N. 163 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 maggio 2014

Ordinanza del 12 maggio  2014  emessa  dal  Tribunale  amministrativo
regionale per il Lazio sul ricorso proposto  da  Corrida  Srl  contro
Roma Capitale. 
 
Espropriazione per pubblica  utilita'  -  Occupazione  acquisitiva  -
  Previsione che l'autorita' che utilizza un bene immobile per  scopi
  di interesse pubblico,  modificato  in  assenza  di  un  valido  ed
  efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica
  utilita',   puo'   disporre   che   esso   sia    acquisito,    non
  retroattivamente,  al  suo  patrimonio  indisponibile  e   che   al
  proprietario sia  corrisposto  un  indennizzo  per  il  pregiudizio
  patrimoniale  e  non  patrimoniale,  quest'ultimo  forfettariamente
  liquidato nella misura del 10 per cento del valore del bene  stesso
  -  Previsione  dell'estensione  del  potere  di  acquisizione  alla
  servitu' di fatto -  Abolizione  della  condizione  che  l'immobile
  realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli  artt.
  822  e  826  c.c.  postulate   dall'occupazione   appropriativa   e
  previsione dell'applicazione dell'istituto anche nella  ipotesi  in
  cui  sia  stato  annullato  l'atto  da  cui  e'  sorto  il  vincolo
  preordinato  all'esproprio  -  Previsione  che   il   provvedimento
  ablativo   non   e'   tenuto   ad   individuare   la   destinazione
  dell'immobile, essendo sufficiente l'indicazione delle  circostanze
  che hanno condotto alla  indebita  utilizzazione  dell'area  e,  se
  possibile, la data dalla quale essa ha  avuto  inizio  -  Modalita'
  procedimentali e criteri per la  determinazione  dell'indennizzo  -
  Previsione della applicabilita'  della  normativa  anche  ai  fatti
  anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se  vi  e'  stato  un
  provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o  annullato
  - Violazione del principio di uguaglianza - Incidenza  sul  diritto
  di difesa e  di  azione  in  giudizio  -  Lesione  del  diritto  di
  proprieta' -  Violazione  dei  principi  di  buon  andamento  e  di
  imparzialita'  della  pubblica  amministrazione  -  Violazione  dei
  principi   del   giusto   processo   -   Violazione   di   obblighi
  internazionali derivanti dalla CEDU come interpretata  dalla  Corte
  EDU. 
- Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, art.
  42-bis, inserito dall'art. 34, comma 1, del decreto-legge 6  luglio
  2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge  15  luglio
  2011, n. 111. 
- Costituzione, artt. 3, 24, 42, 97,  113  e  117,  primo  comma,  in
  relazione all'art. 6 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
  diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali;  Primo  Protocollo
  addizionale della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
  dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 1. 
(GU n.42 del 8-10-2014 )
 
         IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
                          (Sezione Seconda) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 7291 del 2009, proposto da: 
        Soc Corrida a r.l., in persona del legale rappresentante  pro
tempore, rappresentata  e  difesa  dagli  Avv.  Giovanni  Pallottino,
Francesco Nardocci, con domicilio eletto presso  lo  Studio  del'Avv.
Giovanni Pallottino sito in Roma, via Oslavia n. 14; 
    Contro Comune di Roma, ora Roma Capitale, in persona  del  legale
rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso  per  legge  dagli
Avv. Americo Ceccarelli, Giorgio Pasquali, domiciliata in  Roma,  via
Tempio di Giove, 21; 
    Per ottenere: 
        l'accertamento dell'illiceita' dell'occupazione  dei  terreni
di proprieta' da parte del Comune di Roma  e  la  loro  irreversibile
trasformazione per effetto della realizzazione di opera pubblica; 
        l'accertamento e la declaratoria  dell'avvenuta  abdicazione,
da parte  della  ricorrente  al  diritto  di  proprieta'  sulle  aree
irreversibilmente trasformate; 
        l'accertamento   del   proprio   diritto   ad   ottenere   il
risarcimento del danno  per  equivalente,  corrispondente  al  valore
venale delle aree, aventi destinazione edificatoria; 
        l'accertamento   del   proprio   diritto   ad   ottenere   il
risarcimento per mancata utilizzazione di tali aree  durante  periodo
di loro occupazione  senza  titolo,  a  decorrere  dall'inizio  della
stessa, maggiorato da rivalutazione monetaria ed interessi  di  legge
sino al soddisfo; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Roma; 
    Relatore nell'udienza  pubblica  del  giorno  2  aprile  2014  il
consigliere Elena Stanizzi e uditi per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
 
                                Fatto 
 
    Espone in fatto la societa' odierna ricorrente che sui terreni di
circa 3.900 mq ubicati in Roma, Via Tedeschi, di cui e' proprietaria,
si sarebbe maturata la c.d. occupazione usurpativa. 
    Al riguardo precisa che con delibera della Giunta Municipale  del
Comune di Roma n. 3253 del  7  maggio  1981  e'  stata  approvato  il
progetto per la realizzazione su detti terreni di opere  di  edilizia
scolastica  comunale  con  contestuale  dichiarazione   di   pubblica
utilita',    indifferibilita'    e    urgenza    ed    autorizzazione
all'occupazione d'urgenza delle relative aree. 
    Realizzate le opere, il Comune non ha mai portato  a  termine  la
procedura espropriativa mediante adozione di  decreto  di  esproprio.
Con sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, n. 5711/2002  -  confermata
con sentenza del Consiglio di Stato n. 3731/2009 - e' stato  disposto
l'annullamento di tutti i provvedimenti inerenti la procedura per  la
realizzazione dell'opera, ivi compresa la dichiarazione  di  pubblica
utilita' della stessa. 
    La societa' ricorrente ha, quindi, adito il Tribunale  Civile  di
Roma al fine di ottenere il risarcimento  dei  danni  da  occupazione
usurpativa, quale ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione. 
    Riassunto il giudizio innanzi a  questo  Tribunale,  la  societa'
ricorrente chiede l'accertamento dell'illiceita' dell'occupazione dei
terreni in  questione  da  parte  del  Comune  e  l'intervenuta  loro
irreversibile  trasformazione   per   effetto   della   realizzazione
dell'opera pubblica comunale, nonche' la dichiarazione  dell'avvenuta
abdicazione da parte della ricorrente stessa al diritto di proprieta'
sugli stessi, l'accertamento  del  proprio  diritto  ad  ottenere  il
risarcimento del danno  per  equivalente,  corrispondente  al  valore
venale  delle  aree,  aventi  destinazione  edificatoria,  oltre   al
risarcimento  per  mancata  utilizzazione  delle  stesse  durante  il
periodo di loro occupazione senza  titolo,  a  decorrere  dall'inizio
della stessa, maggiorato da rivalutazione monetaria ed  interessi  di
legge sino al soddisfo. 
    A sostegno della proposte domande, rappresenta  parte  ricorrente
che la caducazione, in sede  giurisdizionale,  dell'intera  procedura
espropriativa, retroagendo negli effetti,  ha  comportato  l'acca  ab
initio dell'occupazione dei propri terreni, i quali hanno subito  una
irreversibile  trasformazione   per   effetto   della   realizzazione
dell'opera.  L'intervenuto  annullamento   della   dichiarazione   di
pubblica utilita'  dell'opera  impedirebbe,  inoltre,  secondo  parte
ricorrente, il verificarsi dell'accessione  invertita  o  occupazione
acquisitiva, essendo tale modo di acquisto della proprieta' correlato
alla esistenza ed alla legittimita' della dichiarazione  di  pubblica
utilita' dell'opera realizzata. 
    Venendo quindi  in  rilievo  una  occupazione  usurpativa  e  non
essendosi mai prodotto un  effetto  acquisitivo  del  bene  a  favore
dell'Amministrazione Comunale, l'illecito permanente cosi' realizzato
farebbe sorgere il diritto al risarcimento del danno subito  in  capo
ai  proprietari  delle  aree  illecitamente  occupate,  non   essendo
possibile la loro restituzione  stante  la  realizzazione  dell'opera
pubblica che si estende oltre i confini  dei  terreni  di  proprieta'
della ricorrente. 
    Dichiara,  quindi,  parte  ricorrente  di  voler  procedere  alla
abdicazione al diritto di proprieta', chiedendo il  risarcimento  del
danno per equivalente per definitiva perdita del diritto  dominicale,
corrispondente  al  valore  venale  del  fondo,  tenuto  conto  della
potenzialita'  edificatoria  allo  stesso  impressa  dagli  strumenti
urbanistici,  oltre   al   risarcimento   del   danno   per   mancata
utilizzazione del bene nel periodo di occupazione permanente e  senza
titolo delle aree, a decorrere dalla data di suo inizio. 
    Si e' costituita in giudizio l'intimata Amministrazione  Comunale
sostenendo  l'inammissibilita'  della  domanda  volta   ad   ottenere
l'accertamento dell'avvenuta abdicazione al diritto di proprieta', e,
conseguentemente, della domanda volta ad ottenere il risarcimento del
danno per perdita della proprieta', di cui la ricorrente conserva  la
titolarita' fino a che non: intervenga l'adozione  di  uno  strumento
tipico di acquisto della stessa in capo all'Amministrazione. 
    Con  memoria  successivamente  depositata  parte  ricorrente   ha
controdedotto a quanto ex adverso sostenuto, insistendo nelle proprie
richieste. 
    Anche  la  resistente  Amministrazione   Comunale   ha   deposito
ulteriore  memoria  di  replica  a  quanto   argomentato   da   parte
ricorrente, la quale ha ulteriormente  controdedotto  con  successivo
atto. 
    Alla Pubblica Udienza  del  2  aprile  2014  la  causa  a'  stata
chiamata e, sentiti i difensori delle parti presenti, trattenuta  per
la decisione, come da verbale. 
 
                               Diritto 
 
    1 - La vicenda cui si riferisce la controversia in esame concerne
la  procedura  posta  in  essere  dal  Comune  di   Roma,   originata
dall'intervenuta approvazione, con delibera della  Giunta  Municipale
del Comune di Roma n. 3253 del 7 maggio 1981,  del  progetto  per  la
realizzazione  di  opere  di   edilizia   scolastica   comunale   con
contestuale dichiarazione di pubblica  utilita',  indifferibilita'  e
urgenza ed autorizzazione all'occupazione d'urgenza, su una  porzione
di terreni di proprieta' della societa' odierna ricorrente. 
    Effettuata  l'occupazione  dei  terreni,  le  opere  sono   state
realizzate senza che il Comune resistente abbia portato a termine  la
procedura espropriativa mediante adozione di decreto di esproprio. 
    Tutti gli atti della  procedura,  ivi  compresa  la  delibera  di
approvazione del progetto e di dichiarazione  di  pubblica  utilita',
indifferibilita' ed urgenza  dell'opera,  sono  stati  annullati  con
sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, n. 5711/2002 -  confermata  con
sentenza del Consiglio di Stato n. 3731/2009. 
    Adito  il  Tribunale  Civile  di  Roma  al  fine  di  ottenere il
risarcimento dei danni dal occupazione, qualificata come  usurpativa,
la  societa'  ricorrente,  a  seguito  dell'intervenuta  adozione  di
pronuncia  con  la  quale  e'  stato   dichiarato   il   difetto   di
giurisdizione del giudice adito,  ha  quindi  riassunto  il  giudizio
innanzi  a  questo  Tribunale  e,  nell'evidenziare  come  a   fronte
dell'irreversibile  trasformazione  dell'area   per   effetto   della
realizzazione dell'opera  pubblica  non  possa  ritenersi  verificata
l'accessione invertita - essendo stata annullata la dichiarazione  di
pubblica utilita' - avanza, sulla base di tali presupposti,  distinti
capi di domanda, cosi' sintetizzati: 
        l'accertamento dell'illiceita' dell'occupazione  dei  terreni
in  questione  da  parte  del  Comune   e   la   loro   irreversibile
trasformazione per effetto della  realizzazione  dell'opera  pubblica
comunale; 
        l'accertamento e la declaratoria dell'avvenuta abdicazione da
parte della societa' ricorrente al diritto di proprieta'  sulle  aree
interessate dalla realizzazione dell'opera pubblica; 
        l'accertamento  del  diritto  della  societa'  ricorrente  ad
ottenere il risarcimento del danno per equivalente, corrispondente al
valore venale delle aree, aventi destinazione edificatoria; 
        l'accertamento  del  diritto  della  societa'  ricorrente  ad
ottenere il risarcimento per mancata utilizzazione delle aree durante
il periodo di loro occupazione senza titolo, a decorrere  dall'inizio
della stessa, maggiorato da rivalutazione monetaria ed  interessi  di
legge sino al soddisfo. 
    2 - Cosi' ricostruito l'oggetto del  presente  giudizio  e  delle
vicende che vi hanno dato origine, deve  il  Collegio,  innanzitutto,
procedere  ad  un  corretto  inquadramento   della   controversia   e
delimitare l'ambito dell'azione proposta. 
    In tale  direzione,  deve  essere  dichiarata  l'inammissibilita'
della domanda volta all'accertamento della  intervenuta  abdicazione,
da parte della societa' ricorrente, al diritto  di  proprieta'  sulle
aree interessate dalla realizzazione dell'opera pubblica. 
    Facendo  applicazione  degli   ordinari   principi   civilistici,
l'esigenza di una piena tutela del diritto di  proprieta'  esige  che
l'effetto traslativo consegua a una volonta' espressa  ed  inequivoca
del proprietario interessato,  da  tradursi  in  strumenti  negoziali
formali e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI,  10  maggio  2013,  n.
2559) dovendosi comunque tener conto dello specifico regime giuridico
degli atti inter  vivos  con  cui  si  puo'  disporre,  anche  merce'
l'abdicazione, del diritto di proprieta' (art. 1350 n. 5 c.c. e  art.
2643 n. 5 c.c.). 
    3 - Posto quindi che non puo' il  giudice  adito  procedere  alla
declaratoria dell'intervenuta abdicazione, da  parte  della  societa'
ricorrente, al diritto di proprieta' sulle aree sulle quali e'  stata
realizzata  l'opera  a  favore   della   resistente   Amministrazione
Comunale,  con  irreversibile   trasformazione   delle   stesse,   la
disciplina applicabile  alla  fattispecie  in  esame  va  individuata
nell'art. 42-bis del D.P.R. n. 327 del 2001 - introdotto  con  l'art.
34 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98,  convertito  in  Legge  15
luglio  2011,  n.  111  (in  materia  di  misure   urgenti   per   la
stabilizzazione   finanziaria)   a   seguito    della    declaratoria
illegittimita' costituzionale dell'art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001
con sentenza della Consulta n. 293 del 2010,  il  quale  disciplinava
l'istituto  dell'acquisizione  sanante  -  con  il  quale  e'   stato
reintrodotto l'istituto dell'acquisizione coattiva dell'immobile  del
privato  utilizzato  dall'Amministrazione  per  fini   di   interesse
pubblico, prevedendo l'acquisizione al suo  patrimonio  indisponibile
del bene del privato allorche' la sua utilizzazione risponda a «scopi
di interesse pubblico»  nonostante  difetti  un  valido  ed  efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'. 
    Dispone, difatti, il citato articolo, che «Valutati gli interessi
in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi  di
interesse pubblico, modificato in assenza di un  valido  ed  efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica  utilita',
puo' disporre che esso sia acquisito, non  retroattivamente,  al  suo
patrimonio indisponibile e che al  proprietario  sia  corrisposto  un
indennizzo  per  il  pregiudizio  patrimoniale  e  non  patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella  misura  del  dieci  per
cento del valore venale del bene». 
    E'  stato  cosi'  reintrodotto  il  potere   discrezionale   gia'
disciplinato  dall'art.  43  del  T.U.  Espropriazioni  per  pubblica
utilita'  dichiarato  incostituzionale,   potendo   l'Amministrazione
competente, valutate le circostanze  e  comparati  gli  interessi  in
conflitto, decidere se restituire l'area al proprietario demolendo in
tutto o in parte l'opera sostenendone le relative  spese,  oppure  se
disporne l'acquisizione, si da  evitare  che  venga  demolito  quanto
altrimenti risulterebbe meritevole di essere  ricostruito  (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 1° dicembre 2011 n. 6351). 
    Posta l'applicabilita' alla fattispecie in esame -  in  relazione
all'oggetto della domanda ed ai fatti di causa - della citata  norma,
ritiene il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondata,
analogamente a quanto ritenuto dalla  Corte  di  Cassazione,  Sezioni
Unite, con ordinanza n. 441 del 13  gennaio  2014,  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art.  42-bis  del  d.P.R.  8  giugno
2001, n. 327, introdotto dall'art. 34, primo comma, del d.l. 6 luglio
2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione
agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., anche alla luce dell'art.  6  e
dell'art. 1 del I Protocollo Addizionale  della  Convenzione  Europea
dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta'  Fondamentali,  in  quanto  la
disposizione  citata,  reintroducendo  una  sorta   di   procedimento
ablativo semplificato in favore della P.A. che utilizzi senza  titolo
un bene privato per scopi di interesse pubblico, si pone in contrasto
con il principio costituzionale di eguaglianza  e  di  ragionevolezza
intrinseca, con la garanzia della proprieta' privata, posta  altresi'
da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio  di
legalita' dell'azione amministrativa, riservando all'Amministrazione,
intesa come  soggetto  autore  di  un  fatto  illecito  e  non  quale
espressione  della   funzione   amministrativa,   un   ingiustificato
trattamento privilegiato, tale da consentirle l'acquisizione del bene
al patrimonio pubblico per effetto di un  suo  comportamento  «contra
ius», di cui si avvantaggia pure nella determinazione dell'indennizzo
o risarcimento dovuto al proprietario rispetto al ristoro  altrimenti
spettante nel caso di legittimo procedimento espropriativo. 
    4 - Quanto al profilo inerente la rilevanza della  questione,  la
stessa  va  ravvisata  nella  applicabilita'  di  tale   norma   alla
fattispecie  in  esame,  sulla  cui  base  devono  essere  decise  le
questioni proposte da parte ricorrente. 
    Nell'attuale quadro normativo, come  delineato  dall'art.  42-bis
del d.P.R.  n.  327  del  2001,  grava  sull'Amministrazione  che  ha
modificato un bene immobile del privato in assenza di  un  valido  ed
efficace titolo di esproprio o dichiarativo della  pubblica  utilita'
dell'opera  realizzata  l'obbligo  giuridico  di  far   venire   meno
l'occupazione sine titulo e di adeguare  la  situazione  di  fatto  a
quella di diritto o attraverso la restituzione dei beni ai  titolari,
con demolizione di quanto realizzato e relativa riduzione in pristino
(affrontando le relative spese), ovvero attivandosi perche' vi sia un
titolo d'acquisto dell'area da parte del soggetto attuale  possessore
evitando che sia demolito quanto dovrebbe essere ricostruito, potendo
il provvedimento di acquisizione essere adottato solo sulla  base  di
una determinazione dell'Amministrazione, anche in corso di  giudizio,
essendo il potere acquisitivo dell'Amministrazione esercitabile anche
in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che
abbia  annullato  il  provvedimento   che   costituiva   titolo   per
l'utilizzazione dell'immobile da parte della stessa  Amministrazione,
atteso che il giudicato e' intervenuto sull'atto annullato e non  sul
rapporto tra privato ed Amministrazione. 
    Viene   in   tal   modo   riconosciuta   all'Amministrazione   la
possibilita' di adottare un nuovo atto finche' perdura  lo  stato  di
utilizzazione, pur se illegittima, del bene del privato, atto che  e'
distinto da quello annullato, tant'e' che  non  opera  con  efficacia
retroattiva  e  non  ha  una  funzione  sanante   del   provvedimento
annullato, dovendo la P.A. adottare tutte  le  iniziative  necessarie
per porre fine alla perdurante situazione di illiceita',  restituendo
il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni  di  pubblico
interesse che avevano comportato l'utilizzazione del suolo o, in caso
contrario, acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene  su  cui
insiste o dovra' essere realizzata l'opera  pubblica  o  di  pubblico
interesse. 
    Il  potere   discrezionale   dell'Amministrazione   di   disporre
l'acquisizione sanante e' in tal modo conservato (Cons.  Stato,  Sez.
IV, 16 marzo 2012, n.1514): l'art. 42-bis infatti regola  i  rapporti
tra potere amministrativo di acquisizione  in  sanatoria  e  processo
amministrativo di annullamento in termini di  autonomia,  consentendo
l'emanazione del provvedimento dopo che «sia stato  annullato  l'atto
da cui sia sorto il vincolo  preordinato  all'esproprio,  l'atto  che
abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera  o  il  decreto  di
esproprio»  od  anche  «durante  la  pendenza  di  un  giudizio   per
l'annullamento  degli  atti  citati,  se  l'amministrazione  che   ha
adottato l'atto impugnato  lo  ritira»;  non  regola  piu'  invece  i
rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna  del  giudice  e
successiva attivita' dell'Amministrazione. 
    Ne consegue che, non potendo piu' essere azionato  il  meccanismo
procedimentale accelerato previsto dal citato art. 43  (Cons.  Stato,
Sez. IV, 29  agosto  2012,  n.  4650)  ed  essendo  la  realizzazione
dell'opera pubblica  sul  fondo  illegittimamente  occupato  un  mero
fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e  come  tale
inidoneo   a   determinare   il   trasferimento   della    proprieta'
dell'immobile (Cons. Stato, Sez. IV, 29.8.2011, n.  4833;  28.1.2011,
n. 676), l'Amministrazione puo' divenirne proprietaria o  al  termine
del procedimento, che  si  conclude  sul  piano  fisiologico  con  il
decreto di' esproprio o con la cessione del bene espropriando, oppure
quando, essendovi una patologia per cui il bene e'  stato  modificato
in assenza di un valido ed  efficace  provvedimento  di  esproprio  o
dichiarativo della pubblica utilita',  venga  emesso  il  decreto  di
acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi  dell'art.  42-bis,
indennizzando il proprietario per il mancato utilizzo del bene (5% di
interesse annuo sul valore venale di ogni  anno),  per  il  lamentato
danno patrimoniale (al valore venale attuale) e non patrimoniale (10%
del valore venale attuale salvo casi particolari in cui e' il 20%). 
    Alla  stregua   dell'attuale   quadro   normativo,   quindi,   la
realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato
e' in se'  un  mero  fatto,  non  in  grado  di  assurgere  a  titolo
dell'acquisto, come tale  inidoneo  a  determinare  il  trasferimento
della proprieta', per  cui  solo  il  formale  atto  di  acquisizione
dell'Amministrazione puo' essere in grado di limitare il diritto alla
restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi  (rinunziativi  o
abdicativi) della proprieta' in altri comportamenti, fatti o contegni
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 3, ottobre 2012  n.  5198;  TAR  Lazio,
Roma, 6 novembre 2012 n. 9052). 
    Ne discende che, laddove l'Amministrazione non  intenda  comunque
apprendere  il  bene  tramite  l'acquisizione  del   consenso   della
controparte a l'adozione di  un  provvedimento  autoritativo,  e'  si
obbligo  primario  procedere  alla  restituzione   della   proprieta'
illegittimamente detenuta, a meno di non apprendere legittimamente il
bene facendo uso  unicamente  dei  due  strumenti  tipici,  ossia  il
contratto, tramite l'acquisizione del consenso della  controparte,  o
il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la
riedizione del procedimento con le sue garanzie. 
    L'illecita occupazione, e  quindi  il  fatto  lesivo,  permangono
pertanto fino  al  momento  della  realizzazione  di  una  delle  due
fattispecie  legalmente   idonee   all'acquisto   della   proprieta',
indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente
o autoritativamente. 
    Ed invero, con la declaratoria di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 43  del  Testo  unico  sulle  espropriazioni  di  cui  alla
sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010,  con  espunzione
dal nostro ordinamento dell'istituto dell'acquisizione de facto della
proprieta' in mano pubblica a seguito della realizzazione dell'opera,
l'esecuzione dell'opera pubblica  non  costituisce  impedimento  alla
restituzione   dell'area    illegittimamente    occupata    e    cio'
indipendentemente  dalle  modalita'  -  occupazione   acquisitiva   o
usurpativa - di acquisizione del terreno (in tal  senso  anche  Cons.
Stato, Sez. V, 2 novembre 2011 5844). 
    Applicando le indicate coordinate interpretative dell'art. 42-bis
del d.P.R. n. 327 del 2001 alla fattispecie in esame,  caratterizzata
dall'intervenuta realizzazione di un'opera pubblica - nella specie di
edifici di edilizia scolastica comunale - su aree di proprieta' della
societa' ricorrente in assenza di un valido titolo ablatorio, essendo
stata la procedura espropriativa annullata in  sede  giurisdizionale,
con conseguente illegittimita' dell'occupazione,  va  dunque  escluso
che si sia determinato un acquisto a titolo originario delle aree  da
parte dell'Amministrazione in  virtu'  della  radicale  e  definitiva
trasformazione del suolo, conseguente alla sua  occupazione  ed  alla
realizzazione dell'opera  pubblica,  non  essendosi  conseguentemente
estinto il diritto di proprieta' del suolo in capo alla ricorrente. 
    Tenuto conto, inoltre, che l'art. 42-bis del d.P.R.  n.  327  del
2000 affida all'Autorita' amministrativa la scelta di determinarsi in
ordine  all'eventuale  acquisizione  delle   aree   irreversibilmente
trasformate,  ne  discende  l'impossibilita'  per   il   Giudice   di
sostituirsi  all'Amministrazione   nella   previa   valutazione   dei
contrapposti interessi, con conseguente preclusione alla possibilita'
di ordinare un facere alla Pubblica Amministrazione, nella specie  di
ordine di procedere all'adozione di un provvedimento di  acquisto  ex
nunc della proprieta'  delle  aree  trasformate  dalla  realizzazione
dell'opera pubblica. 
    Non vi e' spazio, difatti, nell'ordinamento, per  configurare  un
modo di  acquisto  della  proprieta'  da  parte  dell'Amministrazione
attraverso un ordine del  Giudice,  non  prevedendo  il  citato  art.
42-bis che il proprietario danneggiato  dall'occupazione  illegittima
possa   richiedere   al   giudice    amministrativo    di    ordinare
all'Amministrazione di attivare il procedimento espropriativo  e  non
rientrando la fattispecie di cui al predetto art. 42-bis  tra  quelle
indicate dall'art. 134 cod.  proc.  amm.,  in  relazione  alle  quali
l'art. 7, comma 6, cod. proc. amm, prevede che giudice amministrativo
possa sostituirsi all'Amministrazione. 
    Ricadendo,  quindi,  la   fattispecie   in   esame,   nell'ambito
applicazione  del  citato   art.   42-bis,   il   Collegio,   facendo
applicazione  dello  stesso,  dovrebbe  limitarsi  a  ordinare   alla
resistente Amministrazione Comunale di  procedere  alla  restituzione
alla societa' ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa
riduzione in pristino, e  a  risarcire  il  danno  per  l'occupazione
illegittima, fermo restando che  l'Amministrazione  puo'  paralizzare
tale pronuncia mediante l'adozione del provvedimento con cui disporre
l'acquisto ex nunc del bene  al  suo  patrimonio  indisponibile,  con
corresponsione al proprietario di un indennizzo  per  il  pregiudizio
patrimoniale e non patrimoniale subito, spettando  in  via  esclusiva
all'Amministrazione che  utilizza  un  bene  immobile  per  scopi  di
interesse pubblico, modificato in assenza di un  valido  ed  efficace
provvedimento di esproprio o dichiarativo  della  pubblica  utilita',
procedere alla valutazione degli interessi in conflitto  al  fine  di
disporre  che  esso  sia  acquisito,  non  retroattivamente,  al  suo
patrimonio  indisponibile,  non  potendo   il   Giudice   sostituirsi
all'Amministrazione comunale nelle valutazioni alla stessa  spettanti
in merito alla sussistenza dei presupposti (e,  in  particolare,  del
persistente  interesse  pubblico  alla  fruizione,  da  parte   della
collettivita',  dell'opera   pubblica   realizzata)   per   procedere
all'acquisizione, consensuale o coattiva, dei beni con consenso della
controparte o facendo ricorso alla procedura di cui  all'art.  42-bis
del d.P.R. n. 327 del 2001. 
    Alla societa' ricorrente andrebbe, inoltre,  riconosciuto,  oltre
al diritto alla restituzione delle aree illegittimamente occupate, il
diritto ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subiti, a
vario titolo derivanti dalla  perdurante  abusiva  occupazione  delle
aree di sua proprieta', nonche' il diritto, in caso  di  acquisizione
delle aree, ad ottenere la corresponsione  del  valore  venale  delle
stesse, per come previsto dalla citata norma. 
    5 - Dato conto, sulla base di  quando  dianzi  illustrato,  della
rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale  dell'art.
42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001  ai  fini'  della  decisione  della
controversia in esame, dovendo la decisione  in  ordine  alla  stessa
fare  applicazione  della  citata  norma,  occorre   procedere   alla
enucleazioni delle ragioni per cui tale  norma  viene  sospettata  di
contrasto con i parametri costituzionali. 
    L'art. 42-bis («Utilizzazione senza titolo di un bene  per  scopi
di interesse pubblico») del d.P.R. n. 327 del 2001 -  introdotto  con
l'art. 34 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge
15 luglio  2011,  n.  111  (in  materia  di  misure  urgenti  per  la
stabilizzazione finanziaria), dispone, per  come  dianzi  illustrato,
che «Valutati gli interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un
bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in  assenza
di un valido ed efficace provvedimento di  esproprio  o  dichiarativo
della pubblica utilita', puo' disporre che esso  sia  acquisito,  non
retroattivamente,  al  suo  patrimonio   indisponibile   e   che   al
proprietario  sia  corrisposto  un  indennizzo  per  il   pregiudizio
patrimoniale  e  non   patrimoniale,   quest'ultimo   forfetariamente
liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene
(comma 1). Il provvedimento  di  acquisizione  puo'  essere  adottato
anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto  il  vincolo
preordinato all'esproprio, l'atto che abbia  dichiarato  la  pubblica
utilita' di un'opera o il decreto di esproprio...» (comma 2). 
    E' stata in tal modo reintrodotta, secondo  la  piu'  qualificata
dottrina e la  giurisprudenza  amministrativa,  la  possibilita'  per
l'Amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi
di interesse pubblico, di evitarne la  restituzione  al  proprietario
(e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto
di acquisizione coattiva al  proprio  patrimonio  indisponibile,  che
sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone,
a  sua  volta,  come  una   sorta   di   procedimento   espropriativo
semplificato. Il  quale  assorbe  in  se'  sia  la  dichiarazione  di
pubblica utilita', che il decreto di esproprio, e  quindi  sintetizza
«uno actu» lo svolgimento dell'intero procedimento, in  presenza  dei
presupposti indicati dalla norma. 
    La nuova soluzione  e'  apparsa  al  legislatore  indispensabile,
anzitutto   per   «eliminare   la   figura   sorta    nella    prassi
giurisprudenziale della occupazione appropriativa ... nonche'  quella
dell'occupazione usurpativa..» (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e  quindi
al fine di adeguare l'ordinamento «ai principi  costituzionali  ed  a
quelli  generali  di  diritto  internazionale  sulla   tutela   della
proprieta'». 
    Ed infatti, in forza di detto provvedimento  cessa  l'occupazione
sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene  adeguata  a
quella di: diritto con l'attribuzione (questa  volta)  formale  della
proprieta' alla  p.a.  (se  prevale  l'interesse  pubblico),  cui  e'
consentita una legale uscita dalle numerose situazioni di illegalita'
realizzate nel corso degli anni. 
    Viene in tal modo consentito il ripristino della legalita'  anche
con riferimento alle  situazioni  gia'  verificatesi,  per  le  quali
permane egualmente la necessiti di regolarizzazione definitiva. 
    L'art. 42-bis ha riproposto in sostanza l'applicazione  estensiva
dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui  ha  ereditato
perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto:  1)
ha superato la norma transitoria dell'art. 57 con l'introduzione  del
comma 8, per il quale «Le disposizioni del presente articolo  trovano
altresi' applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata  in  vigore
ed anche se  vi  e'  gia'  stato  un  provvedimento  di  acquisizione
successivamente ritirato o annullato»; 2) ha confermato, malgrado  la
critica sul punto della Corte Costituzionale, l'estensione del potere
di acquisizione alle servitu' di fatto (comma 7), in passato  escluse
dall'occupazione espropriativa (perche' ne difetta la non  emendabile
trasformazione del suolo  in  una  componente  essenziale  dell'opera
pubblica); 3) non richiede piu' che l'immobile realizzando rientri in
una delle categorie individuate dagli artt.  822  ed  826  cod.  civ.
(postulate dall'occupazione appropriativa). 
    E' stato, anzi, rescisso perfino il collegamento con l'area delle
espropriazioni per p.u.,  prevedendosi  l'applicazione  dell'istituto
anche nell'ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui e'  sorto
il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione
dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato
una qualche modifica, pur  quando  «attribuito...in  uso  speciale  a
soggetti privati  (comma  5);  4)  ha  conclusivamente  invertito  il
principio tratto dall'art. 42 Cast. ed art.  834  cod.  civ.  che  la
potesta' ablativa  ha  carattere  eccezionale  che  non  puo'  essere
esercitata se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (legge n.
2359 del 1865 per la realizzazione di opere pubbliche, legge n.  1089
del 1939 per i beni storici, artistici; d.lgs. n. 215  del  1933  per
finalita' di bonifica; d.lgs. n. 3267 del 1923 per fini di protezione
idro-geologica ecc). In quanto l'acquisizione e' predisposta  in  via
generale ed indeterminata  per  qualsiasi  «utilizzazione»  del  bene
meramente  detentiva,  come  preordinata  all'esproprio,  reversibile
oppure irreversibile - in seguito alla quale il provvedimento non  e'
tenuto ad individuarne neppure la destinazione,  essendo  sufficiente
«l'indicazione delle circostanze che  hanno  condotto  alla  indebita
utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla  quale  essa  ha
avuto inizio» (comma 4). 
    Questi caratteri dell'acquisizione, qualificabile come «sanante»,
sono gli stessi che hanno indotto la  Corte  Costituzionale,  con  la
sentenza n. 293 del 2010 ad  osservare  che  l'istituto  «prevede  un
generalizzato   potere   di   sanatoria,   attribuito   alla   stessa
amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di  un
giudicato che dispone ristoro  in  forma  specifica  del  diritto  di
proprieta' violato»; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto
al contesto  normativo  positivo,  «neppure e'  coerente  con  quegli
orientamenti di giurisprudenza  che,  in  via  interpretativa,  erano
riusciti a porre un certo rimedio ad alcune  gravi  patologie  emerse
nel corso dei procedimenti espropriativi». 
    Ne consegue che la sua riproduzione nell'art. 42-bis, applicabile
ad  ogni  genere  di  situazione  sostanziale  e  processuale   sopra
indicata, con  il  risultato  di  offrire  alla  P.A.  una  vasta  ed
indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e  gravi
dubbi di costituzionalita' - anche per le  possibili  violazioni  del
principio di legalita' dell'azione amministrativa - in  relazione  ai
precetti contenuti negli art. 3,  24,  42  e  97  Cost.;  nonche'  di
compatibilita' con la normativa  della  Convenzione  CEDU,  e  quindi
dell'art. 117 Cost. 
    In linea piu' generale, infatti,  dottrina  e  giurisprudenza  si
sono chieste se alla P.A. che abbia commesso un fatto illecito, fonte
per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di
cui agli art. 2043 e  2058  cod.  civ.,  possa  essere  riservato  un
trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3  Cost.)
ed attribuita  la  facolta'  di  mutare,  successivamente  all'evento
dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto  di  una
propria unilaterale manifestazione di volonta', il titolo e  l'ambito
della responsabilita', nonche' il tipo di sanzione  (da  risarcimento
in indennizzo) stabiliti in via generale dal  precetto  del  «neminem
laedere» per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume
del  principio  costituzionale  (ritenuto  da  Corte   Costituzionale
204/2004 «una conquista  liberale  di  grande  importanza»)  che  nel
sistema  vigente   e'   privilegiata   la   tutela   della   funzione
amministrativa e non della p.a. come soggetto. 
    La risposta non puo' che essere quella che, allorquando la stessa
opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a  tutte  le  regole
vincolanti per gli altri  soggetti,  nonche'  esposta  alle  medesime
responsabilita', fra  cui  quelle  di  cui  alle  norme  codicistiche
menzionate; e che vale anche per essa la regola che «factum  infectum
fieri nequit», costituente limite invalicabile anche per il potere di
sanatoria in via amministrativa di una situazione di  illegittimita'.
Sicche', una volta attuata  tutti  i  suoi  elementi  costitutivi  la
lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo'  mai
mutare  natura  e   divenire   «giusta»   per   effetto   dell'azione
amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne «ex post»
le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad  esse
correlate. 
    Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa
applicazione del principio di legalita' sostanziale  predicato  dalla
normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011,
0C 405/10);  nonche'  nella  giurisprudenza  della  Corte  Edu  (1,13
ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 15 dicembre 2005,
Scozzari; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio  2010,
Guiso) proprio in materia di ingerenza illegittima  nella  proprieta'
privata, fondata sempre e comunque  sul  corollario  divenuto  per  i
giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non  e'  consentito
(ne' direttamente ne'  indirettamente)  trarre  vantaggio  da  propri
comportamenti illeciti e, piu' in  generale,  da  una  situazione  di
illegalita' dalla stessa determinata. Laddove l'art. 42-bis,  per  il
solo   fatto   della   connotazione   pubblicistica   del    soggetto
responsabile, ha soppresso  tale  pregresso  regime  dell'occupazione
abusiva di un immobile altrui, sottraendo  al  proprietario  l'intera
gamma delle azioni di  cui  disponeva  in  precedenza  a  tutela  del
diritto dominicale, e la stessa facolta' di scelta di  avvalersene  o
meno. E, considerando esclusivamente gli scopi  dell'amministrazione,
l'ha trasferita  dalla  «vittima  dell'ingerenza»  (tale  qualificata
dalla Corte europea), all'autore del fatto  illecito,  attraverso  la
sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione  emesso
da quest'ultimo, di  un  nuovo  modo  di  acquisto  della  proprieta'
privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di
opere pubbliche, e perfino con una pregressa procedura ablativa. 
    Ed infatti, l'istituto introdotto con l'art. 42-bis, riproduttivo
di quello precedente, e' rivolto a definire in  linea  generale  (non
piu' un procedimento espropriativo in itinere, bensi')  «quale  sorte
vada  riservata  ad   una   res   utilizzata   e   modificata   dalla
amministrazione, restata senza titolo  nelle  mani  di  quest'ultima»
(Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.). 
    Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi  al
suddetto  principio  di  legalita'  in   ambito   espropriativo,   la
giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli  anni  80  aveva
riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978;  2931/1980;  5856/1981)  la
regola, fino ad  allora  seguita,  che  alla  P.A.  occupante  (senza
titolo) fosse concesso di completare la procedura  ablativa  in  ogni
tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino  nel
corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la  restituzione
dell'immobile;  e  che  il  solo  fatto  dell'adozione  postuma   del
provvedimento  ablativo  ammissibile  fino   alla   decisione   della
Cassazione  -  comportasse la  conversione   automatica   dell'azione
restitutoria   e/o   risarcitoria,   in   opposizione   alla    stima
dell'indennita': alla quale soltanto il proprietario finiva per avere
diritto. E tale adeguamento  alla  normativa  costituzionale  non  e'
sfuggito alla ricordata decisione n. 293 del 2010 della Consulta  che
lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a
quelli del decreto tardivo), dando atto che da  decenni  «secondo  la
giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza,
la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere
un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali
dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi». 
    Poste tali premesse, il dubbio di elusione delle  garanzie  poste
dall'art. 42 Cost. a tutela della «proprieta' privata» (commi 2 e  3)
appare al Collegio ancor piu' consistente in  relazione  al  primo  e
fondamentale presupposto per procedere al trasferimento  coattivo  di
un immobile mediante espropriazione, ivi  indicato  nella  necessaria
ricorrenza di «motivi di  interesse  generale»;  che  trova  puntuale
riscontro in quello di eguale tenore dell'art.  1  del  Protocollo  1
All. alla  Convenzione  EDU  per  cui  l'ingerenza  nella  proprieta'
privata  puo'  essere  attuata  soltanto  «per  causa   di   pubblica
utilita'». 
    Fin  dalle  decisioni   piu'   lontane   nel   tempo   la   Corte
Costituzionale ha affermato  al  riguardo  (sent.  90/1966)  che  «Il
precetto costituzionale, secondo  cui  una  espropriazione  non  puo'
essere consentita dalla legge se non per motivi di interesse generale
(o per pubblica utilita'), e cioe' se non quando lo  esigano  ragioni
importanti  per  la  collettivita',  comporta,  in  primo  luogo,  la
necessiti che la legge indichi le ragioni per le quali  si  puo'  far
luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere
autorizzata se non nella effettiva presenza  delle  ragioni  indicate
dalla legge» ed ancora che  «Nelle  leggi  della  materia  -  la  cui
fondamentale espressione e' rappresentata dalla legge 25 giugno 1865,
n. 2359 - si trova infatti costantemente  affermato  il  concetto  (e
anche li' dove esso non risulta espressamente enunciato, e' stata  la
giurisprudenza a proclamare l'inderogabilita' del principio) che  fin
dal  primo  atto  della  procedura  espropriativa  debbono  risultare
definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi  e  i
tempi di essa...» Negli stessi termini tutti i successivi  interventi
della Consulta (sentenze n. 95/1966; 384/1990; 486/1991;  155  e  188
/1995), nonche' la consolidata giurisprudenza di legittimita' che fin
dai primi anni  60  (Sez.  un.  826/1960  e  succ),  ha  definito  la
dichiarazione di  p.u.  «la  guarentigia  prima  e  fondamentale  del
cittadino  e  nel  contempo  la  ragione  giustificatrice   del   suo
sacrificio nel bilanciamento degli interessi  del  proprietario  alla
restituzione dell'immobile ed  in  quello  pubblico  al  mantenimento
dell'opera pubblica per la funzione  sociale  della  proprieta'»;  ha
costantemente confermato  che  la  suddetta  garanzia  costituzionale
viene  osservata  soltanto  se  la   causa   del   trasferimento   e'
predeterminata    nell'ambito    di    un    apposito    procedimento
amministrativo, nel bilanciamento  dell'interesse  primario  con  gli
altri interessi in gioco. Ed e' rimasta sempre ancorata al  principio
che la mancanza della preventiva dichiarazione di  pubblica  utilita'
implica  difetto  di  potere  dell'Amministrazione  nel  e  procedere
all'espropriazione. 
    La  norma  costituzionale  richiede,   quindi,   che   i   motivi
d'interesse   generale   giustificare    l'esercizio    del    potere
espropriativo  nei  (soli)  casi   stabiliti   dalla   legge,   siano
predeterminati  dall'Amministrazione  ed  emergano,  da  un  apposito
procedimento - individuato nel procedimento dichiarativo del pubblico
interesse culminante nell'adozione della  dichiarazione  di  pubblica
utilita' - preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo
procedimento   espropriativo   in   senso    stretto,    nel    quale
l'Amministrazione programma  un  nuovo  bene  giuridico  destinato  a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale  e  concreto.  E
che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo  spossessamento
nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in  un  momento  in
cui la comparazione tra l'interesse pubblico  e  l'interesse  privato
possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei
principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97  Cost.):  in  un
momento, cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e' ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non  sono
ostacolate  da  una  situazione  fattuale   ormai   irreversibilmente
compromessa. Da  qui  la  formula  dell'art.  42,  comma  3  per  cui
l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima  in  quanto
e' originata da «motivi di interesse generale», ovvero  collegata  ad
un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano
una incisione: nella sfera il  sfera  del  privato  proprietario,  di
questo valorizzando ruolo partecipativo; e la  conseguenza  che  tale
risultato  non  sarebbe  garantito  dall'esercizio   di   un   potere
amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione
degli interessi in conflitto, e' destinato in concreto a giustificare
ex  post  il  sacrificio  espropriativo  unicamente  in   base   alla
situazione di fatto illegittimamente determinatasi. 
    La preventiva  emersione  dei  motivi  d'interesse  generale  non
costituisce,   conclusivamente,   semplice   regola    procedimentale
disponibile dal legislatore,  ma  specifica  garanzia  costituzionale
strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra
l'imponente giurisprudenza, soprattutto  amministrativa,  secondo  la
quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un  semplice  atto
prodromico con l'esclusivo effetto di  condizionare  la  legittimita'
del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi  solo
congiuntamente a  quest'ultimo,  bensi'  un  provvedimento  autonomo,
idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella  sfera  giuridica
di terzi. I quali  si  riflettono  necessariamente  sul  piano  della
tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo  all'espropriando
di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e  quindi  di
contestarlo sin dal primo momento  del  suo  farsi,  coincidente  con
l'emersione dei motivi d'interesse generale. 
    Per converso, l'art. 42-bis, prescindendo dalla dichiarazione  di
p.u.,  autorizza  l'espropriazione  sostanziale  in  assenza  di  una
predeterminazione dei  motivi  d'interesse  generale  che  dovrebbero
giustificare il  sacrificio  del  diritto  di  proprieta',  reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del  proprietario  trovi
giustificazione nella situazione  di  fatto  venutasi  a  creare  per
effetto   del   comportamento   contra   ius    dell'Amministrazione,
consentendone l'acquisizione anche laddove tale procedura  sia  stata
violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il  rispetto
del  procedimento  tipizzato  dalla  legge  in  una   mera   facolta'
dell'Amministrazione. 
    In tal modo la dichiarazione di pubblica utilita' viene  relegata
al momento procedimentale  eventuale,  la  cui  assenza  puo'  essere
superata dal provvedimento di acquisizione che ne elimina  in  radice
la necessarieta'. 
    Cio' in contrasto, peraltro, anche con la  complessiva  e  rigida
disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso d.P.R. n. 327  del
2001,  che  nell'art.  2  ha  dichiarato  di  ispirarsi  proprio   al
«principio di legalita' dell'azione amministrativa»: dal momento  che
il potere sanante viene di fatto ad  esautorare  il  significato  dei
doveri,  obblighi  e   limiti   che   scandiscono   il   procedimento
espropriativo. Ed in contrasto soprattutto con  quella  specifica  da
capo 3° relativo alla «fase  della  dichiarazione  di  p.u.»  che  ha
istituito, in conformita' all'art. 97 Cost.  un  giusto  procedimento
che  riconosce  e  valorizza  il  ruolo  partecipativo  del   privato
proprietario (artt.  11  segg.),  reso  superfluo  dalla  contestuale
introduzione  di   un   meccanismo   «semplificato»;   parallelo   ed
alternativo, rimesso  a  scelte  insindacabili  dell'Amministrazione.
Alla quale in definitiva viene attribuito  il  potere  (di  volta  in
volta, e per ogni espropriazione), di recepire escludere le  garanzie
connesse al procedimento normale. Non e' sostenibile,  infatti,  che,
siccome l'adozione del provvedimento di e' subordinato ad una  previa
valutazione degli  interessi  conflitto  ed  al  fatto  che  il  bene
occupato  sia  utilizzato  per  scopi  d'interesse  generale,  queste
espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale  sinonimo  dei
«motivi di interesse generale» di cui all'art. 42 Cost., comma 3:  in
quanto il riferimento normativo alla valutazione degli  interessi  in
conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima  discrezionalita'
dell'Amministrazione espropriante, assolutamente privo di «elementi e
criteri  idonei  a  delimitarla  chiaramente»  (Corte  Costituzionale
38/1966), tanto che non  viene  descritto  alcun  parametro,  neppure
vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere  ancorata;
e neppure, viene  prefigurato  l'ingresso  nell'iter  decisionale  di
interessi privati che tale discrezionalita' possano in qualche misura
indirizzare o soltanto attenuare. Mentre e' lo stesso art. 42-bis  ad
escludere che generici ed indeterminati scopi di interesse generale -
che peraltro si  limitano  a  riprodurre  la  regola  per  cui  tutta
l'attivita'     dell'Amministrazione e'      istituzionalmente      e
necessariamente finalizzata ad interessi generali - coincidano con la
causa di pubblica utilita'  postulata  dalla  Costituzione  (e  dalla
Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato,
sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e
utilizzato da  una  pubblica  amministrazione:  e  quindi  la  stessa
situazione di fatto venutasi a creare per effetto  del  comportamento
contra  ius  di  quest'ultima.  E  dall'altro,  richiedendo  che   la
determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo  fine
di legittimarla ex post, peraltro attraverso passaggi  conoscitivi  e
valutativi  tutti  interni  all'apparato  amministrativo,  e  percio'
necessariamente soggettivi. A differenza  dei  «motivi  di  interesse
generale», i quali (Corte Costituzionale 95/1966 e 155/1995) «valgono
non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire
un interesse meramente privato, ma richiedono  anche  che  esso  miri
alla soddisfazione di effettive e specifiche esigenze  rilevanti  per
la comunita'»; e la cui identificazione deve «rinvenirsi nella stessa
legge che prevede la potesta' ablatoria;  come  anche  in  essa  puo'
trovarsi definita  soltanto  la  fattispecie  astratta  (a  mezzo  di
clausola generale)..» che ne implica poi l'individuazione in concreto
nell'ambito  di  un  procedimento  normativamente  predeterminato  (e
partecipato). Allorche', dunque, «il  programma  da  realizzare»  sia
ancora nella fase progettuale (comportante le  opportune  valutazioni
relative  a  collocazione,  caratteristiche  tecniche,   convenienza,
tutela ambientale ecc), precedente alla concreta lesione del  diritto
dominicale (Corte  Costituzionale  90/1966  citata):  soltanto  cosi'
potendosi garantire che il relativo  sacrificio  consegua  il  giusto
equilibrio con le reali esigenze della collettivita',  e  configurare
il comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio
di legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Cost. ed 1 Prot.  All.  1
alla CEDU). 
    Ma il rapporto di implicazione logica e  giuridica  tra  la  fase
delta dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento  coattivo,
assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente  alla
Legge fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde  evitare
che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla  sorte  dei  beni
espropriandi,  e  nel  contempo,  che  si  eseguano  opere  non  piu'
rispondenti, per il decorso  del  tempo  all'interesse  generale,  ha
attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia  fondamentale,  oggi
rispondente al principio di legalita' e  tipicita'  del  procedimento
ablativo, disponendo nel comma 1 che nel  provvedimento  dichiarativo
della pubblica utilita'  dell'opera  devono  essere  fissati  quattro
termini  (e  cioe'  quelli  di   inizio   e   di   compimento   della
espropriazione  e  dei  lavori);  e  stabilendo,  nel  comma  3,  che
«trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica  utilita'  diventa
inefficace». Sopravvenuta la  Costituzione,  questa  disposizione  ha
assunto rilevanza costituzionale, essendo stata collegata dalla Corte
Costituzionale (sent. 355/1985; 257/1988; 141/1992)  direttamente  al
principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere  espropriata
esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 Cost., comma
3),  tale  possibilita'  e'   connaturata   solo   all'esigenza   che
l'espropriazione avvenga per esigenze  effettive  e  specifiche:  che
valgano, cioe', a far  considerare  indispensabile  e  tempestivo  il
sacrificio  della  proprieta'  privata  in  quel  momento;   con   la
conseguenza che cio'  non  si  verificherebbe  ove  il  trasferimento
coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma  attualmente
ipotetica utilizzazione al servizio di specifici fini  idi  interesse
generale, ma privi di attualita' e di concretezza. 
    Da tale quadro  normativo,  la  giurisprudenza  tanto  ordinaria,
quanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute  e
non derogabili: A) che «la fissazione  di  tali  termini  costituisce
regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo»
(Cosi' Corte Costit. 257/1988); B)  che  la  loro  omessa  fissazione
comporta la giuridica inesistenza della  dichiarazione  di  p.u.  con
tutte le conseguenze sopra evidenziate:  prima  fra  tutte  che  tale
situazione non e' idonea a far sorgere  il  potere  espropriativo  e,
dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprieta'  sui  beni
espropriandi; e determina una situazione di  carenza  di  potere  che
incide (negativamente) sui  successivi  atti  e  comportamenti  della
procedura ablativa, piu' non consentendone l'adozione;  C)  che  tale
indicazione (ove non apposta direttamente dalla legge) deve  avvenire
nello stesso  atto  avente  «ex  lege»  valore  di  dichiarazione  di
pubblica utilita' dell'opera, e quindi nell'atto con cui e' approvato
il progetto di opera pubblica; ed il relativo onere non  puo'  essere
assolto mediante atti successivi, seppure in forma di convalida e  di
sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca illegittimita' del  primo
atto; D) che scaduti inutilmente i termini finali di cui all'art. 13,
si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento  il
procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare  attraverso  la
rinnovazione della dichiarazione di p.u. necessariamente richiedente,
come  prescritto  dalla  norma,  lo   svolgimento   ah   inizio   del
procedimento amministrativo strumentale di cui si e' detto, e  quindi
il  compimento  ex  novo  di  tutte  le  formalita'   previste   come
indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel  progetto,  con
la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi),  cosi'
come evoluta nelle more. 
    Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende
riunire  sia  gli  effetti  espropriativi,  sia  la  valutazione  del
pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai  termini  dell'art.
13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto
la  norma  non  indica  alcun  limite  temporale   entro   il   quale
l'Amministrazione  debba  esercitare  il  relativo  potere:   percio'
esponendo  il   diritto   dominicale   su   di   esso   al   pericolo
dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di  tempo;
ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost.,  avanti
manifestati,  per  il  regime  discriminatorio   provocato   tra   il
procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata
all'efficacia  della  dichiarazione  di  pubblica   utilita'   (nella
disciplina  del  T.U.,  anche  a  quella  del   vincolo   preordinato
all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine
titulo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione. 
    6 - La  nuova  operazione  sanante  -  in  tutte  le  fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella  di  utilizzazione  del
bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace  provvedimento
di esproprio» - presenta poi, numerosi  ed  insuperabili  profili  di
affida - non risolvibili in via ermeneutica  -  con  le  norme  della
CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.). 
    La quale, del resto, come gia' rilevato dalla Corte di Cassazione
(Cass. 18239/2005; 20543/2008), si e' gia' pronunciata in tali sensi,
esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art.  43  T.U.,
interamente  riprodotto  nell'impianto  del  meccanismo   traslativo,
dall'attuale art. 42-bis. Il  suo  fulcro  qualificante e'  ravvisato
infatti nella prospettiva che la restituzione  dell'immobile  privato
utilizzato per scopi di p.i., secondo le direttive della Convenzione,
possa essere evitata soltanto a seguito di  un  legittimo  e  formale
provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e
che deve, a sua  volta,  trovare  giustificazione  non  piu'  in  una
situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale,  ma  in  una
previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti  presupposti
e' apparsa al legislatore necessaria e nel contempo  sufficiente  per
garantire il «rispetto dei parametri imposti dalla  Corte  europea  e
dai   principi   costituzionali»:   anche   per   l'obbligo   imposto
all'autorita'  amministrativa   di   «valutare   gli   interessi   in
conflitto», e percio' di  «mantenere  il  giusto  equilibrio  tra  le
esigenze dell'interesse generale della  comunita'  e  gli  imperativi
della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo». 
    Il  quadro  normativo   prospettato   dalla   Corte   EDU   nella
interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima
afferma il  principio  generale  di  rispetto  della  proprieta';  la
seconda consente la privazione della proprieta' solo alle  condizioni
indicate; la terza riconosce agli Stati  il  potere  di  disciplinare
l'uso dei beni in  conformita'  all'interesse  generale  muove  dalla
regola che, per determinare se vi sia stata privazione  dei  beni  ai
sensi della seconda norma, occorre non solo  verificare  se  vi  sono
stati spossessamento o espropriazione formale, ma anche  guardare  al
di la' delle  apparenze  ed  analizzare  la  reaIta'  della  concreta
fattispecie, onde stabilire se essa equivalga ad un'espropriazione di
fatto o indiretta, atteso che  la  CEDU  mira  a  proteggere  diritti
«concreti ed effettivi» (tra le tante, Papamichalopoulos  c.  Grecia,
24 giugno 1993; Acciardi  c.  Italia,  19  maggio  2005;  Cadetta  c.
Italia, 15 luglio 2005; De  Angelis  c.  Italia,  21  dicembre  2006;
Pasculli c. Italia, 4  dicembre  2007).  Per  cui  ha  dichiarato  in
radicale    contrasto    con    la    Convenzione    il     principio
dell'«espropriazione indiretta», con la quale il trasferimento  della
proprieta' del bene dal privato alla p.a.  avviene  in  virtu'  della
constatazione della situazione di illegalita' o  illiceita'  commessa
dalla stessa  Amministrazione,  con  l'effetto  di  convalidarla,  di
consentire a quest'ultima di  trame  vantaggio,  nonche'  di  passare
oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il  rischio
di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. 
    E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente  inserito
non  soltanto  l'ipotesi   corrispondente   alla   c.d.   occupazione
espropriativa, ma tutte  indistintamente  le  fattispecie  (sent.  19
maggio  2005,  Acciardi)   di   «perdita   di   ogni   disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e  con
conseguenze  assai  gravi  per  il  proprietario  che   subisce   una
espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al  rispetto
dei propri beni»: ritenendo ininfluente «che  una  tale  vicenda  sia
giustificata soltanto dalla  giurisprudenza,  ovvero  sia  consentita
mediante disposizioni legislative, come avvenuto con la legge n.  458
del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U.,  in  quanto
il principio di legalita' non  significa  affatto  esistenza  di  una
norma  di  legge  che  consenta  l'espropriazione  indiretta,  bensi'
esistenza di norme giuridiche interne  sufficientemente  accessibili,
precise e prevedibili». Con la conseguenza che il  supporto  di  «una
base  legale  non  e'  sufficiente  a  soddisfare  al  principio   di
legalita'»  e  che  «e'  utile  porre  particolare  attenzione  sulla
questione della  qualita'  della  legge»  (sent.  Acciardi  cit.  75;
Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che  al
nuovo  istituto  del  T.U.  i  giudici  di  Strasburgo  hanno   mosso
l'addebito  di  non  aver  neppure  escluso,  come  aveva  fatto   la
giurisprudenza  ordinaria,  che  l'espropriazione  indiretta  potesse
applicarsi quando la  dichiarazione  di  p.u.  sia  stata  annullata,
avendo previsto «che anche in assenza  della  dichiarazione  di  p.u.
qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio  pubblico,  se
il giudice  decide  di  non  ordinare  la  restituzione  del  terreno
occupato e trasformato dall'amministrazione»  (CEDU,  Sciarrotta,  12
gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006;  Serrao,  13  ottobre  2005;
Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S. Cerro e/Italia, cit.  par.
76-80). 
    In tale ottica diviene del tutto indifferente  per  escludere  la
ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto al
rispetto dei propri beni  e  ripristinare  la  legalita',  l'adozione
postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti,  perche'  il
requisito della legalita' secondo  la  Corte  Edu  non  permette  «in
generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo
irreversibilmente di tal maniera da considerarlo acquisito patrimonio
pubblico, senza che  contestualmente  un  provvedimento  formale  che
dichiari il trasferimento di proprieta' sia stato emanato»  (Cfr.  in
particolare decisioni 17  maggio  2005,  Pasculli;  19  maggio  2005,
Acciardi e Campagna; 11 ottobre  2005,  La  Rosa;  11  ottobre  2005,
Chiro'; 12  ottobre  2005,  Scordino;  13  ottobre  2005,  Serrao;  7
novembre 2005, Istituto diocesano; 12 gennaio  2006,  Sciarrotta;  23
febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio;  9  gennaio  2009,
Sotira).  Il  contrasto  con  la  Convenzione  dipende,  allora,  dal
riconoscimento nel nostro  ordinamento  -  «en  vertu  d'un  principe
jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43» - di effetti
traslativi all'occupazione e successiva modifica  meramente  fattuale
di un terreno senza che sussista un  atto  formale  che  dichiari  il
trasferimento della proprieta' «intervenant au plus tard  au  moment»
in cui il proprietario ha perduto ogni  potere  sull'immobile:  cosi'
come, del resto, oltre un secolo prima aveva richiesto  la  legge  n.
2359 del 1865, art. 50. Percio' inducendola  a  concludere  che  ogni
forma di espropriazione indiretta in ogni caso «n'a pas pour effet de
regulariser  la  situation  denoncee»,  ne'  tanto  meno  quello   di
costituire «un'alternativa ad un'espropriazione  in  buona  e  dovuta
forma» (CEDU, 4, 15 novembre 2005,  La  Rosa;  3,  12  gennaio  2006,
Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro). 
    La  «legalizzazione   dell'illegale»   non   e'   conclusivamente
consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di
legge,  tanto  meno  ad  un  provvedimento  amministrativo  di   essa
attuativo, quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante (Ucci,
22 giugno 2006; Cerro sas; 23 maggio  2006;  De  Sciscio,  20  aprile
2006;  Dominici,  15  febbraio  2006;  Serrao,   13   gennaio   2006;
Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005;  Scordino,  17
maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche  Corte
Costituzionale n. 293/2010, per la quale «non e' affatto  sicuro  che
la  mera  trasposizione  in  legge  di  un  istituto,   in   astratto
suscettibile   di   perpetuare   le   stesse   negative   conseguenze
dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere
il grave vulnus al principio di legalita'». Sicche' il  ritorno  alla
via legale, come specificamente  suggerito  dalla  stessa  Corte  Edu
(sent. 6 marzo 2007, Scordino 3,  cfr.  anche,  I,  13  luglio  2006,
Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni)  allo  Stato  italiano  onde  evitare
ulteriori condanne, deve essere perseguito non regolarizzando ex post
occupazioni gia' illegittime, bensi', anzitutto, in  via  preventiva,
consentendo alla p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto
se - e dopocche' - abbia gia'  conseguito  un  legittimo  titolo  che
autorizzi l'ingerenza; ed in  caso  in  cui  cio'  non  sia  avvenuto
«eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e
per principio la restituzione del terreno», peraltro «in analogia con
altri ordinamenti europei» (Corte Cost. 293/2010 cit.). 
    Il principio di legalita' non e', infine, recuperabile  in  forza
dei bilanciamenti e  delle  comparazioni  tra  interessi  pubblici  e
privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone
l'acquisizione:  avendo  la  Corte  EDU  affermato  fin  dalla   nota
decisione Belvedere - Alberghiera del 30  maggio  2000,  nella  quale
l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva  dato
precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita'  alla
realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur
mancante di dichiarazione di  p.u.  perche'  annullata  dallo  stesso
giudice  amministrativo),  che  la  necessita'  di   esaminare   tale
questione e' inattuabile  in  caso  di  ingerenza  illegittima  nella
proprieta'  (in  cui  la  Convenzione  privilegia   quello   privato,
postulandone comunque la reintegrazione), ma «puo' porsi  soltanto  a
condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio  di
legalita' e non sia  risultata  arbitraria».  Sicche'  ha  egualmente
condannato lo Stato italiano non certamente  per  l'assenza  (allora)
nell'ordinamento interno  di  una  norma  con  valore  sanante  della
illegittimita' della procedura ablativa, ma perche' «la decisione del
Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita'  di
ottenere  la  restituzione  del   suo   terreno....che   per   essere
compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa
di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla  legge  e  dai
principi di diritto internazionale»  (  54  e  55;  nonche'  Ucci  c.
Italia,  22  giugno  2006).  E  d'altra  parte,  poiche'   la   norma
attribuisce ad uno dei due portatori dell'interesse  in  conflitto  -
ovvero alla  P.A.  responsabile  dell'illecito  ed  interessata  alla
acquisizione dell'immobile - il potere  di  comparare  gli  interessi
suddetti (CEDU, 3, 9 febbraio 2006, Prenna), e, quindi la  scelta  di
restituirlo ovvero di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile,
il suo assetto reale non dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva)
trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale indisponibile,  ma
viene affidato esclusivamente alla volonta' dell'Amministrazione  per
quanto detto, senza neppure limiti temporali - di ricorrere al  nuovo
istituto; nonche', in  caso  di  impugnazione  del  provvedimento  di
acquisizione,   alla   pronuncia   del   giudice    amministrativo di
consentirne o escluderne la restituzione: con conseguente  incertezza
ed imprevedibilita' della situazione giuridica fino al momento  della
sentenza definitiva. Il che ha indotto  i  giudici  di  Strasburgo  a
rilevare, con la piu'  qualificata  dottrina,  che  con  tale  regime
scompare anche quel minimo di prevedibilita' che un sistema normativo
e' tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneita' della  base  legale  su
cui  si  fonda  la  consentita  compromissione  della  proprieta'  ad
assicurare  il  sufficiente  grado  di   certezza   postulato   dalla
Convenzione  attraverso  «l'esistenza  di  norme  giuridiche  interne
sufficientemente accessibili, precise e dagli effetti prevedibili»; e
rende l'istituto nuovamente incompatibile  con  la  Convenzione  «non
potendosi escludere  il  rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o
arbitrario» (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De
Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese). 
    La Corte europea, pur non escludendo che in  materia  civile  una
nuova normativa possa avere efficacia retroattiva,  ha  ripetutamente
considerato lecita l'applicazione dello  ius  superveniens  in  causa
soltanto in presenza di  «imperieux  motifs  d'interet  general»;  ed
affermato che in ogni altro caso essa si  concreta  nella  violazione
del principio di legalita' nonche' del diritto ad  un  processo  equo
perche'  consente  al  potere   legislativo   di   introdurre   nuove
disposizioni specificamente dirette  ad  influire  sull'esito  di  un
giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica),
ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale
la  controparte  poteva  legittimamente  aspirare   al   momento   di
introduzione della lite  (cfr.  sentenza  della  Grande  Chambre,  28
ottobre 1999, Zielinski; nonche' Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003,
proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio  2004;
nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78). 
    Questa situazione -  gia'  posta  in  evidenza  dalla  Cassazione
vigente  l'incostituzionale   art.   43   T.U.   (Cass.   21867/2011;
20543/2008; sez. un. 26732/2007)  -  si  e'  riproposta  proprio  per
effetto dell'art. 42-bis, il  quale,  malgrado  la  precisazione  del
primo comma che l'atto di acquisizione e'  destinato  a  non  operare
retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei rilievi espressi da
Corte Costituzionale n. 293 del 2010), con la menzionata disposizione
ha confermato la possibilita' dell'Amministrazione di  utilizzare  il
provvedimento sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in
vigore ed anche se vi e' gia' stato un provvedimento di  acquisizione
successivamente ritirato o annullato: in conformita' del  resto  alla
finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via
di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a  verificare  nel
corso degli anni (anche pregressi). 
    7 - Infine,  neanche  l'indennizzo/risarcimento  stabilito  quale
corrispettivo  dell'acquisizione   risulta   esente   da   dubbi   di
legittimita' costituzionale, in quanto l'alt.  42-bis,  comma  3,  ne
fissa i seguenti parametri: «Salvi i casi in cui  la  legge  disponga
altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale  di  cui  al
comma 1 e' determinato misura corrispondente  al  valore  venale  del
bene utilizzato per scopi di pubblica utilita'  e,  se  l'occupazione
riguarda  un  terreno  edificabile,  sulla  base  delle  disposizioni
dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7». 
    Sennonche'  la  Corte  costituzionale   (sent.   369/1996),   nel
dichiarare l'incostituzionalita' della legge n. 549 del 1995, art. 1,
comma 65, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento  del  danno
da occupazione acquisitiva a  quella  dell'indennizzo  espropriativo,
aveva affermato che ".. e' innegabile, in primo luogo, la  violazione
che ne  deriva  del  precetto  di  eguaglianza,  stante  la  radicale
diversita'  strutturale  e  funzionale   delle   obbligazioni   cosi'
comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo  -  obbligazione
ex lege per atto legittimo - costituisce il punto di  equilibrio  tra
interesse pubblico alla  realizzazione  dell'opera  e  interesse  del
privato alla conservazione del bene, la  misura  del  risarcimento  -
obbligazione ex delicto - deve realizzare il diverso  equilibrio  tra
l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera gia' realizzata e  la
reazione  dell'ordinamento  a  tutela  della  legalita'  violata  per
effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato.  E
quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca  (ex  art.  3
Cost.), poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse  pubblico
e' gia' essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene
e dalla  conservazione  dell'opera  pubblica,  la  parificazione  del
quantum risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un
di  piu'  che  sbilancia  il  contemperamento  tra   i   contrapposti
interessi,  pubblico  e  privato,  in  eccessivo  favore  del  primo»
(considerazioni analoghe  si  rinvengono  nelle  decisioni  442/1993;
188/1995; 148/1999; 349/2007). Nel caso, i  ricordati  principi  sono
stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto
indennizzo debba essere sempre  e  comunque  commisurato  «al  valore
venale del bene utilizzato», il legislatore: 
        a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento
di acquisizione sanante un trattamento deteriore rispetto  a  quelli,
che in mancanza di detto provvedimento sono  ammessi  a  chiedere  la
restituzione dell'immobile insieme al  risarcimento  del  danno,  pur
quando destinatari di una  medesima  occupazione  abusiva  in  radice
(c.d. usurpativa): in quanto soltanto a questi ultimi  e'  consentito
ottenere  l'intero  risarcimento  del  danno  sofferto,  in  base  ai
parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente  e  del  lucro
cessante (utili, occasioni e vantaggi che il  proprietario  provi  di
aver perduto dalla mancata disponibilita' del bene: Cass. 14609/2012;
4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); 
        b) tale trattamento resta inferiore  pur  nel  confronto  con
l'espropriazione legittima dello  stesso  immobile,  in  quanto,  ove
avente destinazione edificatoria, non e' riconosciuto  l'aumento  del
10% di cui al T.U., art. 37, comma (non richiamato dalla  norma),  se
l'accordo di cessione e' stato concluso, se non e' stato concluso per
fatto non imputabile all'espropriato o  se  l'indennita'  provvisoria
attualizzata e' inferiore all'80% di quella definitiva:  e  quindi  a
maggior  ragione  se  nessuna  indennita'  viene  offerta,  come   e'
peculiare del procedimento di  cui  all'art.  42-bis.  Mentre  se  il
terreno e' agricolo non e' applicabile il precedente art. 40, comma 1
che impone di tener conto (Cfr. Corte Costituzionale 181/2011)  delle
colture  effettivamente  praticate  sul  fondo  e  «del  valore   dei
manufatti  edilizi  legittimamente  realizzati,  anche  in  relazione
all'esercizio dell'azienda agricola» (Cass.  23967/2010;  10217/2009;
11782/2007;  4848/1998):  nel  caso  specificamente   richiesto   dai
ricorrenti titolari di un'azienda agricola,  che  in  conseguenza  di
un'espropriazione  rituale  avrebbero  avuto  diritto  all'inclusione
nell'indennita' anche del relativo pregiudizio; 
        c) incorre in una disparita' piu' palese  con  il  regime  di
quest'ultima   laddove   non   considera   affatto    l'ipotesi    di
espropriazione  parziale;  e  non  consente  di  tener  conto   della
diminuzione di valore del  fondo  residuo,  invece  indennizzata  fin
dalla legge n. 2359  del  1865,  art.  40  (anche  nelle  ipotesi  di
occupazione appropriativa: Cass.  8197/2012;  591/2008;  24435/2006),
ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; 
        d) ha trasformato il precedente  regime  risarcitorio  in  un
indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura
di debito di valuta non automaticamente soggetto  alla  rivalutazione
monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A differenza del risarcimento da
espropriazione e/o occupazione illegittime,  costituente  credito  di
valore, che deve essere liquidato alla stregua  dei  valori  monetari
corrispondenti  al  momento  della  relativa  pronuncia,  sicche'  il
giudice deve tenere conto della svalutazione  monetaria  sopravvenuta
fino alla decisione, finche di ufficio,  a  prescindere  dalla  prova
della  sussistenza  di  uno  specifico  pregiudizio  dell'interessato
dipendente  dal  mancato  tempestivo  conseguimento   dell'indennizzo
medesimo (tra tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004). 
    Tale  natura  risarcitoria  sembra  invece  mantenuta   dall'art.
42-bis, comma 3, al  corrispettivo  per  il  periodo  di  occupazione
illegittima antecedente al provvedimento  di  acquisizione  («Per  il
periodo  di  occupazione   senza   titolo e'   computato   a   titolo
risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova  di
una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo
sul valore determinato ai sensi del  presente  comma):  tuttavia  pur
esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a  quelli
cui e' commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione  temporanea
dell'immobile.  In  quanto:  a)  il  parametro  base  e'   costituito
dall'interesse  del  cinque  per  cento  annuo  sul   valore   venale
dell'immobile stimato ai fini dell'indennizzo, percio' corrispondente
a circa 1/20 del suo  valore  annuo.  Laddove  l'art.  50  del  T.U.,
recependo analoga disposizione contenuta nella legge n. 865 del 1971,
art. 20 stabilisce in tutti i casi di  occupazione  legittima  di  un
immobile che «e' dovuta al proprietario una indennita' per ogni  anno
pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di  esproprio
dell'area, e, per ogni mese o frazione di mese, una  indennita'  pari
ad un dodicesimo di quella  annua»:  percio'  corrispondente  ad  una
redditivita'   predeterminata   piu'   elevata   misura   percentuale
dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b)  il  richiamo
all'indennita' di espropriazione consente altresi' l'applicazione del
principio consolidato nella  giurisprudenza  di  legittimita'  (Cass.
21352/2004; sez. un. 10502/2012;  24303/2010),  che  nell'ipotesi  di
espropriazione  parziale  la  percentuale  suddetta  vada   calcolata
sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto  anche  del
decremento  di  valore  subito  dalla  parte  dell'immobile   rimasta
proprieta' dell'espropriato: invece  non  autorizzato  dal  parametro
rigido contenuto nell'art. 42-bis, comma 3. 
    Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma  non
consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla  Corte  EDU
al  legislatore  nazionale,  che  pure  il  meccanismo  riduttivo  di
determinazione  dell'indennizzo/risarcimento  da  occupazione   senza
titolo  consente  all'espropriante,  che  omette   di   svolgere   il
procedimento previsto dalla legge,  di  avvantaggiarsi  ulteriormente
del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dal corrispondere una
Porzione del ristoro dovuto nel  caso  di  occupazione/espropriazione
legittime: percio' non  favorendo  la  buona  amministrazione  e  non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita'. 
    Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente
infondate le questioni di legittimita' costituzionale riguardanti  il
d.P.R. n. 327 del 2001, art. 42-bis: 
        per contrasto con  il  precetto  di  eguaglianza  nonche'  di
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost. sotto ciascuno  dei
diversi profili di cui in motivazione,  involgenti  anche  l'art.  24
Cost.; 
        per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42
Cost. a tutela della proprieta' privata, nonche' con il principio  di
legalita' dell'azione amministrativa contenuto negli art.  97  e  113
Cost.: sotto i diversi profili di cui in motivazione; 
        per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla  luce
dell'art. 6 e dell'art. 1 del 1° prot. add. della Convenzione europea
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto i  diversi
profili  di  cui  motivazione,  con  cui  se  ne  e'  evidenziata  la
disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche' del  diritto  al
rispetto dei propri beni,  violazione  dei  vincoli  derivanti  dagli
obblighi internazionali. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Roma - Sezione
Seconda, non definitivamente decidendo sul ricorso n. 7291/2009  R.G.
come in epigrafe proposto, cosi' statuisce: 
        dichiara  rilevante  e  non   manifestamente   infondata   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  42-bis  del  T.U.
delle Espropriazioni per Pubblica Utilita' approvato  con  d.P.R.  n.
327 del 2001, introdotto dall'art. 34 del d.l. 6 luglio 2011, n.  98,
convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111,  per
contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 24,  42,
97, Costituzione, nonche' per contrasto con l'art. 117  cost.,  comma
1, anche alla luce  dell'art.  6  e  dell'art.  1  del  1  Protocollo
Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo  e  delle
Liberta' Fondamentali, resa esecutiva con legge  4  agosto  1955,  n.
848; 
        dispone  la  sospensione   del   presente   giudizio   e   la
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
        dispone che la presente  ordinanza  sia  notificata,  a  cura
della Segreteria, alle parti costituite e al Presidente del Consiglio
dei ministri, ed inoltre comunicata al Presidente  della  Camera  dei
Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica. 
    Cosi' deciso in Roma nella  camera  di  consiglio  del  giorno  2
aprile 2014 con l'intervento dei magistrati: 
        Luigi Tosti, Presidente; 
        Elena Stanizzi, Consigliere, Estensore; 
        Carlo Polidori, Consigliere. 
 
                     Il Presidente: Luigi Tosti 
 
 
                                          L'estensore: Elena Stanizzi