N. 90 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 gennaio 2014

Ordinanza del 13 gennaio 2014 emessa  dalla  Corte  di  cassazione  -
sezioni unite civili nel  procedimento  civile  promosso  da  Sorasio
Chiara ed altri 22 contro Agenzia Interregionale per il fiume Po.. 
 
Espropriazione per pubblica  utilita'  -  Occupazione  acquisitiva  -
  Previsione che l'autorita' che utilizza un bene immobile per  scopi
  di interesse pubblico,  modificato  in  assenza  di  un  valido  ed
  efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica
  utilita', puo' disporre che esso sia acquisito non retroattivamente
  al  suo  patrimonio  indisponibile  e  che  al   proprietario   sia
  corrisposto un indennizzo per il  pregiudizio  patrimoniale  e  non
  patrimoniale, quest'ultimo forfettariamente liquidato nella  misura
  del 10% del valore del bene stesso - Previsione dell'estensione del
  potere di acquisizione alla servitu' di fatto  -  Abolizione  della
  condizione  che  l'immobile  realizzando  rientri  in   una   delle
  categorie  individuate  dagli  artt.  822  e  826  c.c.   postulate
  dall'occupazione  appropriativa  e   previsione   dell'applicazione
  dell'istituto anche nella ipotesi in cui sia stato annullato l'atto
  da cui e' sorto il vincolo preordinato all'esproprio  -  Previsione
  che il provvedimento ablativo  non  e'  tenuto  ad  individuare  la
  destinazione dell'immobile, essendo sufficiente l'indicazione delle
  circostanze  che  hanno  condotto   alla   indebita   utilizzazione
  dell'area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio
  -  Modalita'  procedimentali  e  criteri  per   la   determinazione
  dell'indennizzo - Previsione della applicabilita'  della  normativa
  anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se  vi
  e' stato un provvedimento di acquisizione successivamente  ritirato
  o annullato - Violazione del principio di uguaglianza  -  Incidenza
  sul diritto di difesa e di azione in giudizio - Lesione del diritto
  di proprieta' - Violazione dei principi  di  buon  andamento  e  di
  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione  -  Violazione  dei
  principi   del   giusto   processo   -   Violazione   di   obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU come interpretata  dalla  Corte
  EDU. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, art.
  42-bis, inserito dall'art. 34, comma 1, del decreto-legge 6  luglio
  2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge  15  luglio
  2011, n. 111. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 42, 97, 111, commi primo  e  secondo,  e
  117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali;
  Primo Protocollo addizionale della Convenzione per la  salvaguardia
  dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 1. 
(GU n.24 del 4-6-2014 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
14204-2012 proposto da: 
        Sorasio Chiara, Ferrero Chiara Agnese, Parola Teresa, Ballari
Margherita, Longo Vaschetti Pietro Placido, Sorasio Ernesto, Giordana
Riccardo, Parola Delfina, Pistone Annamaria, Giletta Adriano,  Parola
Giuseppe,  Parola  Bartolomeo,  Parola  Maddalena,  Longo   Vaschetti
Giovanna,  Sorasio  Roberto,  Sorasio  Catterina,  Ferrero  Giovanni,
Ferrero  Anna  Maria,  Botto  Federica,  Sorasio   Tommaso,   Sorasio
Giuseppe,  Luino   Margherita,   Spertino   Giovanna,   elettivamente
domiciliati  in  Roma,  via  Ruggero  Fauro  43,  presso  lo   studio
dell'avvocato Petronio Ugo, che li rappresenta e  difende  unitamente
all'avvocato  Scaparone  Paolo,  per  delega  in  calce  al  ricorso;
ricorrenti; 
    Contro Agenzia Interregionale per il Fiume Po; intimata; 
    Avverso la sentenza n.  44/2012  del  Tribunale  Superiore  delle
Acque Pubbliche, depositata il 14/03/2012; 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
12/11/2013 dal Consigliere dott. Salvatore Salvago; 
    Udito l'Avvocato Ugo Petronio; 
    Udito il P.M. in persona dell'Avvocato  Generale  Dott.  Pasquale
Paolo Maria Ciccolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    1. Il Tribunale Superiore delle Acque pubbliche, con sentenza del
24 febbraio 2006,  divenuta  definitiva,  annullava  gli  atti  della
procedura ablativa condotta dall'Agenzia interregionale del fiume  Po
(AIPO) nei confronti di alcuni  terreni  di  proprieta'  di  Giovanna
Longo Vaschetti, Pietro  Placido  Longo  Vaschetti,  Chiara  Sorasio,
Chiara Agese Ferrero,  Teresa  Parola,  Margherita  Ballari,  Ernesto
Sorasio,  Riccardo  Giordana,  Delfina  Parola,  Annamaria   Pistone,
Adriano  Giletta,  Giuseppe  Parola,  Bartolomeo  Parola,   Maddalena
Parola, Roberto Sorasio, Catterina Sorasio,  Giovanni  Ferrero,  Anna
Maria Ferrero, Federica Botto,  Tommaso  Sorasio,  Giuseppe  Sorasio,
Margherita Luino, Giovanna Spertino; e preordinata  a  realizzare  un
argine lungo  il  torrente  Varaita  onde  evitare  il  ripetersi  di
esondazioni in danno del territorio comunale. 
    Non avendovi l'AIPO dato esecuzione, i proprietari ottenevano dal
TSAP la nomina di un commissario ad acta, con il potere di provvedere
alla restituzione degli immobili espropriandi, ovvero di  conseguirne
l'acquisizione tramite l'istituto di cui all'art. 43 T.U. espr. appr.
con d.p.r. 327/2001. Sicche', dichiarata  la  norma  incostituzionale
con sentenza 293/2010 della Corte costituzionale, ed introdotto nello
stesso T.U. l'art. 42-bis  attraverso  la  legge  111  del  2011,  il
Commissario,  con  provvedimento  del  5   agosto   2011,   disponeva
l'acquisizione dei terreni al  patrimonio  dell'AIPO,  liquidando  ai
proprietari l'indennizzo di cui  alla  nuova  norma.  Il  ricorso  di
costoro e' stato quindi respinto dal TSAP con sentenza del  14  marzo
2012 che ha ritenuto l'acquisizione coattiva conforme alla  normativa
dell'art.  42  Costit.,  in  quanto:   a)   l'istituto   prevede   un
procedimento espropriativo semplificato, in cui vi e'  contestualita'
tra la valutazione sulla pubblica utilita' (in comparazione  con  gli
interessi del privato) ed il  provvedimento  espropriativo  in  senso
proprio;  ed  attribuisce  al  privato  un  ristoro  economico   piu'
vantaggioso perche' comprendente il pregiudizio non patrimoniale;  b)
risulta  altresi'  conforme  al  principio  di  legalita'   predicato
dall'art. 1 del Protocollo  addizionale  alla  CEDU,  posto  che  non
soltanto risponde ad esigenze di  interesse  pubblico,  e  tutela  il
diritto di proprieta' rispetto al potere  ablatorio  della  p.a.,  ma
introduce nella materia  un  assetto  chiaro,preciso  e  prevedibile:
percio' a nulla rilevando l'esclusione,  della  tutela  restitutoria,
sempre rimessa al potere discrezionale del legislatore. Nel merito il
Tribunale ha considerato il provvedimento congruamente  motivato  sia
sulle ragioni di  interesse  pubblico  e  di  tutela  della  pubblica
incolumita' che  ne  consentivano  l'adozione,  escludendo  possibili
alternative; sia sul criterio di determinazione dell'indennizzo. 
    Per la cassazione della sentenza, i proprietari  hanno  formulato
ricorso per 3 motivi. L'AIPO non ha spiegato difese. 
 
                       Motivi della decisione 
 
    2. I ricorrenti hanno preliminarmente riproposto  l'eccezione  di
illegittimita'  costituzionale  dell'art.  42-bis  del   T.U.   sulle
espropriazioni,dubitando della sua conformita' alla  normativa  degli
art. 117 Costit. ed 1 Protocollo 1 all. alla Convenzione Edu, per  la
sua  evidente  funzione  sanante   di   un   comportamento   illecito
dell'amministrazione, dato che allo stesso  e'  attribuita  validita'
giuridica: con  il  conferimento  alla  p.a.  del  potere  di  trarne
vantaggio e di trasformarlo in  una  situazione  lecita,  nonche'  di
regolarne unilateralmente le conseguenze a  proprio  favore.  Il  che
corrisponde proprio alla nozione di espropriazione  indiretta,  dalla
Corte  europea  dichiarata  incompatibile  con  la  Convenzione   pur
nell'ipotesi in cui essa derivi da una disposizione di legge, poiche'
persegue  egualmente  il  risultato  non   consentito,   di   rendere
l'ingerenza illecita nella  proprieta'  privata  una  alternativa  ad
un'espropriazione svolta secondo i canoni di legge. 
    La questione e' anzitutto  rilevante  nel  presente  giudizio  in
quanto, da un  lato,  e'  pacifica  l'applicabilita'  del  menzionato
istituto  (re)introdotto  dall'art.  42-bis  T.U.;  e  dall'altro  e'
proprio il sopravvenire di detta  normativa  ad  aver  mutato  quella
precedente piu' favorevole, invocata dai ricorrenti,ed in particolare
ad impedire la restituzione dei terreni di fatto occupati  dall'AIPO:
del resto posta come alternativa dallo stesso provvedimento  107/2010
del  TSAP  ove  il  Commissario  non  avesse  ritenuto  di  procedere
all'acquisizione sanante ai sensi dell'allora  vigente  art.  43  del
T.U. 
    S'intende significare che l'esame dei motivi di ricorso  potrebbe
indurrebbe astrattamente al rigetto dello stesso, nella vigenza della
norma della cui legittimita' costituzionale si dubita,  conseguendone
che,  ove  invece  l'art.  42-bis,  per  i   consistenti   dubbi   di
compatibilita'  con  la   Carta   costituzionale,   venisse   espunto
dall'ordinamento,   i   ricorrenti   fruirebbero   del   trattamento,
risultante   dalla   disciplina   previgente   all'emanazione   delle
disposizioni impugnate, per loro piu' favorevole e consistente  nella
restituzione  dell'immobile  soggetto  ad   occupazione   in   radice
illegittima, ed al  risarcimento  del  danno  informato  ai  principi
generali dell'art. 2043 cod.  civ.,  con  accoglimento  dei  restanti
motivi di ricorso. 
    Alla  completa  tutela  reintegratoria  essi  avevano,   infatti,
diritto  in   base   al   regime   comune   previgente:   in   quanto
contestualmente alle note decisioni 161/1971 e 138/1981  della  Corte
costituzionale sui limiti di intangibilita' dell'atto amministrativo,
questa Corte fin dalle sentenze 4423/1977 e  118/1978  delle  Sezioni
Unite aveva enunciato la regola che nell'ipotesi di  compressione  di
fatto del diritto di proprieta'  privata  da  parte  della  P.A.,  di
funzione amministrativa ablatoria meritevole della particolare tutela
apprestata dall'art. 42 Costit. nonche' dall'art. 4 della legge  2248
del 1865 All. E puo' parlarsi  soltanto  nel  caso  di  provvedimenti
espropriativi assistiti dalla dichiarazione di p.u. e non  anche  nel
caso di mero impiego,sia pure per fini pubblici, dell'immobile altrui
materialmente appreso o dell'utilita' da esso materialmente  ritratta
con continuata o reiterata compressione di fatto dell'altrui  diritto
dominicale.  Sicche'  ove  la  prevalenza   dell'interesse   pubblico
sull'interesse  privato  non  sia  esternata  nell'atto  tipico   del
procedimento amministrativo, costituito appunto  dalla  dichiarazione
suddetta, la semplice intromissione nell'immobile privato  e  la  sua
materiale utilizzazione non puo' valere a trasformare in esercizio di
potesta' amministrativa ne' l'iniziale apprensione del bene,  ne'  la
sua   successiva   detenzione,in   quanto   lo   status    soggettivo
dell'occupante non riveste alcuna rilevanza;e  non  ne  presenta  del
pari nessuna la successiva e non consentita trasformazione del  fondo
da  parte  dell'ente  pubblico  (c.d  occupazione  usurpativa)   che,
restando fine a se' stessa, non pone alcun problema di  bilanciamento
di  interessi,   ma   produce   soltanto   le   conseguenze   proprie
dell'illecito comune di  carattere  permanente  ed  e'  inquadrabile,
sotto ogni profilo, nello schema degli art. 2043 e 2058 cod. civ.  Il
quale, dunque, non solo non consente l'acquisizione autoritativa  del
bene alla mano pubblica, costituente funzione propria  della  vicenda
espropriativa, ma  attribuisce  al  proprietario,  rimasto  tale,  la
tutela reale  e  cautelare  apprestata  nei  confronti  di  qualsiasi
soggetto dell'ordinamento (restituzione, riduzione in pristino  stato
dell'immobile,   provvedimenti   di   urgenza   per   impedirne    la
trasformazione ecc.);  oltre  al  consueto  risarcimento  del  danno,
ancorato ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. (Cass. sez. un. 3081 e
3380/1982, piu' di recente: sez. un. 14886/2009;  1907/1997,  nonche'
sez. 1ª 1080/2012; 9173 e 18239/2005; 15710/2001). 
    3. Siffatta disciplina - che  trovava  deroga  nelle  fattispecie
della  c.d.  occupazione  espropriativa,  tuttavia  subordinata  alla
ricorrenza di specifici presupposti, tra cui la  sussistenza  di  una
valida dichiarazione di  p.u.  (Cass.  sez.  un.  3940/1988;  3242  e
3243/1979 e succ.), ed ora eliminata  dal  T.U.  espropr.  appr.  con
d.p.r. 327/2001 - e' stata profondamente  modificata  dall'originario
art. 43 dello stesso T.U.; e,  dichiarata  quest'ultima  disposizione
costituzionalmente illegittima per eccesso di delega  dalla  sentenza
293/2010 della Corte Costit., dall'art. 34 d.l. 6 luglio 2011, n. 98,
conv.  con  mod.  dalla  legge  15  luglio  2011,  n.  111,   recante
«Disposizioni urgenti per la  stabilizzazione  finanziaria»,  che  ha
inserito nel T.U. 42-bis («Utilizzazione senza titolo di un bene  per
scopi di interesse pubblico»), del  seguente  tenore:  «Valutati  gli
interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per
scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di  un  valido  ed
efficace provvedimento di esproprio  o  dichiarativo  della  pubblica
utilita', puo' disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente,
al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto
un indennizzo per il pregiudizio  patrimoniale  e  non  patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella  misura  del  dieci  per
cento del valore venale del bene  (1°  comma).  Il  provvedimento  di
acquisizione puo' essere adottato anche quando  sia  stato  annullato
l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio,  l'atto
che abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di
esproprio...» (2° comma). 
    E' stata in tal modo reintrodotta, secondo  la  piu'  qualificata
dottrina e la  giurisprudenza  amministrativa,  la  possibilita'  per
l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi
di interesse pubblico, di evitarne la  restituzione  al  proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto
di acquisizione coattiva al  proprio  patrimonio  indisponibile,  che
sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone,
a  sua  volta,  come  una   sorta   di   procedimento   espropriativo
semplificato. Il  quale  assorbe  in  se'  sia  la  dichiarazione  di
pubblica utilita', che il decreto di esproprio, e  quindi  sintetizza
«uno actu» lo svolgimento dell'intero procedimento, in  presenza  dei
presupposti indicati dalla norma. 
    La nuova soluzione  e'  apparsa  al  legislatore  indispensabile,
anzitutto   per   «eliminare   la   figura   sorta    nella    prassi
giurisprudenziale della occupazione appropriativa...  nonche'  quella
dell'occupazione usurpativa...» (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi
al fine di adeguare l'ordinamento «ai principi  costituzionali  ed  a
quelli  generali  di  diritto  internazionale  sulla   tutela   della
proprieta'». Posto che in  forza  di  detto  provvedimento  cessa  la
occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto  viene
adeguata a quella diritto con l'attribuzione (questa  volta)  formale
della proprieta' alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico), cui  e'
consentita una legale via di  uscita  dalle  numerose  situazioni  di
illegalita' realizzate nel corso degli anni. 
    Onde permetterle il ritorno  alla  legalita'  in  modo  completo,
percio' comprendente tanto le  (prevedibili)  utilizzazioni  illecite
future, quanto quelle gia' verificatesi, anche in  epoca  antecedente
al  T.U.,  per  le  quali  permane  egualmente   la   necessita'   di
regolarizzarne la  sorte  definitiva,  l'art.  42-bis  ha  riproposto
l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente  art.
43, di cui ha ereditato perfino la rubrica, rivolgendola  in  diverse
direzioni, in quanto: I) ha superato la norma  transitoria  dell'art.
57 con l'introduzione del comma 8°, per il quale «Le disposizioni del
presente articolo trovano altresi' applicazione  ai  fatti  anteriori
alla sua  entrata  in  vigore  ed  anche  se  vi  e'  gia'  stato  un
provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o  annullato»;
II)  ha  confermato,  malgrado  la  critica  sul  punto  della  Corte
costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitu'
di  fatto   (comma   7°),   in   passato   escluse   dall'occupazione
espropriativa (perche' ne difetta la  non  emendabile  trasformazione
del suolo in una componente  essenziale  dell'opera  pubblica:  Cass.
sez. un. 8065/1990; 4619 e 3963/1989; da ultimo: 19294/2006; 14049  e
17570/2008;    18039/2012):    peraltro    con     ampia     facolta'
all'amministrazione  di  costituirle  con  il   peculiare   contenuto
indicato nel provvedimento, pur se  al  di  fuori  delle  fattispecie
tipiche previste dal codice civile o da leggi speciali (Cons.  Stato,
3723/2009); III) non richiede piu' che l'immobile realizzando rientri
in una delle categorie individuate dagli art. 822 ed  826  cod.  civ.
(postulate dall'occupazione appropriativa). Ed anzi e' stato rescisso
perfino il collegamento con l'area  delle  espropriazioni  per  p.u.,
prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi  in  cui
sia stato annullato l'atto da cui e'  sorto  il  vincolo  preordinato
all'esproprio: in base  alla  mera  utilizzazione  dell'immobile  per
scopi di interesse pubblico,  che  ne  abbia  provocato  una  qualche
modifica, pur  quando  «attribuito...  in  uso  speciale  a  soggetti
privati (5° comma); IV) ha  conclusivamente  invertito  il  principio
tratto dagli art. 42  Costit.  ed  834  cod.  civ.  che  la  potesta'
ablativa ha carattere eccezionale; e che non puo'  essere  esercitata
se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (legge 2359/1865 per
la realizzazione di opere  pubbliche,  legge  1089/1939  per  i  beni
storici, artistici; d.lgs. 215/1933 per finalita' di bonifica; d.lgs.
3267/1923 per fini  di  protezione  idrogeologica  ecc.).  In  quanto
l'acquisizione e' predisposta in via generale  ed  indeterminata  per
qualsiasi  «utilizzazione»  del  bene  -  meramente  detentiva,  come
preordinata all'esproprio, reversibile  oppure  irreversibile  -;  in
seguito alla quale il provvedimento non  e'  tenuto  ad  individuarne
neppure la destinazione,  essendo  sufficiente  «l'indicazione  delle
circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione  dell'area
e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio» (4° comma). 
    4. Questi caratteri dell'acquisizione, immediatamente  denominata
«sanante», hanno indotto la menzionata sentenza 293/2010 della  Corte
costituzionale  ad  osservare  che  il  nuovo  istituto  «prevede  un
generalizzato   potere   di   sanatoria,   attribuito   alla   stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di  un
giudicato che dispone il ristoro in forma specifica  del  diritto  di
proprieta' violato»; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto
al contesto normativo  positivo,  «neppure  e'  coerente  con  quegli
orientamenti di giurisprudenza  che,  in  via  interpretativa,  erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune  gravi  patologie  emerse
nel  corso  dei  procedimenti  espropriativi».   Per   cui   la   sua
riproduzione  nell'art.  42-bis,  applicabile  ad  ogni   genere   di
situazione sostanziale e processuale indicata, con  il  risultato  di
aprire  alla  P.A.  una  vasta  ed  indeterminata  gamma   di   nuove
prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalita'  -
anche  per  le  possibili  violazioni  del  principio  di   legalita'
dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli
art. 3, 24, 42  e  97  Costit.;  nonche'  di  compatibilita'  con  la
ricordata normativa della Convenzione CEDU, e  quindi  dell'art.  117
Cost. 
    In linea piu' generale, infatti,  dottrina  e  giurisprudenza  si
sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto illecito, fonte
per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli art. 2043 e  2058  cod.  civ.,  possa  essere  riservato  un
trattamento  privilegiato  (conforme  alla  normativa   dell'art.   3
Costit.)  ed  attribuita  la  facolta'  di  mutare,   successivamente
all'evento dannoso prodotto  nella  sfera  giuridica  altrui,  e  per
effetto di una propria unilaterale  manifestazione  di  volonta',  il
titolo e l'ambito della responsabilita',nonche' tipo di sanzione  (da
risarcimento in indennizzo) stabiliti in via  generale  dal  precetto
del  «neminem  laedere»  per  qualunque  soggetto   dell'ordinamento.
Soprattutto al lume del principio costituzionale (ritenuto  da  Corte
Costit. 204/2004 «una conquista liberale di grande  importanza»)  che
nel  sistema  vigente  e'  privilegiata  la  tutela  della   funzione
amministrativa e non della p.a. come soggetto. 
    La risposta, del tutto univoca a partire dalla revisione  critica
di cui si e' detto avanti (§ 2), e' stata che, allorquando la  stessa
opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a  tutte  le  regole
vincolanti per gli altri  soggetti,  nonche'  esposta  alle  medesime
responsabilita', fra  cui  quelle  di  cui  alle  norme  codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che «factum  infectum
fieri nequit», costituente limite invalicabile anche per il potere di
sanatoria in via amministrativa di una situazione di  illegittimita'.
Sicche', una volta attuata in tutti i suoi elementi  costitutivi,  la
lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo'  mai
mutare  natura  e  divenire  «giusta»  per  effetto   dell'autotutela
amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne «ex post»
le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad  esse
correlate. 
    Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa
applicazione del principio di legalita' sostanziale  predicato  dalla
normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011,
C 405/10); nonche' nella giurisprudenza della Corte Edu (I,13 ottobre
2005, Serrao; 15 novembre 2005,  La  Rosa;  III,  15  dicembre  2005,
Scozzari; II, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010,
Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima  nella  proprieta'
privata, fondata sempre e comunque  sul  corollario  divenuto  per  i
giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non  e'  consentito
(ne' direttamente ne'  indirettamente)  trarre  vantaggio  da  propri
comportamenti illeciti,e piu'  in  generale,  da  una  situazione  di
illegalita' dalla stessa determinata. Laddove l'art. 42-bis,  per  il
solo   fatto   della   connotazione   pubblicistica   del    soggetto
responsabile, ha soppresso  tale  pregresso  regime  dell'occupazione
abusiva di un immobile altrui, sottraendo  al  proprietario  l'intera
gamma delle azioni di  cui  disponeva  in  precedenza  a  tutela  del
diritto dominicale,e la stessa facolta' di scelta  di  avvalersene  o
meno. E, considerando esclusivamente gli scopi  dell'amministrazione,
l'ha trasferita  dalla  «vittima  dell'ingerenza»  (tale  qualificata
dalla Corte europea), all'autore del fatto  illecito,  attraverso  la
sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione  emesso
da quest'ultimo, di  un  nuovo  modo  di  acquisto  della  proprieta'
privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di
opere pubbliche,e  perfino  con  una  pregressa  procedura  ablativa:
essendo l'istituto rivolto a definire in linea generale (non piu'  un
procedimento espropriativo in  itinere,  bensi')  «quale  sorte  vada
riservata ad una res utilizzata e modificata  dalla  amministrazione,
restata senza titolo nelle mani di quest'ultima» (Cons. St. Ad. Plen.
2/2005 e succ.). 
    Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi  al
suddetto  principio  di  legalita'  in   ambito   espropriativo,   la
giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli anni  80'  aveva
riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978;  2931/1980;  5856/1981)  la
regola, fino ad  allora  seguita,  che  alla  P.A.  occupante  (senza
titolo) fosse concesso di completare la procedura  ablativa  in  ogni
tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino  nel
corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la  restituzione
dell'immobile;  e  che  il  solo  fatto  dell'adozione  postuma   del
provvedimento  ablativo  -  ammissibile  fino  alla  decisione  della
Cassazione  -  comportasse  la  conversione  automatica   dell'azione
restitutoria   e/o   risarcitoria,   in   opposizione   alla    stima
dell'indennita': alla quale soltanto il proprietario finiva per avere
diritto. E tale  adeguamento  alla  normativa-costituzionale  non  e'
sfuggito alla ricordata decisione 293/10 della  Consulta  che  lo  ha
contrapposto  agli  effetti  dell'acquisizione  sanante  (analoghi  a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da  decenni  «secondo  la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi». 
    5. Il dubbio  di  elusione  delle  garanzie  poste  dall'art.  42
Costit. a tutela della «proprieta' privata» (2° e  3°  comma)  appare
alle Sezioni Unite ancor piu' consistente in  relazione  al  primo  e
fondamentale presupposto per procedere al trasferimento  coattivo  di
un immobile mediante espropriazione, ivi  indicato  nella  necessaria
ricorrenza di «motivi di  interesse  generale»;  che  trova  puntuale
riscontro in quello di eguale tenore dell'art.  1  del  Protocollo  1
All. alla  Convenzione  EDU  per  cui  l'ingerenza  nella  proprieta'
privata  puo'  essere  attuata  soltanto  «per  causa   di   pubblica
utilita'». 
    Fin  dalle  decisioni   piu'   lontane   nel   tempo   la   Corte
costituzionale ha affermato  al  riguardo  (sent.  90/1966)  che  «Il
precetto costituzionale, secondo  cui  una  espropriazione  non  puo'
essere consentita dalla legge  se  non  per  <  motivi  di  interesse
generale > (o - il che e' lo stesso - per < pubblica utilita' > ),  e
cioe'  se  non  quando  lo  esigano   ragioni   importanti   per   la
collettivita', comporta, in primo luogo, la necessita' che  la  legge
indichi le ragioni per le quali si puo' far luogo all'espropriazione;
e inoltre che quest'ultima non possa essere autorizzata se non  nella
effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge» Ed ancora  che
«Nelle leggi della materia  -  la  cui  fondamentale  espressione  e'
rappresentata dalla legge 25 giugno 1865, n. 2359 - si trova  infatti
costantemente affermato il  concetto  (e  anche  li'  dove  esso  non
risulta  espressamente  enunciato,  e'  stata  la  giurisprudenza   a
proclamare l'inderogabilita' del principio) che fin  dal  primo  atto
della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto
l'oggetto, me anche le finalita', i mezzi e i tempi di essa...». 
    Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta
(sent. 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155  e  188  /1995),  nonche'  la
consolidata giurisprudenza di legittimita' che fin dai primi anni 60'
(Sez. un. 826/1960 e succ.), ha definito la dichiarazione di p.u. «la
guarentigia prima e fondamentale del  cittadino  e  nel  contempo  la
ragione giustificatrice del suo sacrificio  nel  bilanciamento  degli
interessi del proprietario  alla  restituzione  dell'immobile  ed  in
quello pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per  la  funzione
sociale  della  proprieta'»;  ha  costantemente  confermato  che   la
suddetta garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa
del  trasferimento  e'  predeterminata  nell'ambito  di  un  apposito
procedimento   amministrativo,   nel   bilanciamento   dell'interesse
primario con gli altri interessi  in  gioco.  Ed  e'  rimasta  sempre
ancorata al principio (Da ult. Cass. sez.  un.  30254  e  19501/2008;
10962/2005; 9139/2003) che la mancanza della preventiva dichiarazione
di   pubblica    utilita'    implica    il    difetto    di    potere
dell'amministrazione  nel  procedere  all'espropriazione  (sia   essa
rituale o attuata in forma anomala,come nell'ipotesi dell'occupazione
appropriativi: sent. 384/1990 cit.). 
    La  norma  costituzionale  richiede,  quindi,   che   i   «motivi
d'interesse  generale»  per  giustificare  l'esercizio   del   potere
espropriativo  nei  (soli)  casi   stabiliti   dalla   legge,   siano
predeterminati  dall'amministrazione  ed  emergano  da  un   apposito
procedimento - individuato, appunto,  nel  procedimento  dichiarativo
del pubblico interesse culminante nell'adozione  della  dichiarazione
di pubblica utilita' - preliminare, autonomo e  strumentale  rispetto
al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel  quale
l'amministrazione programma  un  nuovo  bene  giuridico  destinato  a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale  e  concreto.  E
che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo  spossessamento
nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in  un  momento  in
cui la comparazione tra l'interesse pubblico  e  l'interesse  privato
possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei
principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97 Costit.): in  un
momento, cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e' ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non  sono
ostacolate  da  una  situazione  fattuale   ormai   irreversibilmente
compromessa. 
    Da  qui  la  formula  del  3°  comma   dell'art.   42   per   cui
l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima  in  quanto
e' originata da «motivi di interesse generale», ovvero  collegata  ad
un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
una  incisione  nella  sfera  del  privato  proprietario,  di  questo
valorizzando il  ruolo  partecipativo;  e  la  conseguenza  che  tale
risultato  non  sarebbe  garantito  dall'esercizio   di   un   potere
amministrativo   che,   sebbene   presupponga    astrattamente    una
«valutazione degli interessi in conflitto», e' destinato in  concreto
a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base
alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi. 
    La preventiva  emersione  dei  motivi  d'interesse  generale  non
costituisce,   conclusivamente,   semplice   regola    procedimentale
disponibile dal legislatore,  ma  specifica  garanzia  costituzionale
strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra
l'imponente giurisprudenza, soprattutto  amministrativa,  secondo  la
quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un  semplice  atto
prodromico con l'esclusivo effetto di  condizionare  la  legittimita'
del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi  solo
congiuntamente a  quest'ultimo,  bensi'  un  provvedimento  autonomo,
idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella  sfera  giuridica
di terzi. I quali  si  riflettono  necessariamente  sul  piano  della
tutela    giurisdizionale    (art.    24    Costit.),     consentendo
all'espropriando  di  partecipare  alla  fase  antecedente  alla  sua
adozione, e quindi di contestarlo  sin  dal  primo  momento  del  suo
farsi, coincidente con l'emersione dei «motivi d'interesse  generale»
(Cons. St. 4766/2013; 3684/2010;  3338  e  479/2009;  5034/2007;  Ad.
plen. 2/2000; 14/1999). 
    Per converso, l'art. 42-bis, prescindendo dalla dichiarazione  di
p.u.,  autorizza  l'espropriazione  sostanziale  in  assenza  di  una
predeterminazione dei  motivi  d'interesse  generale  che  dovrebbero
giustificare il  sacrificio  del  diritto  di  proprieta',  reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del  proprietario  trovi
giustificazione nella situazione  di  fatto  venutasi  a  creare  per
effetto del  comportamento  contra  ius  dell'amministrazione;  e  ne
consente  l'acquisizione  anche  laddove  tale  procedura  sia  stata
violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il  rispetto
del  procedimento  tipizzato  dalla  legge  in  una   mera   facolta'
dell'amministrazione.  E,  relegando  la  dichiarazione  di  pubblica
utilita' a momento procedimentale  eventuale,  la  cui  assenza  puo'
essere superata dal provvedimento di acquisizione che ne  elimina  in
radice  la  necessarieta'.  In  contrasto,  peraltro,  anche  con  la
complessiva e rigida  disciplina  delle  espropriazioni  posta  dallo
stesso d.p.r. 327/2001 che nell'art. 2  ha  dichiarato  di  ispirarsi
proprio al «principio di legalita' dell'azione  amministrativa»:  dal
momento che il  potere  sanante  viene  di  fatto  ad  esautorare  il
significato  dei  doveri,  obblighi  e  limiti  che  scandiscono   il
procedimento espropriativo. Ed in contrasto  soprattutto  con  quella
specifica del capo III relativo alla  «fase  della  dichiarazione  di
p.u.» che ha istituito,in conformita' all'art. 97 Costit.  un  giusto
procedimento che riconosce e valorizza  il  ruolo  partecipativo  del
privato proprietario (cfr. art. 11 segg.): subito dopo reso superfluo
dalla  contestuale  introduzione  di  un  meccanismo  «semplificato»,
parallelo   ed   alternativo,   rimesso   a   scelte    insindacabili
dell'amministrazione. Alla quale in definitiva  viene  attribuito  il
potere (di volta in volta, e per ogni  espropriazione),  di  recepire
ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento normale. 
    Non  e'  sostenibile,  infatti,  che,  siccome   l'adozione   del
provvedimento  di  acquisizione  e'   subordinato   ad   una   previa
«valutazione degli interessi in conflitto» ed al fatto  che  il  bene
occupato sia «utilizzato  per  scopi  d'interesse  generale»,  queste
espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale  sinonimo  dei
«motivi di interesse generale»  di  cui  al  3°  comma  dell'art.  42
Costit.: in quanto il riferimento normativo alla  «valutazione  degli
interessi in conflitto» presuppone  un  apprezzamento  di  amplissima
discrezionalita'  dell'amministrazione  espropriante,   assolutamente
privo di «elementi e criteri idonei a delimitarla chiaramente» (Corte
Costit. 38/1966), tanto che  non  viene  descritto  alcun  parametro,
neppure vaghissimo, al quale una siffatta  valutazione  debba  essere
ancorata;  e  neppure,   viene   prefigurato   l'ingresso   nell'iter
decisionale di interessi privati che tale discrezionalita' possano in
qualche misura indirizzare o soltanto attenuare. Mentre e' lo  stesso
art. 42-bis ad escludere che i generici ed  indeterminati  «scopi  di
interesse generale» - che peraltro si limitano a riprodurre la regola
per cui tutta l'attivita' dell'amministrazione  e'  istituzionalmente
e- necessariamente finalizzata ad interessi generali -coincidano  con
la «causa di pubblica utilita'» postulata dalla Costituzione (e dalla
Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato,
sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e
utilizzato da  una  pubblica  amministrazione:  e  quindi  la  stessa
situazione di fatto venutasi a creare per effetto  del  comportamento
contra  ius  di  quest'ultima.  E  dall'altro,  richiedendo  che   la
determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo  fine
di legittimarla ex post, peraltro attraverso passaggi  conoscitivi  e
valutativi  tutti  interni  all'apparato  amministrativo,  e  percio'
necessariamente soggettivi. A differenza  dei  «motivi  di  interesse
generale», i quali (Corte Costit. 95/1966 e  155/1995)  «valgono  non
solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire  un
interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla <
soddisfazione di effettive e specifiche  esigenze  rilevanti  per  la
comunita' > »; e la cui identificazione deve «rinvenirsi nella stessa
legge che prevede la potesta' ablatoria;  come  anche  in  essa  puo'
trovarsi definita  soltanto  la  fattispecie  astratta  (a  mezzo  di
clausola  generale)...»  che  ne  implica  poi  l'individuazione   in
concreto nell'ambito di un procedimento normativamente predeterminato
(e partecipato). Allorche', dunque, «il programma da realizzare»  sia
ancora nella fase progettuale (comportante le  opportune  valutazioni
relative a collocazione,caratteristiche tecniche,  convenienza,tutela
ambientale  ecc.),  precedente  alla  concreta  lesione  del  diritto
dominicale (Corte Costit. 90/1966  cit.):  soltanto  cosi'  potendosi
garantire che il relativo sacrificio consegua  il  giusto  equilibrio
con  le  reali  esigenze  della  collettivita',  e   configurare   il
comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di
legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Costit. ed 1  Prot.  All.  1
alla CEDU). 
    6. Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la  fase
della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento  coattivo,
assolve ad una seconda  e  non  meno  rilevante  funzione,  risalente
all'art. 13 della legge fondamentale 2359 dei 1865;  il  quale,  onde
evitare che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla sorte dei
beni espropriandi, e nel contempo, che si  eseguano  opere  non  piu'
rispondenti, per il decorso  del  tempo  all'interesse  generale,  ha
attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia  fondamentale,  oggi
rispondente al principio di legalita' e  tipicita'  del  procedimento
ablativo, disponendo nel comma 1 che nel  provvedimento  dichiarativo
della pubblica utilita'  dell'opera  devono  essere  fissati  quattro
termini  (e  cioe'  quelli  di   inizio   e   di   compimento   della
espropriazione e dei lavori); e  stabilendo,  nel  comma  terzo,  che
«trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica  utilita'  diventa
inefficace». 
    Sopravvenuta la  Costituzione,  questa  disposizione  ha  assunto
rilevanza  costituzionale,  essendo  stata  collegata   dalla   Corte
costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992)  direttamente  al
principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere  espropriata
esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 Cost., comma
3),  tale  possibilita'  e'   connaturata   solo   all'esigenza   che
l'espropriazione avvenga per esigenze  effettive  e  specifiche:  che
valgano, cioe', a far  considerare  indispensabile  e  tempestivo  il
sacrificio  della  proprieta'  privata  in  quel  momento;   con   la
conseguenza che cio'  non  si  verificherebbe  ove  il  trasferimento
coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma  attualmente
ipotetica utilizzazione al servizio di specifici  fini  di  interesse
generale, ma privi di attualita' e di concretezza (Fra  tante:  Cass.
sez. un. 15606/2001; 460/1999; 355/1999; 1907/1997). 
    Da tale quadro  normativo,  la  giurisprudenza  tanto  ordinaria,
guanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute  e
non derogabili: A) che «la fissazione  di  tali  termini  costituisce
regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo»
(Cosi' Corte Costit. 257/1988); B)  che  la  loro  omessa  fissazione
comporta la giuridica inesistenza della  dichiarazione  di  p.u.  con
tutte le conseguenze sopra evidenziate:  prima  fra  tutte  che  tale
situazione non e' idonea a far sorgere  il  potere  espropriativo  e,
dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprieta'  sui  beni
espropriando; e determina una situazione di  carenza  di  potere  che
incide (negativamente) sui  successivi  atti  e  comportamenti  della
procedura ablativa, piu' non  consentendone  l'adozione  (Fra  tante,
Cass. sez. un. 3569/2011;  9323/2007;  600/2005;  nonche'  4202/2009;
28214/2008; 16907/2003); C) che tale  indicazione  (ove  non  apposta
direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente  «ex
lege» valore di dichiarazione  di  pubblica  utilita'  dell'opera,  e
quindi nell'atto con cui e' approvato il progetto di opera  pubblica;
ed  il  relativo  onere  non  puo'  essere  assolto   mediante   atti
successivi, seppure in forma di convalida e di sanatoria,  idonei  ad
eliminare  l'intrinseca  illegittimita'   del   primo   atto   (Cass.
8210/2007; 120/2004; sez. un. 7881 e 2688/2007; 9532/2004;  355/1999;
Cons. St. 7578/2000); D) che scaduti inutilmente i termini finali  di
cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre
a compimento il procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare
attraverso la rinnovazione della dichiarazione di p.u necessariamente
richiedente, come prescritto dalla norma, lo  svolgimento  ab  inizio
del procedimento amministrativo strumentale di cui  si  e'  detto,  e
quindi il compimento ex novo di tutte  le  formalita'  previste  come
indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel  progetto,  con
la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi),  cosi'
come evoluta  nelle  more  (Cass.  sez.  un.  10024/2007;  4717/1996;
7191/1994, nonche' 17491/2008;1836/2001). 
    Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende
riunire  sia  gli  effetti  espropriativi,  sia  la  valutazione  del
pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai  termini  dell'art.
13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto
la  norma  non  indica  alcun  limite  temporale   entro   il   quale
l'amministrazione  debba  esercitare  il  relativo  potere:   percio'
esponendo  il   diritto   dominicale   su   di   esso   al   pericolo
dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di  tempo;
ed accentuando, i seri dubbi  di  contrasto  con  l'art.  3  Costit.,
avanti manifestati, per il regime discriminatorio  provocato  tra  il
procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata
all'efficacia  della  dichiarazione  di  pubblica   utilita'   (nella
disciplina  del  T.U.,  anche  a  quella  del   vincolo   preordinato
all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine
titulo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione. 
    7.  La  nuova  operazione  sanante  -  in  tutte  le  fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella  di  utilizzazione  del
bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace  provvedimento
di esproprio» - presenta poi, numerosi  ed  insuperabili  profili  di
criticita' - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme  della
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Costit.).
La quale,del  resto,  come  gia'  rilevato  da  questa  Corte  (Cass.
18239/2005; 20543/2008),  si  e'  gia'  pronunciata  in  tali  sensi,
esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art.  43  T.U.,
interamente  riprodotto  nell'impianto  del  meccanismo   traslativo,
dall'attuale art. 42-bis. 
    Il suo fulcro qualificante e' ravvisato infatti nella prospettiva
che la restituzione dell'immobile privato  utilizzato  per  scopi  di
p.i., secondo le direttive della Convenzione,  possa  essere  evitata
soltanto a seguito di un legittimo e  formale  provvedimento  che  ne
dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico;  e  che  deve,  a  sua
volta, trovare giustificazione non piu' in  una  situazione  fattuale
e/o  in  una  prassi  giurisprudenziale,   ma   in   una   previsione
legislativa. Per cui, la coesistenza di detti presupposti e'  apparsa
al legislatore necessaria e nel contempo sufficiente per garantire il
«rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea  e  dai  principi
costituzionali»:   anche   per   l'obbligo   imposto    all'autorita'
amministrativa di «valutare gli interessi in conflitto», e percio' di
«mantenere  il  giusto  equilibrio  tra  le  esigenze  dell'interesse
generale della comunita' e  gli  imperativi  della  salvaguardia  dei
diritti fondamentali dell'individuo». 
    7.1. Affatto diverso e' il  quadro  normativo  prospettato  dalla
Corte Edu nella interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot.
n. 1 - la prima afferma  il  principio  generale  di  rispetto  della
proprieta'; la seconda consente la privazione della  proprieta'  solo
alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati il potere  di
disciplinare l'uso dei beni in conformita' all'interesse generale  -;
la quale muove dalla regola che, per  determinare  se  vi  sia  stata
privazione dei beni ai sensi della seconda norma,  occorre  non  solo
verificare se vi sono stati spossessamento o espropriazione  formale,
ma anche guardare al di la' delle apparenze ed analizzare la  realta'
della concreta fattispecie,  onde  stabilire  se  essa  equivalga  ad
un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che  la  CEDU  mira  a
proteggere  diritti  «concreti   ed   effettivi»   (tra   le   tante,
Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c.  Italia,  19
maggio 2005; Carletta c.  Italia,  15  luglio  2005;  De  Angelis  c.
Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4 dicembre 2007). 
    Per cui ha dichiarato in radicale contrasto con la Convenzione il
principio  dell'«espropriazione   indiretta»,   con   la   quale   il
trasferimento della proprieta' del bene dal privato alla p.a. avviene
in virtu' della  constatazione  della  situazione  di  illegalita'  o
illiceita' commessa dalla stessa Amministrazione,  con  l'effetto  di
convalidarla; di  consentire  a  quest'ultima  di  trarne  vantaggio;
nonche'  di  passare  oltre  le  regole   fissate   in   materia   di
espropriazione, con  il  rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o
arbitrario per gli interessati. 
    E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente  inserito
non  soltanto  l'ipotesi   corrispondente   alla   c.d.   occupazione
espropriativa, ma tutte  indistintamente  le  fattispecie  (sent.  19
maggio  2005,  Acciardi)   di   «perdita   di   ogni   disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e  con
conseguenze  assai  gravi  per  il  proprietario  che   subisce   una
espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al  rispetto
dei propri beni»: ritenendo ininfluente «che  una  tale  vicenda  sia
giustificata  soltanto  dalla  giurisprudenza,ovvero  sia  consentita
mediante disposizioni legislative, come  e'  avvenuto  con  l'art.  3
della legge 458 del 1988, ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in
quanto il principio di legalita' non significa affatto  esistenza  di
una norma di legge che consenta  l'espropriazione  indiretta,  bensi'
esistenza di norme giuridiche interne  sufficientemente  accessibili,
precise e prevedibili». Con la conseguenza che supporto di «una  base
legale non e' sufficiente a soddisfare al principio di  legalita'»  e
che «e' utile  porre  particolare  attenzione  ("se  pencher")  sulla
questione della qualita' della legge»  (sent.  Acciardi  cit.  §  75;
Scordino, 12 ottobre 2005, cit. § 87 ed 88). E quella  ulteriore  che
al nuovo istituto del  T.U.  i  giudici  di  Strasburgo  hanno  mosso
l'ulteriore addebito di non aver neppure escluso, come aveva fatto la
giurisprudenza  ordinaria,  che  l'espropriazione  indiretta  potesse
applicarsi quando la dichiarazione di p.u. sia stata annullata,avendo
previsto «che anche in assenza della dichiarazione di p.u.  qualsiasi
terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se il  giudice
decide di  non  ordinare  la  restituzione  del  terreno  occupato  e
trasformato dall'amministrazione» (CEDU, Sciarrotta, 12 gennaio 2006;
Genovese, 2 febbraio 2006; Serrao,  13  ottobre  2005;  Scordino,  12
ottobre 2005, § 90; S.A.S. Cerro c/Italia, cit. § 76-80). 
    7.2. In tale ottica diviene del tutto indifferente per  escludere
la ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto
al rispetto ciei propri beni e ripristinare la legalita',  l'adozione
postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti,  perche'  il
requisito della legalita' secondo  la  Corte  Edu  non  permette  «in
generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo
irreversibilmente,  di  tal  maniera  da  considerarlo  acquisito  al
patrimonio  pubblico,  senza  che  contestualmente  un  provvedimento
formale  che  dichiari  il  trasferimento  di  proprieta'  sia  stato
emanato» (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli;  19
maggio 2005, Acciardi e  Campagna;  11  ottobre  2005,  La  Rosa;  11
ottobre 2005, Chiro'; 12 ottobre 2005,  Scordino;  13  ottobre  2005,
Serrao;  7  novembre  2005,  Istituto  diocesano;  12  gennaio  2006,
Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De  Sciscio;  9
gennaio 2009, Sotira).  Il  contrasto  con  la  Convenzione  dipende,
allora, dal riconoscimento nel nostro ordinamento -  «en  vertu  d'un
principe jurisprudentiel ou' d'un texte de loi comme l'article 43»  -
di effetti traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente
fattuale di un  terreno  «sans  qu'en  parallele»  sussista  un  atto
formale che dichiari il trasferimento della  proprieta'  «Intervenant
au plus tard au moment» in cui proprietario ha  perduto  ogni  potere
sull'immobile: cosi' come, del resto, oltre  un  secolo  prima  aveva
richiesto l'art. 50 legge 2359/1865. Percio' inducendola a concludere
che ogni forma di espropriazione indiretta in ogni caso «n'a pas pour
effet de regulariser la situation denoncee», ne' tanto meno quello di
costituire «un'alternativa ad un'espropriazione  in  buona  e  dovuta
forma» (CEDU, IV, 15 novembre 2005, La Rosa; III,  12  gennaio  2006,
Sciarrotta, I, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro). 
    La  «legalizzazione   dell'illegale»   non   e'   conclusivamente
consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di
legge, ne' tanto meno ad  un  provvedimento  amministrativo  di  essa
attuativo,quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante  (Ucci,
22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio  2006;  De  Sciscio,  20  aprile
2006;  Dominici,  15  febbraio  2006;  Serrao,   13   gennaio   2006;
Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005;  Scordino,  17
maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche  Corte
Costit. 293/2010, per la quale «non e' affatto  sicuro  che  la  mera
trasposizione in legge di un istituto, in  astratto  suscettibile  di
perpetuare  le  stesse   negative   conseguenze   dell'espropriazione
indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere il grave vulnus  ai
principio di legalita'». Sicche' il ritorno  alla  via  legale,  come
specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo  2007,
Scordino 3°, cfr. anche, I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30  marzo  2006,
Gianni) allo Stato italiano onde  evitare  ulteriori  condanne,  deve
essere  perseguito  non  regolarizzando  ex  post  occupazioni   gia'
illegittime, bensi', anzitutto, in via preventiva,  consentendo  alla
p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto se - e dopocche'
-  abbia  gia'  conseguito  un   legittimo   titolo   che   autorizzi
l'ingerenza; ed in caso in cui cio' non sia avvenuto «eliminando  gli
ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e  per  principio
la  restituzione  del  terreno»:  peraltro  «in  analogia  con  altri
ordinamenti europei» (Corte Cost. 293/2010 cit.). 
    7.3. Il principio di legalita' non e',  infine,  recuperabile  in
forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e
privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone
l'acquisizione:  avendo  la  Corte  EDU  affermato  fin  dalla   nota
decisione Belvedere-Alberghiera  del  30  maggio  2000,  nella  quale
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva  dato
precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita'  alla
realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur
mancante di dichiarazione di  p.u.  perche'  annullata  dallo  stesso
giudice  amministrativo),  che  la  necessita'  di   esaminare   tale
questione e' inattuabile  in  caso  di  ingerenza  illegittima  nella
proprieta'  (in  cui  la  Convenzione  privilegia   quello   privato,
postulandone comunque la reintegrazione), ma «puo' porsi  soltanto  a
condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio  di
legalita' e non sia  risultata  arbitraria».  Sicche'  ha  egualmente
condannato lo Stato italiano non certamente  per  l'assenza  (allora)
nell'ordinamento italiano di  una  norma  con  valore  sanante  della
illegittimita' della procedura ablativa, ma perche' «la decisione del
Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita'  di
ottenere  la  restituzione  del  suo  terreno...   che   per   essere
compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa
di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla  legge  e  dai
principi di diritto internazionale» (§  54  e  55;  nonche'  Ucci  c.
Italia, 22 giugno 2006). 
    E d'altra parte, poiche' la norma  attribuisce  ad  uno  dei  due
portatori  dell'interesse  in  conflitto  -  la   P.A.   responsabile
dell'illecito ed interessata alla  acquisizione  dell'immobile  -  il
potere di comparare gli interessi suddetti  (CEDU,  III,  9  febbraio
2006,  Prenna),  e,  quindi  la  scelta  di  restituirlo  ovvero   di
acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto  reale
non dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un
bene  demaniale  o  patrimoniale  indisponibile,  ma  viene  affidato
esclusivamente alla volonta' dell'amministrazione - per quanto detto,
senza neppure limiti temporali -  di  ricorrere  al  nuovo  istituto;
nonche', in caso di impugnazione del provvedimento  di  acquisizione,
alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne
la restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilita' della
sua situazione giuridica fino al momento della sentenza definitiva. 
    Il che ha indotto i giudici di Strasburgo a rilevare, con la piu'
qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel  minimo
di prevedibilita' che un sistema normativo e' tenuto  ad  assicurare:
attesa l'Inidoneita' della base legale su cui si fonda la  consentita
compromissione della proprieta' ad assicurare il sufficiente grado di
certezza postulato dalla Convenzione attraverso «l'esistenza di norme
giuridiche interne  sufficientemente  accessibili,  precise  e  dagli
effetti prevedibili»; e rende l'istituto nuovamente incompatibile con
la Convenzione «non potendosi escludere il rischio  di  un  risultato
imprevedibile o arbitrario» (CEDU, II, 28 giugno 2011,  De  Caterina;
20 aprile 2006, De Sciscio; III, 2 febbraio 2006, Genovese). 
    Ne costituiscono del resto significativa  conferma  le  variegate
interpretazioni della  norma  offerte  dalla  recente  giurisprudenza
amministrativa, che talvolta  ha  posto  a  carico  del  proprietario
l'onere di esperire  il  procedimento  di  messa  in  mora,  per  poi
impugnare   l'eventuale   silenzio-rifiuto   dell'amministrazione   a
provvedere; talaltra gli ha concesso  di  intraprendere  direttamente
un'azione (soltanto)  recuperatoria:  a  fronte  della  quale  si  e'
tuttavia ulteriormente suddivisa, in  quanto  alcune  pronunce  hanno
attribuito al giudice amministrativo il normale potere di emettere le
tradizionali statuizioni di annullamento e di condanna; altre (tra le
quali la decisione del TSAP 107/10), invocando l'art. 34  cod.  proc.
amm. anche il potere di assegnare all'amministrazione un termine  per
scegliere tra l'adozione del provvedimento di cui all'art. 42-bis,  e
la restituzione dell'immobile. Mentre  altre  ancora  hanno  devoluto
direttamente  al  giudice  suddetto  il  compito   di   emettere   il
provvedimento, comportante (anche) la  valutazione  definitiva  sulla
presenza (o meno), dell'interesse pubblico specifico all'acquisizione
del bene. 
    8. La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una
nuova normativa possa avere efficacia retroattiva,  ha  ripetutamente
considerato lecita l'applicazione dello  ius  superveniens  in  causa
soltanto in presenza di  «imperieux  motifs  d'interet  general»;  ed
affermato che in ogni altro caso essa si  concreta  nella  violazione
del principio di legalita' nonche' del diritto ad  un  processo  equo
perche'  consente  al  potere  legislativo   di'   introdurre   nuove
disposizioni specificamente dirette  ad  influire  sull'esito  di  un
giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica),
ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale
la  controparte  poteva  legittimamente  aspirare   al   momento   di
introduzione della lite  (cfr.  sentenza  della  Grande  Chambre,  28
ottobre 1999, Zielinski; nonche' Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003,
proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio  2004;
nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, § 78). 
    Questa situazione - gia' posta in evidenza  dalla  Corte  vigente
l'incostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011;  20543/2008;  sez.
un. 26732/2007) - si e'  riproposta  proprio  per  effetto  dell'art.
42-bis, il quale, malgrado la precisazione del 1° comma che l'atto di
acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente  (rivolta  a
rispondere ad uno dei rilievi espressi da  Corte  Costit.  293/2010),
con la  menzionata  disposizione  dell'8°  comma,  ha  confermato  la
possibilita'  dell'amministrazione  di  utilizzare  il  provvedimento
sanante ex tunc, "ai fatti anteriori alla sua entrata  in  vigore  ed
anche  se  vi  e'  gia'  stato  un  provvedimento   di   acquisizione
successivamente ritirato o annullato": in conformita' del resto  alla
finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via
di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a  verificare  nel
corso degli anni (anche pregressi). 
    Pertanto Giovanna Longo Vaschetti ed i consorti, che per  effetto
della sentenza 293/2010 della Corte Costit. avrebbero avuto  diritto,
tanto al momento del ricorso  introduttivo  del  giudizio,  quanto  a
quello del passaggio in giudicato della sentenza 20/2006 del TSAP che
lo aveva interamente accolto, alla restituzione  dei  loro  immobili,
nonche'  al  risarcimento  del  danno  alla  stregua  dei   parametri
contenuti nell'art. 2043 cod civ., in  conseguenza  del  sopravvenuto
art. 42-bis, nonche' del  provvedimento  acquisitivo  autorizzato  da
detta norma, nel corso del  giudizio,  hanno  perduto  in  radice  la
tutela   reale   e   possono    avvalersi    soltanto    di    quella
indennitaria/risarcitoria dalla stessa introdotta; la  quale  percio'
non si sottrae neppure all'addebito  in  casi  analoghi  mosso  dalla
Corte  europea  al  legislatore  nazionale  «di   averla   slealmente
introdotto  in  giudizi  iniziati  ed   impostati   secondo   diversi
presupposti  normativi,  si  da  incorrere  anche  nella   violazione
dell'art. 6, § 1, della Convenzione» per il mutamento  «delle  regole
in corsa»: risultando sotto  tale  profilo  in  contrasto  anche  con
l'art. 111, primo  e  secondo  comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso   delle   regole
sull'acquisizione  coattiva  sanante  in   seguito   ad   occupazione
illegittima, viola i principi del giusto processo, in particolare  le
condizioni di parita' delle parti davanti al giudice,  che  risultano
lese dall'intromissione del potere  legislativo  nell'amministrazione
della giustizia allo scopo  di  influire  sulla  risoluzione  di  una
circoscritta e determinata  categoria  di  controversie;  ed  appare,
quindi, anche sotto questo profilo, nuovamente  in  contrasto  con  i
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Costit.). 
    9.  Infine,  neanche  l'indennizzo/risarcimento  stabilito  quale
corrispettivo  dell'acquisizione   risulta   esente   da   dubbi   di
legittimita' costituzionale, in quanto il 3° comma  dell'art.  42-bis
ne fissa i seguenti parametri: «Salvi i casi in cui la legge disponga
altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale  di  cui  al
comma 1 e' determinato in misura corrispondente al valore venale  del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilita'  e,  se  l'occupazione
riguarda  un  terreno  edificabile,  sulla  base  delle  disposizioni
dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7». 
    Sennonche'  la  Corte  costituzionale   (sent.   369/1996),   nel
dichiarare l'incostituzionalita' dell'art. 1, comma 65, legge 549 del
1995, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento  del  danno  da
occupazione acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva
affermato «... e' innegabile, in primo luogo, la  violazione  che  ne
deriva del precetto di eguaglianza,  stante  la  radicale  diversita'
strutturale e funzionale delle obbligazioni cosi' comparate. Infatti,
mentre la misura dell'indennizzo -  obbligazione  ex  lege  per  atto
legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico
alla  realizzazione  dell'opera  e   interesse   del   privato   alla
conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione  ex
delicto - deve  realizzare  il  diverso  equilibrio  tra  l'interesse
pubblico al mantenimento dell'opera gia'  realizzata  e  la  reazione
dell'ordinamento a tutela della legalita' violata per  effetto  della
manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E  quindi  sotto
il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3  Costituzione),
poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico e'  gia'
essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene e dalla
conservazione  dell'opera  pubblica,  la  parificazione  del  quantum
risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un di piu'
che sbilancia eccessivamente il contemperamento  tra  i  contrapposti
interessi,  pubblico  e  privato,  in  eccessivo  favore  del  primo»
(Considerazioni analoghe  si  rinvengono  nelle  decisioni  442/1993;
188/1995; 148/1999; 349/2007). 
    Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi
profili, in quanto  disponendo  che  detto  indennizzo  debba  essere
sempre e comunque commisurato «al valore venale del bene utilizzato»,
il legislatore: a)  attribuisce  ai  proprietari  interessati  da  un
provvedimento  di  acquisizione  sanante  un  trattamento   deteriore
rispetto a quelli, che in mancanza  di  detto  provvedimento  -  come
sarebbe accaduto agli stessi ricorrenti se  il  Commissario  ad  acta
avesse scelto la  prima  delle  alternative  imposte  dalla  sentenza
107/2010  del  TSAP  -  sono  ammessi  a  chiedere  la   restituzione
dell'immobile  insieme  al  risarcimento  del   danno,   pur   quando
destinatari di una  medesima  occupazione  abusiva  in  radice  (c.d.
usurpativa):  in  quanto  soltanto  a  questi  ultimi  e'  consentito
ottenere  l'intero  risarcimento  del  danno  sofferto,  in  base  ai
parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente  e  del  lucro
cessante (utili, occasioni e vantaggi che il  proprietario  provi  di
aver perduto dalla mancata disponibilita' del bene: Cass. 14609/2012;
4052/2009; 2746/2008;  15710/2001;  1196/1986;  3590/1983);  b)  tale
trattamento resta inferiore pur nel  confronto  con  l'espropriazione
legittima dello stesso immobile, in quanto, ove  avente  destinazione
edificatoria, non e' riconosciuto l'aumento del 10% di cui al secondo
comma 37 del T.U. (non  richiamato  dalla  norma),  se  l'accordo  di
cessione e' stato concluso, se non e' stato concluso  per  fatto  non
imputabile   all'espropriato   o    se    l'indennita'    provvisoria
attualizzata e' inferiore all'80% di quella definitiva:  e  quindi  a
maggior ragione se nessuna indennita'  gli  viene  offerta,  come  e'
peculiare del procedimento di  cui  all'art.  42-bis.  Mentre  se  il
terreno e' agricolo non e' applicabile  il  precedente  art.  40,  1°
comma che impone di tener conto (Cfr. Corte Costit.  181/2011)  delle
colture  effettivamente  praticate  sul  fondo  e  «del  valore   dei
manufatti  edilizi  legittimamente  realizzati,  anche  in  relazione
all'esercizio dell'azienda agricola» (Cass.  23967/2010;  10217/2009;
11782/2007;  4848/1998):  nel  caso  specificamente   richiesto   dai
ricorrenti titolari di un'azienda agricola,  che  in  conseguenza  di
un'espropriazione  rituale  avrebbero  avuto  diritto  all'inclusione
nell'indennita' anche del relativo pregiudizio;  c)  incorre  in  una
disparita' piu' palese con il  regime  di  quest'ultima  laddove  non
considera  affatto  l'ipotesi  di  espropriazione  parziale;  e   non
consente di  tener  conto  della  diminuzione  di  valore  del  fondo
residuo,invece indennizzata fin dall'art.  40  legge  2359  del  1865
(anche nelle ipotesi di occupazione appropriativa:  Cass.  8197/2012;
591/2008; 24435/2006), ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; e nel caso
espressamente invocata  dai  proprietari;  d)  ha  trasformato,  come
evidenzia la sentenza impugnata, il precedente regime risarcitorio in
un indennizzo derivante da  atto  lecito,che  di  conseguenza  assume
natura  di  debito  di  valuta  non  automaticamente  soggetto   alla
rivalutazione monetaria (art. 1224, 2° comma cod. civ.). A differenza
del  risarcimento  da  espropriazione  e/o  occupazione  illegittime,
costituente credito di valore, che deve essere liquidato alla stregua
dei  valori  monetari  corrispondenti  al  momento   della   relativa
pronuncia, sicche' il giudice deve tenere  conto  della  svalutazione
monetaria sopravvenuta fino  alla  decisione,  anche  di  ufficio,  a
prescindere  dalla  prova  della   sussistenza   di   uno   specifico
pregiudizio  dell'interessato  dipendente  dal   mancato   tempestivo
conseguimento dell'indennizzo medesimo (Tra tante,  Cass.  1889/2013;
4010/2006; 9711/2004). 
    10. Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dal 3° comma
dell'art. 42-bis al  corrispettivo  per  il  periodo  di  occupazione
illegittima antecedente al provvedimento  di  acquisizione  («Per  il
periodo  di  occupazione  senza  titolo   e'   computato   a   titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova  di
una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo
sul valore determinato ai sensi del  presente  comma):  tuttavia  pur
esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a  quelli
cui e' commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione  temporanea
dell'immobile.  In  quanto:  a)  il  parametro  base  e'   costituito
dall'interesse  del  cinque  per  cento  annuo  sul   valore   venale
dell'immobile stimato ai fini dell'indennizzo, percio' corrispondente
a circa 1/20 del suo  valore  annuo.  Laddove  l'art.  50  del  T.U.,
recependo analoga disposizione contenuta nell'art. 20 della legge 865
del 1971, stabilisce in tutti i casi di occupazione legittima  di  un
immobile che «e' dovuta ai proprietario una indennita' per ogni  anno
pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di  esproprio
dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennita' pari ad
un  dodicesimo  di  quella  annua»:  percio'  corrispondente  ad  una
redditivita'   predeterminata   piu'   elevata   misura   percentuale
dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b)  il  richiamo
all'indennita' di espropriazione consente altresi' l'applicazione del
principio consolidato nella  giurisprudenza  di  legittimita'  (Cass.
21352/2004; sez. un. 10502/2012;  24303/2010),  che  nell'ipotesi  di
espropriazione  parziale  la  percentuale  suddetta  vada   calcolata
sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto  anche  del
decremento di valore subito  dalla  parte  dell'immobile  rimasta  in
proprieta' dell'espropriato: invece  non  autorizzato  dal  parametro
rigido contenuto nel 3° comma dell'art. 42-bis. 
    Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma  non
consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla  Corte  EDU
al  legislatore  nazionale,  che  pure  il  meccanismo  riduttivo  di
determinazione  dell'indennizzo/risarcimento  da  occupazione   senza
titolo  consente  all'espropriante,  che  omette   di   svolgere   il
procedimento previsto dalla legge,  di  avvantaggiarsi  ulteriormente
del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una
porzione del ristoro dovuto nel  caso  di  occupazione/espropriazione
legittime: percio' non  favorendo  la  buona  amministrazione  e  non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita'. 
    Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente
infondate le questioni  di  legittimita'  costituzionale  riguardanti
l'art. 42-bis, del T.U. appr. con d.p.r. 327 dei 2001: 
    per  contrasto  con  il  precetto  di  eguaglianza   nonche'   di
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3  Costit.  sotto  ciascuno
dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24
Costit. 
    per contrasto con i precetti e le  garanzie  posti  dall'art.  42
Costit. a tutela della proprieta' privata, nonche' con  il  principio
di legalita' dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113
Costit.: sotto i diversi profili di cui in motivazione; 
    per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., anche alla luce
dell'art. 6 e dell'art. 1 del I prot. add. della Convenzione  europea
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto i  diversi
profili di cui in motivazione,  con  cui  se  ne  e'  evidenziata  la
disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche' del  diritto  al
rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali. 
    per contrasto con gli art. 111, primo e  secondo  comma,  nonche'
117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 della Convenzione europea  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nella parte in  cui,
disponendo l'applicabilita' ai giudizi in corso della  disciplina  in
questione  anche  relativa   alla   determinazione   dell'indennizzo/
risarcimento del danno per occupazione illegittima in essa contenute,
viola i principi del giusto processo, in particolare le condizioni di
parita'  delle  parti  davanti  al  giudice,   che   risultano   lese
dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione  della
giustizia  allo  scopo  di  influire   sulla   risoluzione   di   una
circoscritta e determinata categoria di controversie; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli art. 134 Cost. e 23 della legge 11 marzo  1953  n.  87,
dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 34 d.l. 6 luglio 2011,  n.  98,
conv, con mod. dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che ha  introdotto
l'art. 42-bis nel T.U. espropr. p.u. appr. con d.p.r. 327  del  2001,
per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3,  24,
42, 97, Cost.; nonche' 111 e 117, primo comma, Cost., anche alla luce
dell'art. 6 e dell'art. 1 del I prot. add. della Convenzione  europea
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali,  resa  esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e  sospende  il  giudizio.  Dispone  altresi'  che  la
presente ordinanza sia  notificata,  a  cura  della  cancelleria,  al
Presidente del Consiglio dei  Ministri  ed  alle  parti,  ed  inoltre
comunicata al  Presidente  della  Camera  dei  Deputati,  nonche'  al
Presidente del Senato della Repubblica. 
 
      Cosi' deciso in Roma, il 12 novembre 2013. 
 
                       Il Presidente: Rovelli