono  a  quelli  comunali  e,   nella   seconda   ipotesi,   si
sostituiscono a qualsiasi  intervento  regolatorio  autorizzatorio  o
concessorio,   neutralizzando   anche   gli   effetti    promozionali
dell'artigianato  e  del  commercio  tradizionale  locale.  Da   cio'
l'assoluta  irragionevolezza  dell'intervento  normativo  attuato  in
spregio all'articolo 3 della Costituzione. 
    Appare cosi' utile, traendo lo spunto dall'intervento legislativo
in esame,  l'ultimo  in  ordine  di  tempo,  ripercorrere  brevemente
l'excursus ordinamentale che ha  interessato  le  diverse  competenze
ripartite tra comuni ed  organi  statali  in  subiecta  materia,  per
effetto di successivi ritocchi normativi. 
    Risalendo al d.lgs. 31  marzo  1998  n.  114,  recante  la  nuova
riforma della disciplina relativa al settore del  commercio,  tuttora
in  vigore,  si  osserva  che  l'art.  10   prevede,   tra   l'altro,
relativamente ai  «centri  storici,  aree  o  edifici  aventi  valore
storico, archeologico,  artistico  e  ambientale,  l'attribuzione  di
maggiori poteri ai comuni», per cio' che concerne la «localizzazione»
ed «apertura degli esercizi di  vendita»,  soprattutto  «al  fine  di
rendere  compatibili  i   servizi   commerciali   con   le   funzioni
territoriali  in  ordine  alla   viabilita',   alla   mobilita'   dei
consumatori e all'arredo urbano, utilizzando anche specifiche  misure
di agevolazione tributaria e di sostegno  finanziario».  Inoltre,  il
successivo articolo 28, dello stesso decreto,  prevede  espressamente
che per la regolamentazione dell'esercizio delle attivita' sulle aree
pubbliche, mediante posteggio o in forma itinerante, i comuni debbano
adottare un'apposita deliberazione che individui  le  aree  culturali
nelle quali l'esercizio del  commercio  e'  vietato  o  sottoposto  a
condizioni particolari ai fini della salvaguardia delle medesime. 
    Di poco successivo al decreto considerato e' il d.lgs. 29 ottobre
1999, n. 490, recante il Testo Unico delle  disposizioni  legislative
in materia di beni  culturali  e  ambientali,  il  cui  articolo  53,
rubricato «Esercizio del commercio  in  aree  di  valore  culturale»,
assegnava al Sovrintendente il potere di individuare aree  di  pregio
culturale in cui l'esercizio  del  commercio  fosse  vietato,  ovvero
sottoposto a particolari limitazioni previo proprio nulla  osta.  Per
inciso, va precisato che una disposizione di contenuto analogo,  gia'
presente nella legge 28 marzo 1991, n. 112, nella  parte  finalizzata
alla disciplina del commercio nelle aree  pubbliche,  era  stata  poi
abrogata proprio dal d.lgs. n. 114/1998,  secondo  un  meccanismo  di
rimbalzi disciplinatori quantomeno singolare. 
    Successivamente, il  nuovo  ed  attuale  decreto  legislativo  22
gennaio 2004, n. 42, in ossequio, presumibilmente,  anche  alla  nota
riforma della Costituzione,  per  quanto  specificamente  attiene  il
novellato art. 114 della medesima, con  l'art.  52  riattribuisce  la
competenza  in  materia  ai  comuni,  che,  proprio  mediante  quelle
«deliberazioni previste dalla normativa in materia di  rifirma  della
disciplina relativa al settore del commercio» di  cui  al  d.lgs.  n.
114/1998, sentito  il  Sovrintendente,  devono  individuare  le  aree
pubbliche nelle quali vietare o sottoporre a  particolari  condizioni
l'esercizio del commercio. 
    Ed appunto  l'art.  52  in  argomento  ha  generato  due  diverse
direttive emanate dal Ministero per i beni e le attivita'  culturali.
La prima di queste,  datata  9  novembre  2007  ed  indirizzata  alle
Direzioni regionali e  alle  Sovrintendenze,  sostanzialmente  traeva
fondamento dalla «situazione di crescente e grave  degrado  urbano  a
causa della  crescita  del  fenomeno  del  commercio  ambulante»,  e,
conseguentemente, invitava i destinatari ad attivarsi  per  garantire
la  puntuale  attuazione  delle  disposizioni  in  materia  di   beni
culturali, in sintonia con le amministrazioni comunali, allo scopo di
conseguire  il  piu'   efficace   contemperamento   degli   interessi
coinvolti. 
    Ma tale direttiva, peraltro riferita esclusivamente al  possibile
degrado  cagionato  dalla  diffusione  incontrollata  del   commercio
ambulante, e' stata recentemente replicata in una seconda  direttiva,
datata 10 ottobre 2012, anch'essa ovviamente destinata soltanto  agli
organi statali periferici competenti in  materia  di  beni  culturali
che,  inopinatamente,  ha   straordinariamente   esteso   i   confini
dell'azione amministrativa rimessa agli organi statali  dal  contesto
legislativo supra delineato. Per un verso, infatti,  si  e'  ampliato
l'ambito applicativo territoriale della direttiva,  laddove  le  arre
aree pubbliche  oggetto  di  tutela  perche'  di  particolare  valore
archeologico, storico, artistico e paesaggistico ove sono presenti  i
complessi monumentali o gli altri immobili del demanio culturale,  si
sono dilatate sino a ricomprendere le aree ad  essi  contermini;  per
altro   verso,   e'   stato   indebitamente    allargato    l'oggetto
dell'intervento statale  che,  a  termini  della  Direttiva  de  qua,
potrebbe colpire in modo indifferenziato ogni  attivita'  commerciale
ed artigianale esercitata in forma ambulante o su posteggio,  nonche'
qualsiasi  altra  attivita',  innominata  e  generica,  laddove   sia
ritenuta non compatibile, secondo canoni e parametri peraltro ignoti,
con presunte e generiche esigenze di tutela. 
    In proposito, si richiama l'attenzione di  codesta  Ecc.ma  Corte
proprio sulla circostanza che il contenuto della Direttiva  del  2012
che, si ribadisce, costituisce una  mera  circolare  interna  diretta
agli uffici gerarchicamente subordinati al Ministero per i beni e  le
attivita' culturali, e'  stata  trasfuso  nell'articolo  4-bis  della
legge n. 112/2013, odiernamente censurato. 
    Evidentemente siffatta operazione, per quanto poco attenta e poco
meditata, di legificazione dei contenuti di  un  documento  destinato
alle   amministrazioni    periferiche    del    dicastero,    integra
l'indispensabile presupposto normativo preordinato  alla  costruzione
dei  requisiti  di  legittimita'   della   Direttiva   stessa,   che,
altrimenti,  sarebbe   addirittura   incompatibile   con   la   Carta
Fondamentale, atteso che l'articolo 23 della  Costituzione  statuisce
il  principio  per  il  quale  «nessuna   prestazione   personale   o
patrimoniale puo' essere imposta se non in base alla legge».  E  tale
principio e' a fortiori invocabile laddove si  tratti  di  interventi
con  effetti  caducatori  di  provvedimenti   rilasciati   da   altre
amministrazioni  nel  legittimo  esercizio  delle  proprie   potesta'
regolamentari e, nel caso delle Regioni, con  effetti  immediatamente
ricadenti sull'efficacia delle disposizioni  normative  eventualmente
emanate, senza contare il grave pregiudizio arrecato  alle  posizioni
giuridiche soggettive proprie degli operatori economici. 
    In realta', cio' che rileva nella fattispecie  in  esame  e'  che
nella  direttiva  10  ottobre  2012  si   denuncia,   indirettamente,
l'assenza totale  di  vigilanza  da  parte  degli  organi  periferici
sull'attuazione dei provvedimenti comunali. Infatti, per un verso  il
Ministero impone una ricognizione dei provvedimenti di  vincolo  gia'
emanati, ivi compresi quelli adottati dai  comuni  proprio  ai  sensi
dell'articolo 52 del d.lgs. n. 42/2004,  e,  per  altro  verso,  pare
attribuire agli uffici statali  medesimi  una  funzione  di  garanzia
circa l'effettivita' della vigilanza posta in  essere  in  ordine  al
rispetto delle prescrizioni impartite. 
    Il particolare fenomeno di jus superveniens su descritto, quindi,
disgiunto dal  necessario,  conseguente,  riordino  ordinamentale  ed
istituzionale, ha creato un affastellamento normativo, fonte di grave
incertezza  giuridica,  precludendo,  altresi',  il  ricorso  a  quei
meccanismi di collaborazione e concertazione posti a  presidio  della
regolazione di ambiti connotati da  un  rilevante  intreccio  di  una
pluralita' di interessi pubblici. 
    L'irragionevolezza che ne deriva e fonda il vizio di legittimita'
di  cui  all'articolo  3  della  Costituzione,  e'  indiscutibile   e
travalica il mero  vizio  di  tecnica  legislativa  ascrivibile  alla
scorretta progressione numerica che evidenzia  ancora,  allo  scadere
dei termini per l'impugnazione del D.L. n. 91/2013, come  convertito,
la coesistenza di due  commi  «1-bis»,  introdotti  da  due  articoli
diversi  della   stessa   legge   di   conversione   inseriti   quasi
simultaneamente nel medesimo articolo 52 del d.lgs. n.  42/2004.  Ma,
ad  avviso  dello  scrivente  patrocinio,  tale   incertezza   incide
soprattutto  sul  corretto  esercizio  della   potesta'   legislativa
regionale  che,  specialmente  in  contesti  di  potesta'   normativa
residuale, quale certamente e' quello relativo al commercio,  subisce
restrizioni cosi' rilevanti da risultarne svuotata. 
    Per quanto specificamente attiene la rilevanza del  rispetto  del
principio di certezza del diritto, nonche' sulle ricadute lesive  che
la violazione di tale principio produce in ordine  alle  attribuzioni
legislative regionali, ovvero sulle relazioni  intercorrenti  tra  il
vulnus apportato all'art. 3 della Costituzione  e  la  lesione  delle
prerogative tutelate ed assicurate dall'art. 117 della  medesima,  si
richiama quanto riaffermato da codesta  Ecc.ma  Corte  costituzionale
anche  nella  recente  decisione  n.  200  del  2012   in   relazione
all'articolo 3 del D.L. n. 138/2011. In tale norma, infatti, in  nome
del principio di  liberalizzazione  delle  attivita'  economiche,  il
legislatore  statale  aveva  operato,   in   assenza   di   qualsiasi
direttrice, la generalizzata soppressione  di  disposizioni  reputate
genericamente incompatibili con tale principio. 
    In quella pronuncia e' stato cosi' sancito  che  «l'automaticita'
dell'abrogazione, unita all'indeterminatezza della sua portata, rende
impraticabile l'interpretazione conforme a Costituzione,  di  talche'
risulta  impossibile  circoscrivere  sul  piano  interpretativo   gli
effetti della disposizione impugnata ai  soli  ambiti  di  competenza
statale. 
    Infine, poiche' la previsione censurata dispone  la  soppressione
per incompatibilita', senza individuare puntualmente quali  normative
risultino abrogate,  essa  pone  le  Regioni  in  una  condizione  di
obiettiva incertezza, nella misura in cui queste debbano adeguare  le
loro normative ai mutamenti  dell'ordinamento  statale.  Infatti,  le
singole Regioni, stando alla norma censurata, dovrebbero  ricostruire
se le singole disposizioni statali, che presentano profili  per  esse
rilevanti,  risultino  ancora  in  vigore  a  seguito  degli  effetti
dell'art. 3, comma 3, primo periodo. La valutazione sulla  perdurante
vigenza di  normative  statali  incidenti  su  ambiti  di  competenza
regionale spetterebbe a ciascun  legislatore  regionale,  e  potrebbe
dare esiti disomogenei,  se  non  addirittura  divergenti.  Una  tale
prospettiva determinerebbe ambiguita', incoerenza e opacita' su quale
sia la regolazione vigente per le  varie  attivita'  economiche,  che
potrebbe inoltre variare da Regione a Regione, con  ricadute  dannose
anche per gli operatori economici. 
    Di conseguenza, l'art.  3,  comma  3,  appare  viziato  sotto  il
profilo della ragionevolezza,  determinando  una  violazione  che  si
ripercuote sull'autonomia legislativa regionale  garantita  dall'art.
117 Cost., perche', anziche' favorire la  tutela  della  concorrenza,
finisce  per  ostacolarla,  ingenerando  grave   incertezza   fra   i
legislatori regionali e fra gli operatori economici.». 
    Ad avviso della difesa regionale, la situazione gia' vagliata  da
codesta Ecc.ma Corte non risulta  sostanzialmente  difforme  rispetto
all'altra odiernamente  interloquita,  in  quanto  l'art.  4-bis  non
delimita correttamente l'ambito applicativo della  disposizione,  ne'
per quanto si riferisce all'individuazione delle «aree contermini» ai
complessi monumentali ed agli altri immobili del  demanio  culturale;
ne'  con  riferimento  all'identificabilita'  certa  e  pacifica   di
«qualsiasi  altra  attivita'  non  compatibile».  Per  di  piu',   la
disposizione non  offre  neppure  canoni  e  parametri  omogenei  che
consentano alle Direzioni regionali per  i  beni  culturali  ed  alle
Sovrintendenze l'esercizio uniforme del potere discrezionale  di  cui
si ritrovano ad essere tributari e  che,  in  assenza  dei  necessari
criteri regolativi,  risulta  talmente  ampio  ed  incondizionato  da
generare il sospetto che  sia  suscettibile  di  generare  abusi,  in
violazione dell'articolo 97 della Costituzione. 
    L'illegittimita' di un simile assetto  amministrativo,  privo  di
limiti e contemperamenti, e'  gia'  stata  stigmatizzata  da  codesta
Ecc.ma Corte nella  sentenza  n.  115  del  2011  in  relazione  alla
facolta'  riconosciuta  ai  sindaci  di  adottare,  in  qualita'   di
ufficiali di governo, ordinanze «anche» non contingibili ed  urgenti.
In  quell'occasione,  codesto  Ecc.mo  Collegio  non  ha  mancato  di
osservare che: «si deve rilevare la violazione di legge dell'articolo
97 della  Cost.,  che  istituisce  anch'esso  una  riserva  di  legge
relativa, allo scopo di  assicurare  l'imparzialita'  della  pubblica
amministrazione, la quale soltanto puo' dare  attuazione,  anche  con
determinazioni ulteriori, a quanto in via generale e' previsto  dalla
legge. Tale limite e' posto a garanzia  dei  cittadini,  che  trovano
protezione  rispetto  a  possibili  discriminazioni,  nel   parametro
legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile
in sede di controllo giurisdizionale.» (...)  «L'assenza  di  limiti,
che non siano genericamente finalistici, non  consente  pertanto  che
l'imparzialita' dell'agire amministrativo trovi, in  via  generale  e
preventiva, fondamento effettivo, ancorche'  non  dettagliato,  nella
legge.». 
    Gli  assunti  pronunciati  da  codesta  Ecc.   Corte   dispiegano
particolarissima  valenza  proprio   in   relazione   alla   potesta'
inibitoria prepotentemente riconosciuta alle Direzioni regionali  del
Ministero ed alle Sovrintendenze in ordine ad attivita' commerciali o
artigianali,  che  pure  erano  state   preventivamente   autorizzate
dall'autorita' competente in osservanza della legge in vigore in quel
momento. 
    Alla discrasia normativa  che  ne  consegue  non  puo'  reputarsi
estraneo  il  disallineamento  nelle  fonti  del  diritto  che   l'ha
cagionata. Infatti, la sostanziale  identita'  di  contenuto  tra  il
comma 1-bis dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 42 del  2004,
come introdotto dall'articolo 4-bis della legge n. 112 del 2013, e la
direttiva del Ministero datata 10 ottobre 2012,  puo'  al  piu'  dare
ragione di un intervento redazionale  approssimativo,  ma  pone,  nel
contempo, la questione della compatibilita'  delle  previsioni  della
direttiva con il principio di legalita' e, quindi, della  conformita'
della norma, successivamente  posta  a  fondamento  e  legittimazione
della direttiva, con i precetti costituzionali. 
    Dunque, la  cristallizzazione  normativa  del  contenuto  di  una
circolare  interna,  operata  mediante  l'introduzione  nel   tessuto
ordinamentale  dell'articolo  4-bis  del  D.L.   n.   91/2013,   come
convertito, laddove sottende e genera la previsione di  potesta'  sia
legislative che  amministrative  in  capo  ad  organi  di  estrazione
statale,   produce   necessariamente    violazioni    dei    precetti
costituzionali,  qualora  la  novella  incida  in  ambiti  nei  quali
sussistono consolidate attribuzioni legislative regionali, a potesta'
concorrente o residuale,  ovvero  competenze  amministrative,  anche,
sicuramente regionali. 
Violazione degli articoli 117  commi  terzo  e  quarto  e  118  della
Costituzione. 
    Premesso quanto suesposto, perche'  indefettibilmente  prodromico
all'analitica  trattazione  delle  numerose  norme  contenute   nella
disposizione censurata, la difesa regionale contesta radicalmente  le
finalita'  apoditticamente  enunciate  dal  legislatore  statale  nel
testo, nel tentativo, a dire il vero velleitario,  di  ricondurre  le
previsioni dell'articolo impugnato nell'alveo dell'articolo 117 della
Costituzione,  quale  legittima   espressione   di   una   competenza
legislativa esclusiva statale. 
    Innanzitutto,  nell'incipit  della   disposizione   medesima   e'
enunciato il proposito  di  «contrastare  l'esercizio»  (...)  «delle
attivita'  commerciali  e  artigianali  in  forma  ambulante   o   su
posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile» allo
scopo dichiarato di «assicurare il decoro dei complessi monumentali e
degli altri immobili del demanio culturale (...) nonche' delle aree a
essi contermini.». 
    Orbene tale  finalita',  piu'  che  ad  esigenze  di  tutela  del
patrimonio  culturale  riservata  allo  Stato  dall'art.  117,  comma
secondo lettera s) della  Costituzione,  pare  piuttosto  ascrivibile
alla c.d. valorizzazione dei beni culturali di  cui  al  comma  terzo
della Costituzione, e l'assunto trova, oltretutto, puntuale  conferma
proprio nel  testo  della  disposizione  in  esame  che  le  menziona
espressamente. 
    In  realta',  ad   avviso   dello   scrivente   patrocinio,   per
circoscrivere correttamente l'ambito  materiale  di  cui  si  tratta,
enucleandolo in ragione della competenza funzionale  esercitabile  in
relazione  all'amplissima   categoria   costituita   dal   patrimonio
culturale, appare utile richiamare la sentenza n. 212 del 2006, nella
quale  codesta  Ecc.ma  Corte  ha  chiaramente  delineato  l'elemento
qualificante il profilo  sussumibile  nel  termine  «valorizzazione»,
argomentando nel contesto dei beni ambientali.  Nello  specifico,  e'
stata individuata la competenza  regionale,  ai  sensi  dell'articolo
117, comma terzo della Costituzione, in tema  di  valorizzazione  del
patrimonio  tartuficolo,  quale  risorsa  ambientale  della   Regione
suscettibile di razionale sfruttamento. 
    Conseguentemente, senza alcun diaframma logico od ermeneutico, se
si considera che il precetto costituzionale di cui all'articolo  117,
comma terzo, della Costituzione  pone  la  «valorizzazione  dei  beni
ambientali» in endiadi con la «valorizzazione  dei  beni  culturali»,
appare ragionevole supporre che rappresenti  un  criterio  distintivo
certo, ai fini della demarcazione della  competenza  in  materia,  la
suscettibilita' del patrimonio culturale  ad  essere  oggetto  di  un
razionale  sfruttamento,  anche   attuato   mediante   le   attivita'
turistiche, commerciali ed artigianali contigue a tale patrimonio  ed
indotte dall'afflusso turistico che in  tali  aree  risulta  alquanto
consistente, il che vale  a  dire  che  il  patrimonio  culturale  e'
indubitabilmente una  risorsa  la  cui  valorizzazione  compete  alla
Regione. 
    Sul punto, peraltro, gia' nella sentenza n. 9 del  2004,  codesto
Ecc.mo Collegio  non  aveva  mancato  di  individuare  le  direttrici
normative della materia de qua anche per quanto attiene  le  funzioni
amministrative correlate, particolarmente laddove affermava che:  "Il
quadro complessivo della disciplina dei beni culturali va ricostruito
sulla base di molteplici  dati  normativi,  eterogenei  per  il  loro
contesto specifico e  per  il  rango  della  fonte.  In  particolare,
benche' il decreto legislativo 31  marzo  1998,  n.  112,  sia  stato
emanato in un momento  antecedente  la  riforma  di  cui  alla  legge
costituzionale n. 3 del 2001, questa Corte ha gia'  riconosciuto  (V.
sentenza n. 94 del 2003) che utili elementi per  la  distinzione  tra
tutela e valorizzazione dei beni  culturali  possono  essere  desunti
dagli artt.  148,  149,  150  e  152  di  tale  decreto.  L'art.  148
stabilisce che ai fini del decreto stesso s'intende per tutela  «ogni
attivita' diretta a  riconoscere,  conservare  e  proteggere  i  beni
culturali  e  ambientali»;  per  gestione  «ogni  attivita'  diretta,
mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare
la  fruizione  dei  beni  culturali  e  ambientali,  concorrendo   al
perseguimento  delle  finalita'  di  tutela  e  valorizzazione»;  per
valorizzazione «ogni attivita' diretta a migliorare le condizioni  di
conoscenza e conservazione dei  beni  culturali  e  ambientali  e  ad
incrementarne la fruizione». L'art. 149, comma 1, prescrive  che  «ai
sensi dell'art. 1, comma 3, lettera d), della legge 15 marzo 1997, n.
59, sono riservate allo Stato le funzioni e i compiti di  tutela  dei
beni culturali 
    la cui disciplina generale e' contenuta  nella  legge  1°  giugno
1939, n. 1089, e nel  decreto  del  Presidente  della  Repubblica  30
settembre 1963, n. 1409, e loro successive modifiche e integrazioni».
L'art. 150 disciplina il trasferimento della gestione di alcuni beni,
secondo il principio di sussidiarieta', alle regioni, alle province o
ai comuni. L'art. 152 prevede al comma 1 che lo Stato, le  regioni  e
gli  enti  locali   curino,   ciascuno   nel   proprio   ambito,   la
valorizzazione dei beni culturali e che, ai sensi dell'art. 3,  comma
1, lettera c), della legge n. 59 del 1997, la valorizzazione venga di
norma attuata mediante firme di cooperazione strutturali e funzionali
tra Stato, regioni ed enti  locali,  secondo  guanto  previsto  dagli
articoli 154 e 155 dello  stesso  decreto  legislativo.  Il  comma  3
dell'art.  152  stabilisce  che  le   funzioni   e   i   compiti   di
valorizzazione comprendono, in particolare, le attivita' concernenti:
«a) il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro
sicurezza, integrita' e valore; b) il miglioramento  dell'accesso  ai
beni  e  la  diffusione  della   loro   conoscenza   anche   mediante
riproduzioni, pubblicazioni ed ogni altro mezzo di comunicazione;  c)
la fruizione  agevolata  dei  beni  da  parte  delle  categorie  meno
favorite;  d)  l'organizzazione  di  studi,  ricerche  ed  iniziative
scientifiche anche in collaborazione con universita'  ed  istituzioni
culturali e di ricerca; e) l'organizzazione di attivita' didattiche e
divulgative anche in collaborazione con istituti  di  istruzione;  j)
l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con altri soggetti
pubblici e privati; g) l'organizzazione di eventi culturali  connessi
a particolari aspetti dei beni o ad operazioni di recupero,  restauro
o  ad  acquisizione;  h)  l'organizzazione  di  itinerari  culturali,
individuati mediante la connessione fra beni culturali  e  ambientali
diversi, anche in collaborazione con gli enti e organi competenti per
il turismo». A sua volta il decreto legislativo 20 ottobre  1998,  n.
368 (Istituzione del Ministero per i beni e le attivita'  culturali),
all'art. 10, comma 1, lettera  b-bis)  -  disposizione  aggiunta  con
l'art. 33 della legge  28  dicembre  2001,  n.  448,  successivamente
quindi all'entrata in vigore della  legge  costituzionale  n.  3  del
2001, e poi modificata dal comma  52  dell'art.  80  della  legge  27
dicembre 2002, n. 289 e dall'art. 6 della legge 16 gennaio 2003, n. 3
- nel prevedere la possibilita' di dare  in  concessione  a  soggetti
diversi da quelli statali la gestione di  servizi  relativi  ai  beni
culturali  di  interesse  nazionale,  tramite  l'emanazione   di   un
regolamento che disciplini tali concessioni, indica tra i  criteri  e
le garanzie cui il regolamento dovra' uniformarsi la  salvezza  della
riserva statale sulla tutela dei beni. 
    7. - I dati normativi riferiti  permettono  di  affermare  quanto
segue. 
    La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative
anteriori all'entrata in vigore della legge costituzionale n.  3  del
2001, sono state considerate attivita'  strettamente  connesse  ed  a
volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili. Cosi'  l'art.
148 del d.lgs. n. 112 del 1998 annovera,  come  s'e'  visto,  tra  le
attivita' costituenti tutela quella  diretta  «a  conservare  i  beni
culturali  e  ambientali»,  mentre  include  tra  quelle  in  cui  si
sostanzia  la  valorizzazione  quella  diretta   a   «migliorare   le
condizioni di conservazione dei  beni  culturali  e  ambientali».  La
gestione, poi, nella definizione che ne da' il medesimo articolo,  e'
funzionale sia alla tutela sia  alla  valorizzazione.  Il  menzionato
art. 152 dello stesso decreto legislativo considera la valorizzazione
come compito che Stato,  regioni  ed  enti  locali  avrebbero  dovuto
curare ciascuno nel proprio  ambito.  Tuttavia  le  espressioni  che,
isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela  e
valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano  che
la prima e' diretta principalmente ad  impedire  che  il  bene  possa
degradarsi nella sua struttura fisica  e  quindi  nel  suo  contenuto
culturale; ed e' significativo che  la  prima  attivita'  in  cui  si
sostanzia la tutela e' quella del riconoscere il bene culturale  come
tale. La valorizzazione e' diretta  soprattutto  alla  fruizione  del
bene  culturale,  sicche'  anche  il  miglioramento  dello  stato  di
conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi  in  cui  avviene  la
fruizione ed ai modi di questa. Occorre infine rilevare che in nessun
atto normativo precedente la modifica del Titolo  V  della  Parte  II
della Costituzione la tutela dei beni culturali  viene  attribuita  a
soggetti diversi dallo Stato;  successivamente  a  questa,  anzi,  il
citato comma 1, lettera b-bis), dell'art. 10 del d.lgs.  n.  368  del
1998, nel prevedere  le  concessioni  per  la  gestione  dei  servizi
relativi ai beni culturali di interesse nazionale,  stabilisce,  come
s'e' detto, che deve restare ferma la riserva  statale  sulla  tutela
dei beni. Alla luce delle  suesposte  considerazioni  la  riserva  di
competenza statale sulla tutela dei beni culturali  e'  legata  anche
alla peculiarita' del patrimonio storico-artistico italiano,  formato
in grandissima parte da opere nate nel  corso  di  oltre  venticinque
secoli nel territorio italiano  e  che  delle  vicende  storiche  del
nostro Paese sono espressione e testimonianza. Essi vanno considerati
nel loro complesso come un tutt'uno, anche a prescindere  dal  valore
del singolo bene isolatamente considerato. Nel modificare  il  quadro
costituzionale delle competenze di Stato e Regioni per la  parte  che
qui interessa, il legislatore costituente ha tenuto conto  sia  delle
caratteristiche del patrimonio storico-artistico italiano, sia  della
normativa esistente, attribuendo allo Stato la  potesta'  legislativa
esclusiva e la  conseguente  potesta'  regolamentare  in  materia  di
tutela dei beni culturali e  ambientali  (art.  117,  secondo  comma,
lettera s, Cost.) ed alla legislazione concorrente di Stato e Regioni
la valorizzazione dei beni culturali e ambientali  (art.  117,  terzo
comma, Cost.). 
    Se ne deduce che la valorizzazione e'  diretta  soprattutto  alla
fruizione del bene culturale, sicche' anche  il  miglioramento  dello
stato di conservazione attiene  a  quest'ultima  nei  luoghi  in  cui
avviene  la  fruizione  e  con  riferimento  ai   modi   di   questa.
Conseguentemente, i divieti o  i  limiti  imponibili,  come  previsti
nella norma interloquita, laddove finalizzati alla maggior  fruizione
dei beni monumentali o degli altri  immobili  interessati  da  flussi
turistici,    e'    ascrivibile    ineludibilmente    alla    materia
«valorizzazione dei beni culturali.». 
    L'esaustiva ricostruzione  rinvenibile  nell'articolata  disamina
che    precede,    come     parzialmente     riportata,     evidenzia
inequivocabilmente come il fulcro della questione consista non  tanto
nell'apposizione di vincoli all'esercizio di  determinate  attivita',
quanto  piuttosto  nell'individuazione  dei  soggetti   istituzionali
competenti, sinora normativamente indicati  secondo  una  metodologia
ondivaga, oscillante nel tempo tra Stato ed enti locali, senza tenere
in debita considerazione  la  molteplicita'  delle  diverse  potesta'
correlate alla cura degli interessi pubblici, nei  differenti  ambiti
del  commercio  e  della  cultura,  in  una  logica   di   necessario
contemperamento delle posizioni eventualmente contrapposte. 
    I limiti apponibili all'esercizio del  commercio,  infatti,  sono
plurimi e attualmente contemplati all'articolo 3 del D.L. n. 138  del
2011, gia' supra evocato, il cui comma I viene riportato di seguito. 
    1. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012,
adeguano  i  rispettivi  ordinamenti   al   principio   secondo   cui
l'iniziativa e  l'attivita'  economica  privata  sono  libere  ed  e'
permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge  nei
soli casi di: 
        a) vincoli derivanti  dall'ordinamento  comunitario  e  dagli
obblighi internazionali; 
        b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; 
        c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e
contrasto con l'utilita' sociale; 
        d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute
umana,  la   conservazione   delle   specie   animali   e   vegetali,
dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; 
        e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi
pubblici  ovvero  che  comunque  comportano  effetti  sulla   finanza
pubblica.». 
    Appare  pleonastico  sottolineare  come  la  predetta  norma   si
configuri, principalmente, quale limite alla liberta'  di  iniziativa
economica sancita all'articolo 41 della Costituzione e, come tale, e'
correttamente  correlata  alla  salvaguardia   di   beni   integranti
altrettanti valori della Costituzione perche' ritenuti di  preminente
rilevanza, quali la sicurezza, la salute,  l'ambiente  e  la  finanza
pubblica. 
    E,  in  proposito,  in   forza   dell'elementare   principio   di
sussidiarieta' applicato in  subiecta  materia,  e'  quella  comunale
l'amministrazione deputata  a  presidiare,  mediante  l'esercizio  di
un'adeguata  potesta'  regolamentare,   il   rispetto   delle   norme
disciplinatorie  stabilite  dai  soggetti  titolari  della   potesta'
legislativa, e necessariamente emanate  in  conformita'  ai  precetti
costituzionali. A tale  posizionamento  istituzionale  devono  essere
ricondotti i poteri enunciati nell'articolo 54 del d.lgs.  18  agosto
2000, n. 267 che il Sindaco esercita in  qualita'  di  ufficiale  del
Governo e che sono  connotati  da  un'ampiezza  tale  da  non  subire
compromissioni o contenimenti neppure in ossequio ai noti, prevalenti
e talvolta prevaricanti principi di liberta' di iniziativa economica,
tutela  della  concorrenza   e   del   mercato   e   liberalizzazione
commerciale. 
    E l'indiscutibile estensione delle anzidette  potesta'  sindacali
trova un'ulteriore, recentissima  conferma  proprio  nella  circolare
esplicativa  n.  3644/C  del  28  ottobre   2011,   con   la   quale,
successivamente all'abrogazione dei limiti di orario e degli obblighi
di chiusura degli  esercizi  commerciali,  avuto  specifico  riguardo
all'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, il Ministero
dello sviluppo economico ha espressamente riconosciutola legittimita'
di «eventuali specifici atti provvedimentali, adeguatamente  motivati
e finalizzati a limitare le aperture notturne o a stabilire orari  di
chiusura correlati alla  tipologia  e  alle  modalita'  di  esercizio
dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande  per  motivi
di pubblica sicurezza o per  specifiche  esigenze  di  tutela»  (...)
«potendosi  legittimamente  sostenere  che  trattasi   di   «vincoli»
necessari ad evitare «danno alla sicurezza» (...)  «e  indispensabili
per  la  protezione  della  salute  umana  (...)  dell'ambiente,  del
paesaggio e del patrimonio culturale». 
    In ogni caso, alla potesta' amministrativa comunale senza  dubbio
tuttora sussistente, non soltanto nelle linee generali ed  amplissime
sopra cennate, ma anche a termini dello stesso comma 1  dell'articolo
52 del d.lgs.  n.  42/2004,  si  aggiunge  una  potesta'  legislativa
regionale ai sensi del  decreto  legislativo  n.  114  del  1998  che
individua le Regioni quali soggetti istituzionali titolari del potere
normativo  in  materia  di  commercio,  con   previsione,   peraltro,
convalidata dalla successiva giurisprudenza di codesta Ecc.ma  Corte,
che ha espressamente ricondotto l'ambito settoriale in argomento  nel
quarto comma dell'articolo 117 della Costituzione. Ed  in  punto,  la
Regione  ha  esercitato  tale  potere  inserendo   il   comma   4-bis
nell'articolo 4 della legge regionale 6 aprile  2001,  n.  10  «Nuove
norme  in  materia  di  commercio  su  aree   pubbliche»   introdotto
dall'articolo 16 della legge regionale 25 febbraio  2005,  n.  7.  La
disposizione, ancora in vigore ed oggetto  di  applicazione,  prevede
espressamente il divieto di esercitare il commercio su aree pubbliche
in forma itinerante nei centri storici  dei  comuni  con  popolazione
superiore ai cinquantamila abitanti. La norma e' stata censurata  con
giudizio promosso in via incidentale dal TAR Veneto che ha  sollevato
la questione di legittimita' costituzionale  perche'  discriminatoria
nei confronti di una vasta platea di piccoli imprenditori. 
    La sentenza n. 247 del 2010,  conclusiva  del  giudizio  de  quo,
appare  significativamente  rilevante  per   l'odierna   controversia
poiche', per  un  verso,  ribadisce  la  competenza  regionale  nella
materia  commercio  "Per  non   limitarsi   alla,   pur   inequivoca,
intitolazione  («Nuove  norme  in  materia  di  commercio   su   aree
pubbliche»), appare indubbio che le disposizioni della legge in esame
- avendo quale oggetto specifico la normativa regionale del commercio
su aree pubbliche - siano riconducibili immediatamente  alla  materia
«commercio», di competenza residuale delle regioni (sentenze n. 165 e
n. 64 del 2007); "e, per altro  verso,  ha  riscontrato  la  coerenza
della  norma  regionale  rispetto  alla  ratio,"  essendo  del  tutto
naturale che, nell'ambito  di  una  generale  regolamentazione  della
specifica  attivita'  del  commercio  in   forma   itinerante,   vada
ricompresa anche la possibilita' di  disciplinarne  nel  concreto  lo
svolgimento, nonche' quella di vietarne l'esercizio in ragione  della
particolare situazione di talune aree metropolitane  (centri  storici
dei Comuni con popolazione superiore  a  cinquantamila  abitanti,  di
modo che l'esercizio del commercio  stesso  avvenga  entro  i  limiti
qualificati  invalicabili  della  tutela  dei   beni   ambientali   e
culturali.   Infatti,   la   ratio   del   divieto   trova   altresi'
giustificazione nello scopo di garantire, indirettamente,  attraverso
norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione,  la  valorizzazione
dei maggiori centri storici delle citta' d'arte del  Veneto  a  forte
vocazione turistica." 
    La correttezza dell'operato del legislatore  regionale  e'  stata
valutata   in   ragione   dalla    determinatezza    e    puntualita'
dell'intervento che, in quanto circoscritto a specifiche  condizioni,
e'   risultato   essere   proporzionale   e   ragionevole    rispetto
all'obiettivo perseguito. Nella pronuncia, infatti, si legge che  «La
norma censurata, pertanto, non produce alcuna  lesione  di  regole  a
tutela della concorrenza, giacche' il divieto sancito  dalla  Regione
Veneto  non  incide,  ne'  direttamente  ne'  indirettamente,   sulla
liberta' di concorrenza; esso si colloca infatti -  senza  introdurre
discriminazioni fra differenti categorie di operatori  economici  che
esercitano l'attivita' in posizione identica o analoga - nel  diverso
solco della  semplice  regolamentazione  territoriale  del  commercio
(disciplinata in coerenza con  la  salvaguardia  dei  beni  culturali
caratterizzanti la specifica realta'  del  territorio  regionale)  ed
appare razionalmente  giustificato  dalle  concrete  e  localizzabili
esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale. 
    Come  gia'  detto,  la   disposizione   censurata   assicura   un
contemperamento  ragionevole  fra  la  liberta'  dell'esercizio   del
commercio  su  aree   pubbliche   in   forma   itinerante   (la   cui
autorizzazione,  peraltro,  abilita  all'esercizio   della   relativa
attivita' in tutto il territorio nazionale: art. 4,  comma  2,  della
legge  regionale  n.  10  del  2001)  e  l'introduzione  di  limitate
eccezioni, oggettivamente motivate dall'esigenza di  non  superare  i
limiti posti a tutela dei centri storici delle grandi  citta'  d'arte
della Regione. 
    Ma  tutto  quanto  prima  esposto  alimenta  il  dubbio  che   la
disposizione regionale vigente e quella odiernamente censurata  dalla
regione  Veneto  siano  suscettibili  di  sovrapposizioni  quantomeno
potenziali  e  possano  generare  perplessita'   ermeneutiche   circa
l'individuazione della normativa  concretamente  applicabile  perche'
prevalente ed assorbente entrambi i profili disciplinatori  afferenti
tanto il commercio quanto la cultura, senza conflitti di  competenze.
In tal  senso,  la  norma  regionale  menzionata  si  configura  come
correttamente delimitata tanto territorialmente, essendo riferita  ai
centri storici dei comuni con popolazione superiore a  «cinquantamila
abitanti»,  quanto  oggettivamente,  poiche'  concerne   appunto   il
«commercio su aree pubbliche in forma  in  itinerante».  Anche  sotto
tale  profilo  la  disposizione  statale  appare  incidente  con   la
disciplina regionale,  proprio  perche',  a  differenza  della  norma
regionale veneta, contempla indistintamente tutte le  aree  pubbliche
di   particolare   valore   archeologico,   storico,   artistico    e
paesaggistico, senza alcun criterio  discretivo,  ulteriore  rispetto
alla presenza di  complessi  monumentali  o  di  altri  immobili  del
demanio culturale interessati  da  flussi  turistici  particolarmente
rilevanti. 
    Per effetto della novella statale oggetto del presente  giudizio,
quindi, la  portata  precettiva  delle  disposizioni  regionali,  che
avessero   trovato   puntuale   attuazione   nelle   conseguenti    e
consequenziali    determinazioni    comunali,     potrebbe     subire
un'inammissibile compromissione a seguito di un atto  provvedimentale
emanato dal Sovrintendente nell'esercizio di potesta'  amministrative
connotate da un'estensione tale da  travolgere  qualsiasi  competenza
costituzionalmente garantita, sino a rasentare l'arbitrio.  Cio'  che
sconcerta sono appunto le modalita' indiscriminate, e  destrutturanti
il contesto ordinamentale, con le quali l'intervento de quo e'  stato
legislativamente concepito, non certo le esigenze di valorizzazione e
migliore fruibilita' del patrimonio culturale allo stesso sottese. E'
per riaffermare tali esigenze, salvaguardando  tuttavia  gli  assetti
disciplinatori regionali gia' vigenti ed efficacemente operanti,  che
la difesa  regionale  ha  promosso  in  via  principale  la  presente
questione di legittimita' costituzionale, sollecitando  la  pronuncia
di  codesta  Ecc.ma  Corte  affinche'  chiarisca  la  reale   portata
legislativa della disposizione impugnata ed eventualmente la  espunga
dal quadro non-nativo di riferimento perche' con esso  incompatibile,
restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e
ricomponendo in termini di coerenza  quello  che  attualmente  e'  un
insieme frammentario e non coordinato di una pluralita' di competenze
soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti. 
    Tale esigenza chiarificatrice pare corroborata anche  dall'inciso
contenuto nella disposizione statale che, specificando  ulteriormente
l'area suscettibile di  valorizzazione  in  termini  di  presenza  di
«immobili interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti»,
attrae nell'alveo materiale  delle  norme  anche  la  disciplina  del
turismo, che e' esso pure ambito soggetto alla  potesta'  legislativa
residuale regionale. 
    Se dunque, sia la potesta' normativa in tema  di  commercio,  che
quella in materia di turismo  sono  di  attribuzione  regionale;  se,
parimenti   regionale   e'   la   competenza   legislativa,   seppure
concorrente, in ordine agli interventi destinati alla  valorizzazione
del patrimonio culturale,  nei  cui  confronti  si  configurano  come
insussistenti tanto una potesta' trasversale statale ricondotta  alla
tutela della concorrenza di cui alla lettera  e)  del  comma  secondo
dell'articolo 117  della  Costituzione,  quanto  la  stessa  potesta'
esclusiva afferente la tutela del predetto patrimonio di cui all'art.
117,  comma  secondo,  lettera   s)   della   vigente   Costituzione,
trattandosi  di  limiti  e   divieti   all'esercizio   di   attivita'
piccolo-imprenditoriale, risulta incomprensibile  e  sistematicamente
inaccettabile il disallineamento afferente l'esercizio delle potesta'
amministrative che la disposizione impugnata determina. 
    Sul punto, e' certamente indiscutibile che possa  ed  anzi  debba
essere  esercitata  la  potesta'  amministrativa  comunale  anche  in
riferimento alla vastissima categoria  dei  beni  qualificabili  come
«culturali», che, come  precisato  nell'articolo  10  del  d.lgs.  n.
42/2004, include i beni immobili e mobili  che  presentano  interesse
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, ivi comprese le
pubbliche  piazze,  vie,  strade  e  altri  spazi  aperti  urbani  di
interesse artistico o  storico.  Ma  gli  anzidetti  poteri  comunali
presentano altresi' profili di presidio e preservazione, laddove,  ad
esempio,  devono  garantire  l'osservanza  di  norme  particolarmente
rigorose,  quali  l'art.  20  del  medesimo  decreto,  che   sanziona
autonomamente, qualificandoli di  peculiare  gravita',  gli  atti  di
distruzione, deterioramento o danneggiamento  di  beni  culturali,  i
quali, peraltro, sono  normativamente  sottratti  anche  ad  usi  non
compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali  da
recare pregiudizio alla loro conservazione. 
    Indubbiamente, sino all'intervento legislativo in esame, tutte le
cennate potesta' amministrative sono state  esercitate  nel  rigoroso
rispetto del potere consultivo  di  cui  sono  tributari  gli  organi
statali, che, ora, invece, per effetto  della  novella,  diventano  i
protagonisti  dell'amministrazione  attiva,  secondo  un  modello  di
rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad
un ruolo meramente valutativo, e neppure  vincolante,  con  riverberi
decisivi sulla restante e rilevantissima  attivita'  di  governo  del
territorio, sia pianificatoria che  organizzativa.  Correlativamente,
la  potesta'  legislativa  regionale  rimane  paralizzata   a   causa
dell'indeterminatezza dei parametri di riferimento e  della  concreta
impossibilita' di statuire norme destinate a disciplinare ambiti  nei
quali la potesta' esercitata e' di rango statale. 
    Nella gia' citata decisione  n.  247  del  2010,  codesto  Ecc.mo
Collegio ha appunto riconosciuto la competenza comunale in materia in
relazione al disposto  dell'articolo  52,  comma  1,  del  d.lgs.  n.
42/2004, nel testo all'epoca vigente, affermando che: D'altronde,  di
tale esigenza si e' fatto carico anche il legislatore statale con  il
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali
e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002,
n. 137), che - rendendo esplicito che le pubbliche piazze, le vie, le
strade e gli altri spazi urbani  di  interesse  artistico  o  storico
rientrano fra i beni culturali, e che essi sono pertanto  oggetto  di
tutela ai fini della conservazione del  patrimonio  artistico  e  del
decoro urbano (art. 10,  comma  4,  lettera  g)  -  ha  ribadito,  in
conformita' di quanto gia' stabilito  dall'art.  28,  comma  16,  del
d.lgs. n. 114 del 1998, che i Comuni «individuano le  aree  pubbliche
aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico  nelle
quali vietare o sottoporre a condizioni particolari  l'esercizio  del
commercio» (art. 52). 
    Non possono, quindi, condividersi, perche' oltretutto immotivate,
le ragioni fondanti la trasmigrazione della competenza amministrativa
attiva  dagli  enti  locali  allo  Stato,  in  assenza  di  qualsiasi
coordinamento istituzionale con la potesta' amministrativa  comunale,
che a tutti gli effetti rimane, ed incidendo  surrettiziamente  sulle
attribuzioni legislative regionali, utilizzando a pretesto un ambito,
quale   quello   della   «valorizzazione   dei    beni    culturali»,
particolarmente duttile per la complessita' dei profili che  involge.
E cio', sebbene proprio l'articolo 1, comma 3 del d.lgs.  n.  42/2004
assegni espressamente alle Regioni un ruolo determinante appunto  per
la  valorizzazione  dei  beni  culturali  come  gia'  abbondantemente
evidenziato. 
    Ecco perche' anche a  voler  ammettere  una  diversa  valutazione
degli  interessi  pubblici  correlati  ai   contesti   attratti   dal
legislatore statale nella  regolamentazione  in  argomento,  comunque
l'intervento normativo in  esame  appare  contrario  al  terzo  comma
all'articolo   117   della   Costituzione,   ove   e'   allocata   la
valorizzazione dei beni culturali, atteso che, trattandosi di  ambito
soggetto a potesta'  legislativa  concorrente,  esso  avrebbe  dovuto
essere contenuto nei margini che gli sono propri e cioe'  nei  limiti
dell'enucleazione dei principi fondamentali. 
    Invece, la disposizione interloquita ha attribuito ad  un  organo
statale un potere coercitivo generale  ed  indeterminato,  del  tutto
analogo a quello previsto nel previgente testo unico  in  materia  di
beni culturali di cui al d.lgs. n. 490/1999, senza  porre  la  minima
attenzione al riparto  di  competenze  di  estrazione  costituzionale
attualmente esistente. 
    Infine, ad avviso dello scrivente patrocinio,  e'  giuridicamente
preoccupante la previsione, pure contenuta nell'articolo 4-bis  della
legge n. 112/2013, che, in riferimento alle  aree  individuabili  per
l'applicazione dei provvedimenti statali regolatori o inibitori,  non
si limita alle locuzioni utilizzate, che gia' risultano singolarmente
indeterminate e non identificabili, come supra eccepito, ma  include,
altresi', le «aree a essi contermini», laddove «essi»  puo'  indicare
anche i  complessi  monumentali  o  semplicemente  i  beni  immobili.
Correlativamente, non meno criptica si configura la  possibilita'  di
estendere l'oggetto dell'intervento  amministrativo  statale  sino  a
ricomprendere «qualsiasi altra attivita' non compatibile», in spregio
dell'art. 97 della Costituzione. 
    E sicuramente, si ribadisce, tale indeterminatezza non  puo'  non
riflettersi  negativamente  anche   sulla   potesta'   amministrativa
regionale  di  cui  all'articolo  118  della  Costituzione,   laddove
quest'ultima sia finalizzata  alla  pianificazione  e  programmazione
delle attivita' sia commerciali,  che  artigianali,  che  turistiche,
rilevata l'assenza di qualsiasi parametro di valutazione, nonche'  di
qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale,  che  consenta  il
legittimo  esercizio  delle  predette  attribuzioni  secondo  i  noti
criteri di economicita', efficacia ed  efficienza,  senza  spreco  di
risorse,  perseguendo  quegli   obiettivi   di   valorizzazione   del
patrimonio culturale che non possono essere disgiunti  da  metodi  di
ottimizzazione e finalita' di sviluppo. Si rammenta, infatti, che  la
consultazione  obbligatoria,   ma   non   vincolante,   e'   prevista
esclusivamente con le amministrazioni comunali. 
Violazione dell'articolo 120 della Costituzione. 
    I dubbi ermeneutici e l'incertezza delle pluriformi normative che
si sono progressivamente sovrapposte  hanno,  tra  l'altro,  generato
notevoli cesure tra i vari livelli di governo che  risultano  tuttora
alieni  dal  pieno  e  soddisfacente  utilizzo  degli  strumenti   di
concertazione strutturati per essere destinati nelle sedi deputate al
necessario confronto ed alla collaborazione interistituzionale. 
    Ed invero, come e' noto, al comma 6 dell'articolo 8 della legge 5
giugno 2003, n. 131 «Disposizioni per l'adeguamento  dell'ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3». e'
espressamente previsto che il Governo possa promuovere intese in sede
di Conferenza Stato-Regioni o  di  Conferenza  unificata,  dirette  a
favorire  l'armonizzazione  delle  rispettive   legislazioni   o   il
raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di  obiettivi
comuni. Va adeguatamente considerato che  esempi  attuativi  di  tale
disposto normativo si ravvisano anche in settori,  quale  quello  del
turismo,  di  competenza  esclusiva  regionale.  In  tale   contesto,
infatti, le forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni si sono
sviluppate sino a divenire lo strumento privilegiato di coordinamento
delle diverse legislazioni regionali e  di  definizione  di  standard
comuni in tutto il territorio nazionale. 
    In particolare, il  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 21 ottobre 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  n.  34
dell'11 febbraio 2009, e' stato emanato in  attuazione  dell'articolo
2, comma 193, lettera a) della legge 24 dicembre 2007,  n.  244,  che
prevedeva,  appunto,  l'adozione  di  un  decreto   di   natura   non
regolamentare del Presidente del Consiglio dei ministri per  definire
«le tipologie dei servizi forniti dalle imprese turistiche rispetto a
cui vi  e'  necessita'  di  individuare  caratteristiche  similari  e
omogenee  su  tutto  il  territorio  nazionale  tenuto  conto   delle
specifiche esigenze connesse alle capacita' ricettiva e di  fruizione
dei contesti territoriali», d'intesa con la Conferenza permanente per
i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di  Trento
e Bolzano. 
    In termini piu' generali, la necessita'  di  una  convergenza  in
questo particolare ambito di legislazione, nel quale  i  settori  del
commercio e del  turismo  si  intrecciano  con  quello  afferente  la
valorizzazione dei beni culturali, appare di indiscutibile pregnanza,
attesa la ragionevolezza ed assoluta condivisibilita'  di  interventi
regolatori  dell'attivita'  imprenditoriale   per   contemperare   le
esigenze di salvaguardia del diritto di impresa con quelle  afferenti
altri  valori  costituzionalmente  garantiti.   D'altro   canto,   la
necessita'   di   avviare   il   confronto   interistituzionale    e'
espressamente   indicata   anche   nelle   stesse   premesse    della
ripetutamente evocata direttiva del Ministero datata 10 ottobre  2012
laddove, oltre a  ribadire  che  «lo  svolgimento  di  attivita'  non
compatibili puo' impedire di  assicurare  livelli  di  valorizzazione
qualitativamente  adeguati  allo  straordinario   valore   dei   beni
interessi, con effetti pregiudizievoli  anche  sullo  sviluppo  e  la
promozione del turismo culturale», si precisa, nel contempo, che  «il
conseguimento degli obiettivi e il  soddisfacimento  delle  esigenze,
sopra indicati, di tutela e valorizzazione del  patrimonio  culturale
richiede la piena e leale collaborazione tra le  diverse  Istituzioni
pubbliche a vario titolo competenti,  nell'esercizio  dei  rispettivi
poteri  e  attribuzioni.».  Ma,  in  realta',  l'intero  testo  della
predetta direttiva e' costellato da riferimenti al principio di leale
collaborazione, e cosi', al punto 3.1 della  medesima  si  legge  che
«gli Uffici  del  Ministero  collaboreranno  con  le  Amministrazioni
locali»; ed ancora «L'esercizio congiunto  dei  poteri  in  questione
potra' essere opportunamente racchiuso nella forma  dell'accordo  tra
pubbliche amministrazioni volto  a  disciplinare  lo  svolgimento  in
collaborazione  di   attivita'   di   interesse   comune   ai   sensi
dell'articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241.»;  ed  infine  al
punto 3.2.3, con riferimento all'individuazione dei soggetti titolari
di diritti di uso individuale, e' imposta agli uffici governativi  la
collaborazione con i competenti enti territoriali. 
    Al  riguardo,  si  sottolinea  come  l'articolo  5  del   decreto
legislativo n. 42/2004 abbia cristallizzato in norma il principio  di
leale collaborazione  di  cui  all'articolo  120  della  Costituzione
proprio in riferimento all'esercizio delle funzioni amministrative in
materia  di  beni  culturali,  utilizzando  il  termine  atecnico  di
«cooperazione». E tale norma si aggiunge ad  altre  disposizioni  del
medesimo decreto legislativo, che declinano una  multiforme  varieta'
di modelli di intesa e  coordinamento  tra  lo  Stato  e  le  Regioni
stabilite per l'esercizio delle rispettive competenze amministrative. 
    In dettaglio, l'articolo 17, comma 1, del decreto  in  argomento,
in  relazione  alle   funzioni   amministrative   di   catalogazione,
stabilisce che «Il Ministero, con il concorso delle regioni  e  degli
altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei  beni
culturali e coordina le relative attivita'»; ed ancora, il successivo
articolo 18, al comma 2, in riferimento alle  funzioni  di  vigilanza
sulle cose su cui sussiste un interesse culturale, prevede che «Sulle
cose di cui all'articolo 12, comma 1, che appartengano alle regioni e
agli altri enti pubblici territoriali,  il  Ministero  provvede  alla
vigilanza anche mediante forme di intesa e di  coordinamento  con  le
regioni medesime.». 
    Ne' pare potersi obiettare, a contrariis, che, vertendosi in tema
di  potesta'  legislativa  concorrente,  lo  Stato,  nella  complessa
disposizione odiernamente interloquita, avrebbe dettato semplicemente
i principi fondamentali, per i quali  non  puo'  essere  invocato  il
rispetto del principio di leale collaborazione. E' di tutta evidenza,
invece, come, in realta', nella fattispecie in esame lo  Stato  abbia
travalicato   il   proprio   ambito   di   intervento   astrattamente
ammissibile, dettagliando le statuizioni ed attribuendo  agli  organi
statali un potere prescrittivo ed operativo che diverge  notevolmente
dalla  semplice  indicazione  dei  principi  fondamentali  (cfr.,  la
sentenza n. 222 del 2008). 
    Infine, non si puo' non rinviare al  terzo  comma  dell'art.  118
della Costituzione, ove si impone alla legge statale la disciplina di
forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni proprio  nella
materia della tutela dei beni culturali. Con cio' si  intende,  salvo
il contrario avviso di codesto Ecc.mo Collegio, che qualora si reputi
riconducibile la  disposizione  censurata  all'ambito  di  competenza
esclusiva statale di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera  s)
della  Costituzione,  si  impone  una  pronuncia  interpretativa  che
armonizzi gli  assunti,  ripetutamente  espressi  da  codesta  Ecc.ma
Corte, che escludono  il  principio  di  leale  collaborazione  nelle
materie di competenza esclusiva statale o concorrente,  limitatamente
all'individuazione dei principi fondamentali, ed il precetto di rango
costituzionale evocato che  riafferma  la  necessita'  di  coordinare
l'esercizio delle potesta' amministrative in  tale  materia  mediante
forme di intesa e coordinamento. E  quanto  prospettato  tiene  conto
dell'orientamento  ermeneutico  secondo   il   quale   la   certezza,
dell'ascrivibilita'  di  una  disposizione  impugnata  in  un  ambito
materiale  riservato  alla  potesta'  legislativa  statale,  preclude
l'obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato  e  Regione,
atteso  che  gli  stessi  debbono,  in  linea  di  principio,  essere
necessariamente previsti  solo  quando  vi  sia  una  concorrenza  di
competenze nazionali e regionali, per la quale non  possa  ravvisarsi
la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri(  v.
le sentenze n. 234 del 2012, n. 88 del 2009 e n. 219  del  2005).  Al
riguardo,  per  le   considerazioni   proposte   relativamente   alla
disposizione impugnata, proprio perche' non e' sicura  la  prevalenza
di un complesso normativo rispetto ad altri,  mentre  e'  sicuramente
identificabile solo l'intreccio di una pluralita' di  competenze,  si
configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra  i
vari livelli di governo. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Per tutto quanto sopra esposto e  con  riserva  di  ulteriormente
dedurre ed  argomentare  con  memoria  aggiuntiva  da  depositare  in
prossimita' dell'udienza di discussione, la  Regione  del  Veneto  ut
supra rappresentata e difesa, chiede 
        1. che codesta Ecc.ma Corte, respinta ogni contraria istanza,
voglia accogliere il suesteso  ricorso  e,  per  l'effetto,  dichiari
l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 4-bis del decreto-legge
8 agosto 2013, n. 91, recante: «Disposizioni urgenti per  la  tutela,
la  valorizzazione  e  il  rilancio  dei  beni  e   delle   attivita'
culturali.» nel testo risultante per effetto della conversione  della
legge 7 ottobre 2013, n. 112, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  n.
236 dell'8 ottobre 2013 per violazione degli  articoli  3,  97,  117,
commi terzo e quarto, 118 della Costituzione, nonche'  del  principio
di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione. 
    Si deposita copia conforme all'originale della D.G.R. n. 2183 del
3 dicembre 2013 di autorizzazione alla  proposizione  del  ricorso  e
affidamento dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale. 
        Venezia-Roma, addi' 9 dicembre 2013 
 
               Avv. Zanon - Avv. Palumbo - Avv. Manzi