N. 240 ORDINANZA 22 ottobre 2014

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Procedimento  civile  -  Equa  riparazione   per   violazione   della
  ragionevole durata del processo - Misura dell'indennizzo. 
- Legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in  caso
  di violazione del  termine  ragionevole  del  processo  e  modifica
  dell'articolo 375 del codice  di  procedura  civile),  art.  2-bis,
  comma 3. 
-   
(GU n.45 del 29-10-2014 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giuseppe TESAURO; 
Giudici  :Paolo  Maria   NAPOLITANO,   Giuseppe   FRIGO,   Alessandro
  CRISCUOLO, Paolo  GROSSI,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Sergio  MATTARELLA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo
  CORAGGIO, Giuliano AMATO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis, comma
3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di  equa  riparazione
in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell'articolo 375 del codice di  procedura  civile),  promossi  dalla
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, con ordinanze del
27 e del 30 settembre, del 3 e del 18 ottobre, del  7,  del  15  (due
ordinanze) e del 28 (tre ordinanze) novembre, del 10 giugno,  del  31
ottobre, del 28 novembre, del 20 e del 30 dicembre, del  25  novembre
(tre ordinanze) 2013, rispettivamente iscritte ai nn. da 44 a 61  del
registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica nn. 16, 17, 18 e 19, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  L.P.,  nonche'   l'atto   di
intervento  di  Cittadinanzattiva  e  gli  atti  di  intervento   del
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2014 il  Giudice
relatore Sergio Mattarella. 
    Ritenuto che, con ordinanza del 27 settembre 2013 (r.o. n. 44 del
2014), la Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione  civile,  nella
persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda  di
equa riparazione in caso di violazione del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha sollevato, in riferimento  all'art.  117  della  Costituzione,  in
relazione  all'art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la
legge  4  agosto  1955,  n.  848   (d'ora   in   avanti:   «CEDU»   o
«Convenzione»), questione di legittimita' costituzionale del comma  3
dell'art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo  e  modifica  dell'articolo  375  del  codice  di  procedura
civile), articolo aggiunto dall'art. 55, comma  1,  lettera  b),  del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita
del Paese), convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 7 agosto 2012, n. 134; 
    che ad avviso del giudice a quo, tale  impugnata  disposizione  -
secondo cui: «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al  comma  1
[che prevede, a sua volta, che: «Il giudice liquida a titolo di  equa
riparazione una somma di denaro, non  inferiore  a  500  euro  e  non
superiore a  1.500  euro,  per  ciascun  anno,  o  frazione  di  anno
superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo»], non puo' in ogni caso essere superiore  al  valore  della
causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»  -
viola il parametro invocato «nella parte  in  cui  limita  la  misura
dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che  abbia  subito
un danno per la durata irragionevole  del  processo  presupposto)  al
"valore del diritto accertato" senza alcuna ulteriore  specificazione
o limite, comportando in tal modo l'impossibilita'  di  liquidare  in
alcuna misura un'equa riparazione in  favore  della  parte  che,  nel
processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 5 agosto 2013, con il quale
O.L.  aveva  chiesto  l'indennizzo  del  danno  subito  per   effetto
dell'irragionevole durata di un processo; b) che  il  ricorrente  nel
giudizio  a  quo  era  risultato  interamente  soccombente  in  detto
processo presupposto,  definito  con  una  decisione,  emessa  il  27
novembre-11 dicembre 2012, divenuta irrevocabile; c) che  la  domanda
di riparazione  era  stata  proposta  nel  rispetto  del  termine  di
decadenza previsto dall'art. 4, comma 1, della legge n. 89 del  2001;
d)  che  il  processo  presupposto,  articolatosi  in  due  gradi  di
giudizio, aveva avuto una durata effettiva di diciannove anni, undici
mesi e venti giorni, eccedente, percio', di quattordici anni,  undici
mesi e venti giorni il  termine  ragionevole  stabilito  dagli  artt.
2-bis e 2-ter (recte: dai commi 2-bis  e  2-ter  dell'art.  2)  della
legge n. 89 del 2001; 
    che  il  medesimo  giudice  rimettente  espone  poi  le  seguenti
considerazioni in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza
della questione sollevata; 
    che egli premette  anzitutto  che  la  soccombenza  nel  giudizio
presupposto e' espressamente prevista come  causa  di  rigetto  della
domanda di equa  riparazione  solo  nel  caso  in  cui  ricorrano  le
ulteriori condizioni  previste  dalle  lettere  a)  e  b)  del  comma
2-quinquies dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001 o quando la  parte
soccombente nel giudizio presupposto abbia «posto in essere un  abuso
di  poteri  processuali  che  abbia   determinato   un'ingiustificata
dilatazione  dei  termini  del  procedimento»,  sicche'  persiste  la
«legittimazione  in  capo  [a  detta]  parte  [...]  a  far  valutare
l'eventuale sussistenza d'una lesione del suo diritto a conseguire in
un  tempo  ragionevole  una  pronuncia  risolutiva  della   questione
controversa»; 
    che il comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, che ha
introdotto  un  tetto  massimo   o   valore   soglia   della   misura
dell'indennizzo, «in quanto  non  coordinato  con  [detto]  superiore
principio», farebbe insorgere i seguenti due problemi  interpretativi
che,  in  quanto  reciprocamente  interdipendenti,   necessitano   di
soluzioni tra loro coerenti: a) il  significato  da  attribuire  alla
locuzione  "valore  del  diritto  accertato  dal  giudice";  b)   «se
l'introduzione d'un tetto massimo  all'indennizzo  liquidabile  [...]
valga per tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto  e  per
tutte le parti di esso (qualora, ovviamente, promuovano un ricorso ex
lege Pinto)»; 
    che, quanto al primo dei problemi segnalati,  il  giudice  a  quo
osserva che: a) il parametro  del  "valore  del  diritto  accertato",
ancorche' suppletivo, prevale rispetto  a  quello  del  valore  della
causa, qualora in concreto sia inferiore a quest'ultimo; b)  al  fine
di individuare il parametro primario del valore della causa, il  solo
riferimento e' quello alla disciplina della determinazione del valore
della controversia dettata dagli articoli da 7 a 17 cod. proc.  civ.;
c) mentre per la cause  di  valore  determinato  o  determinabile  il
limite dell'indennizzo costituito  dal  valore  della  causa  sarebbe
agevolmente individuabile, per le cause di valore indeterminabile «e'
dubbio se debba applicarsi il criterio per cui la causa avra'  valore
entro il tetto massimo di competenza del giudice adito (soluzione che
potrebbe operare peraltro soltanto per le  cause  di  competenza  del
giudice di pace) o quello aliunde determinato ai sensi degli artt. 10
e ss., ovvero se la predetta disposizione non  trovi  applicazione  e
quindi l'indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba,  in
tali ipotesi, incontrare  alcun  tetto  massimo»;  d)  l'epilogo  del
procedimento  presupposto,  in  particolare  la  soccombenza  di  chi
successivamente proponga domanda di  equa  riparazione,  rileva  come
elemento per stabilire il limite massimo  della  misura  in  concreto
dell'indennizzo; e) «in subiecta materia notoriamente e' ammesso  che
sussiste  un  pregiudizio  in  re  ipsa,   suscettibile   dunque   di
quantificazione equitativa», con  la  conseguenza  che  non  potrebbe
affermarsi ne' che e' onere  del  ricorrente  dedurre  e  provare  se
sussista e quale sia, nella specie, il  valore  "soglia"  di  cui  al
comma 3 dell'art.  2-bis,  ne'  che,  in  difetto  di  allegazione  o
deduzione di elementi  idonei  a  consentire  l'individuazione  dello
stesso,  cio'  comporterebbe  l'inammissibilita'  o  il  rigetto  del
ricorso (trovando applicazione, in virtu' del rinvio ad essi  operato
dal secondo periodo del comma 4 dell'art. 3 della  legge  n.  89  del
2001, i primi due commi dell'art. 640 cod. proc. civ.); e) mentre, ai
fini della competenza, la legge fa riferimento, per la determinazione
del valore della causa, al petitum (o ai petita), la legge n. 89  del
2001 fa riferimento al valore ritenuto nella decisione,  ragione  per
cui «va chiarito quale sia l'effettivo contenuto  prescrittivo  della
disposizione»; 
    che, quanto al secondo dei problemi segnalati, secondo  la  Corte
rimettente andrebbe verificato se la disposizione  censurata  integri
un'ulteriore causa di eventuale esclusione dell'indennizzo, ancorche'
non  indicata  come  tale,  «nel  senso  che   nulla   possa   essere
riconosciuto all'istante nel caso in  cui  il  diritto  dallo  stesso
asseritamente vantato sia fatto  valere  in  giudizio  ma  sia  stato
affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se  qualora  il
ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto e detto giudizio abbia  avuto  durata  irragionevole,  la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto
ad equo indennizzo»; 
    che, a fronte  di  tale  problema,  sussisterebbero,  secondo  il
rimettente, «almeno» le tre seguenti opzioni praticabili:  a)  quella
ora indicata per prima che, pur se apparentemente  in  contrasto  con
l'orientamento della Corte europea dei diritti dell'uomo (di seguito:
«Corte EDU») secondo cui anche la parte  interamente  soccombente  ha
diritto all'equa soddisfazione nel caso di durata  irragionevole  del
processo, sarebbe praticabile in quanto: a.1)  quella  «probabilmente
[...] piu' coerente con l'esigenza calmieratrice» alla quale  avrebbe
inteso rispondere l'art. 55  del  d.l.  n.  83  del  2012;  a.2)  «in
sintonia [...] con alcuni spunti offerti dalla relazione introduttiva
del testo del disegno di legge poi [...]  approvato  dal  Parlamento»
(in particolare, con il rilievo da essa attribuito  alla  «necessita'
d'arginare la presunzione di dannosita' della prolungata durata di un
processo in modo che non divenga assoluta, ma rimanga iuris  tantum»;
a.3) coerente con la ratio sottostante alle disposizioni dell'art. 2,
comma 2-quinquies, della lettera a) del comma  2  dell'art.  2-bis  e
dell'art. 4 della legge  n.  89  del  2001;  b)  quella  secondo  cui
l'indennizzo e' riconosciuto anche al ricorrente  che  sia  risultato
totalmente soccombente nel giudizio presupposto - salve le  cause  di
esclusione espressamente previste - «ma pure che  esso  debba  essere
commisurato entro il range normativamente stabilito - tra i 500 ed  i
1500 euro per anno (o frazione) - e comunque con  le  limitazioni  di
soglia o di tetto massimo dettate dall'art. 2-quinquies comma 3 (come
a dire che non solo il vittorioso nel giudizio presupposto  ma  anche
il  soccombente  incontrera'  un  limite  quantitativo  alla  pretesa
riconoscibile»; c) quella in base alla quale «in detta liquidazione a
pro del totale soccombente il valore  soglia  suddetto  non  dovrebbe
operare (perche' non v'e' a suo favore riconoscimento d'alcun diritto
al cui valore parametrare tale tetto massimo); ma e' palese che tanto
implicherebbe una diversificazione di trattamento (con esito premiale
per  il  soccombente  e  penalizzante  per  il  vittorioso  parziale)
difficilmente compatibile con i principi costituzionali d'uguaglianza
e ragionevolezza»; 
    che, secondo il rimettente, la  seconda  delle  opzioni  indicate
sarebbe quella piu' coerente con il costante  indirizzo  della  Corte
EDU e con la lettera  della  legge  e,  per  tale  ragione,  andrebbe
«tendenzialmente preferita, poiche' se il legislatore  avesse  voluto
anche in tale ipotesi derogarvi (in  ossequio  a  principi  superiori
d'ordinamento,  quali  quelli  d'uguaglianza  e  di   ragionevolezza)
avrebbe potuto e dovuto prevederlo»; 
    che tuttavia, prosegue la Corte  d'appello  di  Reggio  Calabria,
occorre ugualmente chiarire cosa debba  intendersi  per  "valore  del
diritto accertato dal giudice"; 
    che, al riguardo, il giudice a quo afferma che: a) «assumere  che
il valore di soglia massima sia applicabile per il solo caso  in  cui
il ricorrente ex lege  n.  89  del  2001  sia  stato  sostanzialmente
vittorioso (in  tutto  o  in  parte)  nel  giudizio  presupposto  non
risulta, in difetto  d'espresse  clausole  limitative,  ammissibile»,
tenuto  conto  anche  che  la  disposizione  in  esame  deve   essere
coordinata con il comma 2 dell'art. 2-bis, «che a tanto non fa  alcun
riferimento», nonche' del fatto che l'accertamento  della  violazione
del diritto alla ragionevole durata del processo dipende non solo  da
quanto accade nel corso dello stesso (come sembrerebbe dalla  lettura
del comma 2 dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001), ma anche dal suo
esito (occorrendo verificare che non ricorrano le ipotesi di espressa
esclusione dal riconoscimento dell'indennizzo); b)  «opinare  che  la
superiore  lettera  possa  interpretarsi  nel  senso  di  aver  fatto
riferimento  alla  vittoriosita'  o   alla   soccombenza   in   senso
processuale e non  sostanziale  (equiparando  cosi'  l'una  all'altra
delle due parti del  giudizio  presupposto)  non  sembra  discutibile
tanto sotto il profilo  dell'equita'  sostanziale,  quanto  sotto  il
profilo del rigore  formale  dell'interpretazione»,  considerato  che
«non appare [...]  concettualmente  scorretto  legittimare,  in  tali
eventualita',  l'impiego  quale   valore   di   soglia   massima   di
liquidazione - in via suppletiva rispetto a  quello  del  valore  del
diritto riconosciuto (che non c'e' perche' la  sentenza  "rigetta"  o
dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda)  -
quello del valore "positivo" che il giudizio  abbia  comunque  recato
alla parte processualmente  vittoriosa:  avendo  infatti  il  diritto
negato all'uno un rilievo concreto  economicamente  correlabile  alla
sfera giuridica dell'altro (nel senso che il convenuto  nel  giudizio
presupposto che non formuli riconvenzionali ma si limiti ad una  mera
difesa comunque "lucra"  dalla  sconfitta  della  pretesa  altrui  la
stabilizzazione della sua situazione quo antea, ossia  il  non  dover
corrispondere o il non dover adempiere ad un  facere  altrimenti  per
lui oneroso nella  misura  del  petitum  preteso  e  poi  disatteso),
l'interessato  potrebbe  venire  a  conseguire   un   indennizzo   da
irragionevole durata  pur  non  avendo  azionato  alcuna  pretesa  ex
adverso, ed addirittura in misura massima, mentre  quella  consentita
al sostanzialmente  vittorioso  (ma  processualmente  di  gran  lunga
soccombente) potrebbe essere decisamente inferiore alla prima; e cio'
non risulterebbe irragionevole (o  comunque  lesivo  dell'uguaglianza
sostanziale tra le parti di lite), per la diversa incidenza  concreta
sulla situazione di vita dell'uno e dell'altro della pendenza  in  se
d'un  processo  potenzialmente  foriero   d'apportare   vantaggio   o
svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; in  tale  ipotesi  si
dovrebbe pero' prescindere dal principio della  domanda,  che  sembra
invece recepito dal dictum espresso della disposizione in esame ("...
valore del diritto  accertato  ...")»;  c)  «di  dubbia  legittimita'
appare, invece, una liquidazione equitativa che - adottando,  in  via
suppletiva, un criterio  di  perequazione  correttivo  di  potenziali
distorsioni - riconoscesse che l'ammontare: o del valore del  diritto
riconosciuto in concreto alla controparte; o del valore del  giudizio
(in base al  variabile  grado  di  rilevanza  della  soccombenza,  se
parziale o totale)  possano  costituire  soglie  non  superabili  per
entrambi i gia' contendenti; e cio' nel senso che, qualora il  valore
del diritto accertato in capo all'attore (o ricorrente) del  giudizio
presupposto fosse o inferiore a quello del  valore  del  giudizio  in
senso processuale, o comunque accertato ex post,  della  controparte,
questa non  potrebbe  vedersi  comunque  riconosciuto  un  indennizzo
superiore a quello dell'attore sostanzialmente  soccombente;  e  cio'
poiche' tanto risulta incompatibile con l'indole oggettiva del valore
"soglia"  in  questione   e   non   e'   consentito   dal   tipo   di
discrezionalita' ammessa  per  il  giudicante  in  subiecta  materia,
poiche'  detta  discrezionalita'  e'   pur   sempre   "vincolata"   -
trattandosi  d'un  procedimento  liquidatorio   che   conferisce   al
decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si  riconosca
che e' comunque prevista una soglia minima  inderogabile  (riferibile
all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere)  -
e  la  sua  sindacabilita'  in  sede  d'opposizione  garantisce   che
l'eventuale ricorso appunto a  parametri  d'equita'  non  vulneri  il
fondamento  che  la  predetta  discrezionalita'  ripete  dalla  legge
vigente»; 
    che il rimettente indica percio' i seguenti  «casi  astrattamente
prospettabili» in cui il proponente la domanda  di  equa  riparazione
sia stato: a) parzialmente soccombente - quale attore (o  ricorrente)
o quale convenuto (o  resistente)  -  nel  giudizio  presupposto;  b)
totalmente  soccombente  -  quale  convenuto  (o  resistente)  -  nel
giudizio presupposto; c) totalmente soccombente  -  quale  attore  (o
ricorrente) - nel giudizio presupposto; 
    che, sulla base di quanto in precedenza esposto, il giudice a quo
afferma quindi che: a) nel primo caso, «il valore  "soglia"  comunque
non superabile nella liquidazione dell'indennizzo (imposto  dall'art.
2-bis comma 3 della  legge  citata)  debba  essere  identificato  nel
valore   del   diritto   effettivamente   riconosciuto   alla   parte
sostanzialmente vittoriosa»; b) nel secondo caso, «il valore "soglia"
comunque non superabile sara' pur sempre individuato nel  valore  del
diritto  riconosciuto  alla  parte  sostanzialmente  vittoriosa,   ed
ovviamente, salva la  specificita'  della  vicenda  processuale  (che
potra' giustificare, in situazioni peculiari,  anche  l'equiparazione
tra le parti), potra' essere diversificata la misura  dell'indennizzo
- entro il range assentito - con tendenziale liquidazione  di  quella
del  sostanzialmente  soccombente  in  misura  inferiore   a   quella
riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma  con  possibilita'  di
sua equiparazione  ad  essa»;  c)  nel  terzo  caso,  «l'accertamento
negativo della sussistenza di un  diritto  equivale  all'accertamento
che il diritto fatto valere in giudizio ha valore (per  chi  asseriva
di esserne titolare e di poterne fruire e disporre) giuridicamente ed
economicamente pari a zero»; 
    che il rimettente precisa ancora che  «ove  non  siano  formulate
riconvenzionali, ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare  la
pretesa altrui), non v'e' ex adverso alcuna domanda  e  pertanto  non
puo' agevolmente affermarsi che  la  pronuncia  abbia  implicitamente
accertato contra un qualche diritto del convenuto  o  del  resistente
(cui riferire l'individuazione del predetto valore soglia)»; 
    che, a quest'ultimo proposito,  il  rimettente  chiarisce  ancora
che:  a)  «se  il  soccombente  e  la  controparte  permangono  nella
situazione quo antea, che dal punto di vista della controparte vi sia
una sostanziale vittoriosita', poiche' essa pur godra' del  risultato
utile costituito dalla  continuita'  di  detta  situazione  di  fatto
rispetto  alle  pretese  dell'attore  (o  ricorrente)  su   cui   sia
intervenuto il giudicato ed entro i  limiti  del  suo  valore  (quale
emerso  in  decisione)  potra'  invocare  per  se'  indennizzo  (come
riconosciuto sub b)»; b) «cio' non equivale ad alcuna stabilizzazione
o qualificabilita' della  stessa  alla  stregua  d'un  diritto  o  di
situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne'  verso  costui  ne'
verso chicchessia ed implichera' soltanto  che  il  bene  della  vita
controverso   (che   ha   pur   sempre   un   valore   economicamente
quantificabile) risultera' "intatto" rispetto all'iniziativa attorea,
ma solo interinalmente»; c) «a pro dell'attore  o  ricorrente  -  che
subisca  (nel   giudizio   presupposto)   la   predetta   soccombenza
processuale, eventualmente con condanna  soltanto  per  la  rifusione
delle spese processuali, ai fini della quantificazione del  correlato
diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole  di  detto
procedimento potra' utilizzarsi quale valore "soglia" non  superabile
quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto  o
resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno,  il  valore
soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi,  se
esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale,  non  v'e'  a  ben
vedere un parametro che consenta di provvedere»; 
    che il rimettente, dopo  avere  ribadito  che  il  proponente  la
domanda di equa riparazione era risultato interamente soccombente nel
giudizio presupposto e che la  durata  di  questo  aveva  ecceduto  i
termini previsti dai commi 2-bis e 2-ter dell'art. 2 della  legge  n.
89 del 2001, e premesso  di  avere  altresi'  valutato  gli  elementi
indicati dal comma 2 dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001,  afferma
che le pronunce adottate sino ad  allora  dalla  Corte  d'appello  di
Reggio Calabria erano state discordanti circa la  soluzione  da  dare
alla «questione esaminata» in quanto, in un'occasione, essa era stata
risolta, dallo stesso magistrato che ora solleva la  questione,  «nel
senso  di  riconoscere  comunque  l'operativita'   della   norma   di
riferimento, pur  senza  che  sia  ritraibile  nel  sistema  certezza
rassicurante in proposito», in un'altra,  sollevando,  con  ordinanza
dell'8 aprile 2013 (pervenuta alla Corte costituzionale e iscritta al
n. 185  del  registro  ordinanze  2013),  questione  di  legittimita'
costituzionale; 
    che  il  rimettente,  dopo  avere  riprodotto   testualmente   la
motivazione di tale ordinanza di rimessione in punto di  rilevanza  e
di  non  manifesta  infondatezza  (motivazione  identica   a   quella
dell'ordinanza della stessa Corte d'appello di Reggio Calabria del  3
ottobre 2013, iscritta al n. 46  del  registro  ordinanze  2014,  che
verra' in seguito riassunta), conclude affermando che «quanto  sinora
esposto legittima ulteriormente a ritenere sussistenti i  presupposti
per promuovere dunque, in piena adesione al secondo precedente  retro
richiamato, incidente  di  costituzionalita'  della  disposizione  in
premessa richiamata anche nell'odierno procedimento»; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che  la  difesa  statale  afferma  anzitutto  che  la   questione
sollevata  sarebbe  inammissibile  sia  in  quanto  sarebbe  volta  a
ottenere  un'indicazione  interpretativa   da   parte   della   Corte
costituzionale sul significato da attribuire alla  locuzione  "valore
del diritto accertato dal giudice" (valore inteso  come  limite  alla
misura dell'indennizzo), percio'  configurandosi  come  un  improprio
tentativo di conseguire dalla  Corte  un  avallo  interpretativo  (e'
citata la sentenza della Corte costituzionale n. 21 del 2013), sia in
quanto il rimettente avrebbe omesso di verificare la possibilita'  di
una,  in  effetti  praticabile,  interpretazione   costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, idonea a superare i dubbi  di
legittimita' della stessa; 
    che, sotto tale secondo aspetto, la difesa statale  sostiene  che
la  Corte  d'appello  rimettente,  pur   avendo   prospettato   delle
interpretazioni dell'impugnato comma 3  dell'art.  2-bis  diverse  da
quella - ritenuta incompatibile con l'art. 6, paragrafo 1, della CEDU
- che escluda la  liquidazione  dell'indennizzo  alla  parte  rimasta
soccombente  nel  processo  presupposto,  non   avrebbe   esplicitato
«l'incompatibilita'     costituzionale     [di     tali]     restanti
interpretazioni»; 
    che l'Avvocatura generale dello Stato rileva infine che «rispetto
all'ipotesi ritenuta coerente con  i  principi  della  CEDU  (quella,
cioe', secondo cui il soccombente totale verrebbe comunque liquidato,
tenendo conto dei  parametri  di  quantificazione  individuati  dalla
disciplina    in    via    generale)    viene    incongruamente    (e
contraddittoriamente) ipotizzato un contrasto con l'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, senza alcun  riferimento  alla  violazione
del parametro dell'eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. rispetto  alla
posizione  del  soccombente  parziale;  l'indennizzo  riconosciuto  a
quest'ultimo  e',  infatti,  parametrato  al   valore   del   diritto
accertato, in ipotesi  inferiore  a  quello  minimo  stabilito  nella
forbice di cui all'art. 2-bis, comma 1, della legge 89 del 2001»; 
    che,   ai    fini    della    ricerca    di    un'interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il giudice
rimettente  avrebbe  omesso  di  considerare  sia  la   ratio   delle
modificazioni apportate dall'art. 55 del d.l. n.  83  del  2012  alla
legge n. 89 del  2001,  sia  il  contesto  sistematico  in  cui  tale
disposizione si inserisce; 
    che, al riguardo, la difesa statale  rammenta  anzitutto  che  la
citata novella si configura come un «tentativo di contenere i costi a
carico del bilancio dello Stato derivanti dagli indennizzi  liquidati
e di razionalizzare  il  carico  di  lavoro  che  grava  sulle  Corti
d'appello,  evitando  che  la  durata   dei   procedimenti   per   la
liquidazione delle  indennita'  possa  dar  luogo,  a  sua  volta,  a
responsabilita' dello Stato per violazione dell'art. 6 CEDU»; 
    che, a tale fine, il menzionato  art.  55  avrebbe  «diversamente
strutturato lo stesso diritto all'equa riparazione» attraverso: a) la
fissazione, in via presuntiva, dei termini di durata ragionevole  dei
processi (art. 2, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, della  legge  n.  89
del 2001); b) l'individuazione di «ipotesi  tipicamente  abusive  dei
poteri  processuali  [...]  che  costituiscono  cause  di  esclusione
dell'indennizzo» (art. 2, comma 2-quinquies, della legge  n.  89  del
2001); c) la previsione di parametri e  limiti  nella  determinazione
concreta dell'indennizzo (art. 2-bis della legge n. 89 del 2001); 
    che, sempre ad avviso della difesa dello Stato,  spetta  comunque
al giudice investito della  domanda  la  doverosa  valutazione  della
sussistenza del diritto a un'equa riparazione - da effettuare in base
a un criterio che tenga conto dei  parametri  (fissati  dal  comma  2
dell'art. 1 della legge n. 89  del  2001,  anch'esso  sostituito  dal
numero 1 della lettera a del comma 1 dell'art. 55 del d.l. n. 83  del
2012) della complessita' del caso, dell'oggetto del procedimento, del
comportamento delle parti  e  del  giudice  durante  il  procedimento
presupposto (nonche' di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi  o
a contribuire alla sua definizione) - sicche' «perche' l'obbligazione
indennitaria [...] sorga dalla violazione  della  ragionevole  durata
del processo e  sia  in  concreto  configurabile,  e'  necessario  il
provvedimento  del  giudice  che,   con   accertamento   costitutivo,
verifichi le modalita' temporali e non, con le quali si e' svolta una
data vicenda processuale»; 
    che, analogamente, la mancata  previsione  di  automatismi  nella
commisurazione dell'indennizzo deriva dalla necessita' di considerare
la specificita' di ciascun caso; 
    che tale e',  quindi,  secondo  la  ricostruzione  operata  dalla
difesa statale, il contesto in cui si inserisce  l'art.  2-bis  della
legge n. 89 del 2001 e, in particolare, il suo impugnato comma 3; 
    che l'Avvocatura generale dello Stato prosegue sottolineando come
sia pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione - che  ha
recepito, sul punto, gli orientamenti della Corte europea dei diritti
dell'uomo   -   che   il   diritto   all'equa   riparazione    spetta
indipendentemente dall'esito del processo presupposto  «ad  eccezione
del caso in cui il soccombente fosse consapevole della  inconsistenza
delle proprie istanze»; 
    che sarebbe quindi impossibile, sempre secondo la difesa statale,
interpretare l'impugnato comma 3 nel senso che esso nega l'indennizzo
all'interamente soccombente; 
    che vi sarebbe invece la possibilita' di liquidare a  tale  parte
soccombente nel processo presupposto un indennizzo compreso tra 500 e
1.500 euro per ogni anno di ritardo secondo quanto previsto dal comma
1 dell'art. 2-bis, «dando spazio,  nella  decisione,  agli  ulteriori
parametri oggettivi di valutazione introdotti con la sopra illustrata
finalita' calmieratrice della riforma»; 
    che, del resto, prosegue la difesa  statale,  «il  richiamo  alla
soglia del valore del "diritto accertato"  conferma  la  coerenza  di
un'interpretazione in linea con la ratio della riforma,  nell'ipotesi
in  cui  il   soccombente   parziale   (la   cui   pretesa   si   sia
considerevolmente ridotta in sede di accertamento giudiziale)  abbia,
nel  successivo  giudizio  di   equa   riparazione,   sostanzialmente
prospettato, in  termini  di  tendenziale  abuso  del  processo,  una
domanda irragionevolmente eccedente il diritto effettivamente vantato
(e riconosciuto nel giudizio presupposto); 
    che, cosi' limitato lo spettro dell'intervento normativo,  se  ne
comprenderebbe  la  ragionevolezza   in   chiave   costituzionalmente
orientata: «la parte che nel giudizio presupposto abbia chiesto 1.000
e ottenuto 100 avra', in sede di equa riparazione,  una  liquidazione
non superiore a quest'ultimo importo, perche', pur avendo ragione nel
merito, ha ecceduto nella quantificazione della richiesta;  cio'  non
e' incongruo rispetto alla posizione di chi, pur avendo chiesto  allo
stesso modo 1.000, non ha avuto riconosciuto nulla per effetto di una
decisione sull'an  di  una  pretesa  comunque  legittimamente  e  non
abusivamente avanzata»; 
    che, poiche' una  tale  interpretazione  «non  e'  stata  neppure
ipotizzata dal giudice  rimettente»,  anche  sotto  tale  profilo  la
questione sarebbe manifestamente inammissibile; 
    che, con ordinanza del 30 settembre 2013 (r.o. n. 45  del  2014),
la Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella  persona
del giudice designato al fine di provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere  investito  del  ricorso  con  il  quale  C.A.  aveva  chiesto
l'indennizzo del danno subito per effetto  dell'irragionevole  durata
di un processo; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato
soccombente in detto processo presupposto, definito con una decisione
divenuta  definitiva  il  14  maggio  2013;  c)  che  la  domanda  di
riparazione era stata proposta nel rispetto del termine di  decadenza
previsto dall'art. 4, comma 1, della legge n. 89 del 2001; d) che  il
processo presupposto, articolatosi in due gradi  di  giudizio,  aveva
avuto una durata effettiva di quattordici anni, undici mesi e  sedici
giorni in primo grado e di sei anni e dieci mesi  in  secondo  grado,
eccedente, percio', di sedici anni, nove  mesi  e  sedici  giorni  il
termine ragionevole stabilito dagli artt. 2-bis e 2-ter  (recte:  dai
commi 2-bis e 2-ter dell'art. 2) della legge n. 89 del 2001; 
    che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa Corte  del  27
settembre 2013 ed iscritta al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che, con ordinanza del 3 ottobre 2013 (r.o. n. 46 del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, presentato il 24 settembre 2013, con il
quale C.M.R. aveva chiesto l'indennizzo del danno subito per  effetto
dell'irragionevole  durata  di  un  processo  civile   dalla   stessa
promosso, con atto di citazione notificato il 12 novembre  1990,  nei
confronti di C.R. e di P.G., per la rivendicazione  della  proprieta'
di cinque sesti indivisi di un immobile; b) che  detto  processo  era
stato definito con la sentenza del Tribunale ordinario di Messina  n.
2379 del 2011 con la quale la domanda proposta da  C.M.R.  era  stata
rigettata, con compensazione delle spese; 
    che  il  medesimo  giudice   rimettente   sviluppa   poi   alcune
considerazioni in punto di diritto; 
    che, prima di prendere in esame la disposizione  censurata,  egli
evidenzia la portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al
d.l. n. 83 del 2012, dell'alinea e  della  lettera  a)  del  comma  2
dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, secondo cui «L'indennizzo
e' determinato a norma dell'articolo 2056 del codice civile,  tenendo
conto: a) dell'esito del processo  nel  quale  si  e'  verificata  la
violazione di cui al comma 1 dell'articolo 2»; 
    che, in proposito, il giudice a quo osserva che,  nel  vigore  di
detta previgente normativa, la Corte di cassazione aveva affermato la
spettanza del diritto all'equa  riparazione  a  tutte  le  parti  del
processo  «indipendentemente  dal  fatto  che  esse  siano  risultate
vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed  importanza
del  giudizio»,  nonche'  l'irrilevanza,  al  medesimo  fine,   della
«asserita  consapevolezza  da   parte   dell'istante   della   scarsa
probabilita' di successo dell'iniziativa giudiziaria»  (sono  citate,
in tale senso, le sentenze n. 8632 e n. 8541  del  2010),  ammettendo
che si potesse tenere conto dell'esito del processo presupposto  solo
qualora esso «abbia un  indiretto  riflesso  sull'identificazione,  o
sulla  misura,  del  pregiudizio  morale  sofferto  dalla  parte   in
conseguenza dell'eccessiva durata  della  causa»,  come  si  verifica
«quando il soccombente abbia promosso una  lite  temeraria,  o  abbia
artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire  proprio
il perfezionamento della fattispecie di cui al  richiamato  art.  2»,
con la precisazione, peraltro, che di tali  circostanze  «costituenti
abuso   del   processo»,   anche   ai   fini   della   commisurazione
dell'indennizzo, «deve dare prova  puntuale  l'Amministrazione»,  non
essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la  domanda  della
parte sia stata dichiarata manifestamente infondata» (e' citata,  nel
senso indicato, la sentenza n. 35 del 2012); 
    che,  a  fronte  di  tale  indirizzo  della   giurisprudenza   di
legittimita', formatosi anteriormente all'entrata in vigore del  d.l.
n. 83 del 2012, la citata lettera a)  del  comma  2  dell'art.  2-bis
avrebbe innovato sotto  il  duplice  profilo  che,  in  virtu'  della
stessa, l'esito del giudizio presupposto: a)  assumerebbe,  ancorche'
al solo fine della quantificazione  dell'indennizzo,  «un  ruolo  non
piu' eccezionale ma  normale,  fisiologico  e  soprattutto  sganciato
dalla condizione che esso si  accompagni  anche  alla  consapevolezza
della parte e, correlativamente, ad un uso strumentale del processo»;
b) non dovrebbe piu', per comportare una  riduzione  dell'indennizzo,
essere,  insieme  con  «l'abuso  del  processo  alla  base  di   esso
richiesto»,  allegato  e  provato  dall'amministrazione   resistente,
«potendo e dovendo il giudice  ex  se  [...]  sindacare  e  ponderare
l'esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»; 
    che, passando all'esame dell'impugnato comma 3  dell'art.  2-bis,
il  rimettente  afferma  che  lo  stesso  stabilisce  che  la  misura
dell'indennizzo, anche in deroga agli importi indicati  dal  comma  1
dello stesso art. 2-bis, non puo' superare non solo il  valore  della
controversia - cio' che,  secondo  lo  stesso  giudice  a  quo,  «da'
espressione ad una convinzione di comune buon  senso  particolarmente
avvertita per le cause bagatellari»  -,  ma  neppure  il  valore  del
diritto accertato dal giudice, quando questo sia inferiore al  valore
della causa; 
    che,  ad  avviso  del  rimettente,   tale   ultima   disposizione
comporterebbe che la domanda di equa riparazione per  l'irragionevole
durata del processo potrebbe essere accolta solo nel caso in cui  chi
la propone sia risultato, almeno in parte,  vittorioso  nel  giudizio
presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe essere riconosciuto  a
chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente  soccombente:
infatti,  in  tale  ultimo  caso,   l'accertamento   negativo   della
sussistenza  del  diritto  fatto  valere  in  giudizio   equivarrebbe
all'accertamento che tale diritto, in quanto inesistente, «per  cosi'
dire, "vale zero"»; 
    che il rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non  puo'
sfuggire  pertanto  il  paradosso  (ed  anche   la   violazione   del
fondamentale parametro di cui all'art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a
ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di
diritto accertato uguale a 10,  sia  liquidabile  un  indennizzo  non
maggiore di 10; b) in caso di radicale  rigetto  della  domanda,  sia
invece liquidabile un indennizzo maggiore  fino  al  limite  di  100.
Occorrerebbe presumere cioe', ma non si vede con quale  plausibilita'
logica, che la durata irragionevole del processo  sia  fonte  per  la
parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale  rigetto  della
sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento»; 
    che, sempre ad avviso del  rimettente,  sarebbe  «tutt'altro  che
certo [...] che una tale interpretazione della norma,  fondata  sulla
sua insuperabile formulazione letterale, vada oltre l'intenzione  del
legislatore, potendosi rinvenire da altre parti della novella  indici
alquanto significativi nella medesima direzione»; 
    che tali sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e
c) del comma 2-quinquies dell'art. 2 della legge n.  89  del  2001  -
comma aggiunto dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l.
n. 83 del 2012 - le quali escludono qualunque indennizzo  in  favore,
rispettivamente, della parte che abbia visto  accogliere  la  propria
domanda in misura non superiore a una proposta conciliativa che abbia
rifiutato senza giustificato motivo (art. 91,  primo  comma,  secondo
periodo, cod.  proc.  civ.),  e  della  parte  vincitrice  che  abbia
rifiutato la proposta  di  mediazione  quando  il  provvedimento  che
definisce il giudizio  corrisponde  interamente  al  contenuto  della
stessa (art. 13, comma 1, primo periodo, del  decreto  legislativo  4
marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell'articolo 60  della  legge
18 giugno 2009, n. 69, in  materia  di  mediazione  finalizzata  alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali»),  trattandosi
di «ipotesi [...] rispetto alle quali l'avere agito infondatamente in
giudizio costituisce sicuramente un minus (dal  punto  di  vista  del
riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni
fatte valere dalla parte)»; 
    che «rilievo  convergente»  dovrebbe  essere  attribuito,  sempre
secondo il giudice a quo,  anche  alle  seguenti  disposizioni  della
legge n. 89 del 2001 (anch'esse aggiunte o  sostituite  dall'art.  55
del d.l. n. 83 del 2012): a) la gia' menzionata lettera a) del  comma
2 dell'art. 2-bis, che indica l'«esito del processo» tra i  parametri
di cui e'  necessario  tenere  conto  ai  fini  della  determinazione
dell'indennizzo; b) l'art. 4,  che  ha  escluso  che  la  domanda  di
riparazione  possa  essere  proposta  prima  della  conclusione   del
procedimento con provvedimento definitivo; c) la lettera c) del comma
3 dell'art. 3, che impone al ricorrente di depositare, unitamente  al
ricorso, copia autentica della sentenza o dell'ordinanza irrevocabili
che abbiano definito il giudizio; 
    che tali disposizioni evidenzierebbero,  secondo  il  rimettente,
l'importanza attribuita dal legislatore della novella al fatto che il
giudice investito della domanda di equa riparazione  conosca  l'esito
definitivo del giudizio, il che «non altrimenti puo' spiegarsi se non
con il preponderante rilievo attribuito dal legislatore [...] a  tale
aspetto  della   vicenda,   quale   parametro   determinativo   della
liquidazione dell'indennizzo»; 
    che una «indiretta conferma della  ragionevolezza»  dell'indicata
interpretazione della disposizione censurata  si  trarrebbe,  infine,
dall'affermazione, contenuta nella relazione illustrativa al  disegno
di legge di conversione del d.l. n. 83 del 2012, secondo cui  tra  le
finalita' delle modificazioni della legge n. 89 del 2001 vi era anche
quella di «non allargare  le  maglie  di  un  bacino  di  domanda  di
giustizia  suscettibile  di  distorsioni  che  sono   gia'   presenti
nell'attuale sistema (in cui accade che una causa  venga  instaurata,
al  di  la'  della  fondatezza  della  pretesa,   in   funzione   del
conseguimento del successivo indennizzo spettante per  la  violazione
del termine di durata ragionevole del processo, dal  momento  che  la
Corte europea dei diritti  dell'uomo  ha  piu'  volte  affermato  che
l'indennizzo in parola spetta anche alla  parte  rimasta  soccombente
nel processo "presupposto"»; 
    che, ad  avviso  del  giudice  rimettente,  il  passaggio  citato
tradirebbe la consapevolezza del legislatore che il  principio  della
spettanza  dell'equa  riparazione  anche   alla   parte   interamente
soccombente  «e'   causa   di   distorsioni   nel   funzionamento   e
nell'impostazione teorica stessa dei fondamenti e  della  natura  del
diritto all'equa riparazione»; 
    che, sempre secondo il rimettente, ancorche' l'indicata relazione
illustrativa indichi come obiettivo  della  novella  quello  di  «non
allargarne  le  maglie»  della  detta  distorsione,  le  disposizioni
effettivamente introdotte e appena indicate «prescindendo del  tutto,
nell'attribuire   il   visto   rilievo   all'esito   del    giudizio,
dall'accertamento  dell'esistenza  di  un  atteggiamento  negligente,
strumentale o abusivo a fondamento della domanda  rigettata  o  della
resistenza a quella interamente  accolta  -  appaiono  oggettivamente
[idonee] anche a contrastare in radice il principio  suddetto»  della
spettanza  dell'equa  riparazione  anche   alla   parte   interamente
soccombente; 
    che il giudice rimettente afferma  di  non  ignorare  l'esistenza
dell'«indice di segno contrario» costituito dalla disposizione  della
lettera a) del comma 2-quinquies dell'art. 2 della legge  n.  89  del
2001 - secondo cui non e' riconosciuto alcun  indennizzo  «in  favore
della parte soccombente  condannata  a  norma  dell'articolo  96  del
codice di procedura civile  [cioe'  per  responsabilita'  processuale
aggravata]» - la quale, in base all'argomento a  contrario,  dovrebbe
essere interpretata nel  senso  della  spettanza  dell'indennizzo  in
favore della  parte  soccombente  che  non  abbia  subito  la  citata
condanna, con la conseguenza che la mera soccombenza non sarebbe,  di
per se' sola, ragione di esclusione dal diritto all'equa riparazione; 
    che a tale conclusione si opporrebbe,  tuttavia,  sempre  secondo
l'opinione   del   rimettente,   l'«indice   normativo»    costituito
dall'impugnato comma 3 dell'art. 2-bis, il quale, pur non riguardando
i presupposti in astratto della spettanza del diritto  all'indennizzo
ma  la  commisurazione  di  quest'ultimo  (a  priori,  percio',   non
escluso), finisce -  rivelandosi  cosi'  «piu'  potente  rispetto  ai
limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato» - con
l'annullarlo completamente in tutti i casi di soccombenza; 
    che alla  stregua  di  cio',  secondo  il  rimettente,  «A  tutto
concedere non puo' non registrarsi un  insanabile  contrasto,  quanto
meno agli effetti pratici, tra le due norme, il che pero', lungi  dal
poter autorizzare [...] a  una  mera  disapplicazione  della  seconda
nella parte in cui risulti in contrasto con  la  prima,  ne  rafforza
piuttosto il sospetto di incostituzionalita'»; 
    che il giudice a quo afferma infine  di  non  conoscere  pronunce
giurisprudenziali che, in base alla disciplina dell'equa  riparazione
per la violazione del termine  ragionevole  del  processo  risultante
dalle modificazioni recate dall'art. 55 del  d.l.  n.  83  del  2012,
abbiano riconosciuto il diritto all'indennizzo alla parte soccombente
nel processo presupposto, ma solo pronunce  di  rigetto  dei  ricorsi
presentati da tale parte (sono citati, in proposito, i decreti  della
Corte d'appello di Bari 25 settembre 2012 reso  nel  procedimento  n.
547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 610/12 V.G.,  6
novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12, 15 gennaio  2013  reso
nel procedimento n. 641/12  V.G.,  nonche'  il  decreto  della  Corte
d'appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013); 
    che sulla base di tali premesse il  giudice  a  quo,  dopo  avere
compiuto  un'ampia  rassegna  dei  principi   che,   in   base   alla
giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di  cassazione
e della Corte di giustizia, governano i rapporti tra la  legislazione
interna e la CEDU (sono citate, in  particolare,  le  sentenze  della
Corte costituzionale n. 303, n. 236, n. 175, n. 113, n. 80 e n. 1 del
2011, n. 196, n. 187, n. 138 e n. 93 del 2010, n. 311  del  2009,  n.
348 e n. 349 del 2007, nonche' le ordinanze n. 150 del 2012 e n.  180
e n. 138 del 2011; le sentenze della Corte di cassazione n. 5894  del
2009, n. 1341, n. 1340, n. 1339 e n. 1338  del  2004  e  la  sentenza
della  Corte  di  giustizia  24  aprile  2012,  in  causa   C-571/10,
Kamberaj), afferma, in  punto  di  non  manifesta  infondatezza,  che
l'impugnato comma 3 dell'art. 2-bis della legge n.  89  del  2001  si
pone in contrasto  con  l'art.  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  come
interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo; 
    che, a proposito di  tale  parametro  interposto,  il  rimettente
sottolinea come detta  Corte  abbia  sempre  ritenuto  «l'irrilevanza
della soccombenza del ricorrente, in se' e per  se'  considerata»  ai
fini della spettanza dell'equa soddisfazione  prevista  dall'art.  41
della CEDU, in  base  al  rilievo  che  la  parte,  indipendentemente
dall'esito della causa, «ha comunque  subito  una  diminuzione  della
qualita' della vita in  conseguenza  dei  patemi  d'animo  sopportati
durante il lungo  arco  temporale  che  ha  preceduto  la  definitiva
decisione della sua posizione processuale» (e' citata, in  proposito,
la  sentenza  19  febbraio  1992  (recte:  1998),  Paulsen-Medalen  e
Svensson contro Svezia); 
    che tale principio,  prosegue  il  rimettente,  e'  sempre  stato
affermato anche dalla Corte di cassazione nel vigore della disciplina
dettata dalla legge n. 89 del 2001 anteriormente  alle  modificazioni
ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012, avendo  la  giurisprudenza
di legittimita' costantemente affermato,  come  gia'  visto,  che  il
danno  non  patrimoniale  non  e'  escluso  dall'esito  negativo  del
processo o dall'elevata possibilita' del rigetto della domanda e che,
per ritenere infondata la domanda di indennizzo, e' necessario che la
parte soccombente si sia  resa  responsabile  di  lite  temeraria  o,
comunque, di un abuso del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e
n. 8541 del 2010), del quale deve fornire la prova la  parte  che  lo
eccepisce (e' citata la sentenza n. 819 del 2010); 
    che la stessa Corte di cassazione aveva ancora affermato che,  al
fine di negare la sussistenza del danno, puo' si' assumere rilievo la
«chiara, originaria e perdurante certezza  sulla  inconsistenza»  del
diritto fatto valere in giudizio, con la precisazione, tuttavia,  che
«non equivale a siffatta certezza originaria la  mera  consapevolezza
della scarsa probabilita' di successo dell'azione» (sentenze n.  8165
del 2010 e n. 24269 del 2008); 
    che il giudice a quo precisa infine che  il  quadro  normativo  e
giurisprudenziale  descritto  non  puo'   ritenersi   «rilevantemente
mutato» a seguito dell'entrata in vigore del  nuovo  testo  dell'art.
35, comma 3, lettera b), della CEDU, come modificato  dal  Protocollo
n. 14 alla Convenzione, firmato  a  Strasburgo  il  13  maggio  2004,
ratificato e reso esecutivo con la legge 15 dicembre  2005,  n.  280,
secondo cui «La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso  individuale
presentato ai sensi dell'articolo 34 se ritiene  che:  [...]  (b)  il
ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo  che  il
rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi
Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e  a  condizione  di
non rigettare  per  questo  motivo  alcun  caso  che  non  sia  stato
debitamente esaminato da un tribunale interno»; 
    che secondo il rimettente - il quale, a proposito del significato
attribuito dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo  al  menzionato
art. 35, comma 3, lettera b), della CEDU, cita le  sentenze  6  marzo
2012, Gagliano contro Italia, 19 ottobre 2010, Rinck contro Francia e
18 ottobre 2010, Giusti contro Italia - infatti, «nulla  autorizza  a
ritenere che  una  tale  clausola,  essendo  rapportata  a  parametri
ulteriori e diversi dal mero esito della  causa  e  legati  piuttosto
alla considerazione delle variabili circostanze  del  caso  concreto,
possa di per se' comportare una  revisione  dei  descritti  parametri
talmente radicale da potersi prevedere che, in  forza  della  stessa,
possa  escludersi  tout  court,   sempre   e   in   ogni   caso,   la
riconoscibilita' dell'equo indennizzo alla parte soccombente»; 
    che, quanto alla rilevanza, la rimettente Corte d'appello afferma
anzitutto che un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della
disposizione censurata, tale da renderla compatibile  con  l'invocato
parametro interposto dell'art.  6,  paragrafo  1,  della  CEDU,  come
interpretato dalla Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  e'  resa
impossibile dal suo tenere letterale, il quale impedisce di liquidare
l'indennizzo  in  misura  superiore  «al  valore  [...]  del  diritto
accertato dal giudice»; 
    che, in particolare, non  sarebbe  praticabile  l'interpretazione
«restrittiva e  correttiva»  dell'impugnato  comma  3  nel  senso  di
ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti  alla  novella  di
cui all'art. 55 del d.l. n. 83  del  2012,  che  «il  riferimento  al
diritto  accertato  dal   giudice   costituisca   un   limite   nella
determinazione  del  valore  della  causa  cosi'  come  avviene   per
individuare  lo  scaglione  di  valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali»; 
    che a tale interpretazione si  opporrebbero,  infatti,  l'analisi
logica  della  disposizione  censurata  e   l'uso   della   locuzione
disgiuntiva «o», rafforzata dall'inciso «se inferiore», elementi  che
evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal  giudice  e'
indicato dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa,
come limite alla  misura  dell'indennizzo  e  non  come  criterio  di
determinazione del valore della causa; 
    che ne conseguirebbe,  conclusivamente,  che  una  lettura  della
disposizione censurata diversa da quella accolta  si  tradurrebbe  in
un'interpretazione contra legem, non consentita neppure  al  fine  di
rendere detta disposizione conforme alla CEDU; 
    che, sempre in punto di rilevanza, il giudice  a  quo  sottolinea
come la norma impugnata abbia una «diretta incidenza» sulla decisione
in ordine alla domanda di equa riparazione proposta; 
    che, infatti, «se  ne  fosse  [...]  confermata  la  legittimita'
costituzionale in applicazione della stessa la domanda [...] andrebbe
rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta,  salvo  solo  una
commisurazione tendenzialmente al minimo  dell'indennizzo  spettante,
all'interno del range fissato dal primo comma dell'art. 2-bis e salvo
sempre il limite rappresentato dal valore della causa»; 
    che il rimettente precisa infine che, ancorche' la fattispecie al
suo esame riguardi un'ipotesi di rigetto integrale della domanda, con
soccombenza della ricorrente nel processo presupposto, il  dubbio  di
costituzionalita' prospettato «e' destinato  a  porsi,  nei  medesimi
termini,  anche  nell'ipotesi  inversa  di  soccombenza  della  parte
resistente (o convenuta) nel processo presupposto, ovviamente ove sia
questa a proporre la domanda per equa riparazione»; 
    che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il
riferimento al valore del diritto va rapportato  alla  posizione  che
nel processo presupposto assumeva la parte che  avanzi  richiesta  di
indennizzo ai sensi della legge n. 89/2001»; 
    che, pertanto, nel caso di soccombenza del convenuto,  «non  deve
fuorviare la considerazione che [...] il giudizio presupposto si  sia
concluso  ovviamente  con  l'accoglimento  della   domanda   avanzata
dall'attore e quindi con il  positivo  accertamento  del  diritto  da
quest'ultimo fatto valere, posto che, ai fini qui in  considerazione,
rileva piuttosto l'altra faccia di quella  statuizione  che,  per  il
convenuto, equivale al rigetto delle sue tesi difensive»; 
    che, per converso, anche  nel  caso  di  soccombenza  dell'attore
(come e' avvenuto nel giudizio a quo), ove a richiedere  l'indennizzo
fosse pero' non lo stesso attore ma la  parte  convenuta,  vittoriosa
nel giudizio, «nei confronti della stessa non varrebbe ovviamente  il
limite qui censurato, posto che, in rapporto alla sua  posizione,  il
rigetto della domanda attrice equivale al pieno riconoscimento  della
fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»; 
    che il rimettente precisa ancora che «La  norma  censurata  evoca
[...], a ben vedere,  il  valore  dell'accertamento  contenuto  nella
sentenza; e un  contenuto  di  accertamento  e'  sempre  presente  in
qualsiasi sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva  o  di  mero
accertamento (positivo o negativo) che sia. Un tale contenuto poi  e'
sempre ambivalente rispetto alle posizioni delle parti in  lite  (per
definizione, ovviamente, contrapposte). L'attore dunque che agisce in
giudizio per ottenere l'accertamento di un suo  diritto,  chiede  per
l'appunto un accertamento positivo di una tale situazione  giuridica;
nella  stessa  causa  ovviamente  si  contrappone  la  posizione  del
convenuto   che,   resistendo   alla   domanda,   per   cio'   stesso
implicitamente invoca un accertamento negativo  di  tale  situazione,
non rilevando, ai nostri fini, se ne faccia a sua  volta  oggetto  di
domanda riconvenzionale o semplicemente di mera difesa»; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 18 ottobre 2013 (r.o. n. 47 del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, presentato l'11 ottobre  2013,  con  il
quale M.C. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole  durata  di  un  processo  civile   dallo   stesso
promosso, con ricorso depositato il 27  aprile  2001,  nei  confronti
dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni  sul
lavoro (INAIL), per il riconoscimento di una malattia professionale e
la corresponsione di una rendita; b) che  detto  processo  era  stato
definito con la sentenza del Tribunale ordinario di Patti n. 986  del
2012 con la quale la domanda proposta da M.C.  era  stata  rigettata,
con compensazione delle spese; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione  la  Corte  d'appello  rimettente   svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 7 novembre 2013 (r.o. n. 48 del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, presentato il 18 ottobre 2013,  con  il
quale G.S.L.G., nella qualita' di  erede  di  B.A.,  deceduta  il  24
giugno 2011, aveva chiesto l'indennizzo del danno subito per  effetto
dell'irragionevole  durata  di  un  processo  civile  promosso  dalla
propria dante causa davanti al Tribunale ordinario di Patti;  b)  che
detto processo, conclusosi in primo grado con la sentenza  del  detto
Tribunale n. 2500/02 del 1° ottobre 2002 e in secondo  grado  con  la
sentenza della Corte d'appello di Messina n. 433/05 del 27  settembre
2005, era stato definito con la sentenza della Corte di cassazione  7
marzo 2013, n. 5713, passata in giudicato il 7 marzo 2013, che  aveva
rigettato il ricorso proposto da B.A.; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione  la  Corte  d'appello  rimettente   svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 7 novembre 2013 (r.o. n. 48 del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, presentato il 31 ottobre 2013,  con  il
quale V.L. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo da lui promosso  davanti  al
Tribunale  ordinario  di  Messina,  sezione  lavoro,  nei   confronti
dell'INAIL, al fine di ottenere una rendita o un vitalizio in seguito
ad un infortunio sul lavoro; b) che detto processo era stato definito
con la sentenza della Corte d'appello di Messina, sezione lavoro,  n.
1221/13, pronunciata il 6 giugno 2013 e depositata il 21 giugno 2013,
passata in giudicato, che, accogliendo l'appello proposto  dall'INAIL
avverso la sentenza  del  Tribunale  ordinario  di  Messina,  sezione
lavoro, n. 2711/06, aveva rigettato la domanda di  V.L.,  compensando
le spese di entrambi i gradi del giudizio (ad eccezione  delle  spese
per la consulenza tecnica di ufficio, poste a carico dell'INAIL); 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione  la  Corte  d'appello  rimettente   svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 15 novembre 2013 (r.o. n. 50 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 4  novembre  2013,  con  il
quale S.P.G., in proprio e nella qualita' di  genitore  esercente  la
potesta' sulla minore P.B.L., e P.L., tutti nella qualita'  di  eredi
di P.M.A., deceduto il 24 febbraio 2005, avevano chiesto l'indennizzo
del danno subito per effetto dell'irragionevole durata di un processo
svoltosi davanti al Tribunale ordinario  di  Messina;  b)  che  detto
processo era stato definito con la sentenza della Corte d'appello  di
Messina n. 1221/13 del 29 gennaio 2013, passata in  giudicato  il  10
maggio 2013, «che ha parzialmente riformato - confermandola nel resto
- la sentenza di primo grado [sentenza n. 999/09 del 7 maggio  2009],
condannando S.P.G., n.q. di erede di P.M.A.»; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 28 novembre 2013 (r.o. n. 51 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 13 novembre  2013,  con  il
quale B.T. e B.N., nella qualita' di eredi di B.F.,  avevano  chiesto
l'indennizzo del danno subito per effetto  dell'irragionevole  durata
di un processo civile promosso da  detto  dante  causa  davanti  alla
Pretura di Messina, sezione distaccata di Santa Teresa  di  Riva;  b)
che detto processo era stato definito con  la  sentenza  della  Corte
d'appello di Messina, sezione lavoro, n. 797/13 del 17  maggio  2013,
che aveva respinto l'appello di  B.F.,  confermando  la  sentenza  di
primo grado della Pretura di Messina,  sezione  distaccata  di  Santa
Teresa di Riva, del 10 marzo 1994, che aveva rigettato la domanda; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 28 novembre 2013 (r.o. n. 52 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 16 novembre  2013,  con  il
quale C.S.M., nella qualita' di legale rappresentante di una farmacia
con sede in Patti, aveva chiesto l'indennizzo del  danno  subito  per
effetto dell'irragionevole durata  di  un  processo  civile  promosso
davanti al Tribunale ordinario di Patti; b) che  detto  processo  era
stato definito con la sentenza del Tribunale di Patti n. 84/12 del 18
febbraio 2012 che aveva «respinto la domanda dell'attuale  ricorrente
condannandola anche al pagamento delle spese processuali»; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 28 novembre 2013 (r.o. n. 53 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 18 novembre  2013,  con  il
quale T.R.C. aveva chiesto l'indennizzo del danno subito per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo civile promosso  davanti  al
Tribunale ordinario  di  Patti;  b)  che  detto  processo  era  stato
definito con la sentenza del Tribunale di Patti  n.  1175/12  del  18
maggio 2012, passata in  giudicato  il  18  maggio  2013,  che  aveva
«respinto la domanda dell'attuale ricorrente»; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 10 giugno 2013 (r.o. n. 54  del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il  31  maggio  2013,  con  il
quale S.M. e B.G. avevano chiesto l'indennizzo del danno  subito  per
effetto dell'irragionevole durata  di  un  processo  civile  da  essi
promosso, con atto  di  citazione  notificato  il  26  ottobre  1998,
davanti al  Tribunale  ordinario  di  Messina,  nei  confronti  della
societa' P.S. di A.I. & C., ai fini della condanna di detta  societa'
al risarcimento di danni da infiltrazioni; b) che detto processo  era
stato definito con la sentenza della Corte d'appello  di  Messina  n.
150/12 del 15 marzo 2012, che aveva rigettato  l'appello  avverso  la
sentenza del Tribunale di Messina che aveva interamente rigettato  la
domanda proposta da S.M. e B.G., compensando integralmente le spese; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 31 ottobre 2013 (r.o. n. 55 del  2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 18  ottobre  2013,  con  il
quale P.A. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo  civile  promosso  nei  suoi
confronti da B.G. al fine di ottenere la cessazione  delle  turbative
del possesso da parte dello stesso P.A. e di S.M., proprietari di  un
fondo  confinante;  b)  che  detto  processo  presupposto  era  stato
definito con la  sentenza  del  Tribunale  ordinario  di  Messina  n.
2379/2011, con la quale era stata rigettata la domanda proposta,  con
compensazione delle spese; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 28 novembre 2013 (r.o. n. 56 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 15 novembre  2013,  con  il
quale P.L. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole  durata  di  un  processo  civile   promosso   dai
genitori, esercenti la potesta' su di lui, all'epoca minore di  eta',
nei confronti di un'Unita' sanitaria locale di  Milazzo  al  fine  di
ottenere il risarcimento del danno per le lesioni subite  al  momento
della  nascita,  previo  riconoscimento  della  responsabilita'   del
personale medico e paramedico dipendente intervenuto  nell'occasione;
b) che detto processo presupposto era stato definito con la  sentenza
della Corte d'appello di Messina n. 189/2012, con la quale era  stato
rigettato l'appello proposto da P.A. e V.A. avverso il  provvedimento
del Tribunale di Messina che aveva disatteso la domanda risarcitoria; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013, iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che si e' costituito nel giudizio P.L., ricorrente  nel  giudizio
principale, chiedendo il rigetto della questione in quanto  sollevata
sulla base dell'erroneo presupposto  interpretativo  secondo  cui  il
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n.  89  del  2001  determinerebbe
l'impossibilita' di  riconoscere  un  indennizzo  a  titolo  di  equa
riparazione del danno subito per effetto della violazione del termine
ragionevole del processo  in  favore  di  chi  sia  risultato,  nello
stesso, soccombente; 
    che la parte costituita osserva al  riguardo  che:  a)  l'art.  2
della legge n. 89  del  2001,  che  disciplina  il  diritto  all'equa
riparazione, riconosce lo stesso a chiunque abbia subito un danno per
effetto del mancato rispetto del termine ragionevole di cui  all'art.
6, paragrafo 1, della CEDU (comma 1) e stabilisce i  casi  nei  quali
l'indennizzo non e' riconosciuto (comma 2-quinquies); b) l'art. 2-bis
della stessa legge n. 89 del 2001 si limita invece a disciplinare, «a
fronte del riconoscimento del diritto e alla sua esclusione nei casi»
indicati al comma 2-quinquies dell'art. 2, le modalita'  con  cui  il
giudice determina la misura dell'indennizzo; c) sulla  base  di  tali
artt.  2  e  2-bis,  e  in  particolare  del  primo  di  essi,   «che
specificamente prevede i casi di soccombenza in cui non  puo'  essere
riconosciuto alcun indennizzo», nonche' «sulla  base  della  costante
giurisprudenza  che  non  nega,  in  via   assoluta,   tale   diritto
[all'indennizzo] alla parte soccombente  (poiche'  il  fatto  che  il
giudice, secondo l'art. 2-bis,  secondo  comma,  debba  tenere  conto
dell'esito del  processo  non  implica  che  debba  negare  sempre  e
comunque il riconoscimento dell'indennizzo alla parte  soccombente)»,
dovrebbe ritenersi che il censurato comma 3 dell'art. 2-bis «non nega
affatto il diritto della parte soccombente a richiedere (e  ottenere)
una equa riparazione (nel  caso  in  cui  il  giudice  effettivamente
accerti la  sussistenza  di  tutti  i  requisiti»;  d)  la  Corte  di
cassazione che, prima delle modifiche apportate dal d.l.  n.  83  del
2012  alla  legge  n.  89  del  2001,  pacificamente   ammetteva   il
riconoscimento dell'indennizzo  in  favore  della  parte  soccombente
(sono citate, in proposito, le sentenze n. 18780 del 2010,  n.  24107
del 2009 e n. 27610 del 2008), ha confermato tale orientamento  anche
dopo dette modificazioni, in particolare, con la sentenza n. 585  del
2014, la quale, pur riguardando il diritto  all'indennizzo,  da  essa
riconosciuto, in favore della parte rimasta contumace  nel  processo,
ha significativamente fondato tale riconoscimento sul fatto  che  sia
l'art. 6 della  CEDU  che  l'art.  2  della  legge  n.  89  del  2001
apprestano la tutela da  essi  prevista  «a  tutti  coloro  che  sono
coinvolti  in  un  procedimento  giurisdizionale»  ed  ha  dato  «per
presupposto  che  il  riconoscimento  dell'indennizzo  debba   essere
garantito - qualora ve ne  siano  i  requisiti  -  anche  alla  parte
soccombente» (e' citato, in particolare, il passaggio della  sentenza
n. 585 del 2014 dove la Corte  di  cassazione  afferma  che  «L'esito
della causa, peraltro, e' ininfluente ai fini del riconoscimento  del
diritto all'indennizzo, che compete anche alla  parte  soccombente»);
e) la giurisprudenza della Corte costituzionale, anche anteriore alla
modifica dell'art. 111 Cost. operata dalla  legge  costituzionale  23
novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei  principi  del  giusto  processo
nell'articolo 111 della Costituzione), nonche' la chiara formulazione
di tale  articolo,  nel  testo  attualmente  vigente,  dimostrano  la
fondamentale importanza del giusto processo e, in particolare,  della
ragionevole durata dello stesso,  la  cui  lesione  puo'  verificarsi
anche ai danni della parte soccombente,  allo  stesso  modo  che  nei
confronti della parte vittoriosa; 
    che alla stregua di tali elementi la  parte  costituita  conclude
chiedendo alla Corte costituzionale di fare propria l'interpretazione
costituzionalmente conforme  della  disposizione  censurata  da  essa
proposta secondo cui la parte soccombente puo' chiedere e ottenere un
indennizzo  in  ragione  del  danno  conseguente  alla   durata   non
ragionevole del  processo  e  di  rigettare,  percio',  la  sollevata
questione; 
    che e' intervenuta nel giudizio l'associazione Cittadinanzattiva,
non costituita nel giudizio principale; 
    che,   quanto   all'ammissibilita'   del   proprio    intervento,
l'associazione ripercorre anzitutto  la  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale relativa all'intervento di soggetti non costituiti nel
giudizio a quo, sottolineando, in particolare,  che:  a)  «la  rigida
chiusura dei primi trent'anni della giurisprudenza costituzionale, in
virtu' della quale nel giudizio costituzionale non  avrebbero  potuto
costituirsi soggetti diversi da quelli "parte"  del  giudizio  a  quo
[...] e' stata modificata nel tempo», come confermato dalla  sentenza
n. 314 del 1992 nella quale la Corte costituzionale affermo' che  non
e' possibile «ammettere, alla luce dell'art. 24  della  Costituzione,
che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche
soggettive senza che vi sia la possibilita' giuridica per i  titolari
delle medesime posizioni di  "difenderle"  come  parti  nel  processo
stesso» (nello stesso senso, e' citata anche la sentenza  n.  76  del
2001); b) in alcune decisioni, la  Corte  costituzionale  ha  ammesso
l'intervento  di  enti  terzi,  in   ragione   del   loro   carattere
rappresentativo  dell'interesse  collettivo  direttamente   coinvolto
dalla questione, come e'  avvenuto  con  riguardo  all'intervento  di
ordini professionali in giudizi concernenti la legittimita' di  norme
relative ai diritti e ai doveri del  professionista,  specificamente,
della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli
odontoiatri,  in  un  caso  nel  quale  l'esigenza  di  tutelare   la
professionalita'  della   categoria   ha   integrato   un   interesse
giuridicamente rilevante inerente alla controversia principale che ha
reso ammissibile l'intervento  (sentenza  n.  456  del  1993)  e  del
Consiglio nazionale forense, il  cui  intervento,  nella  specie,  ad
opponendum, fu ammesso dalla Corte costituzionale sul rilevo che  «il
Consiglio nazionale forense tutela un interesse pubblicistico, ragion
per cui non si puo' non riconoscergli un ruolo di rappresentanza  sia
delle diverse articolazioni associative, altrimenti prive d'un canale
di comunicazione istituzionale, sia dei singoli che non aderiscano ad
alcuna associazione. [...] E' quindi ammissibile l'intervento  [...],
giacche' si tratta di questioni inerenti allo statuto degli  avvocati
e procuratori, il cui esito non e' indifferente  all'esercizio  delle
attribuzioni dello stesso Consiglio» (sentenza n. 171 del  1996);  c)
in altre pronunce, la Corte costituzionale ha ammesso l'intervento di
associazioni o altri soggetti terzi rispetto al giudizio  principale,
in particolare, del Comitato olimpico nazionale italiano  (CONI),  in
quanto destinatario ex lege del provento delle prestazioni della  cui
costituzionalita'  si  dubitava  (ordinanza  n.  50  del  2004),  del
genitore di un'alunna con  riguardo  ad  una  questione,  concernente
l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, sollevata in  un
giudizio promosso dal genitore di un alunna che frequentava la stessa
scuola (ordinanza n. 389 del 2004), di  alcune  Province,  in  quanto
un'eventuale dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  della
norma censurata avrebbe avuto, nella prospettazione  del  rimettente,
la conseguenza di far venire meno, con effetto diretto  su  tutte  le
Province   intervenienti,   il   fondamento    normativo    dell'atto
amministrativo impugnato nel giudizio a quo  (ordinanza  n.  250  del
2007), di una societa' per azioni, in quanto destinataria diretta, ai
sensi del quarto comma dell'art. 111 cod. proc. civ.,  degli  effetti
della decisione della Corte (ordinanza letta in  udienza  e  allegata
alla sentenza n. 172  del  2006),  mentre  la  stessa  Corte  sarebbe
«ancora rigida nell'escludere  la  possibilita'  di  intervento  [nei
casi] che non hanno alcuno  specifico  legame  con  la  questione  di
legittimita' costituzionale» (sono citate, in tale senso, le sentenze
n. 96 e n. 76 del 2008, n. 345 del 2005, n. 25 del  2000),  dovendosi
ancora notare, sempre secondo l'associazione Cittadinanzattiva,  che,
in occasione di un giudizio di ammissibilita' di un  referendum,  con
l'ordinanza letta nella camera di consiglio del 10 gennaio  2005,  la
Corte costituzionale ha disposto di ammettere gli scritti  presentati
da soggetti diversi da quelli contemplati dall'art. 33 della legge 25
maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione
e sulla iniziativa legislativa del  popolo)  e  tuttavia  interessati
alla decisione sull'ammissibilita' del  referendum,  come  contributi
contenenti argomentazioni ulteriori rispetto a  quelle  altrimenti  a
disposizione della Corte, ammissione confermata con la sentenza n. 45
del 2005 (dove si precisa che essa non si traduce pero' in un  potere
dei detti soggetti di partecipare al  procedimento,  con  conseguente
diritto ad illustrare le relative tesi  in  camera  di  consiglio,  a
differenza di cio' che vale per  i  soggetti  espressamente  indicati
dall'art. 33 della legge n. 352 del 1970, vale a dire per i promotori
del referendum e per il Governo); 
    che l'indicata giurisprudenza dimostrerebbe -  sempre  ad  avviso
dell'associazione Cittadinanzattiva - che  la  Corte  costituzionale,
negli   ultimi   venti   anni,   «ha   espresso    un    orientamento
progressivamente favorevole all'apertura, caso per caso,  soprattutto
laddove  soggetti  singoli  o  associazioni  vantassero  un  rapporto
diretto con la questione di legittimita' costituzionale  e,  in  ogni
caso,  tenendo  presente  l'importanza  di  contributi  di   soggetti
diversi, per consentire un arricchimento del contraddittorio,  in  un
processo che  ha  ad  oggetto  un  interesse  pubblico:  quello  alla
decisione sulla legittimita' costituzionale della legge»; 
    che  per   quanto   attiene,   specificamente,   all'associazione
Cittadinanzattiva, l'interveniente precisa che essa: a) agisce per la
tutela dei diritti umani, per la promozione e l'esercizio pratico dei
diritti sociali e politici  nella  dimensione  nazionale,  europea  e
internazionale  e  a  tutela  e   salvaguardia   dell'ambiente,   del
territorio, della salute, della sicurezza individuale  e  collettiva;
b) e' iscritta nell'elenco delle associazioni dei consumatori  ed  e'
legittimata  ad  agire  a  tutela  degli  interessi  collettivi   dei
consumatori e  degli  utenti  ai  sensi  dell'art.  139  del  decreto
legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice  del  consumo,  a  norma
dell'articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229); c)  e'  iscritta
all'anagrafe delle organizzazioni non lucrative di utilita'  sociale;
d) e' stata riconosciuta  come  persona  giuridica  nel  2012  ed  e'
iscritta  nel  Registro  delle  persone  giuridiche;  e)   e'   stata
riconosciuta  legittimata   a   rappresentare   gli   interessi   dei
consumatori in importanti giudizi civili e penali sin dal 1991; f) e'
stata riconosciuta quale «associazione che, in attuazione di principi
costituzionalmente garantiti, del dovere inderogabile di solidarieta'
sociale (art. 2 Cost.) e della tutela della salute come  fondamentale
diritto dell'individuo  e  interesse  della  collettivita'  (art.  32
Cost.) svolge meritoria attivita' tendente a verificare  il  rispetto
ovvero la violazione dei fondamentali diritti del  malato»  (in  tali
termini,  la  sentenza  del  Pretore  di  Sapri  n.  132/91,   citata
dall'interveniente); 
    che per tali ragioni - conclude l'interveniente - «l'associazione
Cittadinanzattiva  risulta  portatrice  di  un  interesse,   se   pur
collettivo  e  superindividuale,  diretto,  attuale  e  concreto   al
rispetto dei diritti costituzionali e, con particolare riferimento al
giudizio   costituzionale   pendente,   al   rispetto   dei   diritti
costituzionali  relativi  al  giusto  processo,  come  quello   della
ragionevole durata. Cittadinanzattiva infatti nello svolgimento delle
proprie attivita' statutarie [...] relative alla garanzia dei diritti
svolge una importante azione in ambito giudiziario  e,  pertanto,  il
rispetto dei principi ad esso sottesi risulta imprescindibile»; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  l'associazione  Cittadinanzattiva  svolge  considerazioni
identiche a quelle esposte nell'atto di costituzione in giudizio  del
ricorrente nel giudizio principale P.L.; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 20 dicembre 2013 (r.o. n. 57 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 26 novembre  2013,  con  il
quale B.F. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo; b) che  il  ricorrente  nel
giudizio  a  quo  era  risultato  soccombente   in   detto   processo
presupposto (con condanna  alla  rifusione  delle  spese  processuali
relative ai due gradi di  merito  dello  stesso),  definito  con  una
decisione divenuta definitiva il 13 maggio 2013; c) che la domanda di
riparazione era stata proposta nel rispetto del termine di  decadenza
previsto dall'art. 4, comma 1, della legge n.  89  del  2001,  tenuto
conto anche della sospensione del  termini  processuali  nel  periodo
feriale dal 1° agosto 2013 al 15 settembre 2013; d) che  il  processo
presupposto, articolatosi in due gradi di  merito  e  nella  fase  di
legittimita', aveva avuto una durata effettiva complessiva di ventuno
anni, un mese e dodici giorni, eccedente, percio', di quindici  anni,
un mese e dodici giorni il termine  ragionevole  stabilito  dall'art.
2-bis e 2-ter (recte: dai commi 2-bis  e  2-ter  dell'art.  2)  della
legge n. 89 del 2001; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa Corte  del  27
settembre 2013 iscritta al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 30 dicembre 2013 (r.o. n. 58 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 5  dicembre  2013,  con  il
quale L.M.P. aveva chiesto l'indennizzo del danno subito per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo; b) che  il  ricorrente  nel
giudizio  a  quo  era  risultato  soccombente   in   detto   processo
presupposto, definito con una pronuncia  divenuta  definitiva  il  16
settembre 2013; c) che la domanda di riparazione era  stata  proposta
nel rispetto del termine di decadenza previsto dall'art. 4, comma  1,
della legge n. 89 del 2001; d) che il  ricorrente  aveva  assunto  la
qualita' di parte del detto processo presupposto non nel giudizio  di
primo grado, introdotto avverso la societa' N.P. dei fratelli L.M. C.
e P., ma in quello di appello, «dal  medesimo  formulato  avverso  la
sentenza emessa in data 28 settembre-5  ottobre  2004  dal  Tribunale
civile di  Messina,  seconda  sezione  stralcio»;  d)  che  il  detto
processo presupposto,  limitatamente  all'unico  grado  al  quale  il
ricorrente aveva partecipato, aveva avuto  una  durata  effettiva  di
quattro anni, undici mesi e ventidue giorni, eccedente,  percio',  di
due anni, undici  mesi  e  ventidue  giorni  il  termine  ragionevole
stabilito dall'art. 2-bis e 2-ter (recte: dai  commi  2-bis  e  2-ter
dell'art. 2) della legge n. 89 del 2001; e) che, «tenuto conto  degli
interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa  anche
in considerazione delle condizioni personali della  parte,  si  stima
equo ai sensi dell'articolo 2056 C.C. riconoscere la somma  di  € 750
per ogni anno, o frazione di anno superiore a  sei  mesi  quale  equo
indennizzo, e quindi, complessivamente, l'importo di euro 2250»; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa Corte  del  27
settembre 2013 ed iscritta al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 25 novembre 2013 (r.o. n. 59 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 18 novembre  2013,  con  il
quale G.A. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo dalla stessa  promosso,  con
ricorso, depositato il 7  luglio  1999,  al  Tribunale  ordinario  di
Patti, sezione lavoro, nei confronti  dell'Istituto  nazionale  della
previdenza   sociale   (INPS),   per   ottenere   la    dichiarazione
dell'illegittimita' del provvedimento di  revoca  della  pensione  di
invalidita' e la condanna  del  detto  Istituto  al  pagamento  della
prestazione dal dicembre 1996; b) che tale processo  presupposto  era
stato definito con  la  sentenza  del  Tribunale  di  Patti,  sezione
lavoro, n. 1467/12, emessa il 25  maggio  2012  e  depositata  il  25
giugno 2012, passata in giudicato, che aveva rigettato la domanda  di
G.A.,  «esonerando  la   ricorrente   dal   pagamento   delle   spese
processuali» e ponendo a carico dell'INPS le spese  della  consulenza
tecnica di ufficio; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 25 novembre 2013 (r.o. n. 60 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 15 novembre  2013,  con  il
quale P.S. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un processo dallo stesso  promosso,  con
citazione  notificata  l'11  gennaio  1997,  innanzi   al   Tribunale
ordinario di Messina, nei confronti di  un'Azienda  unita'  sanitaria
locale di Messina e di un'Azienda  ospedaliera  della  stessa  citta'
(con successiva chiamata in giudizio, da parte delle dette convenute,
delle compagnie di assicurazione L.M.A.  e  Z.A.)  e  riguardante  il
risarcimento  di  danni  da  responsabilita'  medica;  b)  che  detto
processo presupposto era stato definito con la sentenza  della  Corte
d'appello di Messina, seconda sezione civile, n. 223/12, emessa il 27
marzo 2012, depositata il 19 aprile 2012 e passata in giudicato,  che
aveva rigettato l'appello proposto da P.S. avverso la sentenza con la
quale il Tribunale di Messina aveva rigettato la domanda dallo stesso
proposta, compensando tra le parti le spese processuali; 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
identiche a quelle esposte nell'ordinanza della stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014; 
    che con ordinanza del 25 novembre 2013 (r.o. n. 61 del 2014),  la
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del
giudice designato  al  fine  di  provvedere  sulla  domanda  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo, nel corso di un procedimento avente ad oggetto una  domanda
di equa  riparazione  proposta  nei  confronti  del  Ministero  della
giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto,
ha  sollevato,  in  riferimento  all'art.  117  Cost.,  in  relazione
all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione  di  legittimita'  del
comma 3 dell'art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella  parte  in
cui limita la misura dell'indennizzo  (liquidabile  in  favore  della
parte che abbia subito un  danno  per  la  durata  irragionevole  del
processo presupposto) al "valore del diritto accertato" senza  alcuna
ulteriore  specificazione  o  limite,   comportando   in   tal   modo
l'impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
favore della parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata
interamente soccombente»; 
    che il giudice rimettente riferisce, in punto  di  fatto:  a)  di
essere investito del ricorso, proposto il 12 novembre  2013,  con  il
quale R.D. aveva chiesto l'indennizzo del danno  subito  per  effetto
dell'irragionevole durata di un giudizio  civile  promosso  nei  suoi
confronti da I.O., I.G., I.T. e I.S., con citazione notificata  il  7
novembre 1997, innanzi al Tribunale ordinario di Messina, al fine  di
ottenere il pagamento dell'indennita' prevista  dall'art.  1127  cod.
civ.; b) che detto  processo  presupposto  si  era  concluso  con  la
sentenza del Tribunale di Messina, prima sezione civile, n.  1104/12,
emessa l'8 maggio 2012 e depositata nella  stessa  data,  passata  in
giudicato, che aveva accolto la  domanda  degli  attori,  condannando
R.D. a corrispondere agli stessi la somma di  euro  23.379,50  (oltre
alla rivalutazione secondo l'indice FOI dell'ISTAT  ed  interessi  al
tasso legale sull'importo rivalutato mese  per  mese,  il  tutto  con
decorrenza dal 1° gennaio 1998 fino al pagamento o, in mancanza, fino
al passaggio in giudicato della sentenza), con detrazione della somma
di euro 4.937,77, versata dal R.D. in corso di causa - e da  imputare
prima al capitale e poi, eventualmente, agli interessi  -  alla  data
del 28 gennaio  2002,  nonche'  a  rifondere  la  meta'  delle  spese
processuali (in ragione  dell'offerta  di  pagamento  dell'indennita'
fatta dal convenuto agli attori); 
    che in punto di rilevanza e di non manifesta  infondatezza  della
questione,  la  Corte  d'appello  rimettente  svolge   considerazioni
analoghe a quelle esposte nell'ordinanza della  stessa  Corte  del  3
ottobre 2013 iscritta al n. 46 del registro ordinanze 2014; 
    che e' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  inammissibile  o
manifestamente infondata; 
    che la  difesa  dello  Stato  prospetta  deduzioni  di  contenuto
analogo a quelle di cui all'atto di intervento nel giudizio  iscritto
al n. 44 del registro ordinanze 2014. 
    Considerato che la Corte d'appello di  Reggio  Calabria,  sezione
civile, nelle persone dei giudici designati al fine di provvedere  su
domande di equa riparazione per violazione  del  termine  ragionevole
del processo proposte da soggetti che erano risultati soccombenti nei
rispettivi processi presupposti, con diciotto ordinanze di  contenuto
sostanzialmente analogo, dubita, in riferimento all'art.  117,  primo
comma, della Costituzione, della legittimita' dell'art. 2-bis,  comma
3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di  equa  riparazione
in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica
dell'articolo 375 del codice di  procedura  civile)  -  a  norma  del
quale: «La misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che, a
sua volta, stabilisce che  «Il  giudice  liquida  a  titolo  di  equa
riparazione una somma di denaro, non  inferiore  a  500  euro  e  non
superiore a  1.500  euro,  per  ciascun  anno,  o  frazione  di  anno
superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo»], non puo' in ogni caso essere superiore  al  valore  della
causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»  -
nella parte in  cui,  col  disporre  che  la  misura  dell'indennizzo
liquidabile a titolo di equa  riparazione  «non  puo'  in  ogni  caso
essere superiore [...] al valore del diritto accertato  dal  giudice»
(se inferiore al valore della causa), comporterebbe «l'impossibilita'
di liquidare in alcuna misura un'equa  riparazione  in  favore  della
parte  che,  nel  processo  presupposto,  sia  risultata  interamente
soccombente»; 
    che, secondo i  rimettenti,  la  disposizione  denunciata,  cosi'
intesa, viola l'art. 117, primo comma,  Cost.,  perche'  si  pone  in
contrasto,  in  particolare,  con  l'art.  6,  paragrafo   1,   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (di seguito, «CEDU» o «Convenzione»), firmata a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la  legge  4
agosto 1955, n. 848, il quale, nell'interpretazione che ne ha dato la
Corte europea dei diritti dell'uomo, prevede che l'equa soddisfazione
(art. 41 CEDU) per la lesione del diritto - da esso garantito -  alla
durata ragionevole del processo spetta a tutte le  parti  di  questo,
indipendentemente dal suo esito, e, in specie, anche alla  parte  che
sia risultata soccombente; 
    che, in considerazione dell'identita'  delle  questioni  proposte
con le diciotto ordinanze di rimessione, i  giudizi  di  legittimita'
costituzionale  possono  essere  riuniti  e   decisi   con   un'unica
pronuncia; 
    che, preliminarmente, deve essere  dichiarata  l'inammissibilita'
dell'intervento  dell'associazione  Cittadinanzattiva  nel   giudizio
promosso con l'ordinanza della Corte d'appello  di  Reggio  Calabria,
sezione civile, del 28 novembre 2013 (r.o. n. 56 del 2014); 
    che  la  detta  associazione,  che  non  e'  parte  del  giudizio
principale, deduce, quanto all'ammissibilita' del proprio intervento,
di  essere  «portatrice  di  un   interesse,   [...]   collettivo   e
superindividuale, diretto, attuale e concreto al rispetto dei diritti
costituzionali»,   in   particolare,   «al   rispetto   dei   diritti
costituzionali relativi al giusto processo,  come  quello  della  sua
ragionevole durata», atteso  che  «nello  svolgimento  delle  proprie
attivita' statutarie [...] relative alla garanzia dei diritti  svolge
una importante azione in ambito giudiziario e, pertanto, il  rispetto
dei principi ad esso sottesi risulta imprescindibile»; 
    che, per la costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  possono
partecipare al giudizio incidentale di legittimita' costituzionale le
sole parti  del  giudizio  principale  e  i  terzi  portatori  di  un
interesse   qualificato,   immediatamente   inerente   al    rapporto
sostanziale dedotto in giudizio (ex plurimis,  sentenze  n.  293  del
2011, n. 151 del 2009 e ordinanza letta all'udienza del 31 marzo 2009
ad essa allegata, n. 94 del 2009, n. 76 del 2008  e  ordinanza  letta
all'udienza del 26 febbraio 2008 ad essa allegata; ordinanze  n.  144
del 2010 e n. 414 del 2007); 
    che l'interesse collettivo prospettato dall'interveniente non  e'
correlato con le specifiche e peculiari posizioni soggettive  dedotte
nel giudizio a quo e, pertanto, l'associazione Cittadinanzattiva  non
vanta una posizione giuridica  individuale,  suscettibile  di  essere
pregiudicata  immediatamente  e  irrimediabilmente   dall'esito   del
giudizio    incidentale,     con     conseguente     inammissibilita'
dell'intervento dalla stessa spiegato; 
    che, sempre  in  via  preliminare,  devono  essere  disattese  le
eccezioni di inammissibilita' della sollevata  questione  prospettate
dall'Avvocatura generale dello Stato; 
    che va anzitutto rigettata l'eccezione,  formulata  dalla  difesa
statale, di inammissibilita'  della  sollevata  questione  in  quanto
diretta ad ottenere un'indicazione interpretativa sul significato  da
attribuire al limite dell'indennizzo costituito dal «valore [...] del
diritto accertato dal giudice», cio' che  configurerebbe  l'incidente
di costituzionalita' come un improprio  tentativo  di  conseguire  da
questa Corte un avallo interpretativo; 
    che, infatti, la questione sollevata non mira a ottenere l'avallo
di questa Corte all'interpretazione del comma 3 dell'art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001  che,  tra  le  varie  possibili,  i  rimettenti
ritengono preferibile, ma consiste,  piuttosto,  nella  denuncia  del
contrasto tra l'unico significato normativo che i  giudici  a  quibus
reputano attribuibile a detta disposizione - quello secondo cui  essa
comporterebbe l'impossibilita' di liquidare un indennizzo a titolo di
equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata
del  processo  in  favore  di  chi  sia  risultato,   nello   stesso,
soccombente - e il parametro costituzionale invocato; 
    che deve pure essere respinta l'eccezione, formulata dalla difesa
statale, di inammissibilita'  della  questione  sollevata  perche'  i
rimettenti  avrebbero  omesso  di  verificare  la   possibilita'   di
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
censurata,  non  avendo,  in  particolare,  «neppure  ipotizzato»  la
possibilita' «di liquidare [alla  parte  totalmente  soccombente  nel
processo   presupposto]   un   importo   compreso    nella    forbice
predeterminata dalla  legge  (500/1.500  euro  per  ciascun  anno  di
ritardo)» al comma 1 dell'art. 2-bis; 
    che, infatti, contrariamente  a  quanto  sostenuto  dalla  difesa
erariale, i giudici rimettenti hanno verificato  la  possibilita'  di
un'interpretazione costituzionalmente  orientata  della  disposizione
denunciata, ritenendola, pero', impraticabile alla  luce  del  tenore
letterale della stessa che, a loro avviso, impedirebbe di attribuirle
un significato diverso da quello sospettato di illegittimita'  («ogni
pur  dovuto  tentativo  in   tale   direzione   [dell'interpretazione
costituzionalmente  adeguata]   e'   destinato   a   scontrarsi   con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un  indennizzo  in  misura   superiore   al   "valore   del   diritto
accertato"»); 
    che deve infine  essere  respinta  anche  l'ulteriore  eccezione,
sempre   formulata   dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,   di
inammissibilita' della questione sollevata in  quanto  i  rimettenti,
nel lamentare che il limite del  valore  del  diritto  accertato  dal
giudice, comportando che nessun indennizzo possa essere liquidato  al
soccombente nel processo presupposto, si pone in contrasto con l'art.
117, primo comma, Cost., avrebbero trascurato di considerare che,  in
caso di rimozione  di  detto  limite,  allo  stesso  soccombente  nel
processo  presupposto  verrebbe   riservato   un   trattamento   piu'
favorevole di quello spettante a  chi,  nello  stesso  processo,  sia
risultato, sia  pure  parzialmente,  vittorioso  (nel  senso  che  il
diritto da lui fatto valere in giudizio e' stato affermato, almeno in
parte, esistente), atteso che, solo nei  confronti  di  quest'ultimo,
continuerebbe a trovare applicazione il limite del valore del diritto
accertato dal giudice, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost.; 
    che, infatti, la diversita'  di  trattamento  che,  nel  caso  di
accoglimento della questione sollevata, si verrebbe a determinare tra
il  soccombente  nel  processo  presupposto,  al   quale   diverrebbe
applicabile il solo, piu' favorevole, limite del valore della causa e
il  parzialmente  vittorioso  nello   stesso   processo,   al   quale
continuerebbe ad applicarsi il meno favorevole limite del valore  del
diritto accertato dal giudice, puo' fare sorgere un dubbio in  ordine
alla ragionevolezza di tale diversita'  e  all'eventuale  conseguente
contrasto con l'art. 3 Cost. che, tuttavia, di per se' solo,  non  e'
suscettibile  di  precludere  l'esame  del  merito  della   questione
sollevata e l'eventuale rimozione, in accoglimento della stessa,  del
vulnus all'art. 117, primo comma, Cost., denunciato dai rimettenti; 
    che, nel merito, la questione sollevata  deve  essere  dichiarata
manifestamente infondata; 
    che, infatti, questa Corte, con le ordinanze n. 204 e n. 124  del
2014, ha gia' dichiarato la  manifesta  infondatezza  di  un'identica
questione di legittimita' costituzionale - sollevata,  con  ulteriori
ordinanze, dalla medesima Corte d'appello di Reggio  Calabria  -  sul
rilievo dell'erroneita'  del  presupposto  interpretativo  assunto  a
fondamento della stessa, atteso che il comma 3 dell'art. 2-bis  della
legge n. 89 del 2001, nella  parte  in  cui  prevede  che  la  misura
dell'indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non puo' in
ogni caso essere superiore [...] al valore del diritto accertato  dal
giudice», deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli  casi
in cui  questi  accerti  l'esistenza  del  diritto  fatto  valere  in
giudizio dall'attore, il cui valore accertato  «costituisce  un  dato
oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la  parte  che
chiede  l'indennizzo  aveva  nel  processo   presupposto»,   con   la
conseguenza che detta censurata disposizione, contrariamente a quanto
ritenuto dai rimettenti, non comporta l'impossibilita'  di  liquidare
un indennizzo a titolo  di  equa  riparazione  della  violazione  del
diritto alla ragionevole durata  del  processo,  in  favore  di  chi,
attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente; 
    che, al riguardo, i rimettenti non hanno prospettato, nel merito,
profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli gia' esaminati  da
questa Corte con le citate ordinanze o comunque idonei ad indurre  ad
una differente pronuncia sulla sollevata  questione  di  legittimita'
costituzionale; 
    che  resta  estranea  all'oggetto  del  presente  giudizio   ogni
valutazione in ordine alla legittimita' del  limite  del  valore  del
diritto accertato dal giudice  con  riguardo  all'applicazione  dello
stesso nel caso in cui tale diritto  sia  stato  accertato  in  parte
esistente. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i  giudizi  davanti
alla Corte costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)   dichiara   inammissibile   l'intervento    dell'associazione
Cittadinanzattiva; 
    2)  dichiara  la  manifesta  infondatezza  della   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 2-bis, comma 3, della legge  24
marzo 2001,  n.  89  (Previsione  di  equa  riparazione  in  caso  di
violazione  del  termine  ragionevole   del   processo   e   modifica
dell'articolo 375 del codice  di  procedura  civile),  sollevata,  in
riferimento all'art. 117,  primo  comma,  della  Costituzione,  dalla
Corte d'appello di Reggio Calabria, sezione civile, con le  ordinanze
indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014. 
 
                                F.to: 
                    Giuseppe TESAURO, Presidente 
                    Sergio MATTARELLA, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2014. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI