N. 86 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 febbraio 2014

Ordinanza del 28 febbraio 2014  emessa  dal  Tribunale  di  Roma  nel
procedimento civile promosso da M.V. ed altri c/Azienda USL RM  A  ed
altri. 
 
Procreazione medicalmente assistita - Accesso alle tecniche - Divieto
  per le coppie non affette da sterilita' o  infertilita',  (pur  se)
  portatrici di patologie geneticamente trasmissibili  -  Conseguente
  impossibilita' per tali coppie di valersi della  diagnosi  e  della
  selezione  preimpianto,   evitando   la   gravidanza   naturale   e
  l'eventuale aborto terapeutico  -  Lesione  di  diritti  soggettivi
  inviolabili, quali il diritto della coppia a un figlio "sano" e  il
  diritto all'autodeterminazione nelle scelte procreative - Ingerenza
  indebita nella vita della  coppia  -  Violazione  dei  principi  di
  uguaglianza e di ragionevolezza -  Incoerenza  tra  il  divieto  di
  ricorso alla PMA e la possibilita' di aborto terapeutico quando  il
  feto risulti affetto da gravi  patologie  -  Discriminazione  delle
  coppie fertili, portatrici di malattia geenticamente trasmissibile,
  rispetto alle coppie sterili  o  infertili  o  in  cui  l'uomo  sia
  affetto da malattie virali sessualmente trasmissibili -  Violazione
  del diritto alla  salute  della  donna,  per  difetto  di  adeguato
  bilanciamento con la tutela della salute dell'embrione -  Contrasto
  con la  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo
  (CEDU), in relazione al diritto al rispetto della  vita  privata  e
  familiare e al divieto di discriminazione - Richiamo alla  sentenza
  della Corte di Strasburgo 28 agosto 2012, Costa e Pavan c. Italia. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40, artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, in relazione  agli
  artt. 8 e 14 della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
  dell'uomo (CEDU), ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto
  1955, n. 848. 
(GU n.24 del 4-6-2014 )
 
                        IL TRIBUNALE DI ROMA 
 
 
                             Il giudice 
 
    Visto il ricorso ex art. 700  del  codice  di  procedura  civile,
iscritto al RG 43571/2013, proposto dai  coniugi  M.V.  e  C.F.,  nei
confronti della Azienda USL Roma A e del Centro per la  tutela  della
salute della dorma e del bambino S. Anna, in persona  dei  rispettivi
legali rappresentanti pro-tempore; 
    Rilevato che si e' costituita l'azienda resistente  chiedendo  il
rigetto della domanda; 
    Visto l'atto di intervento ad adiuvandum della associazione «Luca
Coscioni, per la liberta' di ricerca scientifica»;  dell'associazione
«Amica  Cicogna   Onlus»,   dell'associazione   «Cerco   un   Bimbo»,
dell'associazione «L'altra Cicogna»; 
    Sentite le parti e lette le note autorizzate depositate; 
    A scioglimento della riserva assunta alla udienza del 15  ottobre
2013 con termine per note fino a giorni venti ed un ulteriore termine
per eventuali repliche fino a giorni cinque, osserva quanto segue; 
 
                          Premesso in fatto 
 
    I ricorrenti, premesso di aver contratto  matrimonio  in  data  8
luglio 2012 in Roma e di essere tuttora coniugati e conviventi, hanno
esposto quanto segue. 
    La  moglie,  M.V.  e'  portatrice   sana   eterozigote   di   una
«traslocazione reciproca  bilanciata  tra  il  braccio  corto  di  un
cromosoma 3 ed il braccio lungo  di  un  cromosoma  5  con  punti  di
rottura  rispettivamente  in  3p25  5q33,  di  derivazione  materna»,
malattia genetica diagnosticata all'odierna  ricorrente  in  data  24
novembre 2006 con analisi del cariotipo eseguita dal  Laboratorio  di
genetica medica del Policlinico di Tor Vergata. 
    Come evidenziato in data 25  ottobre  2010,  sulla  base  di  una
successiva consulenza genetica  resa  dal  dott.  Mario  Bengala  del
Policlinico di Tor Vergata di Roma: «Questa condizione interessa  una
persona su  500  e  non  si  associa  solitamente  ad  alcun  effetto
fenotipico nel portatore che pero' ha invece un rischio  riproduttivo
aumentato rispetto a quello della popolazione  generale;  infatti  il
50% dei  concepimenti  esita  in  un  aborto  spontaneo  nelle  prime
settimane di gestazione  e  l'8-12%  in  un  prodotto  con  cariotipo
sbilanciato», con  conseguenti  alterazioni  cromosomiche  complesse,
quali «dismorfismi facciali, microcefalia, brachidattilia, ritardo di
crescita,   distrofia,   ritardo   mentale   di   grado    variabile,
ipertelorismo, labbra piccole e sottili, ponte  nasale  prominente  e
largo, malformazioni dei padiglioni auricolari, difetti  cardiaci  di
conduzione». 
    Nell'ottobre 2009, infatti,  la  coppia  aveva  avuto  una  prima
gravidanza extrauterina esitata in aborto. Successivamente la  coppia
aveva conseguito per via naturale un'altra gravidanza ma a seguito di
accertamenti prenatali, dai quali era emersa la presenza nel feto  di
un'alterazione cromosomica, la M. doveva  ricorrere  all'interruzione
volontaria della gravidanza al 5° mese di gestazione. 
    La coppia desiderosa di avere un figlio si rivolgeva all'U.O.  di
fisiopatologia della riproduzione e  fecondazione  assistita,  Centro
per la salute della  donna  S.  Anna,  per  accedere  a  fecondazione
medicalmente  assistita  e  poter  effettuare  la  diagnosi  genetica
preimpianto in modo da ottenere informazioni sullo  stato  di  salute
dell'embrione  prima  del  suo  impianto  in  utero;  sennonche',  il
responsabile dott. Antonio Colicchia dichiarava che la struttura  non
eroga la prestazione di diagnostica genetica  preimpianto,  opponendo
un rifiuto fondato sul fatto che la coppia, non risultando affetta da
sterilita' o infertilita', ancorche' portatrice di malattie genetiche
trasmissibili, non poteva accedere  al  trattamento  ai  sensi  della
legge 19 febbraio 2004, n. 40, avente ad oggetto «norme in materia di
procreazione medicalmente assistita», il cui art.  4  circoscrive  il
ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) ai
soli casi di infertilita' o sterilita' della coppia. 
    I ricorrenti hanno evidenziato in diritto che: 
    l'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  legge  19
febbraio 2004, n. 40, consente anche alla coppia fertile,  in  quanto
portatrice di patologia genetica, di accedere alla «P.M.A.» per poter
eseguire indagini cliniche diagnostiche sull'embrione anche alla luce
della  parallela  legge  sull'aborto,  che  consente  alla  donna  di
procedere alla interruzione della gravidanza in tutti i casi  in  cui
il parto o la maternita' possano comportare un serio pericolo per  la
sua salute fisica o psichica o anche in  relazione  a  previsioni  di
anomalie o malformazioni del concepito, in tale specifico caso  anche
dopo il decorso dei primi novanta giorni,  cosi'  come  gli  embrioni
affetti  da  gravi  patologie  genetiche  possono   determinare   una
prosecuzione  patologica  della  gravidanza  o  causare   un   aborto
spontaneo, compromettendo parimenti l'integrita'  fisica  e  psichica
della donna; 
    la Corte EDU, il 28 agosto  2012,  nel  caso  Costa  e  Pavan  c.
Italia, con decisione diventata definitiva in data 11 febbraio  2013,
ha, invero, accertato che  lo  Stato  italiano  nella  parte  in  cui
consente l'accesso alla «P.M.A.» unicamente  alle  coppie  sterili  o
infertili  (o  in  cui  l'uomo  e'  portatore  di   malattie   virali
trasmissibili, come da linee guida del Ministero della salute dell'11
aprile 2008, n. 31639) ha violato gli articoli 8 (diritto al rispetto
della vita privata e familiare) e  14  (divieto  di  discriminazione)
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU) ratificata e resa esecutiva con legge  4
agosto 1955, n. 848. 
    Tanto premesso i ricorrenti chiedevano di accertare e  dichiarare
il  proprio  diritto  ad  ottenere  l'applicazione  di  tecniche   di
procreazione medicalmente assistita secondo  modalita'  e  tecnologie
compatibili con un'elevata tutela del livello di salute della donna e
del concepito, adottando ogni  provvedimento  ritenuto  opportuno  in
relazione al caso in esame,  sul  presupposto  della  disapplicazione
dell'art. 4, comma 1, della  legge  19  febbraio  2004,  n.  40,  per
contrasto con gli articoli 8 e 14 della CEDU, in forza dell'art.  6/2
del Trattato  di  Lisbona  e  della  integrazione  del  sistema  CEDU
nell'ordinamento comunitario. 
    Si costituiva in giudizio la Azienda USL RM A, la quale  eccepiva
che, in assenza di una modifica della legge 19 febbraio 2004, n.  40,
che vieta l'accesso alla  procreazione  medicalmente  assistita  alle
coppie fertili portatrici di  malattie  genetiche  trasmissibili,  la
domanda non poteva essere accolta; che comunque  la  medesima  legge,
consentendo esclusivamente interventi sull'embrione aventi  finalita'
diagnostiche e terapeutiche, non consentiva la  diagnosi  preimpianto
con finalita' selettiva; che infine il servizio di diagnosi  genetica
preimpianto non era garantito dal Servizio sanitario  nazionale,  ne'
vi era la possibilita' di assistenza in forma indiretta, abrogata con
il   decreto   legislativo   n.   502/1992,   per   le    prestazioni
specialistiche, utilizzando le strutture private non accreditate. 
    Le associazioni intervenienti si  costituivano  in  giudizio  per
sostenere le ragioni dei ricorrenti. 
 
                          Rileva in diritto 
 
    I ricorrenti chiedono di accedere alle tecniche  di  procreazione
medicalmente assistita,  in  quanto  coppia  fertile,  portatrice  di
patologia geneticamente trasmissibile,  e  di  potersi  avvalere  del
servizio di diagnosi preimpianto in  modo  da  conoscere  l'eventuale
trasmissione della  patologia  all'embrione.  Pertanto  le  questioni
sollevate dai ricorrenti riguardano due distinti profili: da un lato,
il limite di accesso posto dalla legge 19 febbraio 2004,  n.  40,  ai
soli  casi  di  sterilita'  o  di  infertilita'  e,  dall'altra,   la
possibilita' di accedere alla diagnosi preimpianto. 
    In merito al primo profilo, la legge 19  febbraio  2004,  n.  40,
all'art.  4,  circoscrive,  come  sopra  rilevato,  il  ricorso  alle
tecniche di procreazione medicalmente assistita «P.M.A.» ai soli casi
di sterilita' o di infertilita' della  coppia,  nonche',  secondo  le
nuove linee  guida  dettate  dal  Ministero  della  salute  del  2008
(decreto dell'11 aprile 2008, n.  31639,  pubblicato  nella  Gazzetta
Ufficiale 30 aprile 2008), ai casi in cui  l'uomo  sia  portatore  di
malattie virali sessualmente trasmissibili. 
    In  merito  al  secondo  profilo  l'art.13  della  stessa   legge
contempla la cd. diagnosi  preimpianto  «P.D.G.»,  consistente  nella
identificazione di una anomalia genetica dell'embrione,  grazie  alle
tecniche di biologia molecolare, volta alla  tutela  della  salute  e
allo sviluppo dell'embrione stesso. 
1. La lettura  costituzionalmente  orientata  della  possibilita'  di
accedere alla diagnosi preimpianto. 
    Partendo da questo secondo profilo, l'art. 13 prevede,  in  linea
di principio, «il divieto  di  sperimentazione  su  ciascun  embrione
umano» (1° comma) per  poi  regolare,  quale  eccezione  alla  stessa
regola,  la  possibilita'  di  effettuare  «la  ricerca   clinica   e
sperimentale sull'embrione a condizione che si  perseguano  finalita'
esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte  alla  tutela  della
salute  ed  allo  sviluppo  dell'embrione  stesso»  (2°  comma)   con
esplicito divieto della «produzione  di  embrioni  umani  a  fini  di
ricerca o sperimentazione» e di «ogni  forma  di  selezione  a  scopo
eugenetico degli embrioni e dei gameti» (3° comma, lettere a e b). 
    La giurisprudenza di merito  ha  gia'  ritenuto,  sulla  base  di
un'interpretazione costituzionalmente orientata, che l'art. 13  della
legge 19 febbraio 2004, n. 40, consenta la c.d. selezione preimpianto
nell'ipotesi  di  rischio  di  trasmissione  al  feto  di  una  grave
patologia, di cui siano portatori i  genitori.  L'interpretazione  si
fonda su una serie di considerazioni, quali l'assenza,  nella  legge,
di un espresso divieto di diagnosi  preimpianto;  la  previsione  del
consenso  informato  nei  confronti  delle  coppie;  la   distinzione
contenuta nella stessa norma tra la ricerca scientifica, comprendente
la manipolazione  e  la  sperimentazione,  e  l'accertamento  a  fini
terapeutici e diagnostici, finalizzato alla  tutela  della  salute  e
dello sviluppo dell'embrione,  che  impone  di  ritenere  il  divieto
circoscritto alla sola finalita' di ricerca; l'abrogazione,  in  sede
di revisione delle linee guida elaborate dal Ministero  della  salute
nel 2008, della previsione originaria, contenuta  nelle  linee  guida
del 2004, secondo cui l'indagine sull'embrione doveva essere soltanto
«di tipo osservazionale»;  ed  infine  la  necessita'  di  un  giusto
bilanciamento  tra   l'integrita'   dell'embrione   ed   il   diritto
costituzionalmente garantito della donna alla salute, previsto  dalla
Corte costituzionale nella sentenza  n.  151  del  2009  (cfr.  Trib.
Cagliari ord. 22-24 settembre 2007, Trib. Firenze  ord.  17  dicembre
2007, Trib. Firenze ord. 11 luglio 2008, Trib. Firenze ord. 23 agosto
2008, Trib. Milano ord. 8 marzo 2009, Trib. Salerno  ord.  9  gennaio
2009). 
    L'interpretazione evolutiva delle pronunce citate in  materia  di
diagnosi preimpianto  e'  ampiamente  condivisibile  e  permette,  ad
avviso di questo giudice, di escludere che sussista  un  divieto  sia
della  diagnosi  sia  della  selezione  preimpianto,  finalizzata  ad
impedire il trasferimento, nell'utero della donna, dei soli  embrioni
affetti da gravi patologie. 
    La diagnosi preimpianto e' indirettamente  contemplata  dall'art.
13, 2° comma, della legge 19  febbraio  2004,  n.  40,  che  consente
espressamente, quale eccezione al divieto imposto dal 1°  comma,  «la
ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano a condizione
che   si   perseguano   finalita'   esclusivamente   terapeutiche   e
diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute ed allo
sviluppo dell'embrione stesso», e dal successivo art. 14,  5°  comma,
che impone all'operatore sanitario l'obbligo di  informare  le  parti
«sullo stato di  salute  degli  embrioni  prodotti  e  da  trasferire
nell'utero». La lettura congiunta delle  due  disposizioni  evidenzia
come il diritto delle parti ad essere  informate  sia  finalizzato  a
prestare il loro eventuale  consenso  all'impianto  nell'utero  della
donna degli embrioni fecondati in vitro, in forza del  piu'  generale
principio che prevede il consenso  informato  del  paziente  ad  ogni
trattamento sanitario cui venga sottoposto. 
    La facolta' di prestare il consenso,  che  contempla  in  se'  la
possibilita' del rifiuto, attribuisce alla coppia non solo il diritto
alla diagnosi degli embrioni ma  altresi'  il  diritto  di  rifiutare
l'impianto degli embrioni malati. E' attraverso la suddetta  diagnosi
che viene pertanto tutelato sia il diritto all'autodeterminazione dei
soggetti coinvolti sia il diritto alla salute della futura  gestante,
essendo  evidente  che  gli  embrioni  affetti  da  gravi   patologie
genetiche possono seriamente determinare una prosecuzione  patologica
della gravidanza  o  causare  un  aborto  spontaneo  o  compromettere
l'integrita' fisica e psichica della  donna,  sottoponendola  ad  una
pressione psicologica insostenibile o costringendola a  ricorrere  ad
un aborto terapeutico. 
    Inoltre nella legge  non  e'  prevista  alcuna  preclusione  alla
selezione preimpianto: il divieto previsto dal 3° comma del  medesimo
art. 13 di ogni forma di selezione degli embrioni  e  dei  gameti  e'
imposto al solo  fine  di  impedire  il  perseguimento  di  finalita'
eugenetiche, ma lascia salva la finalita' diagnostica  e  terapeutica
contemplata nel 2° comma, in linea con la disciplina  prevista  dalla
legge sull'aborto (legge 22 maggio 1978, n. 194), che  consente  alla
donna di procedere all'interruzione della gravidanza in tutti i  casi
in cui il parto o la maternita' comportino un serio pericolo  per  la
sua salute fisica o psichica o anche in  relazione  a  previsioni  di
anomalie o malformazioni del concepito. 
    La selezione preimpianto e'  meramente  eventuale  in  quanto  la
diagnosi puo' essere preordinata a ottenere informazioni sullo  stato
di  salute  del  feto  non  necessariamente  in  prospettiva  di  una
eventuale interruzione di gravidanza, ma anche  per  consentire  alla
coppia, e  in  particolare  alla  donna,  una  adeguata  preparazione
psicologica e pratica in relazione ai problemi del nascituro. 
    Si  evidenzia,  inoltre,  che  l'asserito  divieto  di   diagnosi
preimpianto appare irragionevole e incongruente col sistema normativo
se  posto  in  parallelo  con  la  diffusa  pratica  della   diagnosi
prenatale,   tecnica   altrettanto   invasiva   del   feto   (e   non
dell'embrione),  rischiosa  per  la  gravidanza,   ma   perfettamente
legittima nel bilanciamento degli interessi tutelati. 
    In ogni caso, deve ritenersi che la legittimita'  della  diagnosi
preimpianto,   trovi   fondamento   nella   decisione   della   Corte
costituzionale del 2009, n. 151, che  ha  posto  in  primo  piano  la
tutela della salute fisica e psicologica della donna,  affermando  il
principio che la tutela dell'embrione non e'  assoluta,  ma  limitata
dalla necessita' di individuare un giusto bilanciamento con la tutela
delle esigenze della procreazione. 
    Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che,
relativamente all'accesso alla diagnosi  preimpianto,  sia  possibile
una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 13 della legge  n.
40/2004. 
2. Ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente  assistita  per
le   coppie   fertili   portatrici   di    patologie    geneticamente
trasmissibili. 
    Ai sensi dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio  2004,  n.
40, l'accesso alle tecniche e' circoscritto ai casi di  sterilita'  o
infertilita'. Pertanto le coppie  fertili,  portatrici  di  patologie
geneticamente trasmissibili, quali i ricorrenti nel  procedimento  in
esame, non possono ricorrere alla P.M.A. 
    La stessa conclusione si ricava dalla lettura dell'art. 1,  commi
1 e 2, della legge  sopra  indicata.  L'accesso  alla  P.M.A.  e'  il
presupposto perche' la coppia fertile possa accedere  alla  diagnosi,
alla quale di regola  il  ricorso  alla  tecnica  e'  finalizzato,  e
conoscere se l'embrione sara' affetto o meno  dalla  patologia  prima
dell'impianto in utero, cosi' da evitare la scelta  dolorosa  di  una
eventuale interruzione di gravidanza. 
    Ne deriva che il limite al ricorso alla P.M.A., posto alle coppie
fertili dagli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della  legge  19
febbraio 2004, n. 40, appare in contrasto con gli articoli 2, 3 e  32
della Cost. in quanto viola il diritto  di  autodeterminazione  nelle
scelte procreative, il principio di uguaglianza, di ragionevolezza  e
il diritto alla salute, costringendo le coppie fertili, portatrici di
malattia geneticamente trasmissibile, come la coppia in esame, a  una
gravidanza naturale e all'eventuale aborto terapeutico, 
    Il limite appare, altresi', in contrasto con l'art. 117, comma 1,
della Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU. 
    Questo giudice deve, preliminarmente, valutare se  sia  possibile
superare il limite attraverso la disapplicazione  degli  articoli  1,
commi 1 e 2, e 4, comma 1, della  legge  19  febbraio  2004,  n.  40,
ovvero attraverso una lettura costituzionalmente orientata che  renda
le norme conformi ai principi costituzionali sopra indicati. 
    In materia di accesso alla «P.M.A.» da parte di  coppie  che  non
presentano problemi di sterilita' o di infertilita' si e' pronunciato
il Tribunale di Salerno, ordinanza del  9-13  gennaio  2010,  che  ha
ritenuto di superare il dato letterale della legge 19 febbraio  2004,
n. 40, autorizzando  una  coppia  di  genitori,  non  sterili  e  non
infertili, ad accedere alle tecniche  di  «P.M.A.»  e  alla  diagnosi
preimpianto. Si e' di recente pronunciato, con  ordinanza  depositata
il 26  settembre  2013,  questo  stesso  Tribunale,  che  ha  accolto
l'istanza cautelare dei coniugi  Costa  e  Pavan  a  sottoporsi  alla
«P.M.A.» disapplicando l'art. 4 della legge 19 febbraio 2004, n.  40,
in attuazione del «giudicato formale»  della  Corte  EDU  reso  nella
specifica fattispecie dedotta dalle parti in causa. 
    Nel caso Costa  e  Pavan  c.  Italia,  il  diritto  invocato  dai
ricorrenti, coppia fertile, riguardava la  possibilita'  di  accedere
alla diagnosi preimpianto per poter generare un figlio non affetto da
mucoviscidosi (par. 53). A giudizio della  Corte,  il  desiderio  dei
ricorrenti di generare un figlio non affetto dalla malattia  genetica
di  cui  sono  portatori  rientra  nel  campo  della  tutela  offerta
dall'art. 8 della CEDU, costituendo una forma  di  espressione  della
vita  privata  e  familiare  (par.  57).  La  Corte   ha   denunciato
l'incoerenza del sistema  legislativo  italiano,  che,  da  un  lato,
ammette la possibilita' di ricorrere all'aborto terapeutico quando il
feto risulti malato (legge n. 194/1978) e, dall'altro,  non  consente
alle coppie portatrici di patologie  geneticamente  trasmissibili  di
accedere  alla  «P.M.A.»  e  alla  diagnosi  preimpianto,  escludendo
l'embrione «malato» dal trasferimento nell'utero (legge  n.  40/2004)
ed esponendo la coppia a una scelta doppiamente dolorosa e  rischiosa
per la salute della donna e del concepito. 
3. La di applicazione degli articoli 1, commi 1 e 2, e  4,  comma  1,
della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con la CEDU. 
    Preliminarmente questo giudice deve  valutare  se,  nel  presente
procedimento, possano disapplicarsi gli articoli 1, commi 1 e 2, e 4,
comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in applicazione diretta
delle statuizioni contenute nella sentenza EDU sopra indicata. 
    Il  tema  del  rapporto  tra   ordinamento   interno,   normative
internazionali e Convenzione europea dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),
nel sistema delle fonti del diritto, e' stato affrontato dalla  Corte
costituzionale, con le sentenze del 22-24 ottobre 2007, n. 348 e 349. 
    Per la Corte costituzionale la CEDU non puo' essere assimilata al
diritto  comunitario  perche'  non  crea  un  ordinamento   giuridico
sopranazionale,  e'  diritto  internazionale  pattizio,   capace   di
vincolare  lo  Stato,  ma   non   produttivo   di   effetti   diretti
nell'ordinamento interno, tali da legittimare i giudici  nazionali  a
disapplicare le norme interne in contrasto. 
    Nell'esaminare i rapporti tra le tre fonti (norma costituzionale,
norma  di  legge  che  recepisce  la  norma   internazionale,   legge
ordinaria) va evidenziato che l'ordinamento  costituzionale  italiano
prevede, nel primo comma dell'art. 10 Cost., l'automatico recepimento
nell'ordinamento  solo  delle  «norme  del   diritto   internazionale
generalmente  riconosciute»  e  nell'art.  11   Cost.   prevede   che
l'ordinamento statale possa consentire «in condizioni di parita'  con
gli altri Stati, alle  limitazioni  di  sovranita'  necessarie  a  un
ordinamento che assicuri la pace e  la  giustizia  fra  le  Nazioni»;
nulla prevedendo esplicitamente, prima della legge costituzionale  18
ottobre 2001, n. 3, in  merito  al  riconoscimento  di  una  speciale
efficacia giuridica ai trattati internazionali, ratificati con legge. 
    La  modificazione  del  titolo  V  della  seconda   parte   della
Costituzione, con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.  3,  ha
introdotto il nuovo primo comma dell'art.  117  Cost.  ai  sensi  del
quale «La potesta' legislativa e'  esercitata  dallo  Stato  e  dalle
regioni  nel  rispetto  della  Costituzione,  nonche'   dei   vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali». La nuova disposizione  costituzionale  individua  la
maggiore forza di  resistenza  delle  norme  CEDU  rispetto  a  leggi
ordinarie successive e attrae le norme CEDU nella sfera di competenza
della Corte, «poiche' gli eventuali contrasti non  generano  problemi
di successione delle leggi nel tempo o valutazioni  sulla  rispettiva
collocazione gerarchica delle norme in  contrasto,  ma  questioni  di
legittimita' costituzionale». Pertanto il giudice comune non  dispone
del «potere di disapplicare la norma legislativa  ordinaria  ritenuta
in contrasto con una norma CEDU» (Corte cost. sentenza 22-24  ottobre
1997, n. 348). 
    In sostanza l'art. 117,  comma  1,  Cost.  configura  l'eventuale
incompatibilita' di una legge per contrasto con la norma CEDU - norma
interposta  scaturente  dall'accordo  internazionale   -   come   una
questione di legittimita' costituzionale,  per  eventuale  violazione
dell'art. 117, comma 1 della Cost., che solo la Corte  costituzionale
puo' accertare. Per norma interposta si intende che la  CEDU  e'  una
norma di rango «sub-costituzionale», di rango cioe' subordinato  alla
Costituzione, ma sovraordinato alla legge. 
    L'art. 117, comma 1,  Cost.  va  interpretato  come  disposizione
capace di riconoscere alle  norme  CEDU  forza  passiva  superiore  a
quella delle leggi ordinarie, ma non di elevare le stesse al rango di
fonte costituzionale. 
    Pertanto il giudice ordinario deve in primo luogo  verificare  se
il conflitto tra disposizione legislativa e norma internazionale puo'
essere  eliminato  adeguando,  in  via   interpretativa,   la   norma
legislativa a questa particolare norma interposta; se cio' si  rivela
impossibile, deve sollevare dinanzi  alla  Corte  costituzionale  una
questione   di   legittimita'   costituzionale   della   disposizione
legislativa rispetto al parametro  dell'art.  117,  comma  1,  Cost.»
(Corte cost. sentenza 22-14 ottobre 1997, n. 349). 
    I principi contenuti nelle sentenze della Corte cost.  del  2007,
n. 348 e  n.  349,  sono  stati  confermati  dalla  Corte  cost.  con
successive decisioni, secondo  le  quali  le  norme  della  CEDU  nel
significato attribuito dalla Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,
integrano,  quali  norme  interposte  il   parametro   costituzionale
espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone
la conformazione della  legislazione  interna  ai  vincoli  derivanti
dagli «obblighi internazionali» (Corte cost. sentenze n. 39/2008,  n.
311/2009). 
4. La disapplicazione delle norme interne in contrasto  con  la  CEDU
dopo la ratifica del Trattato di Lisbona. 
    I  ricorrenti  affermano  che,   per   effetto   della   adesione
dell'Unione europea alla CEDU, i diritti fondamentali garantiti dalla
Convenzione  diventano  diritto  dell'Unione   in   quanto   principi
generali, con le dovute  conseguenze  in  merito  alle  modalita'  di
adeguamento del diritto  interno  al  diritto  sovranazionale  e  dei
rapporti tra sistemi normativi,  non  piu'  regolati  dall'art.  117,
comma 1,  Cost.  bensi'  dall'art.  11  Cost.  Secondo  questa  tesi,
nell'ipotesi di disposizione interna in contrasto con la norma  CEDU,
il  giudice  ordinario,  dopo  aver  effettuato   il   controllo   di
compatibilita',  puo'  procedere  alla  disapplicazione  della  norma
interna contrastante. 
    L'affermazione non e' condivisibile. 
    Il Trattato sull'Unione europea, come modificato dal Trattato  di
Lisbona, all'art. 6, par. 2,  dispone  che  «L'Unione  aderisce  alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali», cosi' limitandosi a consentire  e  dare  base
giuridica all'adesione della UE  alla  CEDU,  ma  l'adesione  non  e'
ancora avvenuta, rendendo  allo  stato  improduttiva  di  effetti  la
statuizione, tanto che  si  sta  negoziando  l'accordo  di  adesione,
previsto dal protocollo n. 8, annesso allo stesso Trattato. 
    In questo senso si e' pronunciata la Corte cost., con le sentenze
n. 303 e n. 80 del 2011 e, piu' di recente, con la  sentenza  n.  210
del 2013 che ha affermato che «l'adesione  dell'Unione  europea  alla
CEDU non e' ancora  avvenuta  rendendo  allo  stato  improduttiva  di
effetti la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del  Trattato
dell'Unione  europea,  come  modificato  dal  Trattato   di   Lisbona
(sentenze n. 303 e n. 80 del 2011), e ribadendo quanto in  precedenza
affermato nelle sentenze n. 303 del 2011 e n. 349 del 2007 «in  linea
di principio, dalla qualificazione dei diritti  fondamentali  oggetto
di  disposizioni  della  CEDU  come  principi  generali  del  diritto
comunitario non puo' farsi discendere la riferibilita' alla CEDU  del
parametro  di  cui  all'art.  11  Cost.,  ne',  correlativamente,  la
spettanza al giudice comune del potere-dovere  di  non  applicare  le
norme interne contrastanti con la predetta Convenzione». 
    Di  conseguenza  le  osservazioni  dei  ricorrenti  basate  sulla
«comunitarizzazione» della CEDU e la possibilita' di  disapplicazione
diretta delle norme interne, in applicazione del principi della CEDU,
non sono condivisibili. 
    Sulla questione si e' anche pronunciata la Corte di giustizia con
la sentenza del 24 aprile 2012, nella causa C-571/10 Servet  Kamberaj
c. IPES,  giunta  della  provincia  autonoma  di  Bolzano,  provincia
autonoma di Bolzano, resa sulla domanda  di  pronuncia  pregiudiziale
proposta dal Tribunale di Bolzano,  le  cui  considerazioni  appaiono
rilevanti in merito al  rapporto  tra  sistema  normativo  interno  e
sovranazionale, successivo al Trattato di Lisbona. 
    Delle sette questioni pregiudiziali  formulate  dal  giudice  del
rinvio,  la  Corte  ha  ritenuto  ricevibili  solo   alcune   e,   in
particolare, per quanto interessa nella specie, la seconda  questione
pregiudiziale,  con  la  quale  il  giudice  nazionale  chiedeva,  in
sostanza, se «il richiamo alla CEDU effettuato dall'art. 6, paragrafo
3 TUE imponga al giudice nazionale di dare  diretta  attuazione  alle
disposizioni di  tale  convenzione  ...  disapplicando  la  norma  di
diritto nazionale in conflitto, senza  dovere  previamente  sollevare
una questione di costituzionalita' dinanzi alla Corte costituzionale»
(paragrafo 59). Ai sensi dell'art. 6, paragrafo  3,  TUE,  i  diritti
fondamentali, cosi' come garantiti  dalla  CEDU  e  quali  risultanti
dalle tradizioni costituzionali  comuni  degli  Stati  membri,  fanno
parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali  (paragrafo
60). 
    La Corte di giustizia ha osservato che,  se  questa  disposizione
consacra la giurisprudenza costante della Corte, secondo la  quale  i
diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali  del
diritto dei quali la Corte garantisce l'osservanza,  tuttavia  l'art.
6, par. 3  TUE  «non  disciplina  il  rapporto  tra  la  CEDU  e  gli
ordinamenti giuridici degli  Stati  membri  e  nemmeno  determina  le
conseguenze che un giudice  nazionale  deve  trarre  nell'ipotesi  di
conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di
diritto nazionale» (paragrafi 61 e 62). Ne consegue  che  «il  rinvio
operato dall'art. 6, par. 3, TUE alla  CEDU  non  impone  al  giudice
nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale  e
detta convenzione,  di  applicare  direttamente  le  disposizioni  di
quest'ultima,  disapplicando  la  norma  di  diritto   nazionale   in
contrasto con essa» (paragrafo 63). 
    Conformemente alle considerazioni che precedono,  ritiene  questo
giudice che i diritti fondamentali enunciati dalla CEDU  siano  parte
del diritto dell'Unione, quali principi generali, ma il contenuto  di
tali diritti non incida sulla veste  formale  della  fonte  giuridica
nella quale sono enunciati. 
    La situazione,  quale  era  cristallizzata  nella  giurisprudenza
della Corte costituzionale, sopra indicata, non e' mutata per effetto
dell'adesione dell'Unione europea alla CEDU,  atteso  che  i  diritti
enunciati dalla  CEDU  fanno  parte  dei  principi  generali  di  cui
l'Unione europea garantisce l'osservanza, ma il rapporto tra la  CEDU
e gli  ordinamenti  giuridici  degli  Stati  membri  e'  un  rapporto
disciplinato da ciascun ordinamento nazionale. 
5. La interpretazione costituzionalmente orientata degli articoli  1,
commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19  febbraio  2004,  n.  40  -
esclusione. 
    Alla luce  delle  considerazioni  che  precedono,  posto  che  la
disapplicazione non appare una strada percorribile, va  esaminata  la
possibilita', in via preliminare, di una  lettura  costituzionalmente
orientata degli articoli 1, comma 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19
febbraio 2004,  n.  40,  per  superare,  in  via  interpretativa,  il
contrasto con gli articoli 2, 3, 32 Cost. nonche' con gli articoli  8
e 14 della CEDU, fino a dove cio'  sia  consentito  dal  testo  delle
disposizioni. 
    Ritiene questo giudice che non si  possa  accedere  alla  lettura
costituzionalmente  orientata  proposta   in   via   principale   dai
ricorrenti. Si e' infatti in presenza di una limitazione espressa del
ricorso alla P.M.A. contenuta in due articoli (1 e 4) della legge  n.
40/2004, che rende difficile estendere, per  via  interpretativa,  il
ricorso alle tecniche anche alle  coppie  fertili  ma  portatrici  di
patologie geneticamente trasmissibili, quali i ricorrenti del caso in
esame, ai quali difetta l'elemento soggettivo, atteso che il  ricorso
alle tecniche di procreazione medicalmente  assistita  e'  consentito
solo quando sia accertata l'impossibilita' di rimuovere altrimenti le
cause impeditive della procreazione ed e'  comunque  circoscritto  ai
casi di sterilita' o di infertilita' inspiegate documentate  da  atto
medico nonche' ai casi di sterilita' da causa accertata e certificata
da atto medico. 
    La interpretazione  estensiva  non  e'  consentita  dalla  chiara
lettera della legge e dall'utilizzo di espressioni che rendono palese
la volonta' di limitare, come il verbo «circoscrivere». 
    Far  discendere  una  interpretazione  estensiva  in  ordine   ai
soggetti che possono accedere alla PMA, inserendovi anche  le  coppie
fertili, dalla lettura costituzionalmente  orientata  della  diagnosi
preimpianto appare un'operazione logica ardita, atteso che se e' vero
che l'accesso alle tecniche e' presupposto  logico  e  funzionalmente
connesso alla diagnosi, e'  tuttavia  vero  che  la  questione  della
ammissibilita' della diagnosi preimpianto si pone a  prescindere  dal
limite  di  accesso,  potendo  coinvolgere  anche  coppie  sterili  o
infertili. 
    Ne' argomenti a  favore  possono  trarsi  dall'ampliamento  della
nozione  di  infertilita'  derivante  dalle  nuove  linee  guida  del
Ministero della  salute  (decreto  dell'11  aprile  2008,  n.  31639,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 30 aprile 2008), che hanno esteso
l'accesso alla «P.M.A.» anche alle coppie in cui l'uomo e' affetto da
malattie virali sessualmente trasmissibili (virus H.I.V., HBV o HCV). 
    L'equiparazione della situazione dell'uomo  portatore  di  HIV  o
epatite a quella di sterilita' o infertilita' si  giustifica  con  la
considerazione che, in questi casi, sussiste un  elevato  rischio  di
infezione per la madre e il feto, conseguente a rapporti sessuali non
protetti con il partner.  Un  rischio  che,  di  fatto,  preclude  la
possibilita' di avere un  figlio  a  queste  coppie,  imponendo  loro
l'adozione di precauzioni che  si  traducono  necessariamente  in  un
condizione di infecondita', ascrivibile tra i  casi  di  infertilita'
maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico. 
    Tali casi sono riconducibili nell'ambito dell'art. 4 della  legge
n. 40/2004, il  quale  delimita  espressamente  e  significativamente
l'accesso alle PMA alle ipotesi in  cui  vengano  in  rilievo  «cause
impeditive  della  procreazione»  (e  non  vi  sia  possibilita'   di
«rimuover[le] altrimenti»). Appare evidente che le linee  guida  sono
il frutto della equiparazione tra cause impeditive della procreazione
dovute a infertilita' o sterilita' e cause che, di  fatto,  risultano
impeditive della  procreazione,  in  quanto  precludono  il  rapporto
sessuale a causa dell'elevatissimo rischio di contagio della donna. 
    In altri termini, qualora il partner maschile  sia  portatore  di
virus e si trovi nella impossibilita' di avere un  rapporto  sessuale
senza correre il rischio di  infettare  la  partner  e  il  feto,  il
decreto del 2008 gli riconosce una condizione peculiare che, pur  non
potendo essere definita di  infertilita',  atteso  che  la  capacita'
procreativa non e' condizionata dalla patologia, e' tuttavia a questa
assimilata. In virtu' di questa assimilazione,  l'uomo  portatore  di
HIV puo' accedere alle tecniche. Ben diversa e' la  condizione  delle
coppie fertili portatrici di patologia trasmissibile non  sussistendo
per loro alcun rischio di contagio connesso alla procreazione. 
6.   Necessita'   di   sollevare   la   questione   di   legittimita'
costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2, e  4,  comma  1,  della
legge 19 febbraio 2004, n. 40. 
    Alla luce  delle  considerazioni  che  precedono,  posto  che  la
interpretazione costituzionalmente orientata delle norme  non  appare
una strada percorribile, si ritiene che il giudizio non possa  essere
definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
legittimita' costituzionale, che pertanto si  solleva,  dell'art.  1,
commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n.
40, per contrasto con gli articoli 2, 3, e 32  della  Cost.,  nonche'
per contrasto con l'art.  117,  comma  1,  Cost.  in  relazione  agli
articoli 8 e 14 della CEDU. 
7. Rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
    Sulla rilevanza della questione nel  procedimento  in  esame,  va
evidenziato che i ricorrenti sono una coppia fertile, attesa la prima
spontanea gravidanza interrotta con  aborto  terapeutico,  e  con  il
rischio di  trasmettere  la  distrofia  muscolare  Becker,  patologia
genetica ereditaria, al figlio con una  probabilita'  del  50%,  come
certificato  dal  prof.  Novelli   del   dipartimento   di   genetica
dell'Universita' Roma Tor Vergata e come purtroppo  confermato  dagli
esiti della prima gravidanza. 
    Per poter decidere sulla richiesta dei ricorrenti di ordinare  in
via di urgenza, attesa anche l'eta' della  ricorrente,  al  centro  e
all'amministrazione resistente  di  consentire  l'accesso  alla  PMA,
presupposto della diagnosi, occorre applicare la  legge  19  febbraio
2004, n. 40. 
    Quanto  all'ammissibilita'  della   questione   di   legittimita'
costituzionale  in  sede   cautelare,   la   sentenza   della   Corte
costituzionale n. 151/2009 ha  rilevato  che  «la  giurisprudenza  di
questa Corte ammette la possibilita' che siano sollevate questioni di
legittimita' costituzionale in sede cautelare, sia quando il  giudice
non provveda sulla domanda, sia quando conceda  la  relativa  misura,
purche' tale concessione non si risolva  nel  definitivo  esaurimento
del potere cautelare del quale in  quella  sede  il  giudice  fruisce
(sentenza n. 161 del 2008 e ordinanze n. 393 del 2008  e  n.  25  del
2006). 
8.  Non  manifesta  infondatezza  della  questione  di   legittimita'
costituzionale per contrasto degli articoli 1, commi  1  e  2,  e  4,
comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, con gli articoli 2,  3,
e 32 della Cost. 
    Il ricorso alla P.M.A. circoscritto ai soli casi di sterilita'  o
infertilita' appare in contrasto con gli articoli 2, 3,  e  32  della
Costituzione e  pertanto  questo  giudice  solleva  la  questione  di
legittimita' costituzionale degli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma
1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sotto questo profilo. 
    Quanto al contrasto con l'art. 2 della Cost., si evidenzia tra  i
diritti soggettivi inviolabili vi e' il diritto  della  coppia  a  un
figlio  «sano»  e  il  diritto  di  autodeterminazione  nelle  scelte
procreative. 
    Le scelte consapevoli relative alla procreazione fanno parte  dei
diritti fondamentali costituzionalmente tutelati e personalissimi  di
entrambi i genitori, in maniera da garantire la tutela alla libera ed
informata autodeterminazione di procreare. 
    Il diritto alla procreazione sarebbe irrimediabilmente leso dalla
limitazione del ricorso alle tecniche di P.M.A. da  parte  di  coppie
che, pur non sterili o infertili, rischiano  pero'  concretamente  di
procreare figli affetti da  gravi  malattie,  a  causa  di  patologie
geneticamente  trasmissibili,  di  cui  sono  portatori.  Il   limite
rappresenta una ingerenza indebita nella vita della coppia. 
    Si evidenzia che anche secondo la Corte EDU, nella sentenza Costa
e Pavan c. Italia, il desiderio dei ricorrenti di generare un  tiglio
non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori rientra nel
campo della tutela offerta dall'art. 8 della  CEDU,  costituendo  una
forma di espressione della vita privata e familiare (par. 57). 
    La esclusione dalla P.M.A. delle  coppie  fertili  portatrici  di
patologia trasmissibile appare inoltre  in  contrasto  con  l'art.  3
della  Cost.,  inteso  come  principio   di   ragionevolezza,   quale
corollario del  principio  di  uguaglianza,  in  quanto  comporta  la
conseguenza paradossale, irragionevole e  incoerente  di  costringere
queste coppie, desiderose  di  avere  un  figlio  non  affetto  dalla
patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una  gravidanza
naturale e ricorrere alla scelta tragica dell'aborto terapeutico  del
feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194. 
    Nel  bilanciamento  tra  diritti  fondamentali,   il   punto   di
equilibrio e' sempre dinamico e deve essere valutato secondo  criteri
di proporzionalita' e di ragionevolezza. La tutela dei  diritti  deve
essere sempre «integrata» nel senso che nessun  diritto  fondamentale
puo' considerarsi protetto in termini assoluti dalla Costituzione, ma
e' soggetto a limiti per  interagire  con  una  pluralita'  di  altri
diritti. 
    Nel giudizio di  bilanciamento  va  sottolineato  che:  in  primo
luogo, nessuno dei diritti costituzionali ha carattere  assoluto,  ma
tutti possono e debbono essere contemperati con gli altri  diritti  e
interessi costituzionalmente rilevanti; in secondo luogo, non  esiste
una gerarchia predeterminata in astratto tra i  diritti  e  i  valori
costituzionali,  ma  il  bilanciamento  e'   un'operazione   dinamica
affidata in primo luogo al legislatore, su cui la Corte  effettua  il
proprio compito  di  controllo;  in  terzo  luogo,  il  bilanciamento
richiede  criteri  di  ragionevolezza  e  proporzionalita';   infine,
l'esito del bilanciamento non puo' mai essere il sacrificio totale di
uno dei valori in gioco, perche' di ciascuno deve  essere  preservato
il nucleo essenziale. 
    «Il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a
criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge
attraverso ponderazioni  relative  alla  proporzionalita'  dei  mezzi
prescelti dal legislatore nella  sua  insindacabile  discrezionalita'
rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle  finalita'  che
intende  perseguire,  tenuto  conto   delle   circostanze   e   delle
limitazioni concretamente sussistenti» (Corte cost. sentenza n.  1130
del 1988 e sentenza n. 264 del 1996). 
    Alla  luce   del   principio   di   ragionevolezza   come   sopra
interpretato, gli articoli 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della  legge
del 2004 n. 40, sono in contrasto con l'art. 3  della  Cost.,  inteso
come necessaria coerenza interna dell'ordinamento giuridico italiano,
atteso che, da un lato, la legge n. 194/1978 permette,  nel  caso  in
cui il feto risulti affetto da gravi patologie, l'aborto terapeutico,
che ha conseguenze ben piu' gravi per la  salute  fisica  e  psichica
della donna rispetto alla  selezione  dell'embrione  successiva  alla
diagnosi preimpianto; dall'altro, la legge n. 40/2004 impedisce  alle
coppie fertili il ricorso alla PMA,  presupposto  per  accedere  alla
diagnosi e alla eventuale selezione preimpianto. 
    Si evidenzia ancora che il diritto della donna che ne abbia fatto
richiesta attraverso l'accesso alla diagnosi  prenatale  a  tutte  le
informazioni sullo stato di salute del feto e'  ampiamente  garantito
nel  sistema  italiano,  non  necessariamente  in  prospettiva  della
eventuale interruzione di gravidanza, ma anche perche' garantisce una
maternita' piu' consapevole, consentendo  una  adeguata  preparazione
psicologica e pratica in relazione ai problemi del nascituro. 
    Vi e' inoltre contrasto con l'art. 3 anche sotto il profilo della
discriminazione  delle  coppie  fertili,   portatrici   di   malattia
geneticamente trasmissibile, rispetto alle coppie sterili o infertili
(o  in  cui  l'uomo  sia  affetto  da  malattie  virali  sessualmente
trasmissibili), che invece possono ricorrere alle tecniche di P.M.A. 
    La questione di legittimita'  costituzionale  delle  norme  sopra
indicate appare non manifestamente infondata  anche  con  riferimento
all'art. 32 della Cost. in particolare sotto il profilo della  tutela
della salute della donna, costretta per realizzare  il  desiderio  di
mettere  al  mondo  un  figlio,  non  affetto  da  patologia,  a  una
gravidanza  naturale  e  a  un  eventuale  aborto  terapeutico,   con
conseguente  aumento  di  rischi  per  la  sua   salute   fisica,   e
compromissione della sua sfera psichica,  per  effetto  della  scelta
dolorosa di procedere, all'occorrenza, alla  interruzione  volontaria
di gravidanza, in assenza di un adeguato bilanciamento  della  tutela
della salute della donna con quella dell'embrione. 
9. La non manifesta  infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale per contrasto degli articoli 1, commi 1 e 2 e 4, comma
1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, con gli articoli 8 e 14 CEDU. 
    La questione di legittimita' costituzione degli articoli 1, commi
1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, appare  non
manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 117, comma 1,
Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU. 
    Come evidenziato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Costa e
Pavan c. Italia, il divieto imposto dall'art. 4 della legge del  2004
n. 40, alle coppie non affette da sterilita' e infertilita',  ma  che
siano portatrici di malattia ereditaria, di accedere alla PMA e  alla
diagnosi preimpianto, laddove  «l'ordinamento  italiano  permette  di
ricorrere all'aborto terapeutico nel caso  in  cui  il  feto  risulti
affetto  da  patologie  di  particolare  gravita'  quale  la  fibrosi
cistica» e' irragionevole. 
    Per  la  Corte  non  si  comprende  lo  scopo  della  proibizione
«considerato che l'aborto ha conseguenze sicuramente piu' gravi della
selezione dell'embrione successivamente a PDI sia  per  il  nascituro
che si trova in stato di formazione piu' avanzato, sia per i genitori
in particolare per la donna»:  argomentazione  questa  che  porta  la
Corte EDU ad escludere la funzionalita' del divieto imposto dall'art.
4   della   legge   n.   40/2004,   che   di   fatto    si    risolve
nell'incoraggiamento del ricorso all'aborto del feto,  rispetto  allo
scopo perseguito dalla stessa legge,  consistente  nella  tutela  del
nascituro, e conseguentemente  a  concludere  che  la  disciplina  in
vigore, traducendosi in un'indebita ingerenza nella  vita  privata  e
familiare dei  ricorrenti,  non  possa  ritenersi  proporzionale  ne'
necessaria alla protezione dei diritti cui si assume sia sottesa. 
    Ricorrono pertanto  le  condizioni  per  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art.  4,
comma 1, della legge 19 febbraio  2004,  n.  40,  per  contrasto  con
l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 8 della CEDU. 
    In secondo luogo gli articoli 1, commi 1 e 2, e l'art.  4,  comma
1, della legge 2004 appaiono in contrasto anche con l'art. 117, comma
1, Cost., in relazione all'art. 14 della CEDU, sotto il profilo della
discriminazione  delle  coppie  fertili,   portatrici   di   malattia
geneticamente trasmissibile, rispetto alle coppie sterili o infertili
o  in  cui  l'uomo  sia  affetto  da  malattie  virali   sessualmente
trasmissibili, che invece possono ricorrere alle tecniche  di  P.M.A.
in base alla legge e, per l'ultima categoria, in base alla estensione
operata dalle linee guida del 2008, e conseguentemente accedere  alla
diagnosi preimpianto. 
    La sentenza EDU, nel caso Costa e Pavan c. Italia, ha ritenuto la
dedotta violazione dell'art. 14 della CEDU manifestamente  infondata,
sul presupposto che la diagnosi preimpianto sarebbe vietata,  per  la
legge italiana, a tutti  indistintamente.  Tuttavia,  muovendo  dalla
interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 13,  sostenuta
da questo giudice, e dalla conclusione della liceita' della diagnosi,
rimane il problema del ricorso alla P.M.A.,  consentito  alle  coppie
sterili  e  infertili  ma  non  alle  coppie  fertili  portatrici  di
patologia trasmissibile. 
    Il presente procedimento cautelare - conformemente a quanto  gia'
valutato da questo Tribunale in relazione ad una analoga  fattispecie
con ordinanza depositata in data 15 gennaio 2014 (R.G. 43568/2013)  -
non puo' essere pertanto definito indipendentemente dalla risoluzione
della questione di legittimita' costituzionale e deve, quindi, essere
sospeso. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza; 
    Rimette alla Corte costituzionale la  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2 , e  dell'art.  4,  comma  1,
della legge 19 febbraio 2004, n. 40, per contrasto con  gli  articoli
2, 3 e 32 della Cost. nonche' per contrasto con l'art. 117, comma  1,
Cost. in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU nella parte in cui
non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione  medicalmente
assistita alle coppie fertili portatrici di  patologie  geneticamente
trasmissibili. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio. 
    Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri e sia
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
      Cosi' deciso in Roma, 27 febbraio 2014 
 
                        Il giudice: Bianchini 
 
 
                          Il giudice unico 
 
    Vista la propria ordinanza con cui in data 27  febbraio  2014  e'
stata sollevata questione di legittimita'  costituzionale  in  ordine
all'art. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della legge 19 febbraio  2004,
n. 40, per contrasto con gli articoli 2, 3 e 32  della  Costituzione,
nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1, della Costituzione  in
relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU  nella  parte  in  cui  non
consentono il ricorso  alle  tecniche  di  procreazione  medicalmente
assistita alle coppie fertili portatrici di  patologie  geneticamente
trasmissibili; 
    Rilevato che per un mero errore materiale al punto 7) della parte
motiva  della  citata  ordinanza  e'  stato  fatto  riferimento  alla
distrofia muscolare  Becker  in  luogo  dell'alterazione  cromosomica
rilevata nel caso di specie; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dispone che ove e' scritto «i ricorrenti sono una coppia fertile,
attesa  la  prima  spontanea   gravidanza   interrotta   con   aborto
terapeutico, e con il rischio di trasmettere la  distrofia  muscolare
Becker, patologia genetica ereditaria, al figlio con una probabilita'
del 50%, come certificato  dal  prof.  Novelli  del  dipartimento  di
genetica  dell'Universita'  Roma  Tor  Vergata   e   come   purtroppo
confermato dagli esiti  della  prima  gravidanza»  deve  leggersi  ed
intendersi  «i  ricorrenti  sono  una  coppia  fertile,   attese   le
precedenti spontanee gravidanze interrotte con aborto  terapeutico  e
con il rischio di trasmettere  al  figlio  l'alterazione  cromosomica
diagnosticata all'odierna ricorrente in data  24  novembre  2006  con
analisi del cariotipo eseguita dal prof. Novelli del dipartimento  di
genetica  dell'Universita'  Roma  Tor  Vergata   e   come   purtroppo
confermato dagli  esiti  degli  accertamenti  prenatali  compiuti  in
occasione della seconda gravidanza». 
 
      Roma, 5 marzo 2014 
 
                        Il giudice: Bianchini