N. 283 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 ottobre 2013

Ordinanza del 23 ottobre 2013 emessa  dalla  Corte  di  cassazione  -
Sezioni unite penali nel procedimento penale a carico di Guidi  Guido
Andrea e Rubino Edoardo. 
 
Reati e pene - Istigazione alla corruzione -  Ipotesi  di  offerta  o
  promessa di denaro o  altra  utilita'  al  consulente  tecnico  del
  pubblico ministero per il compimento  di  una  falsa  consulenza  -
  Trattamento sanzionatorio  -  Denunciata  previsione  di  una  pena
  superiore a quella di cui all'art.  377,  primo  comma,  cod.  pen.
  (Intralcio alla giustizia), in relazione  all'art.  373  cod.  pen.
  (Falsa perizia o interpretazione) - Irragionevolezza  -  Disparita'
  di trattamento di situazioni analoghe. 
- Codice penale, art. 322, comma secondo. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.3 del 15-1-2014 )
 
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi proposti da: 
    1) Guidi Guido Andrea, nato a Milano il 24 novembre 1947; 
    2) Rubino Edoardo, nato a Latisana il 20 settembre 1941; 
    Avverso la sentenza del 2 maggio 2012 della Corte di  appello  di
Roma; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; 
    Udita la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Rotundo; 
    Udito il Pubblico Ministero, in  persona  dell'Avvocato  Generale
Carlo Destro, che ha  concluso  chiedendo  il  rigetto  dei  ricorsi,
previa qualificazione della imputazione  contestata  come  violazione
dell'art. 377 cod. pen.; 
    Udito per gli imputati l'avv. Iolanda Campolo,  che  ha  concluso
chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. - L'oggetto del  processo  e'  costituito  dalla  condotta  di
alcuni  soggetti  che  consegnavano  ad  un  consulente  tecnico  del
Pubblico Ministero una  somma  di  denaro  (da  quello  simulatamente
accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa. 
    In particolare, la vicenda processuale in esame trae  origine  da
un  incidente  aereo,  avvenuto  il  1°  giugno  2003,  nello  spazio
sovrastante l'aeroporto di Milano Linate, che causo' la caduta di  un
aeromobile della compagnia Eurojet su un capannone industriale  e  la
morte del pilota e del copilota. 
    Durante  le  indagini  preliminari  che  seguirono,  il  Pubblico
Ministero nomino' un consulente tecnico, ex art. 359 cod. proc. pen.,
nella persona dei sig. Cimaglia, funzionario Enac. 
    Nel corso degli accertamenti tecnici,  il  consulente  citato  fu
avvicinato da un suo conoscente e collega,  tale  Corrado  Sghinolfi,
ispettore Enac a Milano ed addetto al controllo operativo di Eurojet,
il quale gli prospetto' la possibilita' di ottenere una grossa  somma
di denaro in cambio di un elaborato tecnico favorevole alla compagnia
aerea. 
    Il Cimaglia finse  di  accettare  ma  avviso'  immediatamente  il
Pubblico  Ministero,  che  predispose  attivita'  investigativa   che
consentisse la prosecuzione della  trattativa  corruttiva,  sia  pure
sotto il controllo della polizia giudiziaria, in modo  che  venissero
individuate tutte le possibili responsabilita'. 
    All'esito dell'indagine, emersero profili di responsabilita'  nei
confronti del citato Sghinolfi e di Guido  Andrea  Guidi  ed  Edoardo
Rubino (soci  della  compagnia  aerea  ed  il  secondo  anche  legale
rappresentante) nonche' dell'avv. Angelo Palermo, difensore di questi
ultimi, il quale, secondo quanto emerso, avrebbe avuto il compito  di
indicare quale avrebbe dovuto essere il  contenuto  della  consulenza
tecnica per risultare favorevole ai suoi assistiti. 
    Il Pubblico Ministero, con gli elementi acquisiti  a  carico  dei
citati indagati, chiese  ed  ottenne  dal  Giudice  per  le  indagini
preliminari del  Tribunale  di  Milano  ordinanza  cautelare  per  il
delitto di corruzione in atti giudiziari,  di  cui  all'art.  319-ter
cod. pen. 
    Gia' in sede di interrogatori di garanzia gli  indagati  ammisero
la materialita' dei fatti storici, seppure cercando  di  giustificare
l'offerta corruttiva con  la  finalita'  di  evitare  una  consulenza
sfavorevole da parte del tecnico  nominato  dal  Pubblico  Ministero,
ritenuto in qualche modo prevenuto nei confronti della societa' e dei
suoi amministratori. 
    L'ordinanza venne annullata dal Tribunale del riesame per erronea
qualificazione del fatto: non essendosi conclusa  la  trattativa,  il
reato prospettabile era quello di istigazione alla corruzione, di cui
all'art. 322 cod. pen. 
    Avverso il provvedimento del controllo cautelare propose  ricorso
per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Milano. 
    La Corte di cassazione rigetto' il ricorso,  confermando  che  la
corruzione in atti giudiziari non si era  consumata.  In  motivazione
ritenne di poter sussumere il fatto storico  nell'ipotesi  delittuosa
di tentativo di corruzione in atti giudiziari. 
    A cio' giunse sul presupposto che, in base alla lettera dell'art.
322 cod. pen.,  l'istigazione  non  era  assolutamente  configurabile
quando il reato corruttivo  finale  preordinato  era  quello  di  cui
all'art. 319-ter cod. pen. 
    In sede di indagini  venne  successivamente  sollevata  questione
sulla competenza territoriale, rimessa al Procuratore Generale presso
la Corte di cassazione, ex art. 54-quater cod. proc. pen. 
    L'incidente venne risolto attribuendo la competenza alla  Procura
della Repubblica di  Roma,  sul  presupposto  che,  qualificato  come
istigazione alla corruzione ex art. 322 cod. pen., il  reato  si  era
consumato in Roma. 
    Il  Pubblico  Ministero  a  cui  venne  trasmesso  il  fascicolo,
all'esito  delle  indagini,  non  ritenne  pero'  di  contestare   la
fattispecie delittuosa individuata dal Procuratore Generale presso la
Corte di cassazione ed esercito' l'azione penale  nei  confronti  dei
quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex  art.
377 cod. pen., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006. 
    Avendo gli imputati Guidi e Rubino optato per il rito abbreviato,
il Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale  di  Roma,  con
sentenza del  26  novembre  2008,  concordando  sulla  qualificazione
giuridica proposta dal Pubblico  Ministero,  condanno'  gli  imputati
alla pena di anni uno e mesi otto  di  reclusione  ciascuno,  con  la
sospensione condizionale. 
    Con successiva ordinanza,  emessa  il  23  gennaio  2009,  stesso
giorno  in  cui  venne  depositata   la   motivazione,   il   Giudice
dell'udienza  preliminare  opero'  una  correzione  del  dispositivo,
irrogando la pena accessoria dell'interdizione  dai  pubblici  uffici
per la stessa durata della pena principale, anch'essa sospesa. 
    In motivazione, il Giudice evidenzio' come la fattispecie di  cui
all'art. 377 cod. pen. era da considerarsi speciale rispetto a quella
dell'art. 322 cod. pen. e che essa andava ritenuta  sussistente,  nel
caso in contestazione, in quanto l'attivita' allettatrice, svolta nei
confronti del collaboratore del Pubblico Ministero,  era  finalizzata
ad ottenere una testimonianza favorevole nel futuro dibattimento;  il
consulente tecnico, infatti, avrebbe dovuto essere considerato, nella
prospettiva del processo, un testimone, giusta il disposto  dell'art.
501 cod. proc. pen. 
    La Corte di appello di Roma,  con  sentenza  del  2  maggio  2012
pronunciata a seguito di  impugnazione  degli  imputati,  in  riforma
della  sentenza  del  primo  giudice  -  riqualificata  la   condotta
contestata ai sensi degli artt. 110 e 322 cod. pen. -  determino'  la
pena, tenuto  conto  della  diminuente  del  rito,  in  anni  uno  di
reclusione ciascuno e revoco' la pena accessoria. 
    Secondo la Corte di appello  non  era  possibile  qualificare  il
fatto in termini di intralcio alla giustizia, essendo questo  delitto
prospettabile solo nel caso in cui  il  soggetto  avvicinato  rivesta
gia' la qualifica di teste, per essere stato citato con questo  ruolo
a partecipare al giudizio. 
    Pur condividendo l'impostazione del primo giudice  sul  carattere
speciale della fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen.  rispetto  a
quella punita nel capo dei delitti dei pubblici ufficiali  contro  la
pubblica amministrazione, la Corte di appello di Roma ritenne, pero',
per la ragione da ultimo indicata, inapplicabile la  norma  speciale.
Confermo'  quindi  la   declaratoria   di   responsabilita',   previa
modificazione del titolo del reato. 
    A sostegno della propria tesi, la  Corte  distrettuale  richiamo'
anche  l'unico  arresto  edito  della  Suprema   Corte,   che   aveva
qualificato la proposta corruttiva avanzata ad un consulente  tecnico
di un Pubblico Ministero proprio come istigazione alla corruzione. 
    2. - Contro la decisione della  Corte  di  appello  gli  imputati
hanno  presentato,  a  mezzo  del  medesimo  difensore,  ricorso  per
cassazione, articolato in un unico motivo, con cui denunciano sia  la
violazione dell'art. 322 cod. pen. sia il vizio di motivazione. 
    Dopo una lunga premessa in cui  viene  ricostruito  il  fatto  ed
operata una  alquanto  esaustiva  rassegna  della  giurisprudenza  in
argomento, evidenziano come, alla luce dell'impostazione  sistematica
del codice, il reato commesso dal consulente tecnico  non  possa  che
essere inquadrato, in astratto,  fra  le  ipotesi  dei  reati  contro
l'amministrazione della giustizia. 
    Il legislatore, infatti, ha dimostrato, con le  sue  scelte,  una
volonta' inequivoca: concentrare  in  un'apposita  sezione  tutte  le
condotte relative a reati contro l'amministrazione della giustizia. 
    In concreto, pero', non sarebbe ipotizzabile il  delitto  di  cui
all'art. 377 cod. pen. perche' mancherebbe il  requisito  soggettivo;
nel caso di specie, infatti, il consulente tecnico, non avendo ancora
assunto la veste di testimone, non poteva  essere  annoverato  fra  i
soggetti  nei  cui  confronti  ha  rilevanza  penale  una   attivita'
subornatrice. 
    Ravvisare, d'altro canto, nel fatto un'ipotesi di reato contro la
pubblica amministrazione (e quindi il delitto  di  cui  all'art.  322
cod. pen.),  oltre  ad  apparire  una  scelta  in  contrasto  con  le
indicazioni    del    legislatore,    incontrerebbe    un    ostacolo
insormontabile, rappresentato dalla violazione degli  artt.  3  e  25
Cost. 
    Infatti, il tentativo di corruzione di un consulente  tecnico  di
parte verrebbe punito piu' severamente del  tentativo  di  corruzione
nei confronti del perito o del consulente tecnico del giudice  civile
o del consulente  tecnico  del  Pubblico  Ministero  gia'  ammesso  a
deporre in dibattimento. 
    Andrebbe, in conclusione, ravvisata,  secondo  i  ricorrenti,  la
fattispecie di istigazione a commettere falsa consulenza (artt.  115,
380 cod. pen.), che, non essendo stata accolta, sarebbe non  punibile
ex art. 115 cod. pen. 
    In subordine, i  ricorrenti  eccepiscono  la  incostituzionalita'
dell'art. 322, comma secondo, cod. pen. per contrasto  con  l'art.  3
Cost. 
    3. - Con ordinanza del 14 marzo 2013, la Sesta Sezione penale  ha
rimesso  il  ricorso  alle  Sezioni  Unite,  sul  presupposto  di  un
potenziale contrasto di giurisprudenza, la questione cosi' di seguito
riassumibile: «se  sia  configurabile  il  reato  di  intralcio  alla
giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. nel  caso  di  offerta  o  di
promessa di denaro o di altra  utilita'  al  consulente  tecnico  del
Pubblico  Ministero  al  fine  di  influire   sul   contenuto   della
consulenza, qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato
per essere sentito sul contenuto della consulenza». 
    Il Collegio  evidenzia  in  premessa  quali  siano  le  possibili
opzioni ermeneutiche in campo. 
    Ricorda che nell'ambito della stessa vicenda in esame, in sede di
valutazione cautelare della posizione del  coimputato  Sghinolfi,  la
Corte di cassazione aveva ritenuto configurabile  la  fattispecie  di
tentata corruzione in atti giudiziari; ritiene, pero', si  tratti  di
un orientamento a cui non possa darsi  seguito;  in  mancanza  di  un
accordo  corruttivo,  la  condotta  dell'istigatore,  diretta  a   un
soggetto che non l'accoglie, va infatti ricondotta nella  fattispecie
di cui all'art. 322 cod. pen. Quest'ultima disposizione, infatti, pur
riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive  di  cui  agli  artt.
318, comma primo, e 319 cod. pen., si attaglia anche a quella di  cui
all'art. 319-ter cod. pen., posto che quest'ultimo articolo  richiama
«i fatti indicati negli articoli 318 e 319». 
    Di  conseguenza,  la  questione   interpretativa   si   concentra
sull'applicabilita' di una  delle  due  fattispecie  delittuose  gia'
sperimentate  nel  corso  del  procedimento  di   merito,   e   cioe'
l'istigazione alla corruzione o l'intralcio alla giustizia. 
    Nell'ordinanza  di  rimessione  si  ricorda   come   la   lettura
ermeneutica fatta propria dalla Corte di appello  risulti  supportata
dall'unico arresto edito che si era occupato di un caso analogo;  con
la sentenza n. 4062 del 1999, imp. Pizzicaroli, infatti, la  medesima
Sesta Sezione aveva ritenuto sussistente il  delitto  di  istigazione
alla corruzione, di cui all'art. 322, comma secondo, cod.  pen.,  sul
presupposto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero, cui era
stata offerta un'utilita'  per  «addomesticare»  gli  esiti  del  suo
accertamento, non aveva ancora assunto il ruolo formale di testimone. 
    Ritiene, pero', che la prospettazione difensiva  secondo  cui  vi
sarebbero ostacoli formali nel configurare il delitto di istigazione,
alla corruzione abbia, almeno in parte, fondamento. 
    La prospettiva patrocinata nel 1999 dalla citata  sentenza  della
cassazione e nell'odierno processo dal Giudice collegiale di appello,
rischia, in primo luogo, di apparire  in  contrasto  con  il  dettato
degli artt. 3 e 25 Cost. 
    L'offerta di  denaro  o  di  altra  utilita'  al  consulente  del
Pubblico Ministero (pubblico ufficiale)  per  il  compimento  di  una
falsa  consulenza  finirebbe  per  essere  punita   piu'   gravemente
dell'analoga condotta diretta a un perito, che rientra pacificamente,
per il principio di specialita', nell'art.  377,  comma  primo,  cod.
pen. Nella prima ipotesi, infatti, per il  combinato  disposto  degli
artt. 319 e 322 cod. pen. (nella formulazione  vigente  pro  tempore,
prima della riforma della legge n. 190 del 2012), sarebbe  irrogabile
la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni  e  quattro  mesi;
nella seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373
e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni. 
    Ma anche sotto un altro profilo la conclusione proposta  parrebbe
difficilmente giustificabile sul piano della razionalita' complessiva
del sistema; solo questa particolare - e neppure piu' grave  -  forma
di intralcio alla giustizia non sarebbe  ricompresa  nella  specifica
partizione del codice dedicata ai  delitti  contro  l'amministrazione
della giustizia, confluendo in quella dei delitti contro la  pubblica
amministrazione. 
    Partendo proprio  da  quest'ultima  considerazione  di  carattere
sistematico,  l'ordinanza  esplora  la  possibilita'  di  considerare
corretta la conclusione cui e' pervenuto il Giudice di  primo  grado,
quando aveva condannato gli imputati per il delitto di intralcio alla
giustizia. 
    Quel Giudice aveva, infatti, individuato il riferimento implicato
dall'art. 377 cod. pen. nell'art. 372 (o  nell'art.  37-bis),  e  non
nell'art. 373 cod. pen. 
    In tal modo  aveva  superato  una  delle  obiezioni  mosse  dalla
dottrina  -  e  riproposta  anche  dai  ricorrenti  -  per  sostenere
l'inapplicabilita' dell'art. 377 cod. pen. nel caso  di  subornazione
del consulente tecnico del Pubblico Ministero; la proposta corruttiva
del privato non puo' di certo mirare al confezionamento di una  falsa
perizia, punita  dall'art.  373  cod.  pen.,  perche'  il  consulente
tecnico del Pubblico Ministero  non  e'  un  perito  e  non  produce,
dunque, alcuna perizia. 
    Nel  concludere  per  la  sostenibilita'  della  costruzione  del
Giudice  di  primo  grado,  l'ordinanza  di  rimessione  ritiene  non
accoglibili i rilievi dei ricorrenti nella parte in  cui  evidenziano
che  non  sarebbe  evocabile  nemmeno  l'art.  372  cod.  pen.,  pure
richiamato dall'art. 377 dello stesso codice. 
    La difesa degli imputati, in particolare, utilizza due  argomenti
a sostegno del suo ragionamento: 
    a)  il  consulente  tecnico  (al  pari  del  perito)  non  e'  un
testimone, non dovendo riferire su fatti, ma dovendo  solo  esprimere
il suo sapere tecnico; 
    b) ai fini dell'assunzione da parte di un soggetto della veste di
testimone occorre che il medesimo sia stato gia'  citato  a  giudizio
per rendere la sua dichiarazione. 
    Entrambi i rilievi  vengono  reputati  dalla  Sesta  Sezione  non
dirimenti. 
    Quanto al primo, si evidenzia che al consulente tecnico (al  pari
del perito) si estendono le disposizioni sull'esame dei testimoni,  a
norma dell'art. 501 cod. proc. pen.; anche se il  consulente  tecnico
non e' un testimone (nel senso propriamente  indicato  dall'art.  194
cod. proc. pen.), e, quindi, non  riferisce  su  «fatti»  ma  esprime
valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze (v.  art.
220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben puo' «affermare il  falso  o
negare il vero», secondo la previsione dell'art.  372  cod.  pen.,  o
«rendere dichiarazioni false», secondo quella dell'art. 371-bis  cod.
pen., ad esempio tacendo  o  alterando  determinati  esiti  obiettivi
degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni  sindacato  su
aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti. 
    Non si comprenderebbe del resto, ragionando ex adverso, il  senso
del richiamo fatto dal citato art. 501  alle  regole  sull'esame  del
testimone, tra cui vi e' quella diretta al  soggetto  esaminato,  per
nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente  tecnico,
di «rispondere secondo verita' alle domande  che  gli  sono  rivolte»
(art. 198 cod. proc. pen.). 
    Anche  l'individuazione  della  qualificazione   soggettiva   del
consulente  tecnico  puo'  contribuire  a  dimostrare  l'assunto:  il
consulente tecnico, chiamato a collaborare con una parte privata,  e'
tradizionalmente concepito come un soggetto che esprime un  ruolo  di
ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione  e
garanzie, al difensore; quello nominato dal Pubblico  Ministero,  sia
pure prestando un'attivita' di ausilio a una  «parte»  del  processo,
ripete dalla funzione pubblica dell'organo che  coadiuva  i  relativi
connotati. 
    Quest'ultimo  soggetto  acquista,  quindi,  natura  di   pubblico
ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in  cui
compie le sue attivita' incaricate dal Pubblico Ministero, secondo la
distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. 
    Su lui grava di conseguenza il dovere, connaturato a  ogni  parte
pubblica, di obiettivita' e  imparzialita',  nel  senso  che  la  sua
funzione e' tesa al raggiungimento di interessi pubblici,  quale,  in
primis, l'accertamento della verita', posto che il Pubblico Ministero
deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche  a  favore  della
persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il ruolo
e la funzione rivestiti gli impongono dunque il dovere di verita'. 
    Anche sotto questo profilo, quindi, e' del tutto razionale che  a
lui siano applicabili le conseguenze  penali  previste,  in  caso  di
false dichiarazioni, dall'art. 372 cod. pen. (o, in sede di indagini,
dall'art. 371-bis cod. pen.), ovviamente limitatamente a quella parte
di attivita' che non contiene  valutazioni  tecnico-scientifiche,  ma
riporta l'esposizione circa la natura e la consistenza di queste. 
    Del resto - aggiunge ancora l'ordinanza - l'applicabilita'  della
fattispecie di intralcio alla giustizia al  consulente  del  Pubblico
Ministero  trova  un  addentellato  letterale  nel   riferimento   al
«consulente tecnico» - inserito nel testo dell'art.  377  cod.  proc.
pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del d.-l. n.  306  del
1992 - che si presta a essere riferito anche alla figura in esame. 
    L'opinione contraria  espressa  in  dottrina  -  secondo  cui  il
riferimento al consulente tecnico inserito  dal  d.-l.  n.  306  cit.
riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile  -  si  scontra
sia con  un'obiezione  formale  (una  simile  specificazione  non  e'
indicata  dalla  norma)  sia   soprattutto   con   una   insuperabile
considerazione sistematica: l'estensione  al  consulente  tecnico  in
sede civile delle disposizioni penali  relative  ai  periti  discende
positivamente dalla espressa previsione dell'art.  64,  comma  primo,
cod. proc. civ., dovendosi essa  dunque  apprezzare,  ove  questo  ne
fosse il  senso,  chiaramente  superflua;  tanto  che  si  e'  sempre
ritenuto che il riferimento al «perito», contenuto nell'art. 373 cod.
pen., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice  civile,
proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ. 
    Quanto al secondo rilievo,  l'ordinanza  premette  che  non  puo'
negarsi che, nel caso in esame, il consulente del Pubblico  Ministero
non era ancora stato citato come testimone o come  persona  informata
sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice. 
    Evidenzia, altresi', come, per la  giurisprudenza  dominante,  la
qualita' di testimone, nel reato di cui all'art. 377 cod. pen., viene
considerata assunta nel momento dell'autorizzazione del giudice  alla
citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell'art. 468, comma
2, cod. proc. pen. 
    Quest'ultima  affermazione,  pero',  non  sembra   poter   valere
automaticamente nel caso in  cui  il  soggetto  su  cui  si  esercita
l'attivita' induttiva  o  violenta  sia  il  consulente  tecnico  del
Pubblico Ministero. 
    In questa evenienza, infatti, il soggetto  in  questione  riveste
gia' una precisa veste processuale - quella, appunto,  di  consulente
tecnico - potenzialmente destinata a rifluire  sull'assunzione  della
qualita' «testimoniale» ex artt.  371-bis  o  372  cod.  pen.  Questa
qualita', anche  se  non  ancora  formalmente  assunta,  puo'  dunque
ritenersi immanente, in  quanto  prevedibile  e  necessario  sviluppo
processuale della funzione assegnata al consulente tecnico. 
    In questa prospettiva, il reato potrebbe ritenersi  configurabile
nel caso di specie, essendo stata la condotta  contestata  esercitata
per influire sui risultati di una  consulenza  tecnica,  destinati  a
essere falsamente rappresentati al Pubblico Ministero  (art.  371-bis
cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.). 
    Stante il contrasto tra tale prospettiva e il principio affermato
dalla citata sentenza  n.  4062  del  1999,  la  Corte  ha  ritenuto,
pertanto, di  rimettere  il  ricorso  alle  Sezioni  Unite,  a  norma
dell'art. 618  cod.  proc.  pen.,  sul  quesito  interpretativo  gia'
esposto sopra, aggiungendo in conclusione che ove  si  ritenesse  non
configurabile nella fattispecie concreta il reato di cui all'art. 377
cod. pen., in relazione all'art. 371-bis o all'art. 372 cod.  pen.  -
sulla  base  dell'assunto  per  cui  a  tale  soggetto  non   possano
estendersi le dette  fattispecie  penali  -  verrebbe  ovviamente  in
questione l'applicabilita' nel caso in  esame  dell'art.  322,  comma
secondo, cod. pen., soluzione (privilegiata dal Procuratore  Generale
della Cassazione in sede di risoluzione di contrasto ex  artt.  54  e
segg. cod. proc. pen.) che pero'  implicherebbe  la  valutazione  dei
profili di incostituzionalita' gia' all'inizio delineati. 
    4. - Con decreto in data 25 marzo 2013  il  Primo  Presidente  ha
assegnato il ricorso alle  Sezioni  Unite  penali,  fissando  per  la
trattazione l'odierna udienza pubblica. 
    5. - In prossimita' della udienza la difesa di Edoardo  Rubino  e
Guido Andrea Guidi ha depositato una memoria ex art. 121  cod.  proc.
pen., con la quale si insiste per l'accoglimento del ricorso. 
    In primo luogo, nella memoria si sottolinea che l'art.  501  cod.
proc. pen. estende  ai  consulenti  tecnici  le  regole  per  l'esame
testimoniale  «in  quanto  applicabili»,  con  cio'  evidenziando  le
precise differenze che intercorrono tra la posizione  del  consulente
tecnico e quella del testimone. In altre parole, se  si  puo'  (e  si
deve) legittimamente pretendere che il  consulente  risponda  secondo
verita' sulla natura e  sulla  consistenza  dei  fatti  che  egli  ha
accertato e  che  sono  posti  a  fondamento  delle  sue  valutazioni
tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di  meri  fatti  la
sua posizione in nulla differisce da quella del testimone), la stessa
pretesa  non  puo',  invece,   esercitarsi   con   riferimento   alle
valutazioni  tecniche  vere  e  proprie  (in  quanto  il  consulente,
allorquando  formula  un  proprio  personale  giudizio,  esprime  una
opinione, che, come tale, e' incompatibile con  un  apprezzamento  in
termini di verita-falsita'). Ne deriva che il consulente, allorquando
riferisce i propri giudizi, non puo' mai  rendersi  responsabile  del
reato  di  falsa  testimonianza.  E  cio'  e'  quanto,  a  detta  dei
ricorrenti, e' avvenuto  nel  caso  di  specie  ove  l'oggetto  della
consulenza affidata dal Pubblico Ministero al Comandante Cimaglia era
di tipo squisitamente valutativo  (riferire  se  l'addestramento  del
copilota  Alex   Lai,   morto   insieme   al   Comandante   Cavalieri
nell'incidente aereo del giugno 2003, poteva considerarsi idoneo). 
    In secondo  luogo,  nella  memoria  si  contestano  alcuni  passi
dell'ordinanza di rimessione. In particolare si segnala che  la  dove
si sostiene che il consulente tecnico del Pubblico Ministero  riveste
gia' una  precisa  veste  processuale  «potenzialmente»  destinata  a
rifluire  sulla  assunzione  della  qualita'  testimoniale  ex  artt.
371-bis o 372 cod. proc. pen., in realta' non si fa che ammettere che
la qualita'  di  testimone  in  capo  al  consulente  tecnico  (nella
particolare fase del procedimento in cui si e' consumata la  condotta
contestata) non era attuale, e  si  denuncia  che,  contrariamente  a
quanto affermato dalla  Sesta  Sezione,  la  qualita'  di  consulente
tecnico di parte nel nostro sistema e' tutt'altro che immanente,  ben
potendo la persona fisica del consulente tecnico essere cambiata  nel
corso del giudizio un  numero  indeterminato  di  volte,  poiche'  (a
differenza del  testimone)  il  suo  contributo  si  traduce  in  una
valutazione tecnica che puo' essere replicata all'infinito  anche  da
soggetti diversi, purche' dotati della necessaria competenza,  e  ben
potendo la parte rinunciare al  consulente  tecnico  ovvero  divenire
inutile  la  assunzione  del  consulente  (ad  esempio  in  caso   di
archiviazione,  di  proscioglimento  in   udienza   preliminare,   di
applicazione «patteggiata» della pena). 
    Inoltre il richiamo della Sesta Sezione (anche) all'art.  371-bis
cod. pen. sarebbe del tutto fuori luogo, in quanto  i  reati  di  cui
agli artt. 371-bis e  372  cod.  pen.  sono  tra  loro  perfettamente
simmetrici e omogenei  nel  contenuto,  colpendo  le  falsita'  e  le
reticenze  di  coloro  che  sono  chiamati  a  riferire   su   fatti,
rispettivamente  nella  fase  delle   indagini   preliminari   e   in
dibattimento. 
    In definitiva, si ribadisce che i soggetti passivi del delitto di
intralcio  alla  giustizia  possono  essere  soltanto  i   potenziali
soggetti attivi dei reati-fine richiamati dalla norma  incriminatrice
(371-bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.) e che, essendo  pacifico  che
il consulente tecnico del Pubblico Ministero non puo' commettere  ne'
il reato di falsa perizia, non essendo perito, ne' quelli di cui agli
artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen., trattandosi  di  soggetto  il
cui contributo processuale e' quello di fornire opinioni  a  supporto
di una tesi di parte (anche quando si tratta di parte  pubblica),  la
fattispecie in esame non e'  inquadrabile  nelle  previsioni  di  cui
all'art. 377 cod. pen. 
    Ribadita la impossibilita' di ricondurre  il  caso  in  questione
alla fattispecie di cui all'art. 322 cod. pen. per i  motivi  esposti
in ricorso, i  ricorrenti,  sul  presupposto  che  anche  l'attivita'
svolta dal consulente del Pubblico Ministero puo' essere  definita  a
tutti gli effetti come attivita' di parte, ritengono che il reato che
Cimaglia, ove avesse  accolto  la  promessa,  avrebbe  commesso  deve
individuarsi in quello di consulenza infedele, previsto dall'art. 380
cod. pen. e che la condotta degli imputati, essendosi  concretata  in
una istigazione non accolta ex art. 115 cod. pen., non e'  penalmente
rilevante. 
    La clausola di riserva contenuta nell'art. 115 cod. pen.  («salvo
che la legge disponga altrimenti») si riferisce, infatti,  ad  avviso
dei ricorrenti, alle sole ipotesi in cui la  legge  ha  espressamente
elevato l'accordo o l'istigazione ad autonome figure di  reato  (come
ad es. in materia di corruzione). 
    Qualora   quest'ultima   ricostruzione   non    fosse    ritenuta
condivisibile,  l'unico  sbocco  processuale  possibile,  secondo   i
ricorrenti, sarebbe rappresentato dalla sottoposizione dell'art.  322
cod. pen. (fattispecie ritenuta dalla Corte  di  appello)  al  vaglio
della Corte costituzionale in relazione ai profili di  illegittimita'
costituzionale gia' illustrati nel ricorso e nella  stessa  ordinanza
di rimessione della Sesta Sezione penale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. - Premesso che l'oggetto  del  processo  e'  costituito  dalla
condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico
del Pubblico Ministero una somma di denaro (da  quello  simulatamente
accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa,  le
Sezioni Unite sono chiamate a dare  una  qualificazione  giuridica  a
detto fatto e, in particolare, a dare risposta  alla  questione:  «se
sia configurabile  il  reato  di  intralcio  alla  giustizia  di  cui
all'art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro  o
di altra utilita' al consulente tecnico  del  Pubblico  Ministero  al
fine di influire sul contenuto della consulenza qualora il consulente
tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul  contenuto
della consulenza». 
    Come si e' visto, il fatto di cui sopra nell'ambito del  medesimo
procedimento e' stato variamente qualificato. 
    Dapprima il Pubblico Ministero procedente e  il  Giudice  per  le
indagini preliminari di Milano che ha disposto  la  misura  cautelare
hanno  inquadrato  il  fatto  nel  delitto  di  corruzione  in   atti
giudiziari, di cui all'art. 319-ter cod. pen. 
    Poi  il  Tribunale  del  riesame   ha   ritenuto   erronea   tale
qualificazione del fatto, sostenendo che, non essendosi  conclusa  la
trattativa, il reato prospettabile era  quello  di  istigazione  alla
corruzione, di cui all'art. 322 cod. pen. 
    Successivamente, su ricorso  del  Pubblico  Ministero,  la  Sesta
Sezione penale ha  ritenuto  di  poter  sussumere  il  fatto  storico
nell'ipotesi  delittuosa  di  tentativo   di   corruzione   in   atti
giudiziari. 
    In sede di risoluzione della sollevata questione sulla competenza
territoriale, il Procuratore Generale presso  la  Suprema  Corte,  ex
art.  54-quater  cod.  proc.  pen.,  ha  poi   risolto   l'incidente,
attribuendo la competenza alla Procura della Repubblica di Roma,  sul
presupposto che, qualificato come istigazione alla corruzione ex art.
322 cod. pen., il reato si era consumato in Roma. 
    A questo punto il Pubblico Ministero  di  Roma,  all'esito  delle
indagini,  non  ha  pero'  ritenuto  di  contestare  la   fattispecie
delittuosa individuata dal Procuratore Generale presso  la  Corte  di
cassazione e ha esercitato l'azione penale nei confronti dei  quattro
imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 cod.
pen., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006. 
    In  sede  di  giudizio  abbreviato,   il   Giudice   dell'udienza
preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza del 26 novembre 2008,
concordando sulla  qualificazione  giuridica  proposta  dal  Pubblico
Ministero, ha condannato gli imputati alla pena di anni  uno  e  mesi
otto di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale. 
    Infine la Corte di  appello  di  Roma,  il  2  maggio  2012,  con
sentenza pronunciata a seguito di gravame degli imputati, in  riforma
della sentenza di primo grado - riqualificata la condotta  contestata
ai sensi degli artt. 110 e 322 cod. pen. - ha  determinato  la  pena,
tenuto conto della diminuente del rito, in  anni  uno  di  reclusione
ciascuno e ha revocato la pena accessoria. 
    La difesa degli imputati, di contro, nel  ricorso  in  cassazione
presentato non ritiene ravvisabile nella fattispecie in esame ne'  il
reato di cui all'art. 377 cod. pen. ne' quello di cui  all'art.  322,
comma secondo, cod. pen., sostenendo  che  ricorrerebbe,  invece,  la
fattispecie di istigazione a commettere falsa consulenza (artt.  115,
380 cod. pen.), che, non essendo stata accolta, sarebbe comunque  non
punibile ex art. 115 cod. pen. 
    Da ultimo la Sesta Sezione  penale  della  Corte  di  cassazione,
nell'ordinanza del 14 marzo 2013 con la quale ha rimesso la questione
alle Sezioni Unite, rivalutando le conclusioni del primo Giudice,  ha
chiaramente inquadrato il fatto in esame nel reato di intralcio  alla
giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. 
    2. - Cio' posto, si impongono alcune precisazioni preliminari. 
    Occorre in primo luogo puntualizzare che non possono condividersi
le conclusioni alle quali  e'  pervenuta  la  Sesta  Sezione  penale,
nell'ambito della stessa vicenda in esame,  in  sede  di  valutazione
cautelare della posizione del coimputato Sghinolfi (sentenza n. 12409
del 6 febbraio 2007, Rv. 236930), allorche' ha ritenuto configurabile
nella fattispecie in questione l'ipotesi  di  cui  agli  artt.  56  e
319-ter cod. pen. In mancanza di un accordo correttivo,  la  condotta
dell'istigatore, diretta a un soggetto che non l'accoglie,  non  puo'
che essere ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 322 cod.  pen.
(la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui
agli artt. 318 e 319 cod. pen., si attaglia anche  a  quella  di  cui
all'art. 319-ter cod. pen., posto che quest'ultimo articolo  richiama
«i fatti indicati negli articoli 318 e 319») ovvero,  trattandosi  di
condotta  rivolta  a  soggetti  destinati  ad  assumere   una   veste
processuale, all'art. 377 o all'art. 377-bis cod. pen. 
    In secondo luogo il  fatto  in  esame  non  puo'  essere  neppure
inquadrato, come sostenuto dai ricorrenti, nelle  previsioni  di  cui
agli artt. 115 e 380 cod. pen. (istigazione non accolta a  commettere
una falsa consulenza, condotta irrilevante  sul  piano  penale).  Nel
caso di specie si tratta, infatti, di attivita' svolta dal consulente
tecnico  del  Pubblico  Ministero,  che,  come  si   vedra',   assume
caratteristiche particolari e non si presta ad essere  definita  come
attivita' di parte, trattandosi di pubblico ufficiale che, una  volta
nominato, assume un ufficio che non puo' rifiutare  ed  esercita  una
funzione pubblica, collaborando non a tutelare gli interessi  di  una
parte   processuale   ma   ad   accertare   la    verita'.    Inoltre
l'inapplicabilita' dell'art. 115 cod. pen. discende dalla clausola di
riserva con cui si apre proprio questa disposizione  («salvo  che  la
legge  disponga  altrimenti»):  l'istigazione,  mediante  offerta   o
promessa di denaro  o  di  utilita'  ad  un  pubblico  ufficiale  e',
infatti, punibile ai sensi dell'art. 322 cod. pen.  e  dell'art.  377
cod. pen. 
    3. - Sgomberato il campo dalle predette  opzioni  interpretative,
la  questione  ermeneutica  sottoposta  all'esame  della   Corte   si
concentra sull'applicabilita' di una delle due fattispecie delittuose
gia' sperimentate nel corso  del  procedimento  di  merito,  e  cioe'
l'istigazione alla corruzione o l'intralcio alla giustizia. 
    A fronte di un orientamento  giurisprudenziale,  espresso  da  un
unico  precedente,  per  altro  non  recente,  della  Sesta   Sezione
(sentenza n. 4062 del 7 gennaio 1999, Pizzicaroli, Rv.  214146),  che
aveva configurato il reato di istigazione alla corruzione nel caso di
offerta o promessa di denaro o altra utilita' fatta al consulente del
Pubblico Ministero (nominato in fase di indagine e non ancora  citato
per il successivo eventuale dibattimento) affinche' ammorbidisse  gli
esiti della sua relazione, l'ordinanza della medesima Sesta  Sezione,
con la quale e'  stata  rimessa  la  questione  alle  Sezioni  Unite,
evidenzia come possibile una qualificazione alternativa del fatto  in
termini di intralcio alla giustizia ex art. 377 cod. pen. 
    Per la verita'  anche  quell'unico  precedente  relativo  ad  una
condotta di subornazione di un consulente del Pubblico Ministero  (la
sopra menzionata sentenza n. 4062, Pizzicaroli) era pervenuto  ad  un
approdo analogo a quello della ordinanza di  rimessione.  Infatti  in
quella sentenza si e' affermato che tra il reato di istigazione  alla
corruzione propria di cui all'art. 322, comma secondo,  cod.  pen.  e
quello di subornazione, previsto dall'art. 377 cod. pen.,  nel  testo
risultante dall'art. 11, comma sesto, d.-l. 8 giugno  1992,  n.  306,
convertito dalla legge 7 agosto 1992,  n.  356,  qualora  l'attivita'
illecita dell'agente si rivolga nei confronti del consulente  tecnico
del Pubblico Ministero, intercorre  un  rapporto  di  specialita'  ai
sensi dell'art. 15 cod.  pen.,  in  virtu'  del  quale  deve  trovare
applicazione solo l'art. 377 cod. pen., in relazione sia  al  profilo
soggettivo, per la specificita' della persona coinvolta  (sempre  che
abbia gia' assunto la veste di testimone per effetto di  citazione  a
comparire) sia al profilo oggettivo, per  la  specificita'  dell'atto
contrario  ai  doveri  di  ufficio,  mirante,   in   sostanza,   alla
manipolazione dell'accertamento tecnico. Ne deriva che in realta'  in
detta sentenza Pizzicaroli non viene nel caso di  specie  considerata
applicabile la fattispecie di cui all'art. 377 cod. pen. solo per due
concomitanti ragioni, e cioe' perche'  il  fatto  storico  era  stato
commesso prima della modifica del testo dell'art. 377  da  parte  del
d.-l. n. 306 del 1992 (e, quindi,  quando  ancora  nell'articolo  del
codice non era indicato tra i possibili destinatari  delle  attivita'
subornatrici il consulente tecnico) e perche' il  consulente  tecnico
non aveva ancora la veste di testimone per effetto della chiamata  in
dibattimento. In definitiva, in base al  dictum  della  sentenza,  il
discrimine tra i due delitti va individuato proprio nell'essere stato
o meno il consulente tecnico citato per essere sentito sul  contenuto
della consulenza: si applica l'art. 322 cod.  pen.  per  le  proposte
corruttive avanzate al consulente tecnico del Pubblico Ministero fino
a quando egli non sia citato in dibattimento per essere sentito; dopo
la citazione, ogni azione allettatrice diventa invece sanzionabile ex
art. 377 cod. pen. La citata sentenza non da, pero',  risposta,  alla
domanda  relativa  a   quale   sarebbe,   nella   prospettiva   della
applicabilita' del delitto di cui all'art. 377 cod. pen., il reato al
quale  avrebbe  teso  l'azione  subornatrice  posta  in  essere   nei
confronti del consulente,  limitandosi  in  un  primo  passo  a  fare
esplicita, ma laconica, menzione al reato di cui  all'art.  373  cod.
pen.  (falsa  perizia)  e  in  un  altro  passaggio  a  ricordare  la
possibilita' di sentire il consulente tecnico in veste di  testimone,
con cio' implicitamente riferendosi al delitto di  cui  all'art.  372
cod. pen. 
    E' da queste premesse che, come si e'  visto,  muove  la  Sezione
rimettente, nel tentativo - una volta rilevati possibili  profili  di
incostituzionalita' (per  disparita'  di  trattamento  di  situazioni
analoghe  e  per   irragionevolezza)   ed   evidenti   irrazionalita'
sistematiche nel  considerare  inquadrabile  il  caso  in  esame  nel
delitto di istigazione alla corruzione, come ritenuto dalla  sentenza
della Corte di appello di Roma,  oggetto  del  presente  ricorso,  ed
affermato nel precedente  di  questa  cassazione  piu'  volte  citato
(sent. n. 4609 dei 1999, Pizzicaroli) - di  rivalutare  positivamente
le conclusioni cui era pervenuto il Giudice di  primo  grado,  quando
aveva  condannato  gli  imputati  per  il  reato  di  intralcio  alla
giustizia. 
    Si tratta di un cammino non privo di ostacoli  e  di  difficolta'
ermeneutiche, che l'ordinanza di rimessione ha  tentato  via  via  di
superare. 
    Cosi' il reato-fine cui dovrebbe tendere l'attivita' subornatrice
viene individuato non nella falsa perizia ma  nel  delitto  di  false
informazioni  al  Pubblico   Ministero   o   in   quello   di   falsa
testimonianza, con  cio'  rendendo  vane  le  obiezioni  mosse  dalla
dottrina   e   riproposte   dai   ricorrenti   per    sostenere    la
inapplicabilita' dell'art. 377 cod. pen. nel caso di subornazione del
consulente tecnico del Pubblico Ministero per il mancato rispetto del
principio  di  tassativita'  del  precetto  penale  (non  essendo  il
riferimento alla «perizia» estensibile alla «consulenza tecnica»). 
    Cosi' si ricorda che al consulente tecnico (al pari  del  perito)
si estendono  le  disposizioni  sull'esame  dei  testimoni,  a  norma
dell'art. 501 cod. proc. pen. e  si  puntualizza  che,  anche  se  il
consulente tecnico  non  e'  un  testimone  (nel  senso  propriamente
indicato dall'art. 194 cod. proc. pen.), e, quindi, non riferisce  su
«fatti» ma esprime valutazioni su materie che  richiedono  specifiche
competenze (v. art. 220 cod. proc. pen.),  nondimeno  egli  ben  puo'
«affermare  il  falso  o  negare  il  vero»,  secondo  la  previsione
dell'art. 372 cod. pen., o  «rendere  dichiarazioni  false»,  secondo
quella dell'art. 371-bis cod. pen., ad esempio  tacendo  o  alterando
determinati esiti obiettivi degli  accertamenti  espletati,  escluso,
beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi  a
detti accertamenti. 
    E si sottolinea che, mentre  il  consulente  tecnico  chiamato  a
collaborare con una parte privata e' tradizionalmente concepito  come
un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a
funzione e garanzie,  al  difensore,  quello  nominato  dal  Pubblico
Ministero, sia pure prestando un'attivita' di ausilio a  una  «parte»
del processo, ripete dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva
i relativi connotati, tanto e' vero che acquista natura  di  pubblico
ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in  cui
compie le  attivita'  affidategli  dal  Pubblico  Ministero,  con  la
conseguenza che su di lui grava il dovere, connaturato a  ogni  parte
pubblica, di obiettivita' e  imparzialita',  nel  senso  che  la  sua
funzione  e'  tesa  all'accertamento  della  verita',  posto  che  il
Pubblico Ministero deve svolgere  indagini  su  fatti  e  circostanze
anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358  cod.
proc. pen.). 
    Infine la sezione rimettente mostra di essere ben consapevole che
un limite alla possibilita' di sussumere la fattispecie  concreta  in
quella astratta di cui all'art. 377 cod. pen., e'  rappresentato  dal
fatto che il consulente tecnico del  Pubblico  Ministero  non  aveva,
(anche) nel caso di specie, ancora assunto la veste di testimone  per
non essere stato indicato nella lista testi ed ammesso, ex  art.  468
comma 2, cod. proc. pen., ne' era stato citato dal Pubblico Ministero
per rendere sommarie informazioni. Per questa ragione mette  in  luce
le  peculiarita'  del  consulente  tecnico  del  Pubblico  Ministero,
rispetto ai testimoni, trattandosi di soggetto che, indipendentemente
dalla sua citazione, riveste  gia'  una  precisa  veste  processuale,
potenzialmente destinata a rifluire  sull'assunzione  della  qualita'
«testimoniale» ex artt. 371-bis o  372  cod.  pen.  Questa  qualita',
anche se  non  ancora  formalmente  assunta,  puo'  dunque  ritenersi
immanente, in quanto prevedibile e  necessario  sviluppo  processuale
della  funzione  assegnata  al  consulente   tecnico   del   Pubblico
Ministero. 
    Ne discende la configurabilita' del reato  di  cui  all'art.  377
cod. pen. nel caso in esame, essendo  stata  la  condotta  contestata
esercitata per influire sui  risultati  di  una  consulenza  tecnica,
destinati a essere falsamente  rappresentati  al  Pubblico  Ministero
(art. 371-bis cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372  cod.
pen.). 
    4. - In  realta'  il  percorso  argomentativo  dell'ordinanza  di
rimessione, pur in gran parte condivisibile, non  appare  interamente
percorribile nel caso di specie. 
    Procedendo per gradi,  deve  preliminarmente  ricordarsi  che  il
delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa  rubrica,  nel
nostro ordinamento giuridico dal marzo del 2006. 
    Tale reato, infatti, e' stato introdotto  dalla  legge  16  marzo
2006, n. 46, di ratifica ed  esecuzione  della  Convenzione  dell'ONU
contro il crimine organizzato  transnazionale  (c.d.  Convenzione  di
Palermo o Toc Convention),  che,  all'art.  23,  invitava  gli  Stati
aderenti a  punire,  con  sanzione  penale,  la  cd.  obstruction  of
justice, e cioe' le condotte di  violenza,  minaccia,  intimidazione,
promessa, offerta di vantaggi considerevoli per  indurre  alla  falsa
testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove  anche
testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati  oggetto  della
Convenzione,  ovvero  consistenti  nell'uso  di  violenza,  minaccia,
intimidazione per interferire con l'esercizio di doveri d'ufficio  da
parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in
relazione agli stessi reati. 
    Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto  che
nel sistema italiano esisteva gia' una norma - l'art. 377 cod. pen. -
che puniva l'offerta o la promessa  di  vantaggi  nei  confronti  del
testimone e che era rubricata  come  «subornazione»,  con  l'art,  14
della citata legge n. 146 e' intervenuto sulla disposizione  vigente,
rinominando il gia' esistente delitto, appellandolo  con  il  termine
richiestoci  dalla  disposizione   internazionale   (e   cioe'   come
«intralcio alla  giustizia»)  e  aggiungendo  al  testo  vigente  due
ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire  le  condotte
di violenza e minaccia. 
    I primi due commi della nuova disposizione, quindi, continuano  a
punire le medesime condotte del delitto di  subornazione  secondo  il
testo che, rispetto alla stesura  originaria  del  codice,  era  gia'
stato due volte interpolato; una prima volta con l'art. 11, comma  6,
d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche dalla  legge  7
agosto 1992, n. 356; una seconda con l'art. 22 legge 7 dicembre 2000,
n. 397. 
    In particolare nel 1992  era  stato  completamente  riscritto  il
comma primo dell'art. 377 cod. pen.; il testo licenziato  dal  codice
del 1930 stabiliva «chiunque offre o promette denaro o altra utilita'
a un testimone,  perito  o  interprete,  per  indurlo  ad  una  falsa
testimonianza perizia o interpretazione, soggiace, qualora  l'offerta
o la promessa non sia accettata alle pene stabilite negli art. 372  e
373 ridotte dalla meta' a  due  terzi»;  quello  modificato,  invece,
affermava «chiunque offre o promette denaro  o  altra  utilita'  alla
persona  chiamata  a  rendere  dichiarazioni  davanti   all'autorita'
giudiziaria ovvero a svolgere attivita' di perito, consulente tecnico
o interprete,  per  indurla  a  commettere  i  reati  previsti  dagli
articoli 371-bis,  372  e  373,  soggiace,  qualora  l'offerta  e  la
promessa non  sia  accettata,  alle  pene  stabilite  negli  articoli
medesimi, ridotte dalla meta' ai due terzi». 
    L'innovazione, introdotta in  un  d.-l.  destinato  al  contrasto
della  criminalita'  mafiosa,  aveva  l'obiettivo  di   adeguare   la
precedente norma della subornazione all'introduzione,  ad  opera  del
medesimo provvedimento d'urgenza, di una nuova fattispecie  di  parte
speciale,  quale  il  delitto  di  false  informazioni  al   Pubblico
Ministero, di cui all'art. 371-bis cod. pen. Vi era cioe'  l'esigenza
di inglobare nella fattispecie delittuosa  il  riferimento  al  nuovo
delitto da ultimo indicato e cio' avvenne sostituendo la  indicazione
della figura del testimone - soggetto che, con  il  nuovo  codice  di
rito, assumeva questo ruolo solo  in  dibattimento  o  nell'incidente
probatorio - con la piu'  elastica  dizione  di  persona  chiamata  a
rendere   dichiarazioni   davanti   all'autorita'   giudiziaria.   Si
aggiungeva, inoltre, senza che i lavori preparatori ne spiegassero la
ragione, nel novero dei possibili  soggetti  passivi  la  figura  del
consulente tecnico. 
    Con la successiva legge n. 397 del 2000,  recante  la  disciplina
delle c.d. indagini difensive, ci si e' limitati, invece, ad una mera
interpolazione  raccordata  alla  introduzione  nel   codice   penale
dell'art. 371-ter cod. pen.,  relativo  alle  false  informazioni  al
difensore. 
    Per completezza, e' opportuno  ricordare  che  con  la  legge  20
dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma,  istitutivo
della Corte penale internazionale permanente competente  a  conoscere
del  crimine  di  genocidio,  c.d.  dell'Aja)  si  e'   ulteriormente
interpolato l'art. 377: con l'art. 10, comma 8, della novella  si  e'
estesa la portata della fattispecie penale in commento all'ipotesi in
cui l'offerta o la promessa di denaro o altra utilita' sia rivolta  a
persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell'Aja. 
    Nessuna modifica e'  stata,  invece,  apportata  dal  legislatore
all'art. 373 cod. pen.,  che,  sotto  la  rubrica  «Falsa  perizia  o
interpretazione», punisce unicamente il perito  o  l'interprete  che,
nominato dall'autorita'  giudiziaria,  da  parere  o  interpretazioni
mendaci, o afferma fatti non conformi al vero. 
    5.  -  Cosi'  ricostruito  il  quadro  normativo,  non  puo'  non
evidenziarsi che, ai sensi del testo attuale dell'art. 377 cod. pen.,
destinatari dell'offerta o della promessa corruttiva sono,  in  primo
luogo,  le  persone  chiamate   a   rendere   dichiarazioni   davanti
all'autorita' giudiziaria o alla Corte  penale  internazionale  e  le
persone richieste di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso
dell'attivita' investigativa e, in secondo luogo, le persone chiamate
a svolgere attivita' di perito, consulente tecnico o interprete. 
    Se nessuna  perplessita'  puo'  esservi  sull'individuazione  del
perito (si tratta di chi abbia una specifica competenza e, come tale,
venga nominato dal giudice  penale)  e  dell'interprete  (colui  che,
conoscitore  di  lingua   straniera   o   di   un   dialetto,   rende
comprensibili,  volgendoli  in  italiano,  una  dichiarazione  o  uno
scritto, e che, come  tale,  viene  nominato  dal  giudice  penale  o
civile), qualche dubbio e' sorto  con  riferimento  alla  figura  del
consulente tecnico. 
    Di essa, come si e' visto, non vi era alcuna menzione  nel  testo
originario della norma, licenziato nel  1930  ed  il  riferimento  e'
stato  introdotto  dal  d.-l.  n.  306   del   1992,   senza   alcuna
specificazione in ordine alla figura che  si  intendeva  individuare,
pur in presenza delle molte ipotesi di  consulente  tecnico  previste
nel nostro sistema processuale. Vi e', infatti, il consulente tecnico
nominato nel processo civile dal giudice (art. 61 cod.  proc.  civ.),
al quale si estendono le disposizioni del codice penale  relative  ai
periti (art. 64, comma primo, cod. proc. civ.). Nel medesimo processo
civile vi e' poi il  consulente  che  le  parti  processuali  possono
nominare per partecipare all'attivita'  di  consulenza  disposta  dal
giudice (art. 201 cod. proc. civ.). Nel processo penale vi sono varie
ipotesi di consulenza: i  consulenti  tecnici  nominati  dalle  parti
processuali (Pubblico Ministero e parti private)  quando  il  giudice
dispone la perizia (art. 225 cod. proc. pen.);  quelli  nominati,  in
funzione dibattimentale, dalle parti anche fuori dai casi di  perizia
(art. 233 cod. proc. pen.);  quelli  nominati  in  sede  di  indagini
preliminari dal Pubblico Ministero (art. 359 e 360 cod. proc. pen.) o
dal difensore delle parti private nell'ambito dello svolgimento delle
attivita' difensive (art. 327-bis, comma 3, cod. proc. pen). 
    La dottrina, in modo assolutamente maggioritario, ritiene che  il
riferimento  contenuto  nell'art.  377  cod.  pen.  vada  letto  come
riguardante il  solo  consulente  tecnico  di  ufficio  nominato  dal
giudice civile, e cio' malgrado sia assolutamente  fuori  discussione
che, gia' prima dell'intervento del d.-l. n.  306  del  1992,  questa
figura  poteva  essere  destinataria  di  un'attivita'   subornatrice
punibile, in quanto l'art. 64 cod. proc. civ.  lo  parifica  ai  fini
della responsabilita' penale al perito nominato  dal  giudice  penale
(v. Sez. 6, n. 14101 del 5 febbraio 2007, Avancini, Rv.  236214).  La
disposizione del d.-l. non avrebbe, in questa prospettiva,  innovato,
ma semplicemente  confermato  l'interpretazione  gia'  in  precedenza
proposta,  con  l'obiettivo   di   fugare   ogni   possibile   dubbio
ermeneutico.  Non  sarebbero,  invece,  possibili  soggetti   passivi
dell'attivita' illecita punita dall'art. 377 cod. pen.  i  consulenti
di parte e quelli nominati dal Pubblico Ministero, in quanto nei loro
confronti non sarebbe ipotizzabile il delitto  di  cui  all'art.  373
cod. pen. 
    Queste  conclusioni,  adombrate  pure  dai  ricorrenti,   trovano
conforto anche nella giurisprudenza di questa Corte, che ha affermato
che  il  reato  di  falsa  perizia  (art.  373  cod.  pen.)  non   e'
configurabile con riferimento all'attivita'  dei  consulenti  di  cui
possono  avvalersi  sia  il  difensore  sia  il  Pubblico  Ministero,
desumendosi questa conclusione non  solo  dal  principio  di  stretta
legalita' sancito dall'art. 2 cod.  pen.,  che  inibisce  il  ricorso
all'interpretazione analogica, ma, indirettamente,  anche  dal  fatto
che in occasione delle modificazioni apportate dall'art. 11, comma 6,
d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n.
356, in tema di subornazione, era stato incluso tra le persone  verso
le quali si dirige l'opera  del  subornatore  proprio  il  consulente
tecnico: il che contribuiva a far ritenere che  l'omessa  indicazione
del consulente tecnico nella norma  dell'art.  373  cod.  pen.  fosse
intenzionale (Sez. 6,  n.  1096  del  26  marzo  1999,  Poletti,  Rv.
213681). 
    A parere  del  Collegio,  effettivamente  nella  fattispecie  qui
considerata la norma richiamata dall'art. 377 cod. pen. in termini di
direzione  della  condotta  di  intralcio  non   puo'   essere,   con
riferimento al consulente tecnico nominato in sede penale, l'art. 373
dello stesso codice, che evoca,  per  quel  che  qui  interessa,  una
«falsa perizia», in quanto il consulente tecnico  (anche  quello  del
Pubblico Ministero e pur con le precisazioni di cui si dira') non  e'
un perito e non produce dunque una perizia. Certo  e'  ben  possibile
pensare  che  vi  sia  stato  un   difetto   di   coordinamento   tra
l'inserimento nell'art. 377 cod. pen. ad opera del d.-l. n.  306  del
1992 del riferimento al consulente tecnico e la mancata previsione di
tale figura soggettiva nell'art. 373 cod. pen., ma  il  rispetto  del
principio di  tassativita'  del  precetto  penale  rende  impossibile
considerare il  riferimento  alla  «perizia»  come  estensibile  alla
«consulenza  tecnica».  A  riprova  della   correttezza   di   questa
conclusione va ricordato che il Progetto di riforma del codice penale
elaborato  dalla  Commissione  ministeriale  presieduta   dal   prof.
Pagliaro nella parte relativa  ai  delitti  contro  l'amministrazione
della giustizia ha previsto espressamente il reato di «falsa perizia,
interpretazione o consulenza», includendo tra i  soggetti  attivi  di
tale  reato  anche  il  consulente  tecnico  nominato  dal   Pubblico
Ministero nel corso delle indagini preliminari (v. il relativo Schema
di delega legislativa per l'emanazione di un nuovo codice penale). 
    6. - A questo punto resta  da  affrontare  il  quesito  se,  come
ritenuto nel caso  in  esame  dal  Giudice  di  primo  grado  e  come
riaffermato nell'ordinanza di rimessione, il reato di intralcio  alla
giustizia  sia  configurabile,  con  riferimento  alla   figura   del
consulente tecnico, in relazione all'art. 372  (o  all'art.  371-bis)
cod. pen. 
    In  questa  prospettiva,  il  consulente  tecnico  del   Pubblico
Ministero, che non puo' commettere il reato di falsa  perizia,  puo',
invece,  essere  chiamato  a  rispondere   del   delitto   di   falsa
testimonianza o di quello di false informazioni al Pubblico Ministero
e, quindi, puo' ben essere destinatario di una condotta di  intralcio
alla giustizia. 
    In effetti, ad avviso del Collegio e con le precisazioni  che  si
diranno, non sussistono reali ostacoli nel ritenere che il consulente
tecnico del Pubblico Ministero possa commettere falsa testimonianza o
false  informazioni  al  Pubblico  Ministero.  La  parificazione  del
consulente tecnico del Pubblico  Ministero  ad  un  testimone,  nella
prospettiva dibattimentale,  trova  un  solido  appiglio  ermeneutico
nell'art. 501 cod. proc. pen., norma che,  estendendo  al  consulente
tecnico  (al  pari  del  perito)  le  disposizioni   sull'esame   dei
testimoni, ha gia' condotto la  giurisprudenza  di  legittimita',  in
piu' occasioni, ad affermare che ai consulenti  tecnici  deve  essere
riconosciuta «sostanziale qualita' di testimone» (in questo senso  v.
da ultimo Sez. 3, n. 8377  del  17  gennaio  2008,  Scarlassare,  Rv.
239281). 
    Puo', dunque, ben affermarsi che, anche se il consulente  tecnico
non e' un testimone (nel senso propriamente  indicato  dall'art.  194
cod. proc. pen.), e, quindi, non  riferisce  su  «fatti»  ma  esprime
valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze (v.  art.
220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben puo' «affermare il  falso  o
negare il vero», secondo la previsione dell'art.  372  cod.  pen.,  o
«rendere dichiarazioni false», secondo quella dell'art. 371-bis  cod.
pen., ad esempio tacendo  o  alterando  determinati  esiti  obiettivi
degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni  sindacato  su
aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti. 
    Non si comprenderebbe del resto, ragionando ex adverso, il  senso
del richiamo fatto dal citato art. 501  alle  regole  sull'esame  del
testimone, tra cui vi e' quella diretta al  soggetto  esaminato,  per
nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente  tecnico,
di «rispondere secondo verita' alle domande  che  gli  sono  rivolte»
(art. 198 cod. proc. pen.). 
    D'altra parte e' pur vero che il consulente  tecnico  chiamato  a
collaborare con una parte privata, e' tradizionalmente concepito come
un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a
funzione e garanzie, al difensore. Anche il Giudice delle  leggi  non
ha mancato di ricordare (sentenza n. 33 del  1999)  come  la  stretta
correlazione tra le funzioni del consulente tecnico e il  diritto  di
difesa  dell'imputato  sia  stata   ripetutamente   affermata   dalla
giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 345 del 1987 e n. 199  del
1974) nel contesto dell'abrogato codice del 1930, che  dava  ingresso
al consulente tecnico della  parte  solo  in  occasione  di  incarico
peritale disposto dal giudice e negava autonomo rilievo  alla  figura
del  consulente  extraperitale,  considerato  semplice  ausilio   del
difensore, incapace di compiere valutazioni  tecniche  dotate  di  un
intrinseco  valore  probatorio,  sicche'  le   sue   indicazioni   si
riducevano a mere sollecitazioni defensionali e non avevano la  forza
di penetrare  nel  processo  se  non  attraverso  la  mediazione  del
giudice, a sua volta ritenuto peritus peritorum. E ha  poi  rimarcato
come  nell'attuale  sistema  quella  correlazione  si   e'   vieppiu'
inverata. Il codice vigente, infatti, prevede la possibilita' per  le
parti del processo penale di nominare consulenti  tecnici  anche  nel
caso in cui non sia stata disposta alcuna perizia (art.  233).  E  si
tratta  di  previsione  che,  essendo  consentito  al  giudice,  come
riconosce la giurisprudenza di legittimita', trarre elementi di prova
dall'esame dei consulenti tecnici, la cui posizione viene  assimilata
a quella dei  testimoni,  vale  a  qualificare  in  modo  ancor  piu'
evidente la loro attivita' come aspetto essenziale dell'esercizio del
diritto di difesa in relazione alle ipotesi in cui la decisione sulla
responsabilita'  penale  dell'imputato  comporti  lo  svolgimento  di
indagini o  l'acquisizione  di  dati  o  valutazioni  che  richiedono
specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, secondo la
formulazione dell'art. 220 cod. proc.  pen.  Del  resto  il  compiuto
processo  di  assimilazione  della  figura  del  consulente   tecnico
extraperitale a quella del difensore si delinea in maniera ancor piu'
nitida alla luce di ulteriori elementi normativi, anche se  in  parte
preesistenti: oltre agli artt. 380  e  381  del  codice  penale,  che
puniscono, insieme al patrocinio, la consulenza infedele, l'art.  103
del  codice  di  procedura,  che,  sotto  la  significativa   rubrica
«Garanzie di liberta' del difensore», vieta, al comma 2, il sequestro
presso il consulente di carte o documenti relativi all'oggetto  della
difesa e, al comma 5, l'intercettazione relativa a conversazioni  dei
consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i  medesimi  e  le
persone da loro assistite, nonche' l'art. 200, comma 1,  lettera  b),
del medesimo codice di rito, che assicura anche ai consulenti tecnici
la tutela  del  segreto  professionale.  Un  unitario  e  sistematico
insieme di disposizioni conduce insomma a riconoscere che la facolta'
di avvalersi di un consulente tecnico si  inserisce  a  pieno  titolo
nell'area di operativita' della garanzia  posta  dall'art.  24  della
Costituzione e che le prestazioni del consulente della parte  privata
ineriscono  all'esercizio  del  diritto  di  difesa,  tanto  che   la
Consulta, con la citata sentenza n. 33 del 1999, ha  riconosciuto  ai
non abbienti la facolta' di farsi assistere a spese dello Stato da un
consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario. 
    Ma e' altrettanto vero che, nel nostro  sistema  processuale,  il
consulente  tecnico  nominato  dal  Pubblico  Ministero,   sia   pure
prestando un'attivita' di ausilio a  una  «parte»  del  processo,  si
staglia dalla figura generale  e  presenta  specifiche  peculiarita',
ripetendo dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva i relativi
connotati. Egli acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale  o  di
incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie  le  sue
attivita' incaricate dal Pubblico Ministero, secondo  la  distinzione
funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. (Sez. 6, n. 2675 del
5 dicembre 1995, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. 6, n. 4062 del 7  gennaio
1999,  Pizzicaroli,  Rv.  214142,  Pizzicaroli;  e,  argomentando   a
contrario, Sez. 6, n. 5901 del 22 gennaio 2013, Anello, Rv.  254308),
concorre oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria e ha
il dovere, connaturato a  ogni  parte  pubblica,  di  obiettivita'  e
«imparzialita'»,  nel  senso  che  la  sua  funzione   e'   tesa   al
raggiungimento   di   interessi   pubblici,   quale,    in    primis,
l'accertamento della verita', posto che il  Pubblico  Ministero  deve
svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona
sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il  ruolo  e  la
funzione rivestiti gli impongono il dovere di verita'.  Egli  inoltre
non puo' rifiutare la sua opera (come  testualmente  recita  l'ultima
parte del comma 1 dell'art. 359 cod. proc. pen.) ed e' tra i soggetti
destinatari dell'art. 384 cod. pen., che, al suo secondo comma, cosi'
recita: «Nei casi previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372  e  373,
la punibilita' e' esclusa se il fatto e' commesso da  chi  per  legge
non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni  ai  fini
delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente  tecnico
o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a  deporre  o
comunque  a  rispondere  o  avrebbe  dovuto  essere  avvertito  della
facolta'  di  astenersi  dal  rendere  informazioni,   testimonianza,
perizia, consulenza o interpretazione». E' chiaro che  questa  norma,
nel dettare i casi di non punibilita' e nel prevedere anche la figura
del consulente tecnico, non potendo questi commettere, per  i  motivi
gia' esposti, il reato di cui all'art. 373 cod.  pen.,  riferisce  al
consulente proprio i residui reati di cui agli artt.  371-bis  e  372
cod. pen. (essendo ad esso inapplicabile l'art.  371-ter  cod.  pen.,
che riguarda le false dichiarazioni al difensore). 
    Per le argomentazioni sopra svolte deve  concludersi  che  appare
del tutto razionale che al consulente tecnico del Pubblico  Ministero
siano applicabili le conseguenze penali previste, in  caso  di  false
dichiarazioni, dall'art. 372 cod.  pen.  (o,  in  sede  di  indagini,
dall'art. 371-bis cod. pen.), ovviamente limitatamente a quella parte
di attivita' che non contiene  valutazioni  tecnico-scientifiche,  ma
riporta l'esposizione circa la natura e la consistenza di queste. 
    A riprova di cio' sta, del resto, anche il dato  letterale  della
norma: il riferimento al «consulente tecnico» -  inserito  nel  testo
dell'art. 377 cod. proc. pen.,  senza  ulteriori  specificazioni,  ad
opera del d.-l. n. 306 del 1992  -  si  presta  senz'altro  a  essere
rapportato  anche  alla  figura  di  cui  ci  si  occupa.  L'opinione
contraria, espressa, come si e'  visto,  in  dottrina  e  prospettata
inizialmente pure dai  ricorrenti,  secondo  cui  il  riferimento  al
consulente tecnico inserito dal citato  d.-l.  n.  306  riguarderebbe
solo  quello  nominato  dal  giudice  civile,  si  scontra  sia   con
un'obiezione formale (una simile specificazione non e' indicata dalla
norma)  sia,  soprattutto,  con   una   insuperabile   considerazione
sistematica (l'estensione al consulente tecnico in sede civile  delle
disposizioni penali relative ai periti discende  positivamente  dalla
espressa previsione dell'art.  64,  comma  primo,  cod.  proc.  civ.,
dovendosi essa dunque apprezzare,  ove  questo  ne  fosse  il  senso,
chiaramente superflua;  tanto  che  si  e'  sempre  ritenuto  che  il
riferimento al «perito», contenuto nell'art.  373  cod.  pen.,  debba
intendersi fatto anche al consulente del giudice civile,  proprio  in
forza del citato art. 64 cod. proc. civ.). 
    Le conclusioni alle  quali  si  e'  pervenuti,  contrariamente  a
quanto sostenuto nella memoria  difensiva  depositata  nell'interesse
dei ricorrenti, tengono adeguatamente conto del fatto che l'art.  501
cod. proc. pen. estende ai consulenti tecnici le regole  per  l'esame
testimoniale «in  quanto  applicabili»  e  non  ignorano  le  precise
differenze che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e
quella del testimone. Del resto, come pure la difesa  dei  ricorrenti
ammette, anche il consulente deve rispondere  secondo  verita'  sulla
natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono
posti a fondamento delle  sue  valutazioni  tecniche  (in  quanto  in
relazione alla descrizione di meri fatti la sua  posizione  in  nulla
differisce da quella del testimone). 
    7. - Resta da esaminare la problematica posta dal fatto che,  nel
caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico  Ministero  non  si
era ancora, per cosi' dire, «trasformato» in testimone,  non  essendo
ancora stato citato come tale o come persona informata sui  fatti  al
momento della realizzazione della condotta subornatrice. 
    Come si e' visto, la piu' volte citata sentenza  Pizzicaroli  del
1999, pur ritenendo configurabile in una fattispecie simile il  reato
di cui all'art. 377 cod. pen., ne aveva escluso  la  sussistenza  nel
caso  concreto,  in  quanto  il  consulente  tecnico   del   Pubblico
Ministero, nel momento  in  cui  era  stata  realizzata  la  condotta
illecita, non aveva gia' assunto «la veste di testimone  per  effetto
di citazione a comparire». 
    In base all'indirizzo prevalente  di  dottrina  e  giurisprudenza
(Sez. 3, n. 2055 del 13 dicembre 1996, Elmir, Rv. 207282; Sez. 6,  n.
2713 dell'11 dicembre 1996, Samperi, Rv. 207166; Sez. 6, n. 35837 del
23 maggio 2001, Russo, Rv. 220593; Sez. 6, n.  35150  del  26  giugno
2009, Manto, Rv. 244699; Sez. 6, n. 45626 del 25 novembre  2010,  Z.,
Rv. 249321; e soprattutto Sez. U,  n.  37503  del  30  ottobre  2002,
Vanone, Rv. 222347), perche' si possa configurare il delitto  di  cui
all'art. 377 cod. pen. e' necessario che i destinatari della condotta
abbiano gia' assunto, formalmente, nel momento  in  cui  la  condotta
stessa viene posta in essere, la qualifica processuale. E la qualita'
di testimone,  nel  reato  di  cui  all'art.  377  cod.  pen.,  viene
considerata assunta nel momento dell'autorizzazione del giudice  alla
citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell'art. 468, comma
2, cod. proc. pen. (v. in particolare: Sez. U,  n.  37503  del  2002,
Vanone, cit., e, con riguardo al simile reato di cui all'art. 377-bis
cod. pen., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z., cit.). 
    Tuttavia, ad avviso del Collegio, le  peculiarita'  della  figura
del consulente  tecnico  del  Pubblico  Ministero  fanno  propendere,
nell'ipotesi in cui  sia  questo  il  soggetto  su  cui  si  esercita
l'attivita' induttiva o violenta, verso una diversa soluzione. 
    In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione,  come  si
e' gia' visto,  riveste  la  qualita'  di  pubblico  ufficiale  o  di
incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, il dovere  di
obiettivita' ed imparzialita';  e  non  puo'  esimersi  dal  dire  la
verita'.  Proprio  per  queste  sue  caratteristiche,  il  consulente
tecnico, con la nomina ad opera del Pubblico Ministero, riveste  gia'
una precisa veste processuale, potenzialmente  destinata  a  rifluire
sull'assunzione della qualita' «testimoniale» ex artt. 371-bis o  372
cod. pen. Questa qualita', anche se non ancora  formalmente  assunta,
puo' dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile  e  necessario
sviluppo processuale della funzione assegnata al  consulente  tecnico
nominato dalla parte pubblica. 
    In questa prospettiva e in sostanziale accordo con le conclusioni
dell'ordinanza di rimessione, deve concludersi che il  reato  di  cui
all'art. 377 cod. pen. e' in astratto configurabile nella fattispecie
in  esame,  essendo  stata  la  condotta  contestata  esercitata  per
influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a  essere
falsamente rappresentati al Pubblico  Ministero  (art.  371-bis  cod.
pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.). 
    D'altra parte  anche  nella  giurisprudenza  di  legittimita'  in
materia non sono mancati recentemente segni di revisione  e  approcci
piu' «sostanzialistici», essendosi ritenuto «configurabile il delitto
di subornazione anche con riferimento alle pressioni e  alle  minacce
esercitate su colui che abbia reso  dichiarazioni  accusatorie  nella
fase delle indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione
in vista dell'acquisizione, da parte sua, della qualita' di testimone
nel celebrando dibattimento» (Sez. 1, n. 6297 del 10  dicembre  2009,
Pesacane, Rv. 246107). 
    8. - Tuttavia deve rilevarsi che il reato  di  cui  all'art.  377
cod. pen., pur  in  astratto  configurabile,  per  le  ragioni  sopra
espresse, nel caso di offerta o di promessa  di  denaro  o  di  altra
utilita' al consulente tecnico del  Pubblico  Ministero  al  fine  di
influire sull'attivita' di consulenza qualora il  consulente  tecnico
non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto di essa,
non puo' essere in alcun modo ravvisato  nella  concreta  fattispecie
oggetto del presente giudizio. 
    Deve infatti ribadirsi che il  consulente  tecnico  del  Pubblico
Ministero, pur  non  essendo  un  testimone  nel  senso  propriamente
indicato dall'art. 194 cod. proc. pen., ben puo' «affermare il  falso
o negare il vero», secondo la previsione dell'art. 372 cod.  pen.,  o
«rendere dichiarazioni false», secondo quella dell'art. 371-bis  cod.
pen., ad esempio tacendo  o  alterando  determinati  esiti  obiettivi
degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni  sindacato  su
aspetti  meramente  valutativi  relativi  a  detti  accertamenti.  In
definitiva,  il  consulente  tecnico  del   Pubblico   Ministero   e'
senz'altro tenuto a rispondere secondo verita' sulla natura  e  sulla
consistenza dei fatti che egli  ha  accertato  e  che  sono  posti  a
fondamento delle sue valutazioni tecniche,  in  quanto  in  relazione
alla descrizione di meri fatti la sua posizione in  nulla  differisce
da quella del testimone. Cio' pero' non vale, ovviamente, per le vere
e proprie valutazioni tecnico-scientifiche, in quanto il  consulente,
allorquando  formula  un  proprio  personale  giudizio,  esprime  una
opinione, che, come tale, e' incompatibile con  un  apprezzamento  in
termini di verita-falsita'.  Conseguentemente  quando  il  consulente
nominato dal Pubblico Ministero riferisce propri giudizi (solo a  lui
consentiti e, invece, rigorosamente preclusi al testimone)  non  puo'
certamente rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza. 
    Nel caso di specie e' indubbio  che  l'oggetto  della  consulenza
affidata dal Pubblico Ministero al Comandante Cimaglia  era  di  tipo
squisitamente valutativo (riferire se  l'addestramento  del  copilota
Alex Lai, morto insieme al Comandante Cavalieri nell'incidente  aereo
del giugno 2003, poteva considerarsi idoneo). Si trattava, cioe',  di
una  tipica  valutazione,  affidata  dal  Pubblico   Ministero   alla
competenza  ed  alla  professionalita'  del   consulente   prescelto,
ritenuto fornito di idoneo bagaglio tecnico-scientifico e di  elevata
qualificazione professionale. 
    Conseguentemente nel particolare caso sottoposto all'esame  della
Corte la condotta ascritta agli imputati (avere dato ad un consulente
tecnico nominato dal Pubblico Ministero una  somma  di  denaro  -  da
questi simulatamene accettata - allo scopo di fargli predisporre  una
consulenza falsa) non puo' rientrare nelle previsioni di cui all'art.
377 cod. pen. 
    9. - In base alle argomentazioni sopra svolte,  deve  concludersi
nel senso che l'unica disposizione applicabile al caso  in  esame  e'
quella di cui all'art. 322, comma secondo, cod. pen., norma  generale
rispetto a quella di cui all'art. 377 dello stesso codice; soluzione,
come si e' visto, privilegiata dal Procuratore Generale  in  sede  di
risoluzione di contrasto ex artt. 54 ss. cod. proc.  pen.  e  seguita
dalla Corte di appello di Roma nella sentenza impugnata. 
    Infatti il Collegio aderisce sul punto alle  conclusioni  cui  e'
gia' pervenuta questa Corte nella  precedente  e  piu'  volte  citata
sentenza Pizzicaroli del 1999, ove si  e'  ineccepibilmente  chiarito
che tra il reato  di  istigazione  alla  corruzione  propria  di  cui
all'art. 322, comma secondo, cod. pen. e  quello  di  intralcio  alla
giustizia  di  cui  all'art.  377  dello   stesso   codice,   qualora
l'attivita'  illecita  dell'agente  si  rivolga  nei  confronti   del
consulente tecnico del Pubblico Ministero, intercorre un rapporto  di
specialita' ai sensi dell'art. 15 cod. pen., in virtu' del quale - se
non vi ostassero le ragioni  indicate  al  punto  che  precede  -  si
giustificherebbe la applicabilita' del solo art.  377  cod.  pen.  in
relazione sia al profilo soggettivo per la specificita' della persona
coinvolta sia al profilo  oggettivo  per  la  specificita'  dell'atto
contrario  ai  doveri  di  ufficio,  mirante,  in  sostanza,  ad  una
illegittima manipolazione dell'accertamento tecnico. 
    10. - Si tratta, pero', di una soluzione che  -  sebbene  imposta
per essere, come si e' visto, l'art. 322, comma  secondo,  cod.  pen.
l'unica norma applicabile al caso concreto - presenta, ad avviso  del
Collegio, innegabili profili di incostituzionalita'. 
    L'offerta di  denaro  o  di  altra  utilita'  al  consulente  del
Pubblico Ministero (pubblico ufficiale)  per  il  compimento  di  una
falsa consulenza risulta punita piu' gravemente dell'analoga condotta
diretta a un perito, che rientra pacificamente, per il  principio  di
specialita', nell'art.  377,  comma  primo,  cod.  pen.  Nella  prima
ipotesi, infatti, per il combinato disposto degli  artt.  319  e  322
cod. pen.  (nella  formulazione  vigente  pro  tempore,  prima  della
riforma recata dalla legge n. 190 dei 2012),  sarebbe  irrogabile  la
reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella
seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377
cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni. 
    Inoltre la medesima offerta corruttiva attuata nei confronti  del
consulente tecnico del Pubblico Ministero per il  compimento  di  una
falsa consulenza nell'ambito di un  processo  penale  risulta  punita
piu' severamente rispetto a quella del tutto analoga  realizzata  nei
confronti del consulente tecnico del giudice civile. Anche in  questo
caso,  infatti,  la  prima  condotta   sarebbe   inquadrabile   nella
istigazione  alla  corruzione  e  la  seconda   nell'intralcio   alla
giustizia con le inspiegabili  disparita'  in  fatto  di  pena  sopra
indicate. 
    A parte il fatto che, seguendo la ricostruzione sopra svolta,  si
verificano ulteriori profili  di  disparita'  di  trattamento  (e  di
sostanziale irragionevolezza), in  quanto  l'offerta  corruttiva  nei
confronti del consulente tecnico del Pubblico  Ministero  chiamato  a
esprimere valutazioni tecnico-scientifiche  (giudizi),  inquadrabile,
come nel  caso  in  esame,  nella  fattispecie  di  istigazione  alla
corruzione,  sarebbe  punita  piu'  gravemente  rispetto  ad  analoga
condotta esercitata nei confronti del consulente tecnico del Pubblico
Ministero chiamato semplicemente a descrivere i fatti accertati senza
addentrarsi  in  valutazioni  o  giudizi,  per   la   quale   sarebbe
configurabile invece il delitto di intralcio alla giustizia. 
    Si tratta di conseguenze paradossali e violatrici  del  principio
di eguaglianza, posto  che  situazioni  del  tutto  analoghe  vengono
inspiegabilmente disciplinate sul piano del trattamento sanzionatorio
in termini differenti. 
    Vi e' poi l'ulteriore paradosso per cui  solo  la  particolare  e
neppure  piu'  grave  forma  di  intralcio  alla  giustizia   oggetto
dell'attuale processo (offerta  o  promessa  di  denaro  o  di  altra
utilita' al consulente tecnico del  Pubblico  Ministero  al  fine  di
influire sul contenuto della consulenza nei suoi termini valutativi e
espressivi di giudizi) non e' ricompresa nella specifica ripartizione
del  codice  dedicata  ai  delitti  contro  l'amministrazione   della
giustizia, rimanendo confinata  tra  i  delitti  contro  la  pubblica
amministrazione. 
    Preso atto dell'inerzia del legislatore, che non ha  ritenuto  di
intervenire sull'art. 373 cod. pen. (per prevedervi  anche  la  falsa
consulenza, includendo tra i  soggetti  attivi  del  reato  anche  il
consulente tecnico nominato dal  Pubblico  Ministero)  e  neppure  di
inserire tra i reati  contro  l'amministrazione  della  giustizia  un
apposito delitto che punisca la condotta di intralcio alla  giustizia
esercitata specificamente nei confronti del  consulente  tecnico  del
Pubblico  Ministero,  non  resta  che  rilevare  la   non   manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
322, comma secondo, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., sotto
il duplice profilo della inspiegabile disparita'  di  trattamento  di
situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui  per
l'offerta o la promessa di denaro  o  altra  utilita'  al  consulente
tecnico del  Pubblico  Ministero  per  il  compimento  di  una  falsa
consulenza prevede una pena superiore a quella di cui  all'art.  377,
comma primo, cod. pen., in relazione all'art. 373 cod. pen. 
    La rilevanza della questione discende, come si e' visto, da tutte
le considerazioni sopra svolte, che portano a concludere che  l'unica
disposizione  applicabile  alla  particolare  fattispecie  sottoposta
all'esame della Corte e' appunto  l'art.  322,  comma  secondo,  cod.
pen., con gli inevitabili profili di contrasto con l'art. 3 Cost.  di
cui si e' detto. 
    La questione di costituzionalita' sollevata impone la sospensione
del giudizio in corso. La Cancelleria  provvedera'  a  notificare  la
presente ordinanza ai ricorrenti, al Procuratore Generale  presso  la
Corte di cassazione e al Presidente del Consiglio dei ministri,  e  a
comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
costituzionalita'  dell'art.  322,  comma  secondo,  cod.  pen.,   in
riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui per l'offerta  o  la
promessa di  denaro  o  altra  utilita'  al  consulente  tecnico  del
Pubblico Ministero per il compimento di una falsa consulenza  prevede
una pena superiore a quella di cui all'art. 377,  comma  primo,  cod.
pen., in relazione all'art. 373 cod. pen. 
    Sospende  il  giudizio  in  corso;  ordina  che  a   cura   della
Cancelleria la presente ordinanza sia notificata  ai  ricorrenti,  al
Procuratore Generale presso la Corte di cassazione  e  al  Presidente
del Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle  due
Camere del Parlamento. 
      Cosi' deciso il 27 giugno 2013. 
 
                      Il Presidente: Santacroce 
 
 
                                     Il componente estensore: Rotundo