N. 72 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 7 ottobre 2104
Ricorso per questione di legittimita' costituzionale disposta dal Presidente della Corte costituzionale a norma dell'art. 20 delle Norme integrative per i giudizi davanti la Corte costituzionale depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2014. Beni culturali - Esercizio di attivita' commerciali ed artigianali in aree di valore culturale e nei complessi monumentali - Previsione, al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale, interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonche' delle aree a essi contermini, che i competenti uffici territoriali del Ministero, d'intesa con i Comuni, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri la necessita', l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico - Previsione che i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d'intesa, procedimenti di riesame delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche a rotazione, che risultino non piu' compatibili con le esigenze di cui al presente comma, anche in deroga a eventuali disposizioni regionali adottate in base all'art. 28, commi 12, 13 e 14, del d.lgs. 124/1998, e successive modificazioni, nonche' in deroga ai criteri per il rilascio ed il rinnovo di posteggi per l'esercizio commerciale su aree pubbliche - Previsto indennizzo al titolare, in caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell'attivita' commerciale in una collocazione alternativa potenzialmente equivalente - Ricorso della Regione Veneto - Lamentata irragionevolezza dell'intervento normativo - Violazione della potesta' legislativa regionale nella materia concorrente della valorizzazione dei beni culturali - Violazione del principio di sussidiarieta' - Denunciata invasione della competenza legislativa residuale regionale in materia di artigianato e commercio - Violazione dei principi di buon andamento e di imparzialita' della pubblica amministrazione - Violazione del principio di leale collaborazione. - Decreto-legge 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, in legge 29 luglio 2014, n. 106, art. 4, comma 1. - Costituzione, artt. 3, 97, 117, commi primo, terzo e quarto, 118 e 120; decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, art. 70, comma 5; direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006.(GU n.47 del 12-11-2014 )
Ricorso proposto dalla Regione Veneto (codice fiscale 80007580279 - Partita I.V.A. n. 02392630279), in persona del Presidente della Giunta Regionale dott. Luca Zaia (codice fiscale ZAILCU68C27C957O), autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 1706 del 23 settembre 2014 (allegato n. 1), rappresentato e difeso, per mandato a margine del presente atto, tanto unitamente quanto disgiuntamente, dagli avv.ti Ezio Zanon (codice fiscale ZNNZEI57L07B563K) coordinatore dell'Avvocatura regionale, e Luigi Manzi (codice fiscale MNZLGU34E15H501V) del Foro di Roma, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via Confalonieri, n. 5 (per eventuali Comunicazioni: fax 06/3211370, posta elettronica certificata luigimanzi@ordineavvocatiroma.org Contro il Presidente del Consiglio dei ministri pro-tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la quale e' domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, per la dichiarazione di illegittimita' costituzionale, dell'art. 52, commi 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, cosi' come modificato e integrato dall'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 luglio 2014, n. 175. Fatto Il decreto legge 8 agosto 2013 n. 91, recante «Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita' culturali e del turismo» ha introdotto nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, l'art. 52, comma 1-bis. Questo, nel testo modificato dalla legge di conversione 7 ottobre 2013, n. 112, (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 8 ottobre 2013, n. 236), statuiva che «Al fine di contrastare l'esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attivita' commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale, con particolare riferimento alla necessita' di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonche' delle aree a essi contermini, le Direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici e le soprintendenze, sentiti gli enti locali, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri la necessita', l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico.» Tale disposizione e' stata impugnata dalla Regione del Veneto, giusta DGR n. 2183 del 3 dicembre 2013, in quanto ritenuta violare gli artt. 3, 97, 117, 118 e 120 della Costituzione della Repubblica italiana. Il giudizio avanti la Consulta, iscritto con il numero 101/2013, e' stato rinviato a nuovo ruolo a seguito delle intervenute modifiche e integrazioni apportate alla norma impugnata dall'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83. Tale ultima disposizione e' stata ulteriormente modificata in sede di conversione dalla legge 29 luglio 2014, n. 106. L'art. 52, comma 1-ter (cosi' rinumerato), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nella versione novellata, statuisce ora che: «Al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonche' delle aree a essi contermini, i competenti uffici territoriali del Ministero, d'intesa con i Comuni, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attivita' ambulanti senza posteggio, nonche', ove se ne riscontri la necessita', l'uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico. In particolare, i competenti uffici territoriali del Ministero e i Comuni avviano, d'intesa, procedimenti di riesame, ai sensi dell'articolo 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche a rotazione, che risultino non piu' compatibili con le esigenze di cui al presente comma, anche in deroga a eventuali disposizioni regionali adottate in base all'articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e successive modificazioni, nonche' in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. In caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell'attivita' commerciale in una collocazione alternativa potenzialmente equivalente, al titolare e' corrisposto da parte dell'amministrazione procedente l'indennizzo di cui all'articolo 21-quinquies, comma 1, terzo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel limite massimo della media dei ricavi annui dichiarati negli ultimi cinque anni di attivita', aumentabile del 50 per cento in caso di comprovati investimenti effettuati nello stesso periodo per adeguarsi alle nuove prescrizioni in materia emanate dagli enti locali.» Con la novella la norma gia' oggetto di precedente impugnativa avanti codesta Corte, oltre a essere stata rinumerata, onde evitare l'esistenza di due commi 1-bis, ha visto l'abrogazione dell'inciso iniziale, ove si giustificava la potesta' attribuita ai competenti uffici territoriali del Ministero, dove si dichiarava che essa perseguiva il «fine di contrastare l'esercizio, nelle aree pubbliche aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, di attivita' commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale». Malgrado le modificazioni la nuova formulazione non ha in alcun modo eliso l'illegittimita' sostanziale della previsione di legge dello Stato, che si pone comunque, anche nel testo novellato, in contrasto con la competenza legislativa regionale in materia di valorizzazione dei beni culturali, riconosciuta dall'art. 117 comma 3 della Costituzione, nonche' risulta lesiva della potesta' legislativa esclusiva delle Regioni in materia di turismo e di esercizio del commercio ex art. 117, comma 4 della Costituzione. Risultano inoltre ancora lesi la correlata competenza amministrativa riconosciuta alle Regioni a norma dell'art. 118 Cost. nonche' il principio di leale collaborazione ex art. 120 Cost. Nell'alveo di tale disposizione, gia' impugnata nel giudizio R.G. 101/2013, si pone anche comma 1-ter, parte conclusiva, dell'art. 52, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, inserito ex novo dall'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83, come convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014. Esso appare infatti in contrasto con gli artt. 3, 97, 117, commi 1, 3 e 4, 118 e 120 della Costituzione della Repubblica italiana. Prima di illustrare i motivi di illegittimita' costituzionale di questa ultima versione dell'art. 52, comma 1-ter del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ripercorre puntualmente le ragioni di illegittimita' costituzionale gia' fatte valere nel precedente giudizio di legittimita' costituzionale, stante la stretta correlazione tra il presente giudizio di legittimita' costituzionale e quello in precedenza sollevato. Sia a ricognizione di quanto svolto nel precedente ricorso, sia ai fini della eventuale riunione con il presente. «Violazione degli articoli 117 commi terzo e quarto e 118 della Costituzione La difesa regionale contesta radicalmente le finalita' apoditticamente enunciate dal legislatore statale nel testo, nel tentativo, a dire il vero velleitario, di ricondurre le previsioni dell'articolo impugnato nell'alveo dell'articolo 117 della Costituzione, quale legittima espressione di una competenza legislativa esclusiva statale. Innanzitutto, nell'incipit della disposizione medesima e' enunciato il proposito di "contrastare l'esercizio (...) delle attivita' commerciali e artigianali in forma ambulante o su posteggio, nonche' di qualsiasi altra attivita' non compatibile" allo scopo dichiarato di "assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale (...) nonche' delle aree a essi contermini". Orbene tale finalita', piu' che ad esigenze di tutela del patrimonio culturale riservata allo Stato dall'art. 117, comma secondo, lett. s), della Costituzione, pare piuttosto ascrivibile alla c.d. "valorizzazione dei beni culturali" di cui al comma terzo della Costituzione, e l'assunto trova, oltretutto, puntuale conferma proprio nel testo della disposizione in esame che le menziona espressamente. In realta', ad avviso dello scrivente patrocinio, per circoscrivere correlativamente l'ambito materiale di cui si tratta, enucleandolo in ragione della competenza funzionale esercitabile in relazione all'amplissima categoria costituita dal patrimonio culturale, appare utile richiamare la sentenza n. 212 del 2006, nella quale codesta Ecc.ma Corte ha chiaramente delineato l'elemento qualificante il profilo sussumibile nel termine "valorizzazione", argomentando nel contesto dei beni ambientali. Nello specifico, e' stata individuata la competenza regionale, ai sensi dell'articolo 117, comma terzo della Costituzione in tema di valorizzazione del patrimonio tartuficolo, quale risorsa ambientale della Regione suscettibile di razionale sfruttamento. Conseguentemente, senza alcun diaframma logico od ermeneutico, se si considera che il precetto costituzionale di cui all'articolo 117, comma terzo, della Costituzione pone la "valorizzazione dei beni ambientale in endiadi con la "valorizzazione dei beni culturale, appare ragionevole supporre che rappresenti un criterio distintivo certo, ai fini della demarcazione della competenza in materia, la suscettibilita' del patrimonio culturale ad essere oggetto di un razionale sfruttamento, anche attuato mediante le attivita' turistiche, commerciali ed artigianali contigue a tale patrimonio ed indotte dall'afflusso turistico che in tali aree risulta alquanto consistente, il che vale a dire che il patrimonio culturale e' indubitabilmente una risorsa la cui valorizzazione compete alla Regione. Sul punto, peraltro, gia' nella sentenza n. 9 del 2004, codesto Ecc.mo Collegio non aveva mancato di individuare le direttrici normative della materia de qua anche per quanto attiene le funzioni amministrative correlate, particolarmente laddove affermava che: "Il quadro complessivo della disciplina dei beni culturali va ricostruito sulla base di molteplici dati normativi, eterogenei per il loro contesto specifico e per il rango della fonte. In particolare, benche' il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, sia stato emanato in un momento antecedente la riforma di cui alla legge costituzionale n. 3 del 2001, questa Corte ha gia' riconosciuto (v. sentenza n. 94 del 2003) che utili elementi per la distinzione tra tutela e valorizzazione dei beni culturali possono essere desunti dagli artt. 148, 149, 150 e 152 di tale decreto. L'art. 148 stabilisce che ai fini del decreto stesso s'intende per tutela «ogni attivita' diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali»; per gestione «ogni attivita' diretta, mediante l'organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalita' di tutela e valorizzazione»; per valorizzazione «ogni attivita' diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione». L'art. 149, comma 1, prescrive che «ai sensi dell'art 1, comma 3, lettera d), della legge 15 marzo 1997, n. 59, sono riservate allo Stato le funzioni e i compiti di tutela dei beni culturali la cui disciplina generale e' contenuta nella legge 1° giugno 1939, n. 1089, e nel decreto del Presidente della Repubblica 30 settembre 1963, n. 1409, e loro successive modifiche e integrazioni». L'art. 150 disciplina il trasferimento della gestione di alcuni beni, secondo il principio di sussidiarieta', alle regioni, alle province o ai comuni. L'art. 152 prevede al comma 1 che lo Stato, le regioni e gli enti locali curino, ciascuno nel proprio ambito, la valorizzazione dei beni culturali e che, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 59 del 1997, la valorizzazione venga di norma attuata mediante forme di cooperazione strutturali e funzionali tra Stato, regioni ed enti locali, secondo quanto previsto dagli articoli 154 e 155 dello stesso decreto legislativo. Il comma 3 dell'art. 152 stabilisce che le funzioni e i compiti di valorizzazione comprendono, in particolare, le attivita' concernenti: «a) il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza, integrita' e valore; b) il miglioramento dell'accesso ai beni e la diffusione della loro conoscenza anche mediante riproduzioni, pubblicazioni ed ogni altro mezzo di comunicazione; c) la fruizione agevolata dei beni da parte delle categorie meno favorite; d) l'organizzazione di studi, ricerche ed iniziative scientifiche anche in collaborazione con universita' ed istituzioni culturali e di ricerca; e) l'organizzazione di attivita' didattiche e divulgative anche in collaborazione con istituti di istruzione; f) l'organizzazione di mostre anche in collaborazione con altri soggetti pubblici e privati; g) l'organizzazione di eventi culturali connessi a particolari aspetti dei beni o ad operazioni di recupero, restauro o ad acquisizione; h) l'organizzazione di itinerari culturali, individuati mediante la connessione fra beni culturali e ambientali diversi, anche in collaborazione con gli enti e organi competenti per il turismo». A sua volta il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 (Istituzione del Ministero per i beni e le attivita' culturali), all'art. 10, comma 1, lettera b-bis) - disposizione aggiunta con l'art. 33 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, successivamente quindi all'entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, e poi modificata dal comma 52 dell'art. 80 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 e dall'art. 6 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 - nel prevedere la possibilita' di dare in concessione a soggetti diversi da quelli statali la gestione di servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, tramite, l'emanazione di un regolamento che disciplini tali concessioni, indica tra i criteri e le garanzie cui il regolamento dovra' uniformarsi la salvezza della riserva statale sulla tutela dei beni. I dati normativi riferiti permettono di affermare quanto segue La tutela e la valorizzazione dei beni culturali, nelle normative sono state considerate attivita' strettamente connesse ed a volte, ad una lettura non approfondita, sovrapponibili. Cosi l'art 148 del decreto legislativo n. 112 del 1998 annovera, come s'e' visto, tra le attivita' costituenti tutela quella diretta «a conservare i beni culturali e ambientali», mentre include tra quelle in cui si sostanzia la valorizzazione quella diretta a «migliorare le condizioni di conservazione dei beni culturali e ambientali». La gestione, poi, nella definizione che ne da' il medesimo articolo, e' funzionale sia alla tutela sia alla valorizzazione. Il menzionato art. 152 dello stesso decreto legislativo considera la valorizzazione come compito che Stato, regioni ed enti locali avrebbero dovuto curare ciascuno nel proprio ambito. Tuttavia le espressioni che, isolatamente considerate, non denotano nette differenze tra tutela e valorizzazione, riportate nei loro contesti normativi dimostrano che la prima e' diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed e' significativo che la prima attivita' in cui si sostanzia la tutela e' quella del riconoscere il bene culturale come tale. La valorizzazione e' diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale. Sicche' anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione ed ai modi di questa. Occorre infine rilevare che in nessun atto normativo precedente la modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la tutela dei beni culturali viene attribuita a soggetti diversi dallo Stato; successivamente a questa, anzi, il citato comma 1, lettera b-bis), dell'art. 10 del decreto legislativo n. 368 del 1998, nel prevedere le concessioni per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale, stabilisce, come s'e' detto, che deve restare ferma la riserva statale sulla tutela dei beni. Alla luce delle suesposte considerazioni la riserva di competenza statale sulla tutela dei beni culturali e' legata anche alla peculiarita' del patrimonio storico-artistico italiano, formato in grandissima parte da opere nate nel corso di oltre venticinque secoli nel territorio italiano e che delle vicende storiche del nostro Paese sono espressione e testimonianza. Essi vanno considerati nel loro complesso come un tutt'uno, anche a prescindere dal valore del singolo bene isolatamente considerato. Nel modificare il quadro costituzionale delle competenze di Stato e Regioni per la parte che qui interessa, il legislatore costituente ha tenuto conto sia delle caratteristiche del patrimonio storico-artistico italiano, sia della normativa esistente, attribuendo allo Stato la potesta' legislativa esclusiva e la conseguente potesta' regolamentare in materia di tutela dei beni culturali e ambientali (art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.) ed alla legislazione concorrente di Stato e Regioni la valorizzazione dei beni culturali e ambientali (art. 117, terzo comma, Cost.). Se ne deduce che la valorizzazione e' diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale; sicche' anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima nei luoghi in cui avviene la fruizione e con riferimento ai modi di questa. Conseguentemente, i divieti o i limiti imponibili, come previsti nella norma interloquita, laddove finalizzati alla maggior fruizione dei beni monumentali o degli altri immobili interessati da flussi turistici, e' ascrivibile ineludibilmente alla materia «valorizzazione dei beni culturali». L'esaustiva ricostruzione rinvenibile nell'articolata disamina che precede, come parzialmente riportata, evidenzia inequivocabilmente come il fulcro della questione consista non tanto nell'apposizione di vincoli all'esercizio di determinate attivita', quanto piuttosto nell'individuazione dei soggetti istituzionali competenti, sinora normativamente indicati secondo una metodologia ondivaga, oscillante nel tempo tra Stato ed enti locali, senza tenere in debita considerazione la molteplicita' delle diverse potesta' correlate alla cura degli interessi pubblici, nei differenti ambiti del commercio e della cultura, in una logica di necessario contemperamento delle posizioni eventualmente contrapposte. I limiti apponibili all'esercizio del commercio, infatti, sono plurimi e attualmente contemplati all'articolo 3 del D.L. n. 138 del 2011, gia' sopra evocato, il cui comma I viene riportato di seguito. I. Comuni, Province, Regioni e Stato, entro il 30 settembre 2012, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attivita' economica privata sono libere ed e' permesso tutto cio' che non e' espressamente vietato dalla legge nei soli casi di: a) vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione; c) danno alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e contrasto con l'utilita' sociale; d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale; e) disposizioni relative alle attivita' di raccolta di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica." Appare pleonastico sottolineare come la predetta norma si configuri, principalmente, quale limite alla liberta' di iniziativa economica sancita all'articolo 41 della Costituzione e, come tale, e' correttamente correlata alla salvaguardia di beni integranti altrettanti valori della Costituzione perche' ritenuti di preminente rilevanza, quali la sicurezza, la salute, l'ambiente e la finanza pubblica. E, in proposito, in forza dell'elementare principio di sussidiarieta' applicato in subiecta materia, e' quella comunale l'amministrazione deputata a presidiare, mediante l'esercizio di un'adeguata potesta' regolamentare, il rispetto delle norme stabilite dai soggetti titolari della potesta' legislativa, e necessariamente emanate in conformita' ai precetti costituzionali. A tale posizionamento istituzionale devono essere ricondotti i poteri enunciati nell'articolo 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, che il Sindaco esercita in qualita' di ufficiale del Governo e che sono connotati da un'ampiezza tale da non subire compromissioni o contenimenti neppure in ossequio ai noti, prevalenti e talvolta prevaricanti principi di liberta' di iniziativa economica, tutela della concorrenza e del mercato e liberalizzazione commerciale. E l'indiscutibile estensione delle anzidette potesta' sindacali trova un'ulteriore, recentissima conferma proprio nella circolare esplicativa n. 3644/C del 28 ottobre 2011, con la quale, successivamente all'abrogazione dei limiti di orario e degli obblighi di chiusura degli esercizi commerciali, avuto specifico riguardo all'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande, il Ministero dello Sviluppo Economico ha espressamente riconosciuto la legittimita' di "eventuali specifici atti provvedimentali, adeguatamente motivati e finalizzati a limitare le aperture notturne o a stabilire orari di chiusura correlati alla tipologia e alle modalita' di esercizio dell'attivita' di somministrazione di alimenti e bevande per motivi di pubblica sicurezza o per specifiche esigenze di tutela" (...) "potendosi legittimamente sostenere che trattasi di "vincoli" necessari ad evitare "danno alla sicurezza" (...) " indispensabili per la protezione della salute umana (...) dell'ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale". In ogni caso, alla potesta' amministrativa comunale senza dubbio tuttora sussistente, non soltanto nelle linee generali ed amplissime sopra cennate, ma anche a termini dello stesso comma 1 dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 42/2004, si aggiunge una potesta' legislativa regionale ai sensi del decreto legislativo n. 114 del 1998 che individua le Regioni quali soggetti istituzionali titolari del potere normativo in materia di commercio, con previsione, peraltro, convalidata dalla successiva giurisprudenza di codesta Ecc.ma Corte, che ha espressamente ricondotto l'ambito settoriale in argomento nel quarto comma dell'articolo 117 della Costituzione. Ed in punto, la Regione ha esercitato tale potere inserendo il comma 4-bis nell'articolo 4 della legge regionale 6 aprile 2001, n. 10 "Nuove norme in materia di commercio su aree pubbliche", introdotto dall'articolo 16 della legge regionale 25 febbraio 2005, n. 7. La disposizione, ancora in vigore ed oggetto di applicazione, prevede espressamente il divieto di esercitare il commercio su aree pubbliche in forma itinerante nei centri storici dei comuni con popolazione superiore ai cinquantamila abitanti. La norma e' stata censurata con giudizio promosso in via incidentale dal TAR Veneto che ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale perche' discriminatoria nei confronti di una vasta platea di piccoli imprenditori. (...) La sentenza n. 247 del 2010, conclusiva del giudizio de quo, appare significativa per l'odierna controversia poiche', per un verso, ribadisce la competenza regionale nella materia commercio "Per non limitarsi alla, pur inequivoca, intitolazione («Nuove norme in materia di' commercio su aree pubbliche»), appare indubbio che le disposizioni della legge in esame - avendo quale oggetto specifico la normativa regionale del commercio su aree pubbliche - siano riconducibili immediatamente alla materia «commercio», di competenza residuale delle regioni (sentenze n. 165 e n. 64 del 2007)"; e, per altro verso, ha riscontrato la coerenza della norma regionale rispetto alla ratio, "essendo del tutto naturale che, nell'ambito di una generale regolamentazione della specifica attivita' del commercio in forma itinerante, vada ricompresa anche la possibilita' di disciplinarne nel concreto lo svolgimento, nonche' quella di vietarne l'esercizio in ragione della particolare situazione di talune aree metropolitane (centri storici dei Comuni con popolazione superiore a cinquantamila abitanti, di modo che l'esercizio del commercio stesso avvenga entro i limiti qualificati invalicabili della tutela dei beni ambientali e culturali. Infatti, la ratio del divieto trova altresi' giustificazione nello scopo di garantire indirettamente attraverso norme che ne salvaguardino la ordinata fruizione la valorizzazione dei maggiori centri storici delle citta' d'arte del Veneto a forte vocazione turistica". La correttezza dell'operato del legislatore regionale e' stata valutata in ragione dalla determinatezza e puntualita' dell'intervento che, in quanto circoscritto a specifiche condizioni, e' risultato essere proporzionale e ragionevole rispetto all'obiettivo perseguito. Nella pronuncia, infatti, si legge che "La norma censurata, pertanto, non produce alcuna lesione di regole a tutela della concorrenza, giacche' il divieto sancito dalla Regione Veneto non incide, ne' direttamente ne' in direttamente, sulla liberta' di concorrenza; esso si colloca infatti - senza introdurre discriminazioni fra differenti categorie di operatori economici che esercitano l'attivita' in posizione identica o analoga nel diverso solco della semplice regolamentazione territoriale del commercio (disciplinala in coerenza con la salvaguardia dei beni culturali caratterizzanti la specifica realta' del territorio regionale) ed appare razionalmente giustificato dalle concrete e localizzabili esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale. Come gia' detto, la disposizione censurata assicura un contemperamento ragionevole fra la liberta' dell'esercizio del commercio su aree pubbliche in forma itinerante (la cui autorizzazione, peraltro, abilita all'esercizio della relativa attivita' in tutto il territorio nazionale: art. 4, comma 2, della legge regionale n. 10 del 2001) e l'introduzione di limitate eccezioni, oggettivamente motivate dall'esigenza di non superare i limiti posti a tutela dei centri storici delle grandi citta' d'arte della Regione. Ma tutto quanto prima esposto alimenta il dubbio che la disposizione regionale vigente e quella odiernamente censurata dalla regione Veneto siano suscettibili di sovrapposizioni quantomeno potenziali e possano generare perplessita' ermeneutiche circa l'individuazione della normativa concretamente applicabile perche' prevalente ed assorbente entrambi i profili disciplinatori afferenti tanto il commercio quanto la cultura, senza conflitti di competenze. In tal senso, la norma regionale menzionata si configura come correttamente delimitata tanto territorialmente, essendo riferita ai centri storici dei comuni con popolazione superiore a "cinquantamila abitanti" , quanto oggettivamente, poiche' concerne appunto il "commercio su aree pubbliche in forma itinerante". Anche sotto tale profilo la disposizione statale appare incidente con la disciplina regionale, proprio perche', a differenza della norma regionale veneta, contempla indistintamente tutte le aree pubbliche di particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico, senza alcun criterio discretivo, ulteriore rispetto alla presenza di complessi monumentali o di altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti. Per effetto della novella statale oggetto del presente giudizio, quindi, la portata precettiva delle disposizioni regionali, che avessero trovato puntuale attuazione nelle conseguenti e consequenziali determinazioni comunali, potrebbe subire un'inammissibile compromissione a seguito di un atto provvedimentale emanato dal Sovrintendente nell'esercizio di potesta' amministrative connotate da un'estensione tale da travolgere qualsiasi competenza costituzionalmente garantita, sino a rasentare l'arbitrio. Cio' che sconcerta sono appunto le modalita' indiscriminate, e destrutturanti il contesto ordinamentale, con le quali l'intervento de quo e' stato legislativamente concepito, non certo le esigenze di valorizzazione e migliore fruibilita' del patrimonio culturale allo stesso sottese. E' per riaffermare tali esigenze, salvaguardando tuttavia gli assetti disciplinatori regionali gia' vigenti ed efficacemente operanti, che la difesa regionale ha promosso in via principale la presente questione di legittimita' costituzionale, sollecitando la pronuncia di codesta Ecc.ma Corte affinche' chiarisca la reale portata legislativa della disposizione impugnata ed eventualmente la espunga dal quadro normativo di riferimento perche' con esso incompatibile, restituendo certezza giuridica agli operatori economici del settore e ricomponendo in termini di coerenza quello che attualmente e' un insieme frammentario e non coordinato di una pluralita' di competenze soggettivamente ed oggettivamente simultaneamente interferenti. Tale esigenza chiarificatrice pare corroborata anche dall'inciso contenuto nella disposizione statale che, specificando ulteriormente l'area suscettibile di valorizzazione in termini di presenza di "immobili interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti", attrae nell'alveo materiale delle norme anche la disciplina del turismo, che e' esso pure ambito soggetto alla potesta' legislativa residuale regionale. Se dunque, sia la potesta' normativa in tema di commercio, che quella in materia di turismo sono di attribuzione regionale; se, parimenti regionale e' la competenza legislativa, seppure concorrente, in ordine agli interventi destinati alla valorizzazione del patrimonio culturale, nei cui confronti si configurano come insussistenti tanto una potesta' trasversale statale ricondotta alla tutela della concorrenza di cui alla lettera c) dei comma secondo dell'articolo 117 della Costituzione, quanto la stessa potesta' esclusiva afferente la tutela del predetto patrimonio di cui all'art. 117, comma secondo, lettera s) della vigente Costituzione, trattandosi di limiti e divieti all'esercizio di attivita' piccolo-imprenditoriale, risulta incomprensibile e sistematicamente inaccettabile il disallineamento afferente l'esercizio delle potesta' amministrative che la disposizione impugnata determina. Sul punto, e' certamente indiscutibile che possa ed anzi debba essere esercitata la potesta' amministrativa comunale anche in riferimento alla vastissima categoria dei beni qualificabili come culturali che, come precisato nell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42/2004, include i beni immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, ivi comprese le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico. Ma gli anzidetti poteri comunali presentano altresi' profili di presidio e preservazione, laddove, ad esempio, devono garantire l'osservanza di norme particolarmente rigorose, quali l'art. 20 del medesimo decreto, che sanziona autonomamente, qualificandoli di peculiare gravita', gli alti di distruzione, deterioramento o danneggiamento di beni culturali, i quali, peraltro, sono normativamente sottratti anche ad usi non compatibili (...). Indubbiamente, sino all'intervento legislativo in esame, tutte le cennate potesta' amministrative sono state esercitate nel rigoroso rispetto del potere consultivo di cui sono tributari gli organi statali, che, ora, invece, per effetto della novella, diventano i protagonisti dell'amministrazione attiva, secondo un modello di rovesciamento prospettico che emargina le amministrazioni comunali ad un molo meramente valutativo, e neppure vincolante, con riverberi decisivi sulla restante e rilevantissima attivita' di governo del territorio, sia pianificatoria che organizzativa. La potesta' legislativa regionale rimane paralizzata a causa dell'indeterminatezza dei parametri di riferimento e della concreta impossibilita' di statuire norme destinate a disciplinare ambiti nei quali la potesta' esercitata e' di rango statale. Nella gia' citata decisione n. 247 del 2010, codesto Ecc.mo Collegio ha appunto riconosciuto la competenza comunale in materia in relazione al disposto dell'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo n. 42/2004, nel testo all'epoca vigente, affermando che: D'altronde, di tale esigenza si e' fatto carico anche il legislatore statale con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che - rendendo esplicito che le pubbliche piazze, le vie, le strade e gli altri spazi urbani di interesse artistico o storico rientrano fra i beni culturali, e che essi sono pertanto oggetto di tutela ai fini della conservazione del patrimonio artistico e del decoro urbano (art. 10, comma 4, lettera g) - ha ribadito, in conformita' di quanto gia' stabilito dall'art. 28, comma 16, del decreto legislativo n. 114 del 1998, che i Comuni «individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l'esercizio del commercio» (art. 52). Non possono, quindi, condividersi, perche' oltretutto immotivate, le ragioni fondanti la trasmigrazione della competenza amministrativa attiva dagli enti locali allo Stato, in assenza di qualsiasi coordinamento istituzionale con la potesta' amministrativa comunale, che a tutti gli effetti rimane, ed incidendo surrettiziamente sulle attribuzioni legislative regionali, utilizzando a pretesto un ambito, quale quello della "valorizzazione dei beni culturali", particolarmente duttile per la complessita' dei profili che involge. E cio', sebbene proprio l'articolo 1, comma 3 del decreto legislativo n. 42/2004 assegni espressamente alle Regioni un ruolo determinante appunto per la valorizzazione dei beni culturali come gia' abbondantemente evidenziato. Ecco perche' anche a voler ammettere una diversa valutazione degli interessi pubblici correlati ai contesti attratti dal legislatore statale nella regolamentazione in argomento, comunque l'intervento normativo in esame appare contrario al terzo comma all'articolo 117 della Costituzione, ove e' allocata la valorizzazione dei beni culturali, atteso che, trattandosi di ambito soggetto a potesta' legislativa concorrente, esso avrebbe dovuto essere contenuto nei margini che gli sono propri e cioe' nei limiti dell'enucleazione dei principi fondamentali. Invece, la disposizione interloquita ha attribuito ad un organo statale un potere coercitivo generale ed indeterminato, del tutto analogo a quello previsto nel previgente testo unico m materia di beni culturali di cui al decreto legislativo n. 490/1999, senza porre la minima attenzione al riparto di competenze di estrazione costituzionale attualmente esistente. Infine, ad avviso dello scrivente patrocinio, e' giuridicamente preoccupante la previsione, pure contenuta nell'articolo 4bis della legge n. 112/2013, che, in riferimento alle aree individuabili per l'applicazione dei provvedimenti statali regolatori o inibitori, non si limita alle locuzioni utilizzate, che gia' risultano singolarmente indeterminate e non identificabili, come sopra eccepito, ma include, altresi', le "aree a essi contermini", laddove "essa puo' indicare anche i complessi monumentali o semplicemente i beni immobili. Correlativamente, non meno criptica si configura la possibilita' di estendere l'oggetto dell'intervento amministrativo statale sino a ricomprendere "qualsiasi altra attivita' non compatibile", in spregio dell'art. 97 della Costituzione. E sicuramente, si ribadisce, tale indeterminatezza non puo' non riflettersi negativamente anche sulla potesta' amministrativa regionale di cui all'articolo 118 della Costituzione, laddove quest'ultima sia finalizzata alla pianificazione e programmazione delle attivita' sia commerciali, che artigianali, che turistiche, rilevata l'assenza di qualsiasi parametro di valutazione, nonche' di qualsivoglia meccanismo di raccordo istituzionale, che consenta il legittimo esercizio delle predette attribuzioni secondo i noti criteri di economicita', efficacia ed efficienza, senza spreco di risorse, perseguendo quegli obiettivi di valorizzazione del patrimonio culturale che non possono essere disgiunti da metodi di ottimizzazione e finalita' di sviluppo. Si rammenta, infatti, che la consultazione obbligatoria, ma non vincolante, e' prevista esclusivamente con le amministrazioni comunali. Violazione dell'articolo 120 della costituzione I dubbi ermeneutici e l'incertezza delle plurime fonti normative che si sono progressivamente sovrapposte hanno, tra l'altro, generato notevoli cesure tra i vari livelli di governo che risultano tuttora alieni dal pieno e soddisfacente utilizzo degli strumenti di concertazione strutturati per essere destinati nelle sedi deputate al necessario confronto ed alla collaborazione interistituzionale. Ed invero, come e' noto, al comma 6 dell'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 «Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3», e' espressamente previsto che il Governo possa promuovere intese in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire l'armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni. Va adeguatamente considerato che esempi attuativi di tale disposto normativo si ravvisano anche in settori, quale quello del turismo, di competenza esclusiva regionale. In tale contesto, infatti, le forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni si sono sviluppate sino a divenire lo strumento privilegiato di coordinamento delle diverse legislazioni regionali e di definizione di standard comuni in tutto il territorio In particolare, il DPCM 21 ottobre 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 34 dell'11 febbraio 2009, e' stato emanato in attuazione dell'articolo 2, comma 193, lettera a) della legge 24 dicembre 2007, n. 244 che prevedeva, appunto, l'adozione di un decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei Ministri per definire "le tipologie dei servizi forniti dalle imprese turistiche rispetto a cui vi e' necessita' di individuare caratteristiche similari e omogenee su tutto il territorio nazionale tenuto conto delle specifiche esigenze connesse alle capacita' ricettiva e di fruizione dei contesti territoriali", d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. In termini piu' generali, la necessita' di una convergenza in questo particolare ambito di legislazione, nel quale i settori del commercio e del turismo si intrecciano con quello afferente la valorizzazione dei beni culturali, appare di indiscutibile pregnanza, attesa la ragionevolezza ed assoluta condivisibilita' di interventi regolatori dell'attivita' imprenditoriale per contemperare le esigenze di salvaguardia del diritto di impresa con quelle afferenti altri valori costituzionalmente garantiti. D'altro canto, la necessita' di avviare il confronto interistituzionale e' espressamente indicata anche nelle stesse premesse della ripetutamente evocata direttiva del Ministero datata 10 ottobre 2012 laddove, oltre a ribadire che "lo svolgimento di attivita' non compatibili puo' impedire di assicurare livelli di valori nazione qualitativamente adeguati allo straordinario valore dei beni interessi, con effetti pregiudizievoli anche sullo sviluppo e la promozione del turismo culturale", si precisa, nel contempo, che "il conseguimento degli obiettivi e il soddisfacimento delle esigenze, sopra indicati, di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale richiede la piena e leale collaborazione tra le diverse Istituzioni pubbliche a vario titolo competenti, nell'esercizio dei rispettivi poteri e attribuzioni. "Ma, in realta', l'intero testo della predetta direttiva e' costellato da riferimenti al principio di leale collaborazione, e cosi', al punto 3.1 della medesima si legge che "gli uffici del Ministero collaboreranno con le Amministrazioni locali"; ancora "L'esercizio congiunto dei poteri in questione potra' essere opportunamente racchiuso nella forma dell'accordo tra pubbliche amministrazioni volto a disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attivita' di interesse comune ai sensi dell'articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241", ed infine al punto 3.2.3, con riferimento all'individuazione dei soggetti titolari di diritti di uso individuale, e' imposta agli uffici governativi la collaborazione con i competenti enti territoriali. Al riguardo, si sottolinea come l'articolo 5 del decreto legislativo n. 42/2004 abbia cristallizzato in norma il principio di leale collaborazione di cui all'articolo 120 della Costituzione proprio in riferimento all'esercizio delle funzioni amministrative in materia di beni culturali, utilizzando il termine atecnico di "cooperazione ". E tale norma si aggiunge ad altre disposizioni del medesimo decreto legislativo, che declinano una multiforme varieta' di modelli di intesa e coordinamento tra lo Stato e le Regioni stabilite per l'esercizio delle rispettive competenze amministrative. In dettaglio, l'articolo 17, comma 1, del decreto in argomento, in relazione alle funzioni amministrative di catalogazione, stabilisce che "il Ministero, con il concorso delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, assicura la catalogazione dei beni culturali e coordina le relative attivita' "; ed ancora, il successivo articolo 18, al comma 2, in riferimento alle funzioni di vigilanza sulle cose su cui sussiste un interesse culturale, prevede che "Sulle cose di cui all'articolo 12, comma 1, che appartengano alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali, il Ministero provvede alla vigilanza anche mediante forme di intesa e di coordinamento con le regioni medesime. Ne' pare potersi obiettare, a contrariis, che, vertendosi in tema di potesta' legislativa concorrente, lo Stato, nella complessa disposizione odiernamente interloquita, avrebbe dettato semplicemente i principi fondamentali, per i quali non puo' essere invocato il rispetto del principio di leale collaborazione. E' di tutta evidenza, invece, come, in realta', nella fattispecie in esame lo Stato abbia travalicato il proprio ambito di intervento astrattamente ammissibile, dettagliando le statuizioni ed attribuendo agli organi statali un potere prescrittivo ed operativo che diverge notevolmente dalla semplice indicazione dei principi fondamentali (cfr, la sentenza n. 222 del 2008). Infine, non si puo' non rinviare al terzo comma dell'art. 118 della Costituzione, ove si impone alla legge statale la disciplina di forme di intesa e di coordinamento tra Stato e Regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali. Con cio' si intende, salvo il contrario avviso di codesto Ecc.mo Collegio, che qualora si reputi riconducibile la disposizione censurata all'ambito di competenza esclusiva statale di cui all'articolo 117, comma secondo, lettera s) della Costituzione, si impone una pronuncia interpretativa che armonizzi gli assunti, ripetutamente espressi da codesta Ecc.ma Corte, che escludono il principio di leale collaborazione nelle materie di competenza esclusiva statale o concorrente, limitatamente all'individuazione dei principi fondamentali, ed il precetto di rango costituzionale evocato che riafferma la necessita' di coordinare l'esercizio delle potesta' amministrative in tale materia mediante forme di intesa e coordinamento. E quanto prospettato tiene conto dell'orientamento ermeneutico secondo il quale la certezza, dell'ascrivibilita' di una disposizione impugnata in un ambito materiale riservato alla potesta' legislativa statale, preclude l'obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato e Regione, atteso che gli stessi debbono, in linea di principio, essere necessariamente previsti solo quando vi sia una concorrenza di competenze nazionali e regionali, per la quale non possa ravvisarsi la sicura prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri (v. le sentenze n. 234 del 2012, n. 88 del 2009 e n. 219 del 2005). Al riguardo, per le considerazioni proposte relativamente alla disposizione impugnata, proprio perche' non e' sicura la prevalenza di un complesso normativo rispetto ad altri, mentre e' sicuramente identificabile solo l'intreccio di una pluralita' di competenze, si configura come indefettibile un adeguato e fruttuoso confronto tra i vari livelli di governo." Su tale base ricostruttiva si puo' ora prospettare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, cosi' come modificato e integrato dall'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, per i seguenti Motivi Violazione degli artt. 117, commi 3 e 4 e 120 della Costituzione della Repubblica Italiana L'art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83, come convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, ha integrato il rinumerato comma 1-ter, dell'art. 52, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, attribuendo ai competenti uffici territoriali del Ministero, d'intesa con i Comuni, una potesta' revocatoria delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico ai fini dell'esercizio di attivita' commerciali e artigianali. Si tratta di un potere di autotutela decisoria di natura straordinaria, in quanto non si limita a consentire all'autorita' amministrativa procedente una rivalutazione dell'interesse pubblico sotteso al provvedimento sottoposto a riesame ovvero una riconsiderazione del merito dello stesso alla luce di sopravvenute ragioni di interesse pubblico o di mutamento delle situazioni di fatto, ma invece consente di procedere alla revoca delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche in deroga al quadro normativo di riferimento. In particolare in deroga alla disciplina dettata dalle Regioni in materia di commercio a norma dell'articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114. Peraltro avente ora fondamento costituzionale per effetto dell'art. 117, comma 4, della Carta costituzionale che attribuisce alle Regioni una competenza legislativa residuale ed esclusiva in tale materia. Ma anche in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Tale potesta' autoritativa si pone nell'alveo della disposizione contenuta nel primo periodo del comma 1-ter non solo per ragioni di "geografia" normativa, ma perche' presenta le medesime finalita' teleologiche come espressamente confermato dal legislatore che richiama "le esigenze di cui al presente comma". Ne consegue che le ragioni di incostituzionalita' gia' fatte valere nel giudizio promosso avanti codesta Corte e rubricato al numero di ruolo 101/2013 e sopra riportate si riverberano di necessita' anche sulla disposizione qui oggetto di impugnazione e ne determinano l'illegittimita'. Nello specifico anche la disposizione di legge da ultimo aggiunta si pone in un ambito materiale connotato da sovrapposizione e intersezioni di varie materie. La tutela e valorizzazione dei beni culturali, il commercio e il turismo. A tal riguardo "la giurisprudenza costituzionale ha precisato che, qualora una normativa interferisca con piu' materie, attribuite dalla Costituzione, da un lato, alla potesta' legislativa statale e, dall'altro, a quella concorrente o residuale delle Regioni, occorre individuare l'ambito materiale che possa considerarsi, nei singoli casi, prevalente" (ex plurimis, sentenze n. 118 del 2013, n. 334 del 2010, n. 237 del 2009 e n. 50 del 2005). Al fine di individuare tale prevalenza nel caso di specie il dato letterale della norma non risulta dirimente in quanto fa riferimento al contempo sia alle esigenze di tutela dei beni culturali sia a quelle di valorizzazione degli stessi. Occorre, invece, guardare al contenuto sostanziale delle attivita' interessate dalla potesta' provvedimentale attribuita alle autorita' statali dalla norma impugnata, che si riferisce ad attivita' di natura commerciale e/o artigianale che richiedano il previo rilascio di un autorizzazione o concessione di suolo pubblico. Ora, la regolamentazione di esse in correlazione ai beni culturali, non sembra ricadere nell'ambito della nozione di tutela dei beni culturali cosi' come essa e' stata ricostruita dalla Corte costituzionale anche alla luce del dettato normativo di cui all'art 3 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La tutela, infatti, va riferita alla individuazione dei beni culturali e alla cura conservativa degli stessi, ossia, pur in una visione non meramente statica della stessa, si puo' far rientrare nel suo ambito sostanziale solo una disciplina che sia diretta alla salvaguardia della culturalita' del bene, anche regolando i diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale. Ma pur sempre per soddisfare esigenze di protezione e difesa. Al contrario, la valorizzazione dei beni culturali e' diretta ad "assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale". Ora la regolamentazione dell'esercizio di attivita' commerciali nell'ambito dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale sembra diretta in modo prevalente a contemperare le esigenze del commercio con la necessita' di assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio culturale. Ragion per cui appare evidente che nel caso di specie si cade, in modo preponderante, nell'ambito della materia di legislazione concorrente della valorizzazione dei beni culturali. Una conferma di cio' si puo' rinvenire nella stessa lettera della legge che non a caso fa riferimento unicamente alle esigenze di decoro, che ricadono in quella che e' definita dal Codice dei beni culturali una forma di tutela indiretta. Ossia la materia tutela dei beni culturali, in tale ambito disciplinare caratterizzato da sovrapposizioni e intersecazioni di competenze, assume un rilievo solo mediato e indiretto, dovendosi invece riconoscere una prevalenza alla materia della valorizzazione dei beni culturali. Ne', a negare tale conclusione, vi e' la necessita' che la valorizzazione debba essere attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze. In quanto il carattere servente della valorizzazione non puo' implicare un indiscriminato assorbimento della stessa nell'ambito della tutela, fenomeno esegetico che determinerebbe una abrogazione implicita del dettato costituzionale nella parte in cui ha invece espressamente previsto una distinzione tra i due ambiti materiali. Sulla base di tali conclusioni si deve ritenere che il legislatore statale, avendo legiferato in una materia di legislazione concorrente, avrebbe dovuto rispettare i limiti all'uopo previsti dalla Costituzione, ossia si sarebbe dovuto limitare a dettare una normativa di principio, lasciando adeguato margine di disciplina alla normativa di dettaglio di competenza regionale. Avrebbe, cioe', dovuto limitarsi a prescrivere "criteri e obiettivi" lasciando alle Regioni "l'individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi" (sentenza n. 181 del 2006). Cio' non e' avvenuto, avendo invece il legislatore statale previsto una puntuale disciplina o, rectius, avendo attribuito a organi dello Stato dei poteri regolatori in materia (primo periodo del comma 1-ter) e dei poteri provvedimentali (secondo periodo del medesimo comma) cosi' esautorando la competenza regionale. Peraltro non solo regolamentando in materia di valorizzazione dei beni culturali, ma anche con riferimento alle materie del commercio e del turismo, incise da tale disciplina e rientranti nella competenza residuale ed esclusiva delle regioni. Come confermato, inoltre, dalla espressa previsione contenuta nel periodo aggiunto al comma 1-ter, della possibilita' per gli organi statali di derogare, in sede di riesame, la disciplina regionale in materia di commercio e la disciplina concordata in sede di Conferenza unificata nella detta materia. Peraltro, anche qualora, e non pare ipotizzabile, si dovesse concludere che la concorrenza e sovrapposizione di competenze legislative in materia non possa essere risolta identificando un ambito materiale prevalente, nondimeno secondo la costante giurisprudenza di codesta Corte "la suddetta concorrenza di competenze, in assenza di criteri previsti in Costituzione, giustifica l'applicazione del principio di leale collaborazione" (sentenza n. 50 del 2008), il quale deve permeare i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie. Per cui le norme statali impugnate non prevedendo alcuna forma di coordinamento, neppure sotto forma di intesa in sede di conferenze intergovernative, comunque dovrebbero ritenersi costituzionalmente illegittime in quanto lesive del principio di leale collaborazione di cui all'art. 120 della Costituzione della Repubblica italiana, ove non fosse identificabile quale sia la materia prevalente oggetto della disciplina normativa. Violazione dell'art. 118 della Costituzione La disposizione in questa sede impugnata risulta peraltro in contrasto con il disposto dell'art. 118 della Costituzione, ove essa attribuisce una potesta' amministrativa ad un organo statale in violazione dei criteri attributivi dettati dalla Carta fondamentale. A tal riguardo giova ricordare che la giurisprudenza di codesta Corte afferma che "affinche', dunque, nelle materie di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l'esercizio, e' necessario che essa detti una disciplina logicamente pertinente (dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni), che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine e che sia adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, attraverso adeguati meccanismi di cooperazione per l'esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali (da ultimo, sentenza n. 278 del 2010). Infatti, solo la presenza di tali presupposti, alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalita', consente di giustificare la scelta statale dell'esercizio unitario di funzioni, allorquando emerga l'esigenza di esercizio unitario delle funzioni medesime (ex plurimis, sentenze n. 76 del 2009, n. 339 e n. 88 e del 2007, n. 214 del 2006, n. 242 e n. 151 del 2005)" (decisione 22 luglio 2011, n. 232). Nel caso di specie l'attribuzione di una potesta' revocatoria alle autorita' statali non e' accompagnata da una disciplina legislativa logicamente pertinente e idonea alla regolazione delle suddette funzioni, in quanto il legislatore statale si limita a menzionare delle generiche esigenze teleologiche di tutela e di valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, che dovrebbero guidare l'amministrazione procedente nell'esercizio della potesta' pubblica, senza invero prevedere alcuna sostanziale parametrazione e regolamentazione sostanziale della stessa. Cosa tanto piu' grave ove e' prevista la possibilita' di derogare la disciplina legislativa regionale in materia commercio ed i criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Nel caso di specie, dunque, la norma di relazione attributiva della potesta' amministrativa sarebbe del tutto orfana di una disciplina idonea a delimitarne e a guidarne l'esercizio, con conseguente violazione dei parametri costituzionali di riferimento di cui all'art. 118 Cost, cosi' come elaborati dalla Corte costituzionale, oltre che con lesione degli artt. 3 e 97 della Costituzione come ora sara' piu' approfonditamente illustrato. Violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione della Repubblica Italiana Come rilevato, il comma 1-ter dell'art. 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, attribuisce ai competenti organi dello Stato un potere di revoca di natura straordinaria. Questo, infatti non solo e' diretto a rivalutare le ragioni di interesse pubblico sottese al provvedimento oggetto di riesame ovvero a compiere una nuova ponderazione di merito alla luce di sopravvenute ragioni di interesse generale o di mutamenti di fatto, ma consente all'autorita' amministrativa destinataria della potesta' di autotutela decisoria di revocare l'autorizzazione o la concessione di suolo pubblico in deroga alla disciplina legislativa che regola la materia e in particolare alle disposizioni normative regionali di cui all'articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e successive modificazioni, nonche' in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Ci si trova, percio', dinanzi ad un potere di revoca del tutto sui generis, che non involge, come ordinariamente avviene, un mera riconsiderazione dell'interesse pubblico, ma che consente invece all'autorita' amministrativa procedente di elidere gli effetti di un precedente provvedimento amministrativo, anche "alterando" il quadro normativo di riferimento. Per tal ragione sarebbe stato assolutamente necessario che il legislatore avesse esattamente regolato e definito tale potere o meglio, vertendosi in materia di competenza legislativa concorrente e residuale delle regioni, come in precedenza dimostrato, avesse adottato la sola normativa di principio demandando alle Regioni di integrare la stessa. Invece, la disposizione di legge impugnata si limita, in modo autoreferenziale, a un generico richiamo alle esigenze contenute nel medesimo comma 1-ter, senza in alcun modo fissare quali siano i limiti entro cui possa essere esercitata la potesta' pubblica e in particolare i confini entro cui l'amministrazione procedente possa derogare alla legislazione vigente in materia. Cio' determina una palese irragionevolezza della norma oltre che un evidente violazione del principio di eguaglianza e del principio di legalita' sostanziale dell'azione amministrativa in quanto praticamente si demanda all'autorita' procedente l'arbitraria liberta' di stabilire essa stessa quali siano i criteri e i presupposti normativi fondanti il proprio potere, limitandosi il legislatore ad un generico e indiretto richiamo alle esigenze di tutela e valorizzazione dei beni culturali. Richiamo teleologico di fatto inidoneo a fondare i necessari presupposti legislativi del potere amministrativo. Basti pensare che, a seconda dell'autonoma valutazione di ciascuna autorita' procedente statale dislocata sul territorio, situazioni del tutto identiche potrebbero essere trattate in modo diverso, prevedendo in alcuni casi la revoca e in altri la permanenza dell'atto autorizzatorio o concessorio oggetto di riesame. Con cio' la disposizione qui impugnata si pone in contraddizione con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione della Repubblica italiana. La disposizione impugnata pare peraltro anche viziata da irragionevolezza oltre che lesiva del principio di legalita' sostanziale dell'azione amministrativa e di buon andamento della pubblica amministrazione. Di fatti, non e' sufficiente che il legislatore attribuisca una pubblica potesta' ma e' necessario che lo stesso ne regolamenti l'esercizio in maniera tale che l'autorita' amministrativa possa esercitare il potere pubblico o in modo vincolato o secondo margini di discrezionalita' che non trasmodino mai in un arbitrio. Nel caso di specie non essendo previsto alcun criterio di regolazione del potere derogatorio attribuito alle autorita' statali in sede di revoca dei provvedimenti autorizzatori o concessori in parola, tale potere risulta rimesso all'arbitrio dell'autorita' procedente, in spregio ai principi di legalita' e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., i quali, "quasi in endiadi" (decisione n. 333 del 1993) costituiscono il "vero cardine della vita amministrativa in quanto condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale". (decisione n. 123 del 1968) Come, infatti, autorevolmente ha rilevato codesta Corte "il principio di legalita' e d'imparzialita' della azione amminsitrativa, insieme al buon andamento, sono pur sempre i valori costituzionali supremi cui deve ispirarsi l'attivita' amministrativa" (decisione n. 78 del 1966) La loro violazione, percio', non puo' che determinare l'illegittimita' costituzionale della disposizione di legge statale con essi in contrasto. Violazione dell'art. 117, comma l della Costituzione della Repubblica Italiana Da ultimo la disposizione oggetto d'impugnazione come gia' evidenziato opera in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l'esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall'articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. Tale deroga risulta, in tutta evidenza, in contrasto con l'art. 117, comma 1 della Costituzione della Repubblica italiana, ove e' previsto che la potesta' legislativa debba essere esercitata "nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali", In assenza, infatti, di alcun criterio regolamentare che perimetri tale potere derogatorio entro limiti che garantiscono il rispetto del fondamentale canone di non discriminazione e della liberta' di concorrenza, imposti dai trattati comunitari e in particolare nel caso di specie dalla direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 in materia di mercati interni, il comma 1-ter dell'art. 52 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 non puo' che ritenersi in contrasto con la normativa di attuazione del diritto comunitario e per il suo tramite con quest'ultimo, con conseguente violazione dell'art. 117 comma 1 della Costituzione e sua illegittimita' costituzionale (decisioni nn. 271/2009 216/2010)
P. Q. M. La Regione del Veneto chiede che l'Ecc.ma Corte costituzionale disponga la riunione del presente giudizio con quello rubricato al numero 101/2013 e dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 52, commi 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, cosi' come modificato e integrato dall'art. 4, comma 1, del D.L. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 luglio 2014, n. 106, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 luglio 2014, n. 175. Si depositano: 1. deliberazione della Giunta Regionale veneta di autorizzazione alla proposizione del presente ricorso e per l'affidamento dell'incarico di patrocinio per la difesa regionale. Venezia-Roma, 29 settembre 2014 Avv. Ezio Zanon Avv. Luigi Manzi