N. 45 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 settembre 2013
Ordinanza del 30 settembre 2013 emessa dal Giudice designato della Corte di appello di Reggio Calabria nel procedimento civile promosso da Caratozzolo Antonio contro Ministero della giustizia. Procedimento civile - Equa riparazione per violazione della ragionevole durata del processo - Misura dell'indennizzo - Limitazione al "valore del diritto accertato [dal giudice]" senza alcuna ulteriore specificazione o limite - Conseguente impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente - Contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui la soccombenza nel procedimento presupposto non preclude il diritto alla "equa soddisfazione" per la sua irragionevole durata - Inosservanza di vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. - Legge 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 3, inserito dall'art. 55, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. - Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.16 del 9-4-2014 )
La Corte d'Appello di Reggio Calabria Ha emesso il seguente, decreto nel procedimento iscritto al n. 239/2013 V.G. Letto il ricorso proposto ai sensi della legge n. 89/2001 in data 9 settembre 2013 (assegnato a questo magistrato in data 19 settembre 2013) da: Caratozzolo Antonino; nato in data 16 luglio 1935 a Messina ed ivi residente in via Andria is. 937; codice fiscale: CRTNNN35L16F158N; parte rappresentata e difesa per procura ai margini del predetto atto dall'avv. Roselli Roberto del Foro di Messina ed elettivamente domiciliato in Messina, presso lo studio del medesimo (via Cesareo n. 29 si. 185/B); pec: avvrobertoroselli@pec.giuffre.it; Vista la documentazione allegata e rilevato che: il presente ricorso a' stato depositato allorche' non era ancora decorso il termine di sei mesi dal momento in cui la decisione che ha concluso il procedimento presupposto e' divenuta definitiva (ossia, dal 14 maggio 2013), donde l'ammissibilita' della domanda; il procedimento presupposto ha avuto una durata; per il giudizio di primo grado, di anni quindici, mesi undici e giorni sedici (calcolata dalla data della notificazione dell'atto introduttivo, cioe' dal 10 giugno 1987, a quella del deposito della sentenza di merito, avvenuto in data 27 maggio 2003), da decurtarsi tuttavia per la durata delle udienze il cui differimento e' imputabile al comportamento tenuto dalle parti, compresa quella odierna ricorrente (per n. 4 occasioni, in relazione alle udienze del 14 novembre 1988, 19 febbraio 1990, 7 ottobre 1996, 25 maggio 1998) pari ed anni uno, e quindi complessivamente di anni quattordici, mesi undici e giorni sedici; di anni otto, mesi quattro e giorni ventotto per il giudizio di secondo grado (calcolata dalla data della notificazione dell'atto introduttivo, e cioe' dal 30 ottobre 2003, a quella del deposito della sentenza di merito, avvenuto in data 29 marzo 2012), da decurtarsi tuttavia per la durata delle udienze il cui differimento e' imputabile al comportamento tenuto dalle parti, compresa quella odierna ricorrente (per n. 6 occasioni, in relazione alle udienze del 3 febbraio 2004, 1° febbraio 2005, 23 giugno 2008, 30 marzo 2009, 21 marzo 2011, 14 novembre 2011), pari ad anni uno e mesi sei nonche' dell'ulteriore periodo decorso tra la dichiarazione dell'interruzione del giudizio (avvenuta all'udienza del 21 giugno 2005) ed il deposito dell'atto di riassunzione (19 settembre 2005), pari a mesi due e giorni ventotto; e quindi complessivamente di anni sei e mesi dieci; esso eccede pertanto di anni sedici, mesi nove e giorni sedici rispetto ai termini di cui all'art. 2-bis e 2-ter della legge n. 89/2001; valutati la complessita' del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonche' degli altri soggetti chiamati a concorrere o a contribuire alla sua definizione; considerato che la parte odierna ricorrente all'esito del giudizio suddetto e' risultata soccombente; considerato in diritto che: la soccombenza nel giudizio presupposto di colui che promuova un ricorso per equo indennizzo (ai sensi della legge n. 89 del 2001 e modif. succ.) e' stata espressamente prevista quale causa di rigetto della domanda - a termini dell'articolo 2 comma 2-quinquies della legge citata, nel testo in atto vigente - soltanto nel caso in cui concorrano con essa i requisiti ulteriori; della condanna del soccombente per responsabilita' processuale aggravata ex art. 96 C.P.C.; della condanna del medesimo ex art. 91 primo comma secondo periodo C.P.C.; ovvero, ancora: dell'aver detta parte posto in essere un abuso di poteri processuali che abbia determinato un'ingiustificata dilazione dei termini del procedimento; sicche' puo' darsi atto che persiste (pur dopo la novella di cui alla legge n. 134 del 2012) il riconoscimento normativa d'una piena legittimazione in capo alla parte, anche se gia' soccombente nel giudizio presupposto, a far valutare l'eventuale sussistenza d'una lesione del suo diritto a conseguire in un tempo ragionevole una pronuncia risolutiva della questione controversa; la previsione contenuta nel comma 3 del «nuovo» art. 2-bis, secondo cui «... la misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice ..», che ha introdotto un tetto massimo (o valore «soglia») per la determinazione in concreto del quantum liquidabile prima non previsto, in quanto non coordinata con il superiore principio fa tuttavia sorgere due distinti problemi interpretativi, che esigono coerenti e correlate soluzioni (data la loro reciproca interdipendenza); 1) cosa debba intendersi per «... valore del diritto accertato dal giudice ...»; 2) se l'introduzione d'un tetto massimo all'indennizzo liquidabile cosi avvenuta valga per tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto e per tutte le parti d'esso (qualora, ovviamente, promuovano un ricorso ex lege Pinto); rilevato, in proposito: sub 1): che (nella scelta materiale con cui il legislatore ha provveduto a calmierare gli effetti per l'Erario delle decisioni emanande in subiecta materia) il «valore del diritto accertato» e' parametro che (sebbene suppletivo) prevale rispetto a quello del valore della causa, qualora in concreto gli sia inferiore; che per l'identificazione del parametro primario suddetto (che comunque va determinato, ai fini perequativi suddetti) unico possibile richiamo si da' con riferimento alla disciplina della determinazione del valore della controversia (rilevante sia in tema d'individuazione del Giudice competente sia per la liquidazione delle spese giudiziali) dettata degli artt. 7 e ss. fino a 17 del C.P.C.; che mentre per le cause di valore «determinato» o «determinabile», il «valore soglia» in questione - se ad esso dovesse essere correlato - sarebbe agevolmente individuabile, per le cause cd. di valore indeterminabile e' dubbio se debba applicarsi il criterio per cui la causa avra' valore entro il tetto massimo di competenza del giudice adito (soluzione che potrebbe operare peraltro soltanto per le cause di competenza del giudice di pace) o quello aliunde determinato ai sensi degli artt. 10 e ss., ovvero se la predetta disposizione non trovi applicazione e quindi l'indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba, in tali ipotesi, incontrare alcun tetto massimo (come sembrerebbe potersi arguire, tra l'altro, in materia di accertamento su diritti di personalita', diritti indisponibili o status e posizioni giuridicamente tutelabili analoghe); che, comunque, l'epilogo del procedimento presupposto, nell'ipotesi di soccombenza in esso di chi promuova ricorso ai sensi della legge n. 89 del 2001, rileva alla luce delle superiori constatazioni anche quale elemento per la determinazione della soglia (o «tetto massimo») della concreta liquidabilita' dell'indennizzo e va pertanto assunto nel novero degli elementi funzionali al merito della decisione emananda; che in subiecta materia notoriamente e' ammesso che sussiste un pregiudizio in re ipsa, suscettibile dunque di quantificazione equitativa, sicche' non puo' affermarsi: ne' che sia onere del ricorrente dedurre e provare (quale elemento indefettibile per il vaglio della domanda) se sussista e quale sia il valore «soglia» di cui al comma 3 dell'art. 2-bis della legge citata; ne' che, in difetto d'allegazione o deduzione d'elementi idonei a consentirne l'identificazione e la quantificazione (sempre ai soli fini della legge n. 89 del 2001), tanto ne comporterebbe l'inammissibilita'; non si dimentichi, infatti, che si versa in tema di giudizio monitorio cui si applicano i primi due commi dell'art. 640 C.P.C. (secondo cui «... il giudice, se ritiene insufficientemente giustificata la domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al ricorrente, invitandolo a provvedere alla prova ...», con l'esito sanzionatorio per cui «... se il ricorrente non risponde all'invito o non ritira il ricorso oppure se la domanda non e' accoglibile, il giudice la rigetta con decreto motivato ...») e che il giudicante non puo' pertanto rigettare, ovvero dichiarare inammissibile, la domanda per la superiore circostanza; che, pero', mentre per il regime della competenza si fa riferimento al valore quale determinato o determinabile in relazione ai petitum (o ai petita), per il regime della legge Pinto si fa riferimento al valore ritenuto in decisione, e pertanto va chiarito quale sia l'effettivo contenuto prescrittivo della disposizione; sub 2), che va verificato se detta disposizione integri un'ulteriore causa d'eventuale esclusione d'indennizzo (ancorche' non espressamente tipizzata come tale), nel senso che nulla possa essere riconosciuto all'istante nel caso in cui il diritto dallo stesso asseritamento vantato sia fatto valere in giudizio ma sia stato affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se qualora il ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto e detto giudizio abbia avuto durata irragionevole, la negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto ad equo indennizzo; ed in proposito almeno tre sono le opzioni praticabili, nel senso che: 2.1 una prima opzione suggerisce che la prima eventualita' possa ammettersi nel sistema (e sarebbe probabilmente quella piu' coerente con l'esigenza calmieratrice di cui s'e' detto); cio' (sebbene in apparente contrasto con l'indirizzo consolidato della CEDU in proposito, per cui anche il totalmente soccombente ha diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole del processo di cui sia stato parte) in via ermeneutica deriva dal fatto che una siffatta interpretazione della norma (che apparirebbe in sintonia, peraltro, con alcuni spunti offerti dalla relazione introduttiva del testo del disegno di legge poi definitivamente approvato dal Parlamento e, tra questi, segnatamente con il rilievo della necessita' d'arginare la presunzione di dannosita' della prolungata durata di un processo in modo che non divenga assoluta, ma rimanga iuris tantum, con conseguente ammissibilita' - nonostante eventuali diversi dicta della Corte CEDU - d'ipotesi d'esclusione del diritto ad un indennizzo anche in caso di irragionevole durata del giudizio stesso la' dove cio' comunque ripugni a principi superiori dell'ordinamento interno) sarebbe coerente altresi' con la ratio di non poche altre disposizioni della novella normativa in esame, tra cui: le richiamate previsioni d'esclusione del diritto all'indennizzo di cui all'art. 2 comma 2-quinquies; la disposizione che indica l'esito del processo tra i parametri cui commisurato l'indennizzo; la prevista improponibilita' della domanda prima della definizione del procedimento con provvedimento irrevocabile (che e' funzionale a consentire proprio il vaglio dell'esito di tale giudizio ai fini liquidatori suddetti); 2.2 una seconda opzione proporrebbe, invece, di ritenere non soltanto che il diritto ad equo indennizzo spetti comunque (ove non si versi nelle cause d'esclusione espressamente tipizzate) anche al ricorrente totalmente soccombente nel giudizio presupposto, ma pure che esso debba essere commisurato entro il range normativamente stabilito - tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione) - e comunque con le limitazioni di soglia o di tetto massimo dettate dall'art. 2-quinquies comma 3 (come a dire che non solo il vittorioso nel giudizio presupposto ma anche il soccombente incontrera' un limite quantitativo alla pretesa riconoscibile); 2.3 una terza opzione, infine, parrebbe ammettere che in detta liquidazione a pro del totale soccombente il valore soglia suddetto non dovrebbe operare (perche' non v'e' a suo favore riconoscimento d'alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo); ma e' palese che tanto implicherebbe una diversificazione di trattamento (con esito premiale per il soccombente e penalizzante per il vittorioso parziale) difficilmente compatibile con i principi costituzionali d'uguaglianza e ragionevolezza; constatato che la seconda delle tre opzioni enunciate e' invece quella (nel contesto di sistema vigente in proposito) piu' coerente con l'indirizzo costante CEDU retro richiamato e con la littera legis della novella del 2012 e, per tal ragione, va tendenzialmente preferita, poiche' se il legislatore avesse voluto anche in tale ipotesi derogarvi (in ossequio a principi superiori d'ordinamento, quali quelli d'uguaglianza e di ragionevolezza) avrebbe potuto e dovuto prevederlo; rilevato che, tuttavia, occorre chiarire ugualmente - nei sensi retro richiamati sub 1) - cosa debba intendersi per «valore del diritto accertato»; ritenuto, in proposito, che: assumere che il valore di soglia massima sia applicabile per il solo caso in cui il ricorrente ex lege n. 89 del 2011 sia stato sostanzialmente vittorioso (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto non risulta, in difetto d'espresse clausole limitative, ammissibile; la disposizione, d'altronde, va coordinata con la previsione del comma 2 del medesimo articolo (secondo cui: «L'indennizzo e' determinato a norma dell'articolo 2056 del codice civile, tenendo conto: a) dall'esito del processo [corsivo dell'estensore] nel quale si e' verificata la violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2; b) del comportamento del giudice e delle parti; c) della natura degli interessi coinvolti; d) del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte ...»), che a tanto non fa alcun riferimento; ancora, e' da considerare che l'accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (che e' l'oggetto della cognizione del procedimento in questione) non verte soltanto quanto accade «nel» processo, come parrebbe prima facie dedursi dall'incipit dell'art. 2 comma 2 («... Nell'accertare la violazione il giudice valuta la complessita' del caso, l'oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonche' quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione»), ma anche il suo concreto epilogo (perche' occorre verificare che si sia al di fuori delle ipotesi di prevista esclusione del diritto ad indennizzo, e dunque non si puo' prescindere dal suo rilievo ai superiori fini); opinare che la superiore lettera possa interpretarsi nel senso di aver fatto riferimento alla vittoriosita' o alla soccombenza in senso processuale e non sostanziale (equiparando cosi' l'una all'altra delle due parti del giudizio presupposto) non sembra discutibile tanto sotto il profilo dell'equita' sostanziale, quanto sotto il profilo del rigore formale dell'interpretazione che vuole adottarsi; non appare infatti concettualmente scorretto legittimare, in tali eventualita', l'impiego quale valore di soglia massima di liquidazione - in via suppletiva rispetto a quello del valore del diritto riconosciuto (che non c'e', perche' la sentenza «rigetta» o dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda) - quello del valore «positivo» che il giudizio abbia comunque recato alla parte processualmente vittoriosa; avendo infatti il diritto negato all'uno un rilievo concreto economicamente correlabile alla sfera giuridica dell'altro (nel senso che il convenuto nel giudizio presupposto che non formuli riconvenzionali ma si limiti ad una mera difesa comunque «lucra» dalla sconfitta della pretesa altrui la stabilizzazione della sua situazione quo antea, ossia il non dover corrispondere o il non dover adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso nella misura del petitum preteso e poi disatteso), l'interessato potrebbe venire a conseguire un indennizzo da irragionevole durata pur non avendo azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima, mentre quella consentita al sostanzialmente vittorioso (ma processualmente di gran lunga soccombente) potrebbe essere decisamente inferiore alla prima; e cio' non risulterebbe irragionevole (o comunque lesivo dell'uguaglianza sostanziale tra le parti di lite), per la diversa incidenza concreta sulla situazione di vita dell'uno e dell'altro della pendenza in se d'un processo potenzialmente foriero d'apportare vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; in tale ipotesi si dovrebbe pero' prescindere dal principio della domanda, che sembra invece recepito dal dictum espresso della disposizione in esame («... valore del diritto accertato ...»); di dubbia legittima appare, invece, una liquidazione equitativa che - adottando, in via suppletiva, un criterio di perequazione correttivo di potenziali distorsioni - riconoscesse che l'ammontare: o del valore del diritto riconosciuto in concreto alla controparte; o del valore del giudizio (in base al variabile grado dl rilevanza della soccombenza, se parziale o totale) possano costituire soglie non superabili per entrambi i gia' contendenti; e cio' nel senso che, qualora il valore del diritto accertato in capo all'attore (o ricorrente) del giudizio presupposto fosse o inferiore a quello del valore del giudizio in senso processuale, o comunque accertato ex post, della controparte, questa non potrebbe vedersi comunque riconosciuto un indennizzo superiore a quello dell'attore sostanzialmente soccombente; e cio' poiche' tanto risulta incompatibile con l'indole oggettiva del valore «soglia» in questione e non e' consentito dal tipo di discrezionalita' ammessa per il giudicante in subiecta materia, poiche' detta discrezionalita' e' pur sempre «vincolata» - trattandosi d'un procedimento liquidatorio che conferisce al decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si riconosca che e' comunque prevista una soglia minima inderogabile (riferibile all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere) - e la sua sindacabilita' in sede d'opposizione garantisce che l'eventuale ricorso appunto a parametri d'equita' non vulneri il fondamento che la predetta discrezionalita' ripete dalla legge vigente; provando allora ad individuare i' casi astrattamente prospettabili, e cioe': a) quello in cui il ricorrente sia stato parzialmente soccombente - vuoi quale attore (o ricorrente), vuoi quale convenuto (o resistente) - nel giudizio presupposto; b) quello in cui il ricorrente sia stato totalmente soccombente quale convenuto (o resistente) nel giudizio presupposto; c) quello in cui li ricorrente sia stato totalmente soccombente quale attore (o ricorrente) nel giudizio presupposto; puo' pertanto assumersi, alla luce delle superiori arguizioni, che: nell'ipotesi sub a), il valore «soglia» comunque non superabile nella liquidazione dell'indennizzo (imposto dall'art. 2-bis comma 3 delta legge citata) debba essere identificato nel valore del diritto effettivamente riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa; nell'ipotesi sub b), il valore «soglia» comunque non superabile sara' pur sempre individuato nel valore del diritto riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa, ed ovviamente, salva la specificita' della vicenda processuale (che potra' giustificare, in situazioni peculiari, anche l'equiparazione tra le parti), potra' essere diversificata la misura dell'indennizzo - entro il range assentito - con tendenziale liquidazione di quella del sostanzialmente soccombente in misura Inferiore a quella riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma con possibilita' di sua equiparazione ad essa; nell'ipotesi sub c), infine, e' da osservare che: l'accertamento negativo della sussistenza di un diritto equivale all'accertamento che il diritto fatto valere in giudizio ha valore (per chi asseriva di esserne titolare e di poterne fruire e disporre) giuridicamente ed economicamente pari a 0; e' vero poi che, ove non siano formulate riconvenzionali, ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa altrui), non v'e' ex adverso alcuna domanda e pertanto non puo' agevolmente affermarsi che la pronuncia abbia implicitamente accertato contra un qualche diritto del convenuto o del resistente (cui riferire l'individuazione del predetto valore soglia). A questo ultimo riguardo va pero' chiarito: in primo luogo, che puo' assumersi, se il soccombente e la controparte permangono nella situazione quo antea, che dal punto di vista della controparte vi sia una sostanziale vittoriosita', poiche' essa pur godra' del risultato utile costituito dalla continuita' di detta situazione di fatto rispetto alle pretese dell'attore (o ricorrente) su cui sia intervenuto il giudicato ed entro i limiti del suo valore (quale emerso in decisione) potra' invocare per se' indennizzo (come riconosciuto sub b); in secondo luogo, che cio' non equivale ad alcuna stabilizzazione o qualificabilita' della stessa alla stregua d'un diritto o di situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne' verso costui ne' verso chicchessia ed implichera' soltanto che il bene della vita controverso (che ha pur sempre un valore economicamente quantificabile) risultera' «intatto» rispetto all'iniziativa attorea, ma solo interinalmente; in terzo luogo, che a pro' dell'attore o ricorrente - che subisca (nel giudizio presupposto) la predetta soccombenza processuale, eventualmente con condanna soltanto per la rifusione delle spese processuali ai fini della quantificazione del correlato diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole di detto procedimento potra' utilizzarsi quale valore «soglie» non superabile quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto o resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno, il valore soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi, se esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale, non v'e' a ben vedere un parametro che consenta di provvedere; dato atto che presso questa Corte d'Appello i precedenti di merito disponibili ad oggi (per casi identici a quello che oggi ne occupa) appaiono tra loro discordanti al riguardo della soluzione da individuare per la questione esaminata, poiche': in precedente occasione (nel procedimento iscritto al n. 566/2012 VG) essa e' stata risolta da questo magistrato delegato nel senso di riconoscere comunque l'operativita' della norma di riferimento, pur senza che sia ritraibile nel sistema certezza rassicurante in proposito; in data 8 aprile 2013 e' stata invece da altro magistrato delegato gia' posta questione di costituzionalita' (nel procedimento iscritto al n. 58/2013 VG) nei sensi che di seguito si riproducono: ... 3. - Il parametro costituzionale di riferimento. La rilevanza e lo non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. Il dubbio di costituzionalita' della norma suindicata nasce dal contrasto della stessa con l'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, nella misura in cui tale norma, nella detta interpretazione, puo' e deve intendersi assunta a parametro di costituzionalita' della legge interna per effetto del richiamo operato dall'art. 117 Cost. 3.1. - Al riguardo e' opportuno anzitutto brevemente tratteggiare le coordinate giuridiche entro le quali questo decidente ritiene doversi muovere nel districarsi tra i rapporti tra norme interne e norme CEDU: i) prima regola deve considerarsi quella (costantemente affermata dalla Corte di Cassazione a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n. 1340 e n. 1341 e quindi avallata anche dalla Corte Costituzionale a partire dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e con numerose successive pronunce, sino, da ultimo, all'ordinanza 7 giugno 2012, n. 150) secondo cui il giudico comune ha il dovere di «applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di «Interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il giudice comune deve anzitutto individuare la norma della Convenzione applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma CEDU quale risulta dall'interpretazione della Corte di Strasburgo (v. Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 contenente una completa rassegna delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349 del 2007, hanno affermato detto principio). Egli non puo' «sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo», che deve applicare nel significato attribuitole da quest'ultima, avendo tuttavia riguardo alla «sostanza di quella giurisprudenza», e dunque potendo in tal senso giovarsi degli specifici margini di apprezzamento riservati al giudice nazionale (Corte cost. 26 novembre 2009, n. 311; 22 luglio 2011, n. 236, cit.); ii) tale dovere opera «per quanto possibile», e quindi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge», che il giudice non puo' violare, essendo ad essa «pur sempre soggetto», con la conseguenza che qualora rilevi un contrasto della norma interna con la norma convenzionale, al quale non possa porre rimedio mediante l'interpretazione conforme, e' tenuto a sollevare questiono di legittimita', costituzionale della prima, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., poiche' e' privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in tal senso, proprio in materia di equa ripartizione, Cass. 11 marzo 2009, n. 5894). Siffatti principi, dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da una serie di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011, n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi, sono stati ribaditi, quanto all'inesistenza, del potere del giudice comune di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza 11 marzo 2011, n. 80, i cui principi sono stati confermati da successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze 8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di recente, hanno ricevuto il conforto della Corte di giustizia (sentenza 24 aprile 2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo la quale «il rinvio operato dall'articolo 6, paragrafo 3, TUE alla Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa»). 3.2. - Orbene, le esposte coordinate non possono che condurre con riferimento alla questione descritta, ad investire della stessa la Corte Costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti dall'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87, ossia in rilevanza della questione ai fini della decisione sulla proposta domanda e la non manifesta infondatezza della stessa. Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la norma additata a sospetto ha una diretta incidenza nella decisione sulla proposta domanda di equa riparazione; se ne fosse, infatti, confermata la legittimita' costituzionale in applicazione della stessa la domanda (come in altri casi analoghi e' stato deciso nei precedenti citati) andrebbe rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione tendenzialmente al minimo dell'indennizzo spettante, all'interno del range fissato nel primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre il limite rappresentato dal valore dalla Causa. Quanto alla sua non manifesta infondatezza la stessa appare altresi' piu' cha fondatamente predicabile, atteso che, da un lato, non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto dalla norma interna (ripetesi, art. 2-bis comma 3, ultimo inciso, l. 89/2001) con la giurisprudenza della Corte europea sul tema, dall'altro, si deve anche escludere la possibilita' di una diversa interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma interna. 3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto dalla norma con la giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha sempre sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' per se' considerata, ai fini del diritto alla «satisfaction equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che la parte, indipendentemente dall'esito della causa, ha comunque subito una diminuzione della qualita' della vita in conseguenza dei patemi d'animo sopportati durante il lungo arco temporale che ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v. ex alils Corte europea diritti del'uomo, 19 febbraio 1992, Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recueil 1998, l. p. 132, che, in un caso in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al diritto di visitare i propri figli, dati in affidamento, ha riconosciuto alla ricorrente la somma di 10.000 corone titolo di «equa soddisfazione» ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le restrizioni in questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). Un siffatto principio e' da sempre stato ribadito, sotto il vigore della previgente disciplina, dalla Corte di Cassazione essendosi da sempre affermato - conto gia' visto - che il danno non patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del processo, ovvero dall'elevata possibilita' del rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda, occorre, come pure sopra gia' accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass. 12 aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile 2010, n. 8541), del quale deve dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19 gennaio 2010, n. 819). Secondo la Corte di Cassazione, per negare l'esistenza dal danno, puo' bensi' assumere rilievo la «chiara, originaria e perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere nel giudizio, con l'avvertenza che non «equivale a siffatta certezza originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilita' di successo della azione» (Cass. 2 aprile 2010, n. 8165; 2008, n. 24269). Il descritto quadro internazionale, normativo e giurisprudenziale, di riferimento non puo' considerarsi rilevantemente mutato, per il profilo in esame, a seguito dell'entrata in vigore, il 1° giugno 2010, del nuovo art. 35 co. 3° lett. b) della Convenzione EDU, che consente al giudice di Strasburgo di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex art. 34 per il quale il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio rilevante, salvo le ipotesi (c.d. clausole di salvaguardia) di mancato esame del caso da parte del giudice nazionale, oppure di compressione di diritti umani convenzionali. Occorre al riguardo osservare che i contorni e i riflessi operativi di una tale condizione di ricevibilita' (comunemente definita de minimis non curat praetor o finalizzata a ridurre il contenzioso su violazioni di minima entita') non risultano ancora chiari e consolidati. A quanto consta, le uniche applicazioni sono state fatte: a) per escludere il diritto all'equa riparazione in relazione alla equita' di un procedimento penale conclusosi con la condanna a multa per € 150,00 oltre ad € 22,00 per spese o al ritiro di un punto dalla patente di guida (sent. 19 ottobre 2010, Rinck c. Francia); b) per escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato per la durata irragionevole di un processo penale conclusosi pero', proprio a ragione della sua durata, con il proscioglimento dell'imputato medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto idonea ad integrare una compensatio lucri cum damno a favore del ricorrente (Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia; in tale caso tuttavia la Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano al pagamento di una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per il danno morale subito dal ricorrerne per l'eccesiva durata del procedimento ex lege Pinto). In altra sentenza infine, la Corte di Strasburgo, dopo aver rilevato che «la giurisprudenza, ancora limitata, fornisce solo parzialmente i criteri che permettono di verificare se la violazione del diritto abbia raggiunto «la soglia minima» di gravita' per giustificare un esame da parte di un giudice internazionale»; che «la valutazione di questa soglia e', per sua natura, relativa e dipende dalle circostanze del caso di specie» (paragrafo 33); che occorre comunque «tener conto dei seguenti elementi: la natura del diritto che si presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata nell'esercizio di un diritto e/o le eventuali conseguenze della violazione sulla situazione personale del ricorrente» (paragrafo 34) (ma - si aggiunge nella sentenza Gagliano, cit. paragrafo 55 - anche «della percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva della controversia»), ha poi affermato il principio secondo cui, a fronte di una grave violazione del principio di durata ragionevole del processo, «l'entita' della causa innanzi ai giudici nazionali puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il valore sia modico o irrisorio» (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti c. Italia, paragrafo 35). A ben vedere nulla autorizza a ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle variabili circostanze del caso concreto, possa di per se' comportare una revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che, in forza della stessa, possa escludersi tout court, sempre e in ogni caso, lo riconoscibilita') dell'equo indennizzo alla parte soccombente. 3.2.2. - Sotto il secondo profilo (possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna tale da renderla compatibile con il parametro pattizio come interpretato dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi che ogni pur dovuto tentativo in tale direzione e' destinato a scontrarsi con l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di liquidare un indennizzo in misura superiore al «valore del diritto accertato». La lettera di tale ultima disposizione non sembra in particolare consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi commenti - che «il riferimento al diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella determinazione del valore della causa cosi' come avviene per individuare lo scaglione di valore della causa ai fini della liquidazione delle spese legali»: l'analisi logica della frase e l'uso della disgiuntiva «o», rafforzato peraltro dall'inciso condizionale «se inferiore», evidenziano inconfutabilmente che il valore del diritto accertato viene indicato, in alternativa a quello del valore della causa, come limite alla «misura dell'indennizzo» e non come criterio di determinazione del «valore della causa». Una diversa lettura finirebbe, dunque, col tradursi in una interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si tratta di armonizzare la norma interna al parametro costituzionale rappresentato dalla CEDU, in forza del richiamo ai «vincoli derivanti ... dagli obblighi internazionali» contenuto nell'art. 117 Cost., dovendo, in tal caso, una siffatta opera di raccordo tra fonte interna o fonte internazionale in conflitto essere necessariamente rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con te consequenziali statuizioni, di cui al dispositivo ...»; constatato che quanto sinora esposto legittima ulteriormente a ritenere sussistenti i presupposti per promuovere dunque, in piena adesione al secondo precedente retro richiamato, incidente di costituzionalita' della disposizione in premessa richiamata anche nell'odierno procedimento onde far seguire ad esso la sua definizione.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 e 137 Cost., 1 della Legge Cost. 9 febbraio 1948 n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; 1) dichiara non manifestamente infondata, e rilevante nel presente giudizio, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis, comma 3, legge 24 marzo 2001 n. 89 (introdotto dall'art. 55 comma 1 lett. b) D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito con legge 7 agosto 2012 n. 134), per contrasto con l'art. 117 della Costituzione, nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al «valore del diritto accertato» senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente; 2) dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e la sospensione del presente procedimento fino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; 3) ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al ricorrente e al Ministero della Giustizia presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato e, con urgenza, al Presidente del Consiglio dei Ministri, e che la stessa venga altresi' comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Reggio Calabria, addi' 23 settembre 2013 Il Consigliere delegato: Sabatini