N. 89 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 gennaio 2014

Ordinanza del 13 gennaio 2014 emessa  dalla  Corte  di  cassazione  -
sezioni unite civili nel procedimento civile promosso dal  Comune  di
Porto Cesareo contro Livraghi Francesco. 
 
Espropriazione per pubblica  utilita'  -  Occupazione  acquisitiva  -
  Previsione che l'autorita' che utilizza un bene immobile per  scopi
  di interesse pubblico,  modificato  in  assenza  di  un  valido  ed
  efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica
  utilita', puo' disporre che esso sia acquisito non retroattivamente
  al  suo  patrimonio  indisponibile  e  che  al   proprietario   sia
  corrisposto un indennizzo per il  pregiudizio  patrimoniale  e  non
  patrimoniale, quest'ultimo forfettariamente liquidato nella  misura
  del 10% del valore del bene stesso - Previsione dell'estensione del
  potere di acquisizione alla servitu' di fatto  -  Abolizione  della
  condizione  che  l'immobile  realizzando  rientri  in   una   delle
  categorie  individuate  dagli  artt.  822  e  826  c.c.   postulate
  dall'occupazione  appropriativa  e   previsione   dell'applicazione
  dell'istituto anche nella ipotesi in cui sia stato annullato l'atto
  da cui e' sorto il vincolo preordinato all'esproprio  -  Previsione
  che il provvedimento ablativo  non  e'  tenuto  ad  individuare  la
  destinazione dell'immobile, essendo sufficiente l'indicazione delle
  circostanze  che  hanno  condotto   alla   indebita   utilizzazione
  dell'area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio
  -  Modalita'  procedimentali  e  criteri  per   la   determinazione
  dell'indennizzo - Previsione della applicabilita'  della  normativa
  anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se  vi
  e' stato un provvedimento di acquisizione successivamente  ritirato
  o annullato - Violazione del principio di uguaglianza  -  Incidenza
  sul diritto di difesa e di azione in giudizio - Lesione del diritto
  di proprieta' - Violazione dei principi  di  buon  andamento  e  di
  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione  -  Violazione  dei
  principi   del   giusto   processo   -   Violazione   di   obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU come interpretata  dalla  Corte
  EDU. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, art.
  42-bis, inserito dall'art. 34, comma 1, del decreto-legge 6  luglio
  2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge  15  luglio
  2011, n. 111. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 42, 97, 111, commi primo  e  secondo,  e
  117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali;
  Primo Protocollo addizionale della Convenzione per la  salvaguardia
  dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 1. 
(GU n.24 del 4-6-2014 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
24879-2012 proposto da: Comune  di  Porto  Cesareo,  in  persona  del
Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via  Cosseria
2, presso lo studio dell'avvocato Placidi  Alfredo,  rappresentato  e
difeso dall'avvocato Quinto Pietro, per delega a margine del ricorso;
- ricorrente; 
    Contro Livraghi Francesco, elettivamente domiciliato in Roma, via
A. Catalani 31, presso lo  studio  dell'avvocato  Mormando  Vittorio,
rappresentato e difeso  Cezzi  De  Giorgi  Gabriella,  per  delega  a
margine della memoria di costituzione; - resistente; 
    Per  regolamento  di  giurisdizione  in  relazione  al   giudizio
pendente n. 365/2011 del Tribunale Amministrativo Regionale di Lecce; 
    udito l'avvocato Fabio Massimo Orlando per  delega  dell'avvocato
Gabriella De Giorgi Cezzi; 
    udita la relazione della causa svolta nella camera  di  consiglio
del 12/11/2013 dal Consigliere Dott. Salvatore Salvago; 
    lette le conclusioni scritte del Sostituto  Procuratore  Generale
dott. Lucio Capasso,  il  quale  conclude  chiedendo  dichiararsi  la
giurisdizione del Giudice Ordinario in relazione alla domanda  avente
ad oggetto la  determinazione  e  la  corresponsione  dell'indennizzo
dovuto a seguito dell'atto di acquisizione  sanante  ex  art.  42-bis
d.P.R. n. 327/01. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    1. Francesco Livraghi chiese al TAR Puglia la condanna del comune
di  Porto  Cesareo  alla  restituzione  di  alcuni  terreni  di   sua
proprieta' (in catasto al fg. 22, part. 4870 e 4871), occupati  senza
titolo  da  detta  amministrazione,  per  l'inutile  scadenza   della
dichiarazione di p.u. che li aveva destinati  alla  realizzazione  di
strade, parchi e parcheggio. 
    Con sentenza del  25  giugno  2010,  il  TAR  ordino'  al  comune
l'adozione del  provvedimento  acquisitivo  delle  aree  (emesso  con
deliberazione  consiliare  19  ottobre  2011)  ai  sensi  dell'allora
vigente art.43 T.U. espropr. per p.u. appr. con d.P.R. n. 327/  2001,
tuttavia  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo  con   sentenza
293/2010  della  Corte  Costituzionale.  Per  cui  il   Livraghi   ha
nuovamente adito il TAR Puglia per ottenerne la  restituzione  ed  il
risarcimento del danno. 
    Siccome nelle more e' stato introdotto nello stesso  T.U.  l'art.
42-bis attraverso la legge 111 del 2011, il Comune, con provvedimento
del 19 ottobre 2011, ha disposto l'acquisizione dei  terreni  al  suo
patrimonio, liquidando al proprietario l'indennizzo di cui alla nuova
norma; ed avendo il Livraghi con motivi aggiunti richiesto  anche  la
rideterminazione dell'indennizzo in base al valore venale attuale dei
beni, ha proposto regolamento di  giurisdizione  chiedendo  a  questa
Corte che la stessa fosse attribuita al giudice ordinario. 
    2. Il ricorso  per  regolamento  di  giurisdizione  e'  anzitutto
ammissibile perche' il TAR Puglia non ha ancora emesso sulle  domande
del Livraghi alcuna sentenza, neppure limitata all'accertamento della
propria giurisdizione; e tuttavia  per  deciderne  l'attribuzione  e'
necessario  preventivamente  valutare  se  la   nuova   «acquisizione
sanante»  introdotta  dall'art.  42-bis  sia  esente  da   dubbi   di
costituzionalita'  e  compatibilita'  con  la  Convenzione  CEDU,  in
ragione    dell'attribuzione    all'amministrazione    del     potere
espropriativo,  nonche'  di  quello   di   trasformare   il   diritto
restitutorio/risarcitorio  del  proprietario  in  diritto   al   mero
indennizzo devoluto dapprima dall'art. 7 legge n. 205 del 2000 ed ora
dall'art. 133  sub  e  n.2g  legge  n.  104/2010  alla  giurisdizione
ordinaria. 
    Nel caso affermativo,  che  cioe'  si  ritenga  che  la  predetta
disposizione susciti un  dubbio  di  costituzionalita',  di  esso  le
Sezioni  Unite  (adite  con  regolamento  di  giurisdizione)  possono
giudicare,  ai  fini  (e  come  imprescindibile  presupposto)   della
decisione della questione di giurisdizione, investendo se del caso la
Corte costituzionale, con riferimento ai parametri costituzionali che
saranno  appresso  esaminati:  una  volta  che  la  questione  appare
rilevante nel presente giudizio in quanto, da un  lato,  e'  pacifica
l'applicabilita'    del    menzionato     istituto     (re)introdotto
dall'art.42-bis T.U. E dall'altro e' proprio il sopravvenire di detta
normativa ad aver mutato quella previgente, piu' favorevole, invocata
dal ricorrente, ed in particolare ad  impedire  la  restituzione  dei
terreni di fatto occupati dal comune  nonche'  a  sostituire  il  suo
diritto  al  risarcimento  del  danno   integrale   con   quello   al
conseguimento dell'indennizzo, causa del regolamento. 
    S'intende significare che l'esame del ricorso potrebbe indurrebbe
astrattamente al suo accoglimento, con la traslatio iudici al giudice
ordinario,  nella  vigenza  della  norma   della   cui   legittimita'
costituzionale si dubita, conseguendone che ove invece l'art. 42-bis,
per  i   consistenti   dubbi   di   compatibilita'   con   la   Carta
costituzionale,  venisse  espunto  dall'ordinamento,  il   ricorrente
fruirebbe del trattamento,  risultante  dalla  disciplina  previgente
all'emanazione delle disposizioni impugnate, per lui piu'  favorevole
-  gia'  richiesto  al  TAR  Puglia  davanti  al  quale  il  giudizio
resterebbe   incardinato   -   e   consistente   nella   restituzione
dell'immobile soggetto ad occupazione in radice  illegittima,  ed  al
risarcimento del danno informato ai principi generali dell'art.  2043
cod. civ. 
    Alla completa tutela reintegratoria il Livraghi  aveva,  infatti,
diritto  in   base   al   regime   comune   previgente:   in   quanto
contestualmente alle note decisioni 161/1971 e 138/1981  della  Corte
Costituzionale sui limiti di intangibilita' dell'atto amministrativo,
questa Corte fin dalle sentenze 4423/1977 e  118/1978  delle  Sezioni
Unite aveva enunciato la regola che nell'ipotesi di  compressione  di
fatto dei diritto di proprieta'  privata  da  parte  della  P.A.,  di
funzione amministrativa ablatoria meritevole della particolare tutela
apprestata dall'art. 42 Costit. nonche' dall'art.4 della  legge  2248
del 1865 All. E puo' parlarsi  soltanto  nel  caso  di  provvedimenti
espropriativi assistiti dalla dichiarazione di p.u. e non  anche  nel
caso di mero impiego,  sia  pure  per  fini  pubblici,  dell'immobile
altrui materialmente appreso o dell'utilita'  da  esso  materialmente
ritratta con continuata o reiterata compressione di fatto dell'altrui
diritto dominicale. Sicche' ove la prevalenza dell'interesse pubblico
sull'interesse  privato  non  sia  esternata  nell'atto  tipico   del
procedimento amministrativo, costituito appunto  dalla  dichiarazione
suddetta, la semplice intromissione nell'immobile privato  e  la  sua
materiale utilizzazione non puo' valere a trasformare in esercizio di
potesta' amministrativa ne' l'iniziale apprensione del bene,  ne'  la
sua  successiva  detenzione,   in   quanto   lo   status   soggettivo
dell'occupante non riveste alcuna rilevanza; e non  ne  presenta  del
pari nessuna la successiva e non consentita trasformazione del  fondo
da  parte  dell'ente  pubblico  (c.d.  occupazione  usurpativa)  che,
restando fine a se' stessa, non pone alcun problema di  bilanciamento
di  interessi,   ma   produce   soltanto   le   conseguenze   proprie
dell'illecito comune di  carattere  permanente  ed  e'  inquadrabile,
sotto ogni profilo, nello schema degli art. 2043 e 2058 cod. civ.  Il
quale, dunque, non solo non consente l'acquisizione autoritativa  del
bene alla mano pubblica, costituente funzione propria  della  vicenda
espropriativa, ma  attribuisce  al  proprietario,  rimasto  tale,  la
tutela reale  e  cautelare  apprestata  nei  confronti  di  qualsiasi
soggetto dell'ordinamento (restituzione, riduzione in pristino  stato
dell'immobile,   provvedimenti   di   urgenza   per   impedirne    la
trasformazione ecc.);  oltre  al  consueto  risarcimento  del  danno,
ancorato ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. (Cass. sez. un. 3081 e
3380/1982, piu' di recente: sez. un. 14886/2009;  1907/1997,  nonche'
sez. 1ª 1080/2012; 9173 e 18239/2005; 15710/2001). 
    3. Siffatta disciplina - che  trovava  deroga  nelle  fattispecie
della  c.d.  occupazione  espropriativa,  tuttavia  subordinata  alla
ricorrenza di specifici presupposti, tra cui la  sussistenza  di  una
valida dichiarazione di  p.u.  (Cass.  sez.  un.  3940/1988;  3242  e
3243/1979 e succ.), ed ora eliminata  dal  T.U.  espropr.  appr.  con
d.P.R.   n.   327/2001   -   e'   stata   profondamente    modificata
dall'originario art. 43 dello stesso T.U.; e, dichiarata quest'ultima
disposizione costituzionalmente illegittima  per  eccesso  di  delega
dalla sentenza 293/2010 della Corte  Costit.,  dall'art.  34  d.l.  6
luglio 2011 n. 98, conv. con mod. dalla legge 15 luglio 2011 n.  111,
recante «Disposizioni urgenti per  la  stabilizzazione  finanziaria»,
che ha inserito nel T.U. l'art. 42-bis («Utilizzazione  senza  titolo
di un bene per scopi di interesse pubblico»),  del  seguente  tenore:
«Valutati gli interessi in conflitto,  l'autorita'  che  utilizza  un
bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in  assenza
di un valido ed efficace provvedimento di  esproprio  o  dichiarativo
della pubblica utilita', puo' disporre che esso  sia  acquisito,  non
retroattivamente,  al  suo  patrimonio   indisponibile   e   che   al
proprietario  sia  corrisposto  un  indennizzo  per  il   pregiudizio
patrimoniale  e  non   patrimoniale,   quest'ultimo   forfetariamente
liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene
(1° comma). Il provvedimento di  acquisizione  puo'  essere  adottato
anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto  il  vincolo
preordinato all'esproprio, l'atto che abbia  dichiarato  la  pubblica
utilita' di un'opera o il decreto di esproprio...» (2° comma). 
    E' stata in tal modo reintrodotta, secondo  la  piu'  qualificata
dottrina e la  giurisprudenza  amministrativa,  la  possibilita'  per
l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi
di interesse pubblico, di evitarne la  restituzione  al  proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto
di acquisizione coattiva ai  proprio  patrimonio  indisponibile,  che
sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone,
a  sua  volta,  come  una   sorta   di   procedimento   espropriativo
semplificato. Il  quale  assorbe  in  se'  sia  la  dichiarazione  di
pubblica utilita', che il decreto di esproprio, e  quindi  sintetizza
«uno actu» lo svolgimento dell'intero procedimento, in  presenza  dei
presupposti indicati dalla norma. 
    La nuova soluzione  e'  apparsa  al  legislatore  indispensabile,
anzitutto   per   «eliminare   la   figura   sorta    nella    prassi
giurisprudenziale della occupazione appropriativa ... nonche'  quella
dell'occupazione usurpativa..» (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e  quindi
al fine di adeguare l'ordinamento «ai principi  costituzionali  ed  a
quelli  generali  di  diritto  internazionale  sulla   tutela   della
proprieta'». Posto che in  forza  di  detto  provvedimento  cessa  la
occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto  viene
adeguata a  quella  di  diritto  con  l'attribuzione  (questa  volta)
formale della proprieta' alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico),
cui e' consentita una legale via di uscita dalle numerose  situazioni
di illegalita' realizzate nel corso degli anni. 
    Onde permetterle il ritorno  alla  legalita'  in  modo  completo,
percio' comprendente tanto le  (prevedibili)  utilizzazioni  illecite
future, quanto quelle gia' verificatesi, anche in  epoca  antecedente
al  T.U.,  per  le  quali  permane  egualmente   la   necessita'   di
regolarizzarne la  sorte  definitiva,  l'art.  42-bis  ha  riproposto
l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente  art.
43, di cui ha ereditato perfino la rubrica, rivolgendola  in  diverse
direzioni, in quanto: I) ha superato la norma  transitoria  dell'art.
57 con l'introduzione del comma 8°, per il quale «Le disposizioni del
presente articolo trovano altresi' applicazione  ai  fatti  anteriori
alla sua  entrata  in  vigore  ed  anche  se  vi  e'  gia'  stato  un
provvedimento   di   acquisizione    successivamente    ritirato    o
annullato..»; II) ha confermato, malgrado la critica sul punto  della
Corte Costituzionale, l'estensione del potere  di  acquisizione  alle
servitu' di fatto (comma 7°),  in  passato  escluse  dall'occupazione
espropriativa (perche' ne difetta la  non  emendabile  trasformazione
del suolo in una componente  essenziale  dell'opera  pubblica:  Cass.
sez. un. 8065/1990; 4619 e 3963/1989; da ultimo: 19294/2006; 14049  e
17570/2008;    18039/2012):    peraltro    con     ampia     facolta'
all'amministrazione  di  costituirle  con  il   peculiare   contenuto
indicato nel provvedimento, pur se  al  di  fuori  delle  fattispecie
tipiche previste dal codice civile o da leggi speciali (Cons.  Stato,
3723/ 2009);  III)  non  richiede  piu'  che  l'immobile  realizzando
rientri in una delle categorie individuate dagli art. 822 ed 826 cod.
civ. (postulate dall'occupazione appropriativa).  Ed  anzi  e'  stato
rescisso perfino il collegamento con l'area delle espropriazioni  per
p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in
cui sia stato annullato l'atto da cui e' sorto il vincolo preordinato
all'esproprio: in base  alla  mera  utilizzazione  dell'immobile  per
scopi di interesse pubblico,  che  ne  abbia  provocato  una  qualche
modifica, pur quando «attribuito...in uso speciale a soggetti privati
(5° comma); IV) ha  conclusivamente  invertito  il  principio  tratto
dagli art.42 Costit. ed 834 cod. civ. che  la  potesta'  ablativa  ha
carattere eccezionale; e che. non puo' essere esercitata se  non  nei
casi in cui sia  la  legge  a  prevederla  (legge  2359/1865  per  la
realizzazione di opere pubbliche,  legge  n.  1089/1939  per  i  beni
storici, artistici; d.lgs. n. 215/1933  per  finalita'  di  bonifica;
d.lgs. n. 3267/1923 per fini di protezione idro-geologica  ecc.).  In
quanto l'acquisizione e' predisposta in via generale ed indeterminata
per qualsiasi «utilizzazione» del bene -  meramente  detentiva,  come
preordinata  all'esproprio,  reversibile  oppure  irreversibile-;  in
seguito alla quale il provvedimento non  e'  tenuto  ad  individuarne
neppure la destinazione,  essendo  sufficiente  «l'indicazione  delle
circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione  dell'area
e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio» (4° comma). 
    4. Questi caratteri dell'acquisizione, immediatamente  denominata
"sanante", hanno indotto la menzionata  sentenza  n.  293/2010  della
Corte Costituzionale ad osservare che il nuovo istituto  «prevede  un
generalizzato   potere   di   sanatoria,   attribuito   alla   stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di  un
giudicato che dispone il ristoro in forma specifica  del  diritto  di
proprieta' violato»; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto
al contesto normativo  positivo,  «neppure  e'  coerente  con  quegli
orientamenti di giurisprudenza  che,  in  via  interpretativa,  erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune  gravi  patologie  emerse
nel  corso  dei  procedimenti  espropriativi».   Per   cui   la   sua
riproduzione  nell'art.  42-bis,  applicabile  ad  ogni   genere   di
situazione sostanziale e processuale indicata, con  il  risultato  di
aprire  alla  P.A.  una  vasta  ed  indeterminata  gamma   di   nuove
prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalita'  -
anche  per  le  possibili  violazioni  del  principio  di   legalita'
dell'azione amministrativa -  in  relazione  ai  precetti'  contenuti
negli art. 3, 24, 42 e 97 Costit.; nonche' di compatibilita'  con  la
ricordata normativa della Convenzione  CEDU,e  quindi  dell'art.  117
Cost. In linea piu' generale, infatti, dottrina e  giurisprudenza  si
sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto illecito, fonte
per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli art. 2043 e  2058  cod.  civ.,  possa  essere  riservato  un
trattamento  privilegiato  (conforme  alla  normativa   dell'art.   3
Costit.)  ed  attribuita  la  facolta'  di  mutare,   successivamente
all'evento dannoso prodotto  nella  sfera  giuridica  altrui,  e  per
effetto di una propria unilaterale  manifestazione  di  volonta',  il
titolo e l'ambito della responsabilita',nonche' il tipo  di  sanzione
(da  risarcimento  in  indennizzo)  stabiliti  in  via  generale  dal
precetto   del   «neminem    laedere»    per    qualunque    soggetto
dell'ordinamento. Soprattutto al lume  del  principio  costituzionale
(ritenuto da Corte Costit. 204/2004 «una conquista liberale di grande
importanza») che nel sistema vigente e' privilegiata la tutela  della
funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto. 
    La risposta, del tutto univoca a partire dalla revisione  critica
di cui si' e' detto avanti (§ 2), e' stata che, allorquando la stessa
opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a  tutte  le  regole
vincolanti per gli altri  soggetti,  nonche'  esposta  alle  medesime
responsabilita', fra  cui  quelle  di  cui  alle  norme  codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che «factum  infectum
fieri nequit», costituente limite invalicabile anche per il potere di
sanatoria in via amministrativa di una situazione di  illegittimita'.
Sicche', una volta attuata in tutti i suoi  elementi  costitutivi  la
lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo'  mai
mutare  natura  e  divenire  "giusta"  per  effetto   dell'autotutela
amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne "ex post"
le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad  esse
correlate. 
    Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa
applicazione del principio di legalita' sostanziale  predicato  dalla
normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011,
C 405/10); nonche'  nella  giurisprudenza  della  Corte  Edu  (I,  13
ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La  Rosa;  III,  15  dicembre
2005, Scozzari; II, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio
2010, Guiso)  proprio  in  materia  di  ingerenza  illegittima  nella
proprieta' privata, fondata sempre e comunque sul corollario divenuto
per i giudici di  Strasburgo  insuperabile,  che  alla  P.A.  non  e'
consentito (ne' direttamente ne' indirettamente) trarre vantaggio  da
propri comportamenti illeciti, e piu' in generale, da una  situazione
di illegalita' dalla stessa determinata. Laddove l'art.42-bis, per il
solo   fatto   della   connotazione   pubblicistica   del    soggetto
responsabile, ha soppresso  tale  pregresso  regime  dell'occupazione
abusiva di un immobile altrui, sottraendo  al  proprietario  l'intera
gamma delle azioni di  cui  disponeva  in  precedenza  a  tutela  del
diritto dominicale, e la stessa facolta' di scelta di  avvalersene  o
meno. E, considerando esclusivamente gli scopi  dell'amministrazione,
l'ha trasferita  dalla  "vittima  dell'ingerenza"  (tale  qualificata
dalla Corte europea), all'autore del fatto  illecito,  attraverso  la
sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione  emesso
da quest'ultimo, di  un  nuovo  modo  di  acquisto  della  proprieta'
privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di
opere pubbliche, e perfino  con  una  pregressa  procedura  ablativa:
essendo l'istituto rivolto a definire in linea generale (non piu'  un
procedimento espropriativo in  itinere,  bensi')  "quale  sorte  vada
riservata ad una res utilizzata e modificata  dalla  amministrazione,
restata senza titolo nelle mani di quest'ultima" (Cons. St. Ad. Plen.
2/2005 e succ.). 
    Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi  al
suddetto  principio  di  legalita'  in   ambito   espropriativo,   la
giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli anni  80'  aveva
riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978;  2931/1980;  5856/1981)  la
regola, fino ad  allora  seguita,  che  alla  P.A.  occupante  (senza
titolo) fosse concesso di completare la procedura  ablativa  in  ogni
tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino  nel
corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la  restituzione
dell'immobile;  e  che  il  solo  fatto  dell'adozione  postuma   del
provvedimento  ablativo  -  ammissibile  fino  alla  decisione  della
Cessazione  -  comportasse  la  conversione  automatica   dell'azione
restitutoria   e/o   risarcitoria,   in   opposizione   alla    stima
dell'indennita': alla quale soltanto il proprietario finiva per avere
diritto. E tale adeguamento  alla  normativa  costituzionale  non  e'
sfuggito alla ricordata decisione 293/10 della  Consulta  che  lo  ha
contrapposto  agli  effetti  dell'acquisizione  sanante  (analoghi  a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da  decenni  «secondo  la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi». 
    5. Il dubbio  di  elusione  delle  garanzie  poste  dall'art.  42
Costit. a tutela della "proprieta' privata" (2° e  3°  comma)  appare
alle Sezioni Unite ancor piu' consistente in  relazione  al  primo  e
fondamentale presupposto per procedere al trasferimento  coattivo  di
un immobile mediante espropriazione, ivi  indicato  nella  necessaria
ricorrenza di "motivi di  interesse  generale";  che  trova  puntuale
riscontro in quello di eguale tenore dell'art.  1  del  Protocollo  1
All. alla  Convenzione  EDU  per  cui  l'ingerenza  nella  proprieta'
privata  puo'  essere  attuata  soltanto  "per  causa   di   pubblica
utilita'". 
    Fin  dalle  decisioni   piu'   lontane   nel   tempo   la   Corte
Costituzionale ha affermato  al  riguardo  (sent.  90/1966)  che  "Il
precetto costituzionale, secondo  cui  una  espropriazione  non  puo'
essere consentita  dalla  legge  se  non  per  «motivi  di  interesse
generale» (o - il che e' lo stesso  -  per  «pubblica  utilita'»),  e
cioe'  se  non  quando  lo  esigano   ragioni   importanti   per   la
collettivita', comporta, in primo luogo, la necessita' che  la  legge
indichi le ragioni per le quali si puo' far luogo all'espropriazione;
e inoltre che quest'ultima non possa essere autorizzata se non  nella
effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge». Ed ancora che
«Nelle leggi  della  materia  -la  cui  fondamentale  espressione  e'
rappresentata dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 - si trova  infatti
costantemente affermato il  concetto  (e  anche  li'  dove  esso  non
risulta  espressamente  enunciato,  e'  stata  la  giurisprudenza   a
proclamare l'inderogabilita' del principio) che fin  dal  primo  atto
della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto
l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi e i tempi di essa...» 
    Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta
(sent. 95/1966; 384/1990;  486/1991;  155  e  188/1995),  nonche'  la
consolidata giurisprudenza di legittimita' che fin dai primi anni 60'
(Sez. un. 826/1960 e succ.), ha definito la dichiarazione di p.u. «la
guarentigia prima e fondamentale del  cittadino  e  nel  contempo  la
ragione giustificatrice del suo sacrificio  nel  bilanciamento  degli
interessi del proprietario  alla  restituzione  dell'immobile  ed  in
quello pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per  la  funzione
sociale della proprieta'»; ha costantemente confermato che a suddetta
garanzia costituzionale viene osservata  soltanto  se  la  causa  del
trasferimento  e'   predeterminata   nell'ambito   di   un   apposito
procedimento   Amministrativo,   nel   bilanciamento   dell'interesse
primario con gli altri interessi  in  gioco.  Ed  e'  rimasta  sempre
ancorata al principio (Da ult. Cass. sez.  un.  30254  e  19501/2008;
10962/2005; 9139/2003) che la mancanza della preventiva dichiarazione
di   pubblica    utilita'    implica    il    difetto    di    potere
dell'amministrazione  nel  procedere  all'espropriazione  (sia   essa
rituale   o   attuata   in   forma   anomala,    come    nell'ipotesi
dell'occupazione appropriativa: sent. 384/1990 cit.). 
    La  norma  costituzionale  richiede,  quindi,   che   i   «motivi
d'interesse  generale»  per  giustificare  l'esercizio   del   potere
espropriativo  nei  (soli)  casi   stabiliti   dalla   legge,   siano
predeterminati  dall'amministrazione  ed  emergano  da  un   apposito
procedimento - individuato, appunto,  nel  procedimento  dichiarativo
del pubblico interesse culminante nell'adozione  della  dichiarazione
di pubblica utilita' - preliminare, autonomo e  strumentale  rispetto
al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel  quale
l'amministrazione programma  un  nuovo  bene  giuridico  destinato  a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale  e  concreto.  E
che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo  spossessamento
nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in  un  momento  in
cui la comparazione tra l'interesse pubblico  e  l'interesse  privato
possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei
principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97 Costit.): in  un
momento,cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e'  ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non  sono
ostacolate  da  una  situazione  fattuale   ormai   irreversibilmente
compromessa. 
    Da  qui  la  formula   del   3°   comma   dell'art.42   per   cui
l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima  in  quanto
e' originata da «motivi di interesse generale», ovvero  collegata  ad
un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
una  incisione  nella  sfera  del  privato  proprietario,  di  questo
valorizzando il  ruolo  partecipativo;  e  la  conseguenza  che  tale
risultato  non  sarebbe  garantito  dall'esercizio   di   un   potere
amministrativo   che,   sebbene   presupponga    astrattamente    una
«valutazione degli interessi in conflitto», e' destinato in  concreto
a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base
alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi. 
    La preventiva  emersione  dei  motivi  d'interesse  generale  non
costituisce,   conclusivamente,   semplice   regola    procedimentale
disponibile dal legislatore,  ma  specifica  garanzia  costituzionale
strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra
l'imponente giurisprudenza, soprattutto  amministrativa,  secondo  la
quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un  semplice  atto
prodromico con l'esclusivo effetto di  condizionare  la  legittimita'
del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi  solo
congiuntamente a  quest'ultimo,  bensi'  un  provvedimento  autonomo,
idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella  sfera  giuridica
di terzi. I quali  si  riflettono  necessariamente  sul  piano  della
tutela    giurisdizionale    (art.    24    Costit.),     consentendo
all'espropriando  di  partecipare  alla  fase  antecedente  alla  sua
adozione, e quindi di contestarlo  sin  dal  primo  momento  del  suo
farsi, coincidente con l'emersione dei «motivi d'interesse  generale»
(Cons. St. 4766/2013; 3684/2010;  3338  e  479/2009;  5034/2007;  Ad.
plen. 2/2000; 14/1999). Per  converso,  l'art.  42-bis,  prescindendo
dalla dichiarazione di p.u., autorizza  l'espropriazione  sostanziale
in assenza di una predeterminazione dei motivi  d'interesse  generale
che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di  proprieta',
reputando  sufficiente  che  la  perdita  del  bene  da   parte   del
proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi
a   creare    per    effetto    del    comportamento    contra    ius
dell'amministrazione; e ne consente l'acquisizione anche laddove tale
procedura sia stata violata  o  totalmente  omessa,  in  questo  modo
trasformando il rispetto del procedimento tipizzato  dalla  legge  in
una mera facolta' dell'amministrazione. E, relegando la dichiarazione
di pubblica utilita'  a  momento  procedimentale  eventuale,  la  cui
assenza puo' essere superata dal provvedimento di acquisizione che ne
elimina in radice la necessarieta'. 
    In  contrasto,  peraltro,  anche  con  la  complessiva  e  rigida
disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso d.P.R. n. 327/2001
che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al  «principio  di
legalita' dell'azione amministrativa»:  dal  momento  che  il  potere
sanante viene di fatto  ad  esautorare  il  significato  dei  doveri,
obblighi e limiti che scandiscono il procedimento  espropriativo.  Ed
in contrasto soprattutto con quella specifica del capo  III  relativo
alla  fase  della  dichiarazione  di  p.u.»  che  ha  istituito,   in
conformita' all'art. 97 Costit. un giusto procedimento che  riconosce
e valorizza il ruolo partecipativo  del  privato  proprietario  (cfr.
art.  11  segg.):  subito  dopo  reso  superfluo  dalla   contestuale
introduzione  di   un   meccanismo   "semplificato",   parallelo   ed
alternativo, rimesso  a  scelte  insindacabili  dell'amministrazione.
Alla quale in definitiva viene attribuito  il  potere  (di  volta  in
volta, e per ogni espropriazione), di recepire  ovvero  escludere  le
garanzie connesse al procedimento normale. 
    Non  e'  sostenibile,  infatti,  che,  siccome   l'adozione   del
provvedimento  di  acquisizione  e'   subordinato   ad   una   previa
««valutazione degli interessi in conflitto» ed al fatto che  il  bene
occupato sia ««utilizzato per  scopi  d'interesse  generale»,  queste
espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale  sinonimo  dei
"motivi di interesse generale"  di  cui  al  3°  comma  dell'art.  42
Costit.: in quanto il riferimento normativo alla  «valutazione  degli
interessi in conflitto» presuppone  un  apprezzamento  di  amplissima
discrezionalita'  dell'amministrazione  espropriante,   assolutamente
privo di «elementi e criteri idonei a delimitarla chiaramente» (Corte
Costit. 38/1966), tanto che  non  viene  descritto  alcun  parametro,
neppure vaghissimo, al quale una siffatta  valutazione  debba  essere
ancorata;  e  neppure,   viene   prefigurato   l'ingresso   nell'iter
decisionale di interessi privati che tale discrezionalita' possano in
qualche misura indirizzare o soltanto attenuare. Mentre e' lo  stesso
art. 42-bis ad escludere che i generici ed  indeterminati  «scopi  di
interesse generale» - che peraltro si limitano a riprodurre la regola
per cui tutta l'attivita' dell'amministrazione e' istituzionalmente e
necessariamente finalizzata ad interessi generali - coincidano con la
«causa di pubblica utilita'» postulata dalla  Costituzione  (e  dalla
Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo,da un  lato,
sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e
utilizzato da  una  pubblica  amministrazione:  e  quindi  la  stessa
situazione di fatto venutasi a creare per effetto  del  comportamento
contra  ius  di  quest'ultima.  E  dall'altro,  richiedendo  che   la
determinazione relativa al loro accertamento,si svolga al  solo  fine
di legittimarla ex post,peraltro attraverso  passaggi  conoscitivi  e
valutativi  tutti  interni  all'apparato   amministrativo,e   percio'
necessariamente soggettivi. A differenza  dei  "motivi  di  interesse
generale", i quali (Corte Costit. 95/1966 e  155/1995)  "valgono  non
solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire  un
interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso  miri  alla
«soddisfazione di effettive e specifiche esigenze  rilevanti  per  la
comunita'»"; e la cui identificazione deve «rinvenirsi  nella  stessa
legge che prevede la potesta' ablatoria;  come  anche  in  essa  puo'
trovarsi definita  soltanto  la  fattispecie  astratta  (a  mezzo  di
clausola generale)..» che ne implica poi l'individuazione in concreto
nell'ambito  di  un  procedimento  normativamente  predeterminato  (e
partecipato). Allorche', dunque, «il  programma  da  realizzare»  sia
ancora nella fase progettuale (comportante le  opportune  valutazioni
relative a collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza,tutela
ambientale  ecc.),  precedente  alla  concreta  lesione  del  diritto
dominicale (Corte Costit. 90/1966  cit.):  soltanto  cosi'  potendosi
garantire che il relativo sacrificio consegua  il  giusto  equilibrio
con  le  reali  esigenze  della  collettivita',  e   configurare   il
comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di
legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Costit.  ed  1  Prot.  All.1
alla CEDU). 
    6. Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la  fase
della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento  coattivo,
assolve ad una seconda  e  non  meno  rilevante  funzione,  risalente
all'art.13 della legge fondamentale 2359 del  1865;  il  quale,  onde
evitare che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla sorte dei
beni espropriandi, e nel contempo, che si  eseguano  opere  non  piu'
rispondenti, per il decorso  del  tempo  all'interesse  generale,  ha
attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia  fondamentale,  oggi
rispondente al principio di legalita' e  tipicita'  del  procedimento
ablativo, disponendo nel comma 1 che nel  provvedimento  dichiarativo
della pubblica utilita'  dell'opera  devono  essere  fissati  quattro
termini  (e  cioe'  quelli  di   inizio   e   di   compimento   della
espropriazione e dei lavori); e  stabilendo,  nel  comma  terzo,  che
"trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica  utilita'  diventa
inefficace". 
    Sopravvenuta la  Costituzione,  questa  disposizione  ha  assunto
rilevanza  costituzionale,  essendo  stata  collegata   dalla   Corte
Costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992)  direttamente  al
principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere  espropriata
esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 Cost., comma
3),  tale  possibilita'  e'   connaturata   solo   all'esigenza   che
l'espropriazione avvenga per esigenze  effettive  e  specifiche:  che
valgano, cioe', a far  considerare  indispensabile  e  tempestivo  il
sacrificio  della  proprieta'  privata  in  quel  momento;   con   la
conseguenza che cio'  non  si  verificherebbe  ove  il  trasferimento
coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma  attualmente
ipotetica utilizzazione al servizio di specifici  fini  di  interesse
generale, ma privi di attualita' e di concretezza (Fra  tante:  Cass.
sez. un. 15606/2001; 460/1999; 355/1999; 1907/1997). 
    Da tale quadro  normativo,  la  giurisprudenza  tanto  ordinaria,
guanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute  e
non derogabili: A) che «la fissazione  di  tali  termini  costituisce
regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo»
(Cosi' Corte Costit. 257/1988); B)  che  la  loro  omessa  fissazione
comporta la giuridica inesistenza della  dichiarazione  di  p.u.  con
tutte le conseguenze sopra evidenziate:  prima  fra  tutte  che  tale
situazione non e' idonea a far sorgere  il  potere  espropriativo  e,
dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprieta'  sui  beni
espropriando; e determina una situazione di  carenza  di  potere  che
incide (negativamente) sui  successivi  atti  e  comportamenti  della
procedura ablativa, piu' non  consentendone  l'adozione  (Fra  tante,
Cass. sez. un. 3569/2011;  9323/2007;  600/2005;  nonche'  4202/2009;
28214/2008; 16907/2003); C) che tale  indicazione  (ove  non  apposta
direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente  "ex
lege" valore di dichiarazione  di  pubblica  utilita'  dell'opera,  e
quindi nell'atto con cui e' approvato il progetto di opera  pubblica;
ed  il  relativo  onere  non  puo'  essere  assolto   mediante   atti
successivi, seppure in forma di convalida e di sanatoria,  idonei  ad
eliminare  l'intrinseca  illegittimita'   del   primo   atto   (Cass.
8210/2007; 120/2004; sez. un. 7881 e 2688/2007; 9532/2004;  355/1999;
Cons. St. 7578/2000); D) che scaduti inutilmente i termini finali  di
cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre
a compimento il procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare
attraverso   la   rinnovazione   della    dichiarazione    di    p.u.
necessariamente  richiedente,  come  prescritto   dalla   norma,   lo
svolgimento ab inizio del procedimento amministrativo strumentale  di
cui si e'  detto,  e  quindi  il  compimento  ex  novo  di  tutte  le
formalita'   previste   come   indispensabili   dalla    legge    per
l'approvazione  di  quel  progetto,  con  la   considerazione   della
situazione attuale (anche dei luoghi), cosi' come evoluta nelle  more
(Cass. sez. un.10024/2007; 4717/1996; 7191/1994, nonche'  17491/2008;
1836/2001). 
    Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende
riunire  sia  gli  effetti  espropriativi,  sia  la  valutazione  del
pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai  termini  dell'art.
13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto
la  norma  non  indica  alcun  limite  temporale   entro   il   quale
l'amministrazione  debba  esercitare  il  relativo  potere:   percio'
esponendo  il   diritto   dominicale   su   di   esso   al   pericolo
dell'emanazione  del  provvedimento  acquisitivo  senza   limiti   di
tempo;ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Costit.,
avanti manifestati, per il regime discriminatorio  provocato  tra  il
procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata
all'efficacia  della  dichiarazione  di  pubblica   utilita'   (nella
disciplina  del  T.U.,  anche  a  quella  del   vincolo   preordinato
all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine
titulo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione. 
    7.  La  nuova  operazione  sanante  -  in  tutte  le  fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella  di  utilizzazione  del
bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace  provvedimento
di esproprio» - presenta poi, numerosi  ed  insuperabili  profili  di
criticita' - non risolvibili in via ermeneutica- con le  norme  della
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Costit.).
La quale, del resto,  come  gia'  rilevato  da  questa  Corte  (Cass.
18239/2005; 20543/2008),  si  e'  gia'  pronunciata  in  tali  sensi,
esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art.  43  T.U.,
interamente  riprodotto  nell'impianto  del  meccanismo   traslativo,
dall'attuale art. 42-bis. Il suo  fulcro  qualificante  e'  ravvisato
infatti nella prospettiva che la restituzione  dell'immobile  privato
utilizzato per scopi di p.i., secondo le direttive della Convenzione,
possa essere evitata soltanto a seguito di  un  legittimo  e  formale
provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e
che deve, a sua  volta,  trovare  giustificazione  non  piu'  in  una
situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale,  ma  in  una
previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti  presupposti
e' apparsa al legislatore necessaria e nel contempo  sufficiente  per
garantire il «rispetto dei parametri imposti dalla  Corte  europea  e
dai   principi   costituzionali»:   anche   per   l'obbligo   imposto
all'autorita'  amministrativa   di   "valutare   gli   interessi   in
conflitto", e percio' di  «mantenere  il  giusto  equilibrio  tra  le
esigenze dell'interesse generale della  comunita'  e  gli  imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo». 
    7.1. Affatto diverso e' il  quadro  normativo  prospettato  dalla
Corte Edu nella interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot.
n. 1 - la prima afferma  il  principio  generale  di  rispetto  della
proprieta'; la seconda consente la privazione della  proprieta'  solo
alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati il potere  di
disciplinare l'uso dei beni in conformita'  all'interesse  generale-;
la quale muove dalla regola che, per  determinare  se  vi  sia  stata
privazione dei beni ai sensi della seconda norma,  occorre  non  solo
verificare se vi sono stati spossessamento o espropriazione  formale,
ma anche guardare al di la' delle apparenze ed analizzare la  realta'
della concreta fattispecie,  onde  stabilire  se  essa  equivalga  ad
un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che  la  CEDU  mira  a
proteggere  diritti  "concreti   ed   effettivi"   (tra   le   tante,
Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c.  Italia,  19
maggio 2005; Carletta c.  Italia,  15  luglio  2005;  De  Angelis  c.
Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4 dicembre  2007).  Per
cui ha  dichiarato  in  radicale  contrasto  con  la  Convenzione  il
principio  dell'«espropriazione   indiretta»,   con   la   quale   il
trasferimento della proprieta' del bene dal privato alla p.a. avviene
in virtu' della  constatazione  della  situazione  di  illegalita'  o
illiceita' commessa dalla stessa Amministrazione,  con  l'effetto  di
convalidarla; di  consentire  a  quest'ultima  di  trarne  vantaggio;
nonche'  di  passare  oltre  le  regole   fissate   in   materia   di
espropriazione, con  il  rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o
arbitrario per gli interessati. 
    E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente  inserito
non  soltanto  l'ipotesi   corrispondente   alla   c.d.   occupazione
espropriativa, ma tutte  indistintamente  le  fattispecie  (sent.  19
maggio  2005,  Acciardi)   di   "perdita   di   ogni   disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e  con
conseguenze  assai  gravi  per  il  proprietario  che   subisce   una
espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al  rispetto
dei propri beni": ritenendo ininfluente "che  una  tale  vicenda  sia
giustificata soltanto dalla  giurisprudenza,  ovvero  sia  consentita
mediante disposizioni legislative, come  e'  avvenuto  con  l'art.  3
della legge 458 del 1988, ovvero da ultimo con l'art.43 del T.U.,  in
quanto il principio di legalita' non significa affatto  esistenza  di
una norma di legge che consenta  l'espropriazione  indiretta,  bensi'
esistenza di norme giuridiche interne  sufficientemente  accessibili,
precise e prevedibili". Con la conseguenza che supporto di "una  base
legale non e' sufficiente a soddisfare al principio di  legalita'"  e
che "e' utile  porre  particolare  attenzione  ("se  pencher")  sulla
questione della qualita' della legge"  (sent.  Acciardi  cit.  §  75;
Scordino, 12 ottobre 2005, cit. § 87 ed 88). E quella  ulteriore  che
al nuovo istituto del  T.U.  i  giudici  di  Strasburgo  hanno  mosso
l'ulteriore addebito di non aver neppure escluso, come aveva fatto la
giurisprudenza  ordinaria,  che  l'espropriazione  indiretta  potesse
applicarsi quando la  dichiarazione  di  p.u.  sia  stata  annullata,
avendo previsto «che anche in assenza  della  dichiarazione  di  p.u.
qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio  pubblico,  se
il giudice  decide  di  non  ordinare  la  restituzione  del  terreno
occupato e trasformato dall'amministrazione»  (CEDU,  Sciarrotta,  12
gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006;  Serrao,  13  ottobre  2005;
Scordino, 12 ottobre 2005,  §  90;  S.A.S.  Cerro  c/Italia,  cit.  §
76-80). 
    7.2. In tale ottica diviene del tutto indifferente per  escludere
la ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto
al rispetto dei propri beni e ripristinare la  legalita',  l'adozione
postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti,  perche'  il
requisito della legalita' secondo  la  Corte  Edu  non  permette  «in
generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo
irreversibilmente,  di  tal  maniera  da  considerarlo  acquisito  al
patrimonio  pubblico,senza  che  contestualmente   un   provvedimento
formale  che  dichiari  il  trasferimento  di  proprieta'  sia  stato
emanato» (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli;  19
maggio 2005, Acciardi e  Campagna;  11  ottobre  2005,  La  Rosa;  11
ottobre 2005, Chiro'; 12 ottobre 2005,  Scordino;  13  ottobre  2005,
Serrao;  7  novembre  2005,  Istituto  diocesano;  12  gennaio  2006,
Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De  Sciscio;  9
gennaio 2009, Sotira).  Il  contrasto  con  la  Convenzlone  dipende,
allora, dal riconoscimento nel nostro  ordinamento  -«en  vertu  d'un
principe jurisprudentiel ou' d'un texte de loi comete l'article 43» -
di effetti traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente
fattuale di un  terreno  "sans  qu'en  parallele"  sussista  un  atto
formale che dichiari il trasferimento della  proprieta'  "intervenant
au plus tard au moment" in cui il proprietario ha perduto ogni potere
sull'immobile: cosi' come, del resto, oltre  un  secolo  prima  aveva
richiesto  l'art.  50  legge  n.  359/1865.  Percio'  inducendola   a
concludere che ogni forma di espropriazione indiretta  in  ogni  caso
«n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee», ne'  tanto
meno quello di costituire  "un'alternativa  ad  un'espropriazione  in
buona e dovuta forma" (CEDU, IV, 15 novembre 2005, La Rosa;  III,  12
gennaio 2006, Sciarrotta, I, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro). 
    La  "legalizzazione   dell'illegale"   non   e'   conclusivamente
consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di
legge, ne' tanto meno ad  un  provvedimento  amministrativo  di  essa
attuativo, quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci,
22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio  2006;  De  Sciscio,  20  aprile
2006;  Dominici,  15  febbraio  2006;  Serrao,   13   gennaio   2006;
Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005;  Scordino,  17
maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche  Corte
Costit. 293/2010, per la quale "non e' affatto  sicuro  che  la  mera
trasposizione in legge di un istituto, in  astratto  suscettibile  di
perpetuare  le  stesse   negative   conseguenze   dell'espropriazione
indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere il grave vulnus  al
principio di legalita'". Sicche'  il  ritorno  alla  via  legale,come
specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo  2007,
Scordino 3°, cfr. anche, I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30  marzo  2006,
Gianni) allo Stato italiano onde  evitare  ulteriori  condanne,  deve
essere  perseguito  non  regolarizzando  ex  post  occupazioni   gia'
illegittime, bensi', anzitutto, in via preventiva,  consentendo  alla
p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto se -e  dopocche'
-  abbia  gia'  conseguito  un   legittimo   titolo   che   autorizzi
l'ingerenza; ed in caso in cui cio' non sia avvenuto "eliminando  gli
ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e  per  principio
la  restituzione  del  terreno":  peraltro  "in  analogia  con  altri
ordinamenti europei" (Corte Cost. 293/2010 cit.). 
    7.3. Il principio di legalita' non e',  infine,  recuperabile  in
forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e
privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone
l'acquisizione:  avendo  la  Corte  EDU  affermato  fin  dalla   nota
decisione Belvedere-Alberghiera  del  30  maggio  2000,  nella  quale
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent.1/1996)  aveva  dato
precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita'  alla
realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur
mancante di dichiarazione di  p.u.  perche'  annullata  dallo  stesso
giudice  amministrativo),  che  la  necessita'  di   esaminare   tale
questione  inattuabile  in  caso  di  ingerenza   illegittima   nella
proprieta'  (in  cui  la  Convenzione  privilegia   quello   privato,
postulandone comunque la, reintegrazione), ma «puo' porsi soltanto  a
condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio  di
legalita' e non sia  risultata  arbitraria».  Sicche'  ha  egualmente
condannato lo Stato italiano non certamente  per  l'assenza  (allora)
nell'ordinamento italiano di  una  norma  con  valore  sanante  della
illegittimita' della procedura ablativa, ma perche' "la decisione del
Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita'  di
ottenere  la  restituzione  del   suo   terreno....che   per   essere
compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa
di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla  legge  e  dai
principi di diritto internazionale" (§  54  e  55;  nonche'  Ucci  c.
Italia, 22 giugno 2006). 
    E d'altra parte, poiche' la norma  attribuisce  ad  uno  dei  due
portatori  dell'interesse  in  conflitto  -  la   P.A.   responsabile
dell'illecito ed interessata alla  acquisizione  dell'immobile  -  il
potere di comparare gli interessi suddetti  (CEDU,  III,  9  febbraio
2006,  Prenna),  e,  quindi  la  scelta  di  restituirlo  ovvero   di
acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto  reale
non dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un
bene  demaniale  o  patrimoniale  indisponibile,  ma  viene  affidato
esclusivamente alla volonta' dell'amministrazione - per quanto detto,
senza neppure limiti temporali -  di  ricorrere  al  nuovo  istituto;
nonche', in caso di impugnazione del provvedimento  di  acquisizione,
alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne
la restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilita' della
sua situazione giuridica fino al momento della sentenza definitiva. 
    Il che ha indotto i giudici di Starsburgo a rilevare, con la piu'
qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel  minimo
di  prevedibilita'  che   un   sistema   normativa   e'   tenuto   ad
assicurare:attesa l'inidoneita' della base legale su cui si fonda  la
consentita  compromissione  della   proprieta'   ad   assicurare   il
sufficiente grado di certezza postulato dalla Convenzione  attraverso
"l'esistenza   di   norme   giuridiche    interne    sufficientemente
accessibili, precise e dagli effetti prevedibili"; e rende l'istituto
nuovamente incompatibile con la Convenzione "non potendosi  escludere
il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario" (CEDU, II,  28
giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De Sciscio; III, 2 febbraio
2006, Genovese). 
    Ne costituiscono del resto significativa  conferma  le  variegate
interpretazioni della  norma  offerte  dalla  recente  giurisprudenza
amministrativa, che talvolta  ha  posto  a  carico  del  proprietario
l'onere  di  esperire  il  procedimento  di  messa  in  mora,per  poi
impugnare   l'eventuale   silenzio-rifiuto   dell'amministrazione   a
provvedere; talaltra gli ha concesso  di  intraprendere  direttamente
un'azione (soltanto)  recuperatoria:  a  fronte  della  quale  si  e'
tuttavia ulteriormente  suddivisa,in  quanto  alcune  pronunce  hanno
attribuito al giudice amministrativo il normale potere di emettere le
tradizionali  statuizioni  di  annullamento  e  di  condanna;  altre,
invocando l'art. 34 cod. proc. amm.  anche  il  potere  di  assegnare
all'amministrazione un  termine  per  scegliere  tra  l'adozione  del
provvedimento   di   cui   all'art.   42-bis,   e   la   restituzione
dell'immobile. Mentre altre ancora (tra le quali la decisione del TAR
1614/10) hanno devoluto direttamente al giudice suddetto  il  compito
di emettere il  provvedimento,  comportante  (anche)  la  valutazione
definitiva sulla presenza (o meno), dell'interesse pubblico specifico
all'acquisizione del bene. 
    8. La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una
nuova normativa possa avere efficacia retroattiva,  ha  ripetutamente
considerato lecita l'applicazione dello  ius  superveniens  in  causa
soltanto in presenza di  «imperieux  motifs  d'interet  general»;  ed
affermato che in ogni altra caso essa si  concreta  nella  violazione
del principio di legalita' nonche' del diritto ad  un  processo  equo
perche'  consente  al  potere   legislativo   di   introdurre   nuove
disposizioni specificamente dirette  ad  influire  sull'esito  di  un
giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica),
ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale
la  controparte  poteva  legittimamente  aspirare   al   momento   di
introduzione della lite  (cfr.  sentenza  della  Grande  Chambre,  28
ottobre 1999, Zielinski; nonche' Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003,
proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio  2004;
nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, § 78). 
    Questa situazione - gia' posta in evidenza  dalla  Corte  vigente
l'incostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011;  20543/2008;  sez.
un. 26732/2007) - si e'  riproposta  proprio  per  effetto  dell'art.
42-bis, il quale, malgrado la precisazione del 1° comma che l'atto di
acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente  (rivolta  a
rispondere ad uno dei rilievi espressi da  Corte  Costit.  293/2010),
con la  menzionata  disposizione  dell'8°  comma,  ha  confermato  la
possibilita'  dell'amministrazione  di  utilizzare  il  provvedimento
sanante ex tunc, 'ai fatti anteriori alla sua entrata  in  vigore  ed
anche  se  vi  e'  gia'  stato  un  provvedimento  di:   acquisizione
successivamente ritirato o annullato': in conformita' del resto  alla
finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via
di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a  verificare  nel
corso degli anni (anche pregressi). 
    Pertanto il Livraghi, che per  effetto  della  sentenza  293/2010
della Corte Costit.  avrebbe  avuto  diritto  tanto  al  momento  del
ricorso  introduttivo  dei  giudizio,  alla  restituzione  dei   loro
immobili,  nonche'  al  risarcimento  del  danno  alla  stregua   dei
parametri contenuti nell'art.  2043  cod  civ.,  in  conseguenza  del
sopravvenuto  art.  42-bis,  nonche'  del  provvedimento  acquisitivo
autorizzato da detta norma, nel corso  del  giudizio  ha  perduto  in
radice  la  tutela  reale  e  puo'  avvalersi  soltanto   di   quella
indennitaria/risarcitoria dalla stessa introdotta; la  quale  percio'
non si sottrae neppure all'addebito  in  casi  analoghi  mosso  dalla
Corte  europea  al  legislatore  nazionale  «di   averla   slealmente
introdotto  in  giudizi  iniziati  ed   impostati   secondo   diversi
presupposti  normativi,  si'  da  incorrere  anche  nella  violazione
dell'art. 6, § 1, della Convenzione» per il mutamento  "delle  regole
in corsa": risultando sotto  tale  profilo  in  contrasto  anche  con
l'art. 111, primo  e  secondo  comma,  Cast.,  nella  parte  in  cui,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso   delle   regole
sull'acquisizione  coattiva  sanante  in   seguito   ad   occupazione
illegittima, viola i principi del giusto processo, in particolare  le
condizioni di parita' delle parti davanti al giudice,  che  risultano
lese dall'intromissione del potere  legislativo  nell'amministrazione
della giustizia allo scopo  di  influire  sulla  risoluzione  di  una
circoscritta e determinata  categoria  di  controversie;  ed  appare,
quindi, anche sotto questo profilo, nuovamente  in  contrasto  con  i
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art.117 Costit.). 
    9.  Infine,  neanche  l'indennizzo/risarcimento  stabilito  quale
corrispettivo  dell'acquisizione  (per  il  quale  e'  richiesto   il
regolamento) risulta esente da dubbi di legittimita'  costituzionale,
in quanto il 3° comma dell'art.42-bis ne fissa i seguenti  parametri:
«Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti,  l'indennizzo  per
il pregiudizio patrimoniale di cui  al  comma  1  e'  determinato  in
misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per  scopi
di  pubblica  utilita'  e,  se  l'occupazione  riguarda  un   terreno
edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3,
4, 5, 6 e 7». 
    Sennonche'  la  Corte  costituzionale   (sent.   369/1996),   nel
dichiarare l'incostituzionalita' dell'art. 1, comma 65, legge 549 del
1995, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento  del  danno  da
occupazione acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva
affermato ".. e' innegabile, in primo luogo,  la  violazione  che  ne
deriva del precetto di eguaglianza,  stante  la  radicale  diversita'
strutturale e funzionale delle obbligazioni cosi' comparate. Infatti,
mentre la misura dell'indennizzo -  obbligazione  ex  lege  per  atto
legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico
alla  realizzazione  dell'opera  e   interesse   del   privato   alla
conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione  ex
delicto - deve  realizzare  il  diverso  equilibrio  tra  l'interesse
pubblico al mantenimento dell'opera gia'  realizzata  e  la  reazione
dell'ordinamento a tutela della legalita' violata per  effetto  della
manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E  quindi  sotto
il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3  Costituzione),
poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico e'  gia'
essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene e dalla
conservazione  dell'opera  pubblica,  la  parificazione  del  quantum
risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un di piu'
che sbilancia eccessivamente il contemperamento  tra  i  contrapposti
interessi,  pubblico  e  privato,  in  eccessivo  favore  del   primo
(Considerazioni analoghe  si  rinvengono  nelle  decisioni  442/1993;
188/1995; 148/1999; 349/2007). Nel caso, i  ricordati  principi  sono
stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto
indennizzo debba essere sempre  e  comunque  commisurato  "al  valore
venale del  bene  utilizzato",  il  legislatore:  a)  attribuisce  ai
proprietari interessati da un provvedimento di  acquisizione  sanante
un trattamento deteriore rispetto a quelli, che in mancanza di  detto
provvedimento - come sarebbe accaduto allo stesso  ricorrente  se  il
TAR non avesse imposto l'adozione del provvedimento di acquisizione -
sono ammessi a chiedere  la  restituzione  dell'immobile  insieme  al
risarcimento del  danno,  pur  quando  destinatari  di  una  medesima
occupazione abusiva in radice (c.d. usurpativa): in quanto soltanto a
questi ultimi e' consentito ottenere l'intero risarcimento del  danno
sofferto, in base ai parametri dell'art. 2043  cod.  civ.  del  danno
emergente e del lucro cessante (utili, occasioni e  vantaggi  che  il
proprietario provi di aver perduto dalla mancata  disponibilita'  del
bene: Cass. 14609/2012; 4052/2009; 2746/2008; 15710/2001;  1196/1986;
3590/1983); b) tale trattamento resta inferiore pur nel confronto con
l'espropriazione legittima dello  stesso  immobile,  in  quanto,  ove
avente destinazione edificatoria, non e' riconosciuto  l'aumento  del
10% di cui al secondo comma  dell'art.37  del  T.U.  (non  richiamato
dalla norma), se l'accordo di cessione e' stato concluso, se  non  e'
stato  concluso  per  fatto  non  imputabile  all'espropriato  o   se
l'indennita' provvisoria attualizzata e' inferiore all'80% di  quella
definitiva: e quindi a maggior  ragione  se  nessuna  indennita'  gli
viene  offerta,  come  e'   peculiare   del   procedimento   di   cui
all'art.42-bis. Mentre se il terreno e' agricolo non  e'  applicabile
il precedente art.40, 1°comma che impone di tener conto  (Cfr.  Corte
Costit. 181/2011)• delle colture effettivamente praticate sul fondo e
"del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in
relazione all'esercizio  dell'azienda  agricola"  (Cass.  23967/2010;
10217/2009; 11782/2007; 4848/1998); c) incorre in una disparita' piu'
palese  con  il  regime  di  un'espropriazione  rituale  laddove  non
considera affatto l'ipotesi di espropriazione parziale;e non consente
di tener conto della diminuzione di valore del fondo residuo,  invece
indennizzata fin dall'art.40 legge 2359 del 1865 (anche nelle ipotesi
di occupazione appropriativi: Cass. 8197/2012; 591/2008; 24435/2006),
ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; e nel caso espressamente invocata
dai proprietari; d) ha trasformato il precedente regime  risarcitorio
in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza  assume
natura  di  debito  di  valuta  non  automaticamente  soggetto   alla
rivalutazione monetaria (art. 1224, 2° comma cod. civ.). A differenza
del  risarcimento  da  espropriazione  e/o  occupazione  illegittime,
costituente credito di valore, che deve essere liquidato alla stregua
dei  valori  monetari  corrispondenti  al  momento   della   relativa
pronuncia, sicche' il giudice deve tenere  conto  della  svalutazione
monetaria sopravvenuta fino  alla  decisione,  anche  di  ufficio,  a
prescindere  dalla  prova  della   sussistenza   di   uno   specifico
pregiudizio  dell'interessato  dipendente  dal   mancato   tempestivo
conseguimento dell'indennizzo medesimo (Tra tante,  Cass.  1889/2013;
4010/2006; 9711/2004). 
    10. Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dal 3° comma
dell'art. 42-bis al  corrispettivo  per  il  periodo  di  occupazione
illegittima antecedente al provvedimento  di  acquisizione  ("Per  il
periodo  di  occupazione  senza  titolo   e'   computato   a   titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova  di
una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo
sul valore determinato ai sensi del  presente  comma):  tuttavia  pur
esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a  quelli
cui e' commisurato l'analogo Indennizzo per l'occupazione  temporanea
dell'immobile.  In  quanto:  a)  il  parametro  base  e'   costituito
dall'interesse  del  cinque  per  cento  annuo  sul   valore   venale
dell'immobile stimato ai fini dell'indennizzo, percio' corrispondente
a circa 1/20 del suo  valore  annuo.  Laddove  l'art.  50  del  T.U.,
recependo analoga disposizione contenuta nell'art. 20 della legge 865
del 1971, stabilisce in tutti i casi di occupazione legittima  di  un
immobile che "e' dovuta al proprietario una indennita' per ogni  anno
pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di  esproprio
dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennita' pari ad
un  dodicesimo  di  quella  annua":  percio'  corrispondente  ad  una
redditivita'   predeterminata   piu'   elevata   misura   percentuale
dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b)  il  richiamo
all'indennita' di espropriazione consente altresi' l'applicazione del
principio consolidato nella  giurisprudenza  di  legittimita'  (Cass.
21352/2004; sez. un. 10502/2012;  24303/2010),  che  nell'ipotesi  di
espropriazione  parziale  la  percentuale  suddetta  vada   calcolata
sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto  anche  del
decremento di valore subito  dalla  parte  dell'immobile  rimasta  in
proprieta' dell'espropriato: invece  non  autorizzato  dal  parametro
rigido contenuto nel 3° comma dell'art. 42-bis. 
    Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma  non
consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla  Corte  EDU
al  legislatore  nazionale,  che   pure   meccanismo   riduttivo   di
determinazione  dell'indennizzo/risarcimento  da  occupazione   senza
titolo  consente  all'espropriante,  che  omette   di   svolgere   il
procedimento previsto dalla legge,  di  avvantaggiarsi  ulteriormente
del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una
porzione del ristoro dovuto nel  caso  di  occupazione/espropriazione
legittime: percio' non  favorendo  la  buona  amministrazione  e  non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita'. 
    Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente
infondate le questioni  di  legittimita'  costituzionale  riguardanti
l'art. 42-bis, del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001: 
        per contrasto con  il  precetto  di  eguaglianza  nonche'  di
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3  Costit.  sotto  ciascuno
dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche  l'art.24
Costit.; 
        per contrasto con i precetti e le garanzie posti  dall'art.42
Costit. a tutela della proprieta' privata, nonche' con  il  principio
di legalita' dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113
Costit: sotto i diversi profili di cui in motivazione; 
        per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., anche  alla
luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I  prot.  add.  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto  i
diversi profili di cui in motivazione, con cui se ne  e'  evidenziata
la disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche'  del  diritto
al rispetto dei propri beni,  in  violazione  dei  vincoli  derivanti
dagli obblighi internazionali; 
        per contrasto con  gli  art.  111,  primo  e  secondo  comma,
nonche' 117 Cost., anche alla  luce  dell'art.  6  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,  nella
parte in cui, disponendo l'applicabilita' ai giudizi in  corso  della
disciplina  in   questione   anche   relativa   alla   determinazione
dell'indennizzo/ risarcimento del danno per  occupazione  illegittima
in  essa  contenute,  viola  i  principi  del  giusto  processo,   in
particolare le condizioni di parita' delle parti davanti al  giudice,
che  risultano  lese  dall'intromissione   del   potere   legislativo
nell'amministrazione della giustizia allo  scopo  di  influire  sulla
risoluzione  di  una  circoscritta   e   determinata   categoria   di
controversie. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti gli art. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo  1953  n.  87,
dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell' art. 34 d.l. 6 luglio 2011  n.  98,
conv. con mod. dalla legge 15 luglio 2011 n. 111, che  ha  introdotto
l'art. 42-bis nel T.U. espropr. p.u. appr.  con  d.P.R.  n.  327  del
2001, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con  gli  artt.
3,24,42,97, Cost.; nonche' 111 e 117, primo comma, Cost., anche  alla
luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I  prot.  add.  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali,  resa
esecutiva con  legge  4  agosto  1955  n.  848.  Dispone  l'immediata
trasmissione degli atti  alla  Corte  costituzionale  e  sospende  il
giudizio. Dispone altresi' che la presente ordinanza sia  notificata,
a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri ed
alle parti, ed inoltre comunicata  al  Presidente  della  Camera  dei
Deputati, nonche' al Presidente del Senato della Repubblica. 
 
        Cosi' deciso in Roma, il 12 novembre 2013 
 
                       Il Presidente: Novelli