N. 86 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 febbraio 2014
Ordinanza del 28 febbraio 2014 emessa dal Tribunale di Roma nel procedimento civile promosso da M.V. ed altri c/Azienda USL RM A ed altri. Procreazione medicalmente assistita - Accesso alle tecniche - Divieto per le coppie non affette da sterilita' o infertilita', (pur se) portatrici di patologie geneticamente trasmissibili - Conseguente impossibilita' per tali coppie di valersi della diagnosi e della selezione preimpianto, evitando la gravidanza naturale e l'eventuale aborto terapeutico - Lesione di diritti soggettivi inviolabili, quali il diritto della coppia a un figlio "sano" e il diritto all'autodeterminazione nelle scelte procreative - Ingerenza indebita nella vita della coppia - Violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza - Incoerenza tra il divieto di ricorso alla PMA e la possibilita' di aborto terapeutico quando il feto risulti affetto da gravi patologie - Discriminazione delle coppie fertili, portatrici di malattia geenticamente trasmissibile, rispetto alle coppie sterili o infertili o in cui l'uomo sia affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili - Violazione del diritto alla salute della donna, per difetto di adeguato bilanciamento con la tutela della salute dell'embrione - Contrasto con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), in relazione al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione - Richiamo alla sentenza della Corte di Strasburgo 28 agosto 2012, Costa e Pavan c. Italia. - Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1. - Costituzione, artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.(GU n.24 del 4-6-2014 )
IL TRIBUNALE DI ROMA Il giudice Visto il ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, iscritto al RG 43571/2013, proposto dai coniugi M.V. e C.F., nei confronti della Azienda USL Roma A e del Centro per la tutela della salute della dorma e del bambino S. Anna, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro-tempore; Rilevato che si e' costituita l'azienda resistente chiedendo il rigetto della domanda; Visto l'atto di intervento ad adiuvandum della associazione «Luca Coscioni, per la liberta' di ricerca scientifica»; dell'associazione «Amica Cicogna Onlus», dell'associazione «Cerco un Bimbo», dell'associazione «L'altra Cicogna»; Sentite le parti e lette le note autorizzate depositate; A scioglimento della riserva assunta alla udienza del 15 ottobre 2013 con termine per note fino a giorni venti ed un ulteriore termine per eventuali repliche fino a giorni cinque, osserva quanto segue; Premesso in fatto I ricorrenti, premesso di aver contratto matrimonio in data 8 luglio 2012 in Roma e di essere tuttora coniugati e conviventi, hanno esposto quanto segue. La moglie, M.V. e' portatrice sana eterozigote di una «traslocazione reciproca bilanciata tra il braccio corto di un cromosoma 3 ed il braccio lungo di un cromosoma 5 con punti di rottura rispettivamente in 3p25 5q33, di derivazione materna», malattia genetica diagnosticata all'odierna ricorrente in data 24 novembre 2006 con analisi del cariotipo eseguita dal Laboratorio di genetica medica del Policlinico di Tor Vergata. Come evidenziato in data 25 ottobre 2010, sulla base di una successiva consulenza genetica resa dal dott. Mario Bengala del Policlinico di Tor Vergata di Roma: «Questa condizione interessa una persona su 500 e non si associa solitamente ad alcun effetto fenotipico nel portatore che pero' ha invece un rischio riproduttivo aumentato rispetto a quello della popolazione generale; infatti il 50% dei concepimenti esita in un aborto spontaneo nelle prime settimane di gestazione e l'8-12% in un prodotto con cariotipo sbilanciato», con conseguenti alterazioni cromosomiche complesse, quali «dismorfismi facciali, microcefalia, brachidattilia, ritardo di crescita, distrofia, ritardo mentale di grado variabile, ipertelorismo, labbra piccole e sottili, ponte nasale prominente e largo, malformazioni dei padiglioni auricolari, difetti cardiaci di conduzione». Nell'ottobre 2009, infatti, la coppia aveva avuto una prima gravidanza extrauterina esitata in aborto. Successivamente la coppia aveva conseguito per via naturale un'altra gravidanza ma a seguito di accertamenti prenatali, dai quali era emersa la presenza nel feto di un'alterazione cromosomica, la M. doveva ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza al 5° mese di gestazione. La coppia desiderosa di avere un figlio si rivolgeva all'U.O. di fisiopatologia della riproduzione e fecondazione assistita, Centro per la salute della donna S. Anna, per accedere a fecondazione medicalmente assistita e poter effettuare la diagnosi genetica preimpianto in modo da ottenere informazioni sullo stato di salute dell'embrione prima del suo impianto in utero; sennonche', il responsabile dott. Antonio Colicchia dichiarava che la struttura non eroga la prestazione di diagnostica genetica preimpianto, opponendo un rifiuto fondato sul fatto che la coppia, non risultando affetta da sterilita' o infertilita', ancorche' portatrice di malattie genetiche trasmissibili, non poteva accedere al trattamento ai sensi della legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto «norme in materia di procreazione medicalmente assistita», il cui art. 4 circoscrive il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) ai soli casi di infertilita' o sterilita' della coppia. I ricorrenti hanno evidenziato in diritto che: l'interpretazione costituzionalmente orientata della legge 19 febbraio 2004, n. 40, consente anche alla coppia fertile, in quanto portatrice di patologia genetica, di accedere alla «P.M.A.» per poter eseguire indagini cliniche diagnostiche sull'embrione anche alla luce della parallela legge sull'aborto, che consente alla donna di procedere alla interruzione della gravidanza in tutti i casi in cui il parto o la maternita' possano comportare un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica o anche in relazione a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, in tale specifico caso anche dopo il decorso dei primi novanta giorni, cosi' come gli embrioni affetti da gravi patologie genetiche possono determinare una prosecuzione patologica della gravidanza o causare un aborto spontaneo, compromettendo parimenti l'integrita' fisica e psichica della donna; la Corte EDU, il 28 agosto 2012, nel caso Costa e Pavan c. Italia, con decisione diventata definitiva in data 11 febbraio 2013, ha, invero, accertato che lo Stato italiano nella parte in cui consente l'accesso alla «P.M.A.» unicamente alle coppie sterili o infertili (o in cui l'uomo e' portatore di malattie virali trasmissibili, come da linee guida del Ministero della salute dell'11 aprile 2008, n. 31639) ha violato gli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU) ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Tanto premesso i ricorrenti chiedevano di accertare e dichiarare il proprio diritto ad ottenere l'applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita secondo modalita' e tecnologie compatibili con un'elevata tutela del livello di salute della donna e del concepito, adottando ogni provvedimento ritenuto opportuno in relazione al caso in esame, sul presupposto della disapplicazione dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 8 e 14 della CEDU, in forza dell'art. 6/2 del Trattato di Lisbona e della integrazione del sistema CEDU nell'ordinamento comunitario. Si costituiva in giudizio la Azienda USL RM A, la quale eccepiva che, in assenza di una modifica della legge 19 febbraio 2004, n. 40, che vieta l'accesso alla procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, la domanda non poteva essere accolta; che comunque la medesima legge, consentendo esclusivamente interventi sull'embrione aventi finalita' diagnostiche e terapeutiche, non consentiva la diagnosi preimpianto con finalita' selettiva; che infine il servizio di diagnosi genetica preimpianto non era garantito dal Servizio sanitario nazionale, ne' vi era la possibilita' di assistenza in forma indiretta, abrogata con il decreto legislativo n. 502/1992, per le prestazioni specialistiche, utilizzando le strutture private non accreditate. Le associazioni intervenienti si costituivano in giudizio per sostenere le ragioni dei ricorrenti. Rileva in diritto I ricorrenti chiedono di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in quanto coppia fertile, portatrice di patologia geneticamente trasmissibile, e di potersi avvalere del servizio di diagnosi preimpianto in modo da conoscere l'eventuale trasmissione della patologia all'embrione. Pertanto le questioni sollevate dai ricorrenti riguardano due distinti profili: da un lato, il limite di accesso posto dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40, ai soli casi di sterilita' o di infertilita' e, dall'altra, la possibilita' di accedere alla diagnosi preimpianto. In merito al primo profilo, la legge 19 febbraio 2004, n. 40, all'art. 4, circoscrive, come sopra rilevato, il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita «P.M.A.» ai soli casi di sterilita' o di infertilita' della coppia, nonche', secondo le nuove linee guida dettate dal Ministero della salute del 2008 (decreto dell'11 aprile 2008, n. 31639, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 30 aprile 2008), ai casi in cui l'uomo sia portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili. In merito al secondo profilo l'art.13 della stessa legge contempla la cd. diagnosi preimpianto «P.D.G.», consistente nella identificazione di una anomalia genetica dell'embrione, grazie alle tecniche di biologia molecolare, volta alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso. 1. La lettura costituzionalmente orientata della possibilita' di accedere alla diagnosi preimpianto. Partendo da questo secondo profilo, l'art. 13 prevede, in linea di principio, «il divieto di sperimentazione su ciascun embrione umano» (1° comma) per poi regolare, quale eccezione alla stessa regola, la possibilita' di effettuare «la ricerca clinica e sperimentale sull'embrione a condizione che si perseguano finalita' esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell'embrione stesso» (2° comma) con esplicito divieto della «produzione di embrioni umani a fini di ricerca o sperimentazione» e di «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti» (3° comma, lettere a e b). La giurisprudenza di merito ha gia' ritenuto, sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata, che l'art. 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, consenta la c.d. selezione preimpianto nell'ipotesi di rischio di trasmissione al feto di una grave patologia, di cui siano portatori i genitori. L'interpretazione si fonda su una serie di considerazioni, quali l'assenza, nella legge, di un espresso divieto di diagnosi preimpianto; la previsione del consenso informato nei confronti delle coppie; la distinzione contenuta nella stessa norma tra la ricerca scientifica, comprendente la manipolazione e la sperimentazione, e l'accertamento a fini terapeutici e diagnostici, finalizzato alla tutela della salute e dello sviluppo dell'embrione, che impone di ritenere il divieto circoscritto alla sola finalita' di ricerca; l'abrogazione, in sede di revisione delle linee guida elaborate dal Ministero della salute nel 2008, della previsione originaria, contenuta nelle linee guida del 2004, secondo cui l'indagine sull'embrione doveva essere soltanto «di tipo osservazionale»; ed infine la necessita' di un giusto bilanciamento tra l'integrita' dell'embrione ed il diritto costituzionalmente garantito della donna alla salute, previsto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 151 del 2009 (cfr. Trib. Cagliari ord. 22-24 settembre 2007, Trib. Firenze ord. 17 dicembre 2007, Trib. Firenze ord. 11 luglio 2008, Trib. Firenze ord. 23 agosto 2008, Trib. Milano ord. 8 marzo 2009, Trib. Salerno ord. 9 gennaio 2009). L'interpretazione evolutiva delle pronunce citate in materia di diagnosi preimpianto e' ampiamente condivisibile e permette, ad avviso di questo giudice, di escludere che sussista un divieto sia della diagnosi sia della selezione preimpianto, finalizzata ad impedire il trasferimento, nell'utero della donna, dei soli embrioni affetti da gravi patologie. La diagnosi preimpianto e' indirettamente contemplata dall'art. 13, 2° comma, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, che consente espressamente, quale eccezione al divieto imposto dal 1° comma, «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalita' esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell'embrione stesso», e dal successivo art. 14, 5° comma, che impone all'operatore sanitario l'obbligo di informare le parti «sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell'utero». La lettura congiunta delle due disposizioni evidenzia come il diritto delle parti ad essere informate sia finalizzato a prestare il loro eventuale consenso all'impianto nell'utero della donna degli embrioni fecondati in vitro, in forza del piu' generale principio che prevede il consenso informato del paziente ad ogni trattamento sanitario cui venga sottoposto. La facolta' di prestare il consenso, che contempla in se' la possibilita' del rifiuto, attribuisce alla coppia non solo il diritto alla diagnosi degli embrioni ma altresi' il diritto di rifiutare l'impianto degli embrioni malati. E' attraverso la suddetta diagnosi che viene pertanto tutelato sia il diritto all'autodeterminazione dei soggetti coinvolti sia il diritto alla salute della futura gestante, essendo evidente che gli embrioni affetti da gravi patologie genetiche possono seriamente determinare una prosecuzione patologica della gravidanza o causare un aborto spontaneo o compromettere l'integrita' fisica e psichica della donna, sottoponendola ad una pressione psicologica insostenibile o costringendola a ricorrere ad un aborto terapeutico. Inoltre nella legge non e' prevista alcuna preclusione alla selezione preimpianto: il divieto previsto dal 3° comma del medesimo art. 13 di ogni forma di selezione degli embrioni e dei gameti e' imposto al solo fine di impedire il perseguimento di finalita' eugenetiche, ma lascia salva la finalita' diagnostica e terapeutica contemplata nel 2° comma, in linea con la disciplina prevista dalla legge sull'aborto (legge 22 maggio 1978, n. 194), che consente alla donna di procedere all'interruzione della gravidanza in tutti i casi in cui il parto o la maternita' comportino un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica o anche in relazione a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. La selezione preimpianto e' meramente eventuale in quanto la diagnosi puo' essere preordinata a ottenere informazioni sullo stato di salute del feto non necessariamente in prospettiva di una eventuale interruzione di gravidanza, ma anche per consentire alla coppia, e in particolare alla donna, una adeguata preparazione psicologica e pratica in relazione ai problemi del nascituro. Si evidenzia, inoltre, che l'asserito divieto di diagnosi preimpianto appare irragionevole e incongruente col sistema normativo se posto in parallelo con la diffusa pratica della diagnosi prenatale, tecnica altrettanto invasiva del feto (e non dell'embrione), rischiosa per la gravidanza, ma perfettamente legittima nel bilanciamento degli interessi tutelati. In ogni caso, deve ritenersi che la legittimita' della diagnosi preimpianto, trovi fondamento nella decisione della Corte costituzionale del 2009, n. 151, che ha posto in primo piano la tutela della salute fisica e psicologica della donna, affermando il principio che la tutela dell'embrione non e' assoluta, ma limitata dalla necessita' di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze della procreazione. Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che, relativamente all'accesso alla diagnosi preimpianto, sia possibile una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 13 della legge n. 40/2004. 2. Ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per le coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili. Ai sensi dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, l'accesso alle tecniche e' circoscritto ai casi di sterilita' o infertilita'. Pertanto le coppie fertili, portatrici di patologie geneticamente trasmissibili, quali i ricorrenti nel procedimento in esame, non possono ricorrere alla P.M.A. La stessa conclusione si ricava dalla lettura dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge sopra indicata. L'accesso alla P.M.A. e' il presupposto perche' la coppia fertile possa accedere alla diagnosi, alla quale di regola il ricorso alla tecnica e' finalizzato, e conoscere se l'embrione sara' affetto o meno dalla patologia prima dell'impianto in utero, cosi' da evitare la scelta dolorosa di una eventuale interruzione di gravidanza. Ne deriva che il limite al ricorso alla P.M.A., posto alle coppie fertili dagli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, appare in contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 della Cost. in quanto viola il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative, il principio di uguaglianza, di ragionevolezza e il diritto alla salute, costringendo le coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, come la coppia in esame, a una gravidanza naturale e all'eventuale aborto terapeutico, Il limite appare, altresi', in contrasto con l'art. 117, comma 1, della Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU. Questo giudice deve, preliminarmente, valutare se sia possibile superare il limite attraverso la disapplicazione degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, ovvero attraverso una lettura costituzionalmente orientata che renda le norme conformi ai principi costituzionali sopra indicati. In materia di accesso alla «P.M.A.» da parte di coppie che non presentano problemi di sterilita' o di infertilita' si e' pronunciato il Tribunale di Salerno, ordinanza del 9-13 gennaio 2010, che ha ritenuto di superare il dato letterale della legge 19 febbraio 2004, n. 40, autorizzando una coppia di genitori, non sterili e non infertili, ad accedere alle tecniche di «P.M.A.» e alla diagnosi preimpianto. Si e' di recente pronunciato, con ordinanza depositata il 26 settembre 2013, questo stesso Tribunale, che ha accolto l'istanza cautelare dei coniugi Costa e Pavan a sottoporsi alla «P.M.A.» disapplicando l'art. 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in attuazione del «giudicato formale» della Corte EDU reso nella specifica fattispecie dedotta dalle parti in causa. Nel caso Costa e Pavan c. Italia, il diritto invocato dai ricorrenti, coppia fertile, riguardava la possibilita' di accedere alla diagnosi preimpianto per poter generare un figlio non affetto da mucoviscidosi (par. 53). A giudizio della Corte, il desiderio dei ricorrenti di generare un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori rientra nel campo della tutela offerta dall'art. 8 della CEDU, costituendo una forma di espressione della vita privata e familiare (par. 57). La Corte ha denunciato l'incoerenza del sistema legislativo italiano, che, da un lato, ammette la possibilita' di ricorrere all'aborto terapeutico quando il feto risulti malato (legge n. 194/1978) e, dall'altro, non consente alle coppie portatrici di patologie geneticamente trasmissibili di accedere alla «P.M.A.» e alla diagnosi preimpianto, escludendo l'embrione «malato» dal trasferimento nell'utero (legge n. 40/2004) ed esponendo la coppia a una scelta doppiamente dolorosa e rischiosa per la salute della donna e del concepito. 3. La di applicazione degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con la CEDU. Preliminarmente questo giudice deve valutare se, nel presente procedimento, possano disapplicarsi gli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in applicazione diretta delle statuizioni contenute nella sentenza EDU sopra indicata. Il tema del rapporto tra ordinamento interno, normative internazionali e Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), nel sistema delle fonti del diritto, e' stato affrontato dalla Corte costituzionale, con le sentenze del 22-24 ottobre 2007, n. 348 e 349. Per la Corte costituzionale la CEDU non puo' essere assimilata al diritto comunitario perche' non crea un ordinamento giuridico sopranazionale, e' diritto internazionale pattizio, capace di vincolare lo Stato, ma non produttivo di effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da legittimare i giudici nazionali a disapplicare le norme interne in contrasto. Nell'esaminare i rapporti tra le tre fonti (norma costituzionale, norma di legge che recepisce la norma internazionale, legge ordinaria) va evidenziato che l'ordinamento costituzionale italiano prevede, nel primo comma dell'art. 10 Cost., l'automatico recepimento nell'ordinamento solo delle «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» e nell'art. 11 Cost. prevede che l'ordinamento statale possa consentire «in condizioni di parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; nulla prevedendo esplicitamente, prima della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, in merito al riconoscimento di una speciale efficacia giuridica ai trattati internazionali, ratificati con legge. La modificazione del titolo V della seconda parte della Costituzione, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ha introdotto il nuovo primo comma dell'art. 117 Cost. ai sensi del quale «La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». La nuova disposizione costituzionale individua la maggiore forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive e attrae le norme CEDU nella sfera di competenza della Corte, «poiche' gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimita' costituzionale». Pertanto il giudice comune non dispone del «potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU» (Corte cost. sentenza 22-24 ottobre 1997, n. 348). In sostanza l'art. 117, comma 1, Cost. configura l'eventuale incompatibilita' di una legge per contrasto con la norma CEDU - norma interposta scaturente dall'accordo internazionale - come una questione di legittimita' costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, comma 1 della Cost., che solo la Corte costituzionale puo' accertare. Per norma interposta si intende che la CEDU e' una norma di rango «sub-costituzionale», di rango cioe' subordinato alla Costituzione, ma sovraordinato alla legge. L'art. 117, comma 1, Cost. va interpretato come disposizione capace di riconoscere alle norme CEDU forza passiva superiore a quella delle leggi ordinarie, ma non di elevare le stesse al rango di fonte costituzionale. Pertanto il giudice ordinario deve in primo luogo verificare se il conflitto tra disposizione legislativa e norma internazionale puo' essere eliminato adeguando, in via interpretativa, la norma legislativa a questa particolare norma interposta; se cio' si rivela impossibile, deve sollevare dinanzi alla Corte costituzionale una questione di legittimita' costituzionale della disposizione legislativa rispetto al parametro dell'art. 117, comma 1, Cost.» (Corte cost. sentenza 22-14 ottobre 1997, n. 349). I principi contenuti nelle sentenze della Corte cost. del 2007, n. 348 e n. 349, sono stati confermati dalla Corte cost. con successive decisioni, secondo le quali le norme della CEDU nel significato attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, integrano, quali norme interposte il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (Corte cost. sentenze n. 39/2008, n. 311/2009). 4. La disapplicazione delle norme interne in contrasto con la CEDU dopo la ratifica del Trattato di Lisbona. I ricorrenti affermano che, per effetto della adesione dell'Unione europea alla CEDU, i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione diventano diritto dell'Unione in quanto principi generali, con le dovute conseguenze in merito alle modalita' di adeguamento del diritto interno al diritto sovranazionale e dei rapporti tra sistemi normativi, non piu' regolati dall'art. 117, comma 1, Cost. bensi' dall'art. 11 Cost. Secondo questa tesi, nell'ipotesi di disposizione interna in contrasto con la norma CEDU, il giudice ordinario, dopo aver effettuato il controllo di compatibilita', puo' procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante. L'affermazione non e' condivisibile. Il Trattato sull'Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, all'art. 6, par. 2, dispone che «L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali», cosi' limitandosi a consentire e dare base giuridica all'adesione della UE alla CEDU, ma l'adesione non e' ancora avvenuta, rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione, tanto che si sta negoziando l'accordo di adesione, previsto dal protocollo n. 8, annesso allo stesso Trattato. In questo senso si e' pronunciata la Corte cost., con le sentenze n. 303 e n. 80 del 2011 e, piu' di recente, con la sentenza n. 210 del 2013 che ha affermato che «l'adesione dell'Unione europea alla CEDU non e' ancora avvenuta rendendo allo stato improduttiva di effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato dell'Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona (sentenze n. 303 e n. 80 del 2011), e ribadendo quanto in precedenza affermato nelle sentenze n. 303 del 2011 e n. 349 del 2007 «in linea di principio, dalla qualificazione dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario non puo' farsi discendere la riferibilita' alla CEDU del parametro di cui all'art. 11 Cost., ne', correlativamente, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la predetta Convenzione». Di conseguenza le osservazioni dei ricorrenti basate sulla «comunitarizzazione» della CEDU e la possibilita' di disapplicazione diretta delle norme interne, in applicazione del principi della CEDU, non sono condivisibili. Sulla questione si e' anche pronunciata la Corte di giustizia con la sentenza del 24 aprile 2012, nella causa C-571/10 Servet Kamberaj c. IPES, giunta della provincia autonoma di Bolzano, provincia autonoma di Bolzano, resa sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Bolzano, le cui considerazioni appaiono rilevanti in merito al rapporto tra sistema normativo interno e sovranazionale, successivo al Trattato di Lisbona. Delle sette questioni pregiudiziali formulate dal giudice del rinvio, la Corte ha ritenuto ricevibili solo alcune e, in particolare, per quanto interessa nella specie, la seconda questione pregiudiziale, con la quale il giudice nazionale chiedeva, in sostanza, se «il richiamo alla CEDU effettuato dall'art. 6, paragrafo 3 TUE imponga al giudice nazionale di dare diretta attuazione alle disposizioni di tale convenzione ... disapplicando la norma di diritto nazionale in conflitto, senza dovere previamente sollevare una questione di costituzionalita' dinanzi alla Corte costituzionale» (paragrafo 59). Ai sensi dell'art. 6, paragrafo 3, TUE, i diritti fondamentali, cosi' come garantiti dalla CEDU e quali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali (paragrafo 60). La Corte di giustizia ha osservato che, se questa disposizione consacra la giurisprudenza costante della Corte, secondo la quale i diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l'osservanza, tuttavia l'art. 6, par. 3 TUE «non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell'ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale» (paragrafi 61 e 62). Ne consegue che «il rinvio operato dall'art. 6, par. 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa» (paragrafo 63). Conformemente alle considerazioni che precedono, ritiene questo giudice che i diritti fondamentali enunciati dalla CEDU siano parte del diritto dell'Unione, quali principi generali, ma il contenuto di tali diritti non incida sulla veste formale della fonte giuridica nella quale sono enunciati. La situazione, quale era cristallizzata nella giurisprudenza della Corte costituzionale, sopra indicata, non e' mutata per effetto dell'adesione dell'Unione europea alla CEDU, atteso che i diritti enunciati dalla CEDU fanno parte dei principi generali di cui l'Unione europea garantisce l'osservanza, ma il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e' un rapporto disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. 5. La interpretazione costituzionalmente orientata degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 - esclusione. Alla luce delle considerazioni che precedono, posto che la disapplicazione non appare una strada percorribile, va esaminata la possibilita', in via preliminare, di una lettura costituzionalmente orientata degli articoli 1, comma 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per superare, in via interpretativa, il contrasto con gli articoli 2, 3, 32 Cost. nonche' con gli articoli 8 e 14 della CEDU, fino a dove cio' sia consentito dal testo delle disposizioni. Ritiene questo giudice che non si possa accedere alla lettura costituzionalmente orientata proposta in via principale dai ricorrenti. Si e' infatti in presenza di una limitazione espressa del ricorso alla P.M.A. contenuta in due articoli (1 e 4) della legge n. 40/2004, che rende difficile estendere, per via interpretativa, il ricorso alle tecniche anche alle coppie fertili ma portatrici di patologie geneticamente trasmissibili, quali i ricorrenti del caso in esame, ai quali difetta l'elemento soggettivo, atteso che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita e' consentito solo quando sia accertata l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed e' comunque circoscritto ai casi di sterilita' o di infertilita' inspiegate documentate da atto medico nonche' ai casi di sterilita' da causa accertata e certificata da atto medico. La interpretazione estensiva non e' consentita dalla chiara lettera della legge e dall'utilizzo di espressioni che rendono palese la volonta' di limitare, come il verbo «circoscrivere». Far discendere una interpretazione estensiva in ordine ai soggetti che possono accedere alla PMA, inserendovi anche le coppie fertili, dalla lettura costituzionalmente orientata della diagnosi preimpianto appare un'operazione logica ardita, atteso che se e' vero che l'accesso alle tecniche e' presupposto logico e funzionalmente connesso alla diagnosi, e' tuttavia vero che la questione della ammissibilita' della diagnosi preimpianto si pone a prescindere dal limite di accesso, potendo coinvolgere anche coppie sterili o infertili. Ne' argomenti a favore possono trarsi dall'ampliamento della nozione di infertilita' derivante dalle nuove linee guida del Ministero della salute (decreto dell'11 aprile 2008, n. 31639, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 30 aprile 2008), che hanno esteso l'accesso alla «P.M.A.» anche alle coppie in cui l'uomo e' affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili (virus H.I.V., HBV o HCV). L'equiparazione della situazione dell'uomo portatore di HIV o epatite a quella di sterilita' o infertilita' si giustifica con la considerazione che, in questi casi, sussiste un elevato rischio di infezione per la madre e il feto, conseguente a rapporti sessuali non protetti con il partner. Un rischio che, di fatto, preclude la possibilita' di avere un figlio a queste coppie, imponendo loro l'adozione di precauzioni che si traducono necessariamente in un condizione di infecondita', ascrivibile tra i casi di infertilita' maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico. Tali casi sono riconducibili nell'ambito dell'art. 4 della legge n. 40/2004, il quale delimita espressamente e significativamente l'accesso alle PMA alle ipotesi in cui vengano in rilievo «cause impeditive della procreazione» (e non vi sia possibilita' di «rimuover[le] altrimenti»). Appare evidente che le linee guida sono il frutto della equiparazione tra cause impeditive della procreazione dovute a infertilita' o sterilita' e cause che, di fatto, risultano impeditive della procreazione, in quanto precludono il rapporto sessuale a causa dell'elevatissimo rischio di contagio della donna. In altri termini, qualora il partner maschile sia portatore di virus e si trovi nella impossibilita' di avere un rapporto sessuale senza correre il rischio di infettare la partner e il feto, il decreto del 2008 gli riconosce una condizione peculiare che, pur non potendo essere definita di infertilita', atteso che la capacita' procreativa non e' condizionata dalla patologia, e' tuttavia a questa assimilata. In virtu' di questa assimilazione, l'uomo portatore di HIV puo' accedere alle tecniche. Ben diversa e' la condizione delle coppie fertili portatrici di patologia trasmissibile non sussistendo per loro alcun rischio di contagio connesso alla procreazione. 6. Necessita' di sollevare la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40. Alla luce delle considerazioni che precedono, posto che la interpretazione costituzionalmente orientata delle norme non appare una strada percorribile, si ritiene che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale, che pertanto si solleva, dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3, e 32 della Cost., nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU. 7. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. Sulla rilevanza della questione nel procedimento in esame, va evidenziato che i ricorrenti sono una coppia fertile, attesa la prima spontanea gravidanza interrotta con aborto terapeutico, e con il rischio di trasmettere la distrofia muscolare Becker, patologia genetica ereditaria, al figlio con una probabilita' del 50%, come certificato dal prof. Novelli del dipartimento di genetica dell'Universita' Roma Tor Vergata e come purtroppo confermato dagli esiti della prima gravidanza. Per poter decidere sulla richiesta dei ricorrenti di ordinare in via di urgenza, attesa anche l'eta' della ricorrente, al centro e all'amministrazione resistente di consentire l'accesso alla PMA, presupposto della diagnosi, occorre applicare la legge 19 febbraio 2004, n. 40. Quanto all'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale in sede cautelare, la sentenza della Corte costituzionale n. 151/2009 ha rilevato che «la giurisprudenza di questa Corte ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di legittimita' costituzionale in sede cautelare, sia quando il giudice non provveda sulla domanda, sia quando conceda la relativa misura, purche' tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce (sentenza n. 161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008 e n. 25 del 2006). 8. Non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale per contrasto degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, con gli articoli 2, 3, e 32 della Cost. Il ricorso alla P.M.A. circoscritto ai soli casi di sterilita' o infertilita' appare in contrasto con gli articoli 2, 3, e 32 della Costituzione e pertanto questo giudice solleva la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sotto questo profilo. Quanto al contrasto con l'art. 2 della Cost., si evidenzia tra i diritti soggettivi inviolabili vi e' il diritto della coppia a un figlio «sano» e il diritto di autodeterminazione nelle scelte procreative. Le scelte consapevoli relative alla procreazione fanno parte dei diritti fondamentali costituzionalmente tutelati e personalissimi di entrambi i genitori, in maniera da garantire la tutela alla libera ed informata autodeterminazione di procreare. Il diritto alla procreazione sarebbe irrimediabilmente leso dalla limitazione del ricorso alle tecniche di P.M.A. da parte di coppie che, pur non sterili o infertili, rischiano pero' concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili, di cui sono portatori. Il limite rappresenta una ingerenza indebita nella vita della coppia. Si evidenzia che anche secondo la Corte EDU, nella sentenza Costa e Pavan c. Italia, il desiderio dei ricorrenti di generare un tiglio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori rientra nel campo della tutela offerta dall'art. 8 della CEDU, costituendo una forma di espressione della vita privata e familiare (par. 57). La esclusione dalla P.M.A. delle coppie fertili portatrici di patologia trasmissibile appare inoltre in contrasto con l'art. 3 della Cost., inteso come principio di ragionevolezza, quale corollario del principio di uguaglianza, in quanto comporta la conseguenza paradossale, irragionevole e incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto dalla patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta tragica dell'aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194. Nel bilanciamento tra diritti fondamentali, il punto di equilibrio e' sempre dinamico e deve essere valutato secondo criteri di proporzionalita' e di ragionevolezza. La tutela dei diritti deve essere sempre «integrata» nel senso che nessun diritto fondamentale puo' considerarsi protetto in termini assoluti dalla Costituzione, ma e' soggetto a limiti per interagire con una pluralita' di altri diritti. Nel giudizio di bilanciamento va sottolineato che: in primo luogo, nessuno dei diritti costituzionali ha carattere assoluto, ma tutti possono e debbono essere contemperati con gli altri diritti e interessi costituzionalmente rilevanti; in secondo luogo, non esiste una gerarchia predeterminata in astratto tra i diritti e i valori costituzionali, ma il bilanciamento e' un'operazione dinamica affidata in primo luogo al legislatore, su cui la Corte effettua il proprio compito di controllo; in terzo luogo, il bilanciamento richiede criteri di ragionevolezza e proporzionalita'; infine, l'esito del bilanciamento non puo' mai essere il sacrificio totale di uno dei valori in gioco, perche' di ciascuno deve essere preservato il nucleo essenziale. «Il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalita' dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalita' rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalita' che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (Corte cost. sentenza n. 1130 del 1988 e sentenza n. 264 del 1996). Alla luce del principio di ragionevolezza come sopra interpretato, gli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge del 2004 n. 40, sono in contrasto con l'art. 3 della Cost., inteso come necessaria coerenza interna dell'ordinamento giuridico italiano, atteso che, da un lato, la legge n. 194/1978 permette, nel caso in cui il feto risulti affetto da gravi patologie, l'aborto terapeutico, che ha conseguenze ben piu' gravi per la salute fisica e psichica della donna rispetto alla selezione dell'embrione successiva alla diagnosi preimpianto; dall'altro, la legge n. 40/2004 impedisce alle coppie fertili il ricorso alla PMA, presupposto per accedere alla diagnosi e alla eventuale selezione preimpianto. Si evidenzia ancora che il diritto della donna che ne abbia fatto richiesta attraverso l'accesso alla diagnosi prenatale a tutte le informazioni sullo stato di salute del feto e' ampiamente garantito nel sistema italiano, non necessariamente in prospettiva della eventuale interruzione di gravidanza, ma anche perche' garantisce una maternita' piu' consapevole, consentendo una adeguata preparazione psicologica e pratica in relazione ai problemi del nascituro. Vi e' inoltre contrasto con l'art. 3 anche sotto il profilo della discriminazione delle coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, rispetto alle coppie sterili o infertili (o in cui l'uomo sia affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili), che invece possono ricorrere alle tecniche di P.M.A. La questione di legittimita' costituzionale delle norme sopra indicate appare non manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 32 della Cost. in particolare sotto il profilo della tutela della salute della donna, costretta per realizzare il desiderio di mettere al mondo un figlio, non affetto da patologia, a una gravidanza naturale e a un eventuale aborto terapeutico, con conseguente aumento di rischi per la sua salute fisica, e compromissione della sua sfera psichica, per effetto della scelta dolorosa di procedere, all'occorrenza, alla interruzione volontaria di gravidanza, in assenza di un adeguato bilanciamento della tutela della salute della donna con quella dell'embrione. 9. La non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale per contrasto degli articoli 1, commi 1 e 2 e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, con gli articoli 8 e 14 CEDU. La questione di legittimita' costituzione degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, appare non manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU. Come evidenziato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e Pavan c. Italia, il divieto imposto dall'art. 4 della legge del 2004 n. 40, alle coppie non affette da sterilita' e infertilita', ma che siano portatrici di malattia ereditaria, di accedere alla PMA e alla diagnosi preimpianto, laddove «l'ordinamento italiano permette di ricorrere all'aborto terapeutico nel caso in cui il feto risulti affetto da patologie di particolare gravita' quale la fibrosi cistica» e' irragionevole. Per la Corte non si comprende lo scopo della proibizione «considerato che l'aborto ha conseguenze sicuramente piu' gravi della selezione dell'embrione successivamente a PDI sia per il nascituro che si trova in stato di formazione piu' avanzato, sia per i genitori in particolare per la donna»: argomentazione questa che porta la Corte EDU ad escludere la funzionalita' del divieto imposto dall'art. 4 della legge n. 40/2004, che di fatto si risolve nell'incoraggiamento del ricorso all'aborto del feto, rispetto allo scopo perseguito dalla stessa legge, consistente nella tutela del nascituro, e conseguentemente a concludere che la disciplina in vigore, traducendosi in un'indebita ingerenza nella vita privata e familiare dei ricorrenti, non possa ritenersi proporzionale ne' necessaria alla protezione dei diritti cui si assume sia sottesa. Ricorrono pertanto le condizioni per sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 8 della CEDU. In secondo luogo gli articoli 1, commi 1 e 2, e l'art. 4, comma 1, della legge 2004 appaiono in contrasto anche con l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 14 della CEDU, sotto il profilo della discriminazione delle coppie fertili, portatrici di malattia geneticamente trasmissibile, rispetto alle coppie sterili o infertili o in cui l'uomo sia affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili, che invece possono ricorrere alle tecniche di P.M.A. in base alla legge e, per l'ultima categoria, in base alla estensione operata dalle linee guida del 2008, e conseguentemente accedere alla diagnosi preimpianto. La sentenza EDU, nel caso Costa e Pavan c. Italia, ha ritenuto la dedotta violazione dell'art. 14 della CEDU manifestamente infondata, sul presupposto che la diagnosi preimpianto sarebbe vietata, per la legge italiana, a tutti indistintamente. Tuttavia, muovendo dalla interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 13, sostenuta da questo giudice, e dalla conclusione della liceita' della diagnosi, rimane il problema del ricorso alla P.M.A., consentito alle coppie sterili e infertili ma non alle coppie fertili portatrici di patologia trasmissibile. Il presente procedimento cautelare - conformemente a quanto gia' valutato da questo Tribunale in relazione ad una analoga fattispecie con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2014 (R.G. 43568/2013) - non puo' essere pertanto definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale e deve, quindi, essere sospeso.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza; Rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2 , e dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 della Cost. nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio. Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma, 27 febbraio 2014 Il giudice: Bianchini Il giudice unico Vista la propria ordinanza con cui in data 27 febbraio 2014 e' stata sollevata questione di legittimita' costituzionale in ordine all'art. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili; Rilevato che per un mero errore materiale al punto 7) della parte motiva della citata ordinanza e' stato fatto riferimento alla distrofia muscolare Becker in luogo dell'alterazione cromosomica rilevata nel caso di specie; P. Q. M. Dispone che ove e' scritto «i ricorrenti sono una coppia fertile, attesa la prima spontanea gravidanza interrotta con aborto terapeutico, e con il rischio di trasmettere la distrofia muscolare Becker, patologia genetica ereditaria, al figlio con una probabilita' del 50%, come certificato dal prof. Novelli del dipartimento di genetica dell'Universita' Roma Tor Vergata e come purtroppo confermato dagli esiti della prima gravidanza» deve leggersi ed intendersi «i ricorrenti sono una coppia fertile, attese le precedenti spontanee gravidanze interrotte con aborto terapeutico e con il rischio di trasmettere al figlio l'alterazione cromosomica diagnosticata all'odierna ricorrente in data 24 novembre 2006 con analisi del cariotipo eseguita dal prof. Novelli del dipartimento di genetica dell'Universita' Roma Tor Vergata e come purtroppo confermato dagli esiti degli accertamenti prenatali compiuti in occasione della seconda gravidanza». Roma, 5 marzo 2014 Il giudice: Bianchini