N. 219 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 giugno 2014
Ordinanza del 5 giugno 2014 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio sul ricorso proposto da Benedetti Antonio ed altri contro il Comune di Roma.. Espropriazione per pubblica utilita' - Occupazione acquisitiva - Previsione che l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', puo' disporre che esso sia acquisito non retroattivamente al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfettariamente liquidato nella misura del 10% del valore del bene stesso - Previsione dell'estensione del potere di acquisizione alla servitu' di fatto - Abolizione della condizione che l'immobile realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli artt. 822 e 826 c.c. postulate dall'occupazione appropriativa e previsione dell'applicazione dell'istituto anche nella ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui e' sorto il vincolo preordinato all'esproprio - Previsione che il provvedimento ablativo non e' tenuto ad individuare la destinazione dell'immobile, essendo sufficiente l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e, se possibile, la data dalla quale essa ha avuto inizio - Modalita' procedimentali e criteri per la determinazione dell'indennizzo - Previsione della applicabilita' della normativa anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi e' stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato - Violazione del principio di uguaglianza - Incidenza sul diritto di difesa e di azione in giudizio - Lesione del diritto di proprieta' - Violazione dei principi di buon andamento e di imparzialita' della pubblica amministrazione - Violazione dei principi del giusto processo - Violazione di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU come interpretata dalla Corte EDU. - Decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, art. 42-bis, inserito dall'art. 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111. - Costituzione, artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali; Primo Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, art. 1.(GU n.50 del 3-12-2014 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO Sezione Seconda Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 1636 del 2003, integrato da motivi aggiunti, proposto da: Antonio Benedetti, Giovanni. Benedetti, Sergio Murgia (successore a titolo particolare di Termentini Nazzareno), Massimo Zampetti, Stefania Zampetti e Rosanna Pasquini (in qualita' di eredi di Gerardo Zampetti), tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Alessandro Cecchi e Claudia Molino, ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest'ultima, in Roma, via Panama, 58; Contro comune di Roma, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Enrico Maggiore, con il quale domicilia in Roma, via Tempio di Giove, 21, presso l'Avvocatura capitolina; Per la condanna del Comune di Roma a risarcire i danni causati ai ricorrenti per la perdita di proprieta' di un loro terreno a seguito di «accessione invertita»; ovvero, subordine, per la condanna di Roma Capitale a restituire ai ricorrenti il terreno stesso, previa sua rimessa in pristino, oltre al risarcimento dei danni, materiali e non, per il periodo di illecita occupazione. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Roma; Relatore alla pubblica udienza del giorno 7 maggio 204 il Cons. Silvia Martino; Uditi gli avv.ti delle parti, come da verbale; 1. I ricorrenti espongono di essere comproprietari (in parte) di appezzamento di terreno in localita' Podere Feliciani, nel Comune di Roma, iscritto nel N.C.T. nel foglio 599, part. n. 412, di complessivi mq. 3060. Precisamente essi rappresentano i 15/18 delle quote di comproprieta' del terreno. Questo terreno e' stato occupato in via d'urgenza ed interamente trasformato in maniera irreversibile dall'amministrazione capitolina. Successivamente, e' stato legittimamente espropriato per soli mq. 1.958, con decreti del Presidente della Giunta Regionale del Lazio nn. 1420 e 1421 del 30 luglio 1993. I sig.ri Benedetti Antonio, Benedetti Giovanni, Termentini Nazzareno e Gerardo Zampetti, hanno quindi promosso apposito giudizio innanzi alla Corte d'Appello di Roma per ottenere la determinazione dell'indennita' di occupazione, nonche', limitatamente alla parte espropriata, pari, come detto a mq. 1958, la determinazione dell'indennita' di esproprio. Il giudizio si e' concluso con sentenza n. 2043 del 12 giugno 2000, passata in giudicato, con la quale la Corte d'Appello di Roma: a) ha determinato e liquidato l'indennita' di occupazione dell'intero terreno originariamente occupato di mq. 3060, per tutto il periodo di occupazione (cioe' dal 1982 al 30 luglio 1993); b) ha determinato e liquidato l'indennita' di esproprio per il terreno effettivamente espropriato di mq. 1958. Nel corso del giudizio di fronte alla Corte d'Appello e' emerso che anche la restante parte del terreno non espropriata era stata utilizzata dal Comune che vi aveva eseguito la prevista opera pubblica. Parte ricorrente ritiene pertanto che si sia verificata, a decorrere dal 30 luglio 1993, la c.d, «accessione invertita», con conseguente suo diritto al risarcimento del danno. Con il ricorso introduttivo, a tale fine, ha invocato il comma 7-bis dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333/92, all'epoca vigente, ritenendo di avere diritto ad ottenere un risarcimento (in linea capitale), pari alla media tra il valore venale e il reddito dominicale rivalutato, il tutto maggiorato del 10%. La Corte di Appello di Roma, con la cit. sentenza n. 2043/2000, ha stimato l'indennita' di esproprio in Legge 412.378,020, con riferimento al luglio 1993. La stessa Corte ha anche determinato l'indennita' virtuale di esproprio per tutto il terreno, pari a L. 644.472.720. Conseguentemente, l'indennita' virtuale di esproprio per il terreno occupato e non espropriato e' pari a L. 232.094.700. Tale valore, secondo i ricorrenti, puo' essere preso come riferimento anche nel presente giudizio, in quanto accertato con una sentenza passata in giudicato. Il valore di cui sopra deve essere incrementato del 10% con la conseguenza che la somma dovuta dal Comune di Roma, per sorte capitale, e' pari a L. 255.034.170. Gli attuali attori rappresentano i 15/18 dei comproprietari originari, per cui il danno che deve essere loro risarcito e' pari a L. 212.753.475, oltre interessi e rivalutazione. Nel corso del giudizio, al sig. Termentini Nazareno e' succeduto, a titolo particolare per atto tra vivi, il sig. Sergio Murgia. Inoltre, hanno spiegato intervento volontario, i sigg.ri Rosanna Pasquini, Massimo Zampetti e Stefania Zampetti, in qualita' di eredi di Gerardo Zampetti. Con motivi aggiunti depositati il 16 novembre 2007, i ricorrenti hanno evidenziato come, con sentenza n. 349 del 22 - 24 ottobre 2007, la Corte costituzionale abbia dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, comma 7-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, affermando che il risarcimento del danno per la perdita del terreno a seguito di occupazione acquisitiva deve essere integrale. Essi hanno, pertanto, integrato la domanda originaria, chiedendo che il Comune venga condannato a risarcire il danno in misura pari al valore venale del terreno illecitamente acquisito. La cit. sentenza n. 2043/2000 ha stimato il valore venale del terreno espropriato, al 1993, in L. 822.800.000. Rapportando tale somma alla parte non espropriata, si ottiene la somma di L. 463.087.640, corrispondente ad euro 239.164,81, In concreto, essi rivendicano la somma di euro 199.304,01, oltre interessi e rivalutazione. Infine, con motivi aggiunti del 7 giugno 2013, hanno rappresentato di avere inutilmente diffidato l'amministrazione capitolina a voler procedere secondo il sopravvenuto art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica, n. 327/2001, e quindi all'acquisizione del terreno per cui e' causa, previa determinazione e pagamento delle somme loro dovute. Alla luce del mutato contesto normativo hanno quindi spiegato una ulteriore domanda, alternativa rispetto a quella originaria, volta a conseguire, in via costitutiva, il trasferimento in favore di Roma Capitale delle proprieta' del terreno (alla quale non hanno piu' interesse) oltre la condanna della medesima amministrazione al risarcimento del danno. In via subordinata, hanno chiesto che Roma Capitale venga condannata a restituire il terreno, previa sua rimessa in pristino, oltre a corrispondere il risarcimento del danno per l'illecita occupazione in misura pari al 5% in ragione di anno del valore venale attuale del terreno maggiorato del 10%, e, quindi, in misura pari ad euro 16.840,49 per ogni anno decorrente dal 31 luglio 1993, fino alla data dell'effettiva restituzione. Il tutto, oltre rivalutazione e interessi. Si e' costituita, per resistere, Roma Capitale, depositando documenti e memorie. Il ricorso e' stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 7 maggio 2014. 2. Il Collegio rileva, in primo luogo, l'inammissibilita' della (implicita) domanda volta a conseguire l'accertamento dell'avvenuta abdicazione da parte dei ricorrenti al diritto di proprieta' sulle aree interessate dalla realizzazione dell'opera pubblica, al fine di conseguire una sentenza «costitutiva» che operi essa stessa il trasferimento della proprieta' in favore dell'amministrazione capitolina o che, comunque, ordini a Roma Capitale di adottare il provvedimento di. acquisizione disciplinato dall'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001. In applicazione degli ordinari principi civilistici, l'esigenza di una piena tutela del diritto di proprieta' postula che l'effetto traslativo consegua a una volonta' espressa ed inequivoca del proprietario interessato, da tradursi in strumenti negoziali formali e tipici (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2559) dovendosi comunque tener conto dello specifico regime giuridico degli atti inter vivos con cui si puo' disporre, anche merce' l'abdicazione, del diritto di proprieta' (art. 1350 n. 5 c.c. e art. 2643 n. 5 c.c.). Posto, quindi, che non puo' il giudice adito procedere alla declaratoria dell'intervenuta abdicazione, da parte dei ricorrenti, al diritto di proprieta' delle aree sulle quali e' stata realizzata l'opera pubblica, a favore della resistente amministrazione, la disciplina applicabile alla fattispecie va individuata nell'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 - introdotto con l'art. 34 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria) a seguito della declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 con sentenza della Consulta n. 293 del 2010, il quale disciplinava l'istituto dell'acquisizione sanante - con il quale e' stato reintrodotto l'istituto dell'acquisizione coattiva dell'immobile del privato utilizzato dall'amministrazione per fini di interesse pubblico, prevedendo l'acquisizione al sub patrimonio indisponibile del bene del privato allorche' la sua utilizzazione risponda a «scopi di interesse pubblico» nonostante difetti un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'. Dispone, difatti, il citato articolo, che «Valutati gli interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', puo' disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene». E' stato cosi' reintrodotto il potere discrezionale gia' disciplinato dall'art. 43 del T.U. Espropriazioni per pubblica utilita' dichiarato incostituzionale, potendo l'amministrazione competente, valutate le circostanze e comparati gli interessi in conflitto, decidere se restituire l'area al proprietario demolendo in tutto o in parte l'opera sostenendone le relative spese, oppure se disporne l'acquisizione, si da evitare che venga demolito quanto altrimenti risulterebbe meritevole di essere ricostruito (Consiglio di Stato, Sez. VI, 1° dicembre 2011 n. 6351). Da quanto qui illustrato, ai ricorrenti dovrebbe essere riconosciuto, ai sensi del cit. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001, il diritto alla restituzione delle aree illegittimamente occupate e ad ottenere il risarcimento dei danni medio tempore subiti, a vario titolo derivanti dalla perdurante abusiva occupazione delle aree di sua proprieta', ferma restando la possibilita' per l'amministrazione Comunale di procedere all'acquisizione, consensuale o coattiva, delle stesse. Secondo la prevalente giurisprudenza amministrativa, spetta in via esclusiva all'amministrazione che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', procedere alla valutazione degli interessi in conflitto al fine di disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile, non potendo il giudice sostituirsi all'amministrazione nelle valutazioni alla stessa spettanti in merito alla sussistenza dei presupposti (e, in particolare, del persistente interesse pubblico alla fruizione, da parte della collettivita', dell'opera pubblica, nella specie di impianto di depurazione) per procedere all'acquisizione dei beni con il consenso della controparte o facendo ricorso alla procedura di cui all'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001. Il proprietario del bene immobile illegittimamente occupato puo', quindi, solo chiedere la restituzione del bene, fermo restando che l'amministrazione puo' paralizzare tale domanda mediante l'adozione del provvedimento con cui disporre l'acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito (cfr., ex plurirlis, Cons. St., sezione IV, sentenza n. 4445 del 4 settembre 2013). Posta l'applicabilita' alla fattispecie in esame - in relazione all'oggetto della domanda ed ai fatti di causa - della norma di cui al cit. art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327/2001, ritiene il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondata, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con ordinanza n. 441 del 13 gennaio 2014, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, introdotto dall'art. 34, primo comma, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, in relazione agli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del I Protocollo Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali, in quanto la disposizione citata, reintroducendo una sorta di procedimento ablativo semplificato in favore della pubblica amministrazione che utilizzi senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, si pone in contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e di ragionevolezza intrinseca, con la garanzia della proprieta' privata, posta altresi' da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio di legalita' dell'azione amministrativa, riservando all'amministrazione, intesa come soggetto autore di un fatto illecito e non quale espressione della funzione amministrativa, un ingiustificato trattamento privilegiato, tale da consentirle l'acquisizione del bene al patrimonio pubblico per effetto di un suo comportamento «contra ius», di cui si avvantaggia pure nella determinazione dell'indennizzo o risarcimento dovuto al proprietario rispetto al ristoro altrimenti spettante nel caso di legittimo procedimento espropriativo. 3. Quanto al profilo inerente la rilevanza della questione, la stessa va ravvisata nella applicabilita' di tale norma alla fattispecie in esame, sulla, cui base devono essere decise le questioni proposte da parte ricorrente. Nell'attuale quadro normativo, come delineato dall'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001, grava sull'amministrazione che ha modificato un bene immobile del privato in assenza di un valido ed efficace titolo di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita' dell'opera realizzata l'obbligo giuridico di far venire meno l'occupazione sine titulo e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto o attraverso la restituzione dei beni ai titolari, con demolizione di quanto realizzato e relativa riduzione in pristino (affrontando le relative spese), ovvero attivandosi perche' vi sia un titolo d'acquisto dell'area da parte del soggetto attuale possessore evitando che sia demolito quanto dovrebbe essere ricostruito, potendo il provvedimento di acquisizione essere adottato solo sulla base di una determinazione dell'amministrazione, anche in corso di giudizio, essendo il potere acquisitivo esercitabile anche in presenza di una pronunzia giurisdizionale passata in giudicato che abbia annullato il provvedimento che costituiva titolo per l'utilizzazione dell'immobile da parte della stessa amministrazione, atteso che il giudicato e' intervenuto sull'atto annullato e non sul rapporto tra privato ed amministrazione. Viene in tal modo riconosciuta alla p.a. la possibilita' di adottare un nuovo atto finche' perdura lo stato di utilizzazione, pur se illegittima, del bene del privato, atto che e' distinto da quello annullato, tant'e' che non opera con efficacia retroattiva e non ha una funzione sanante del' provvedimento annullato, dovendo l'amministrazione restituire il bene al privato solo quando siano cessate le ragioni di pubblico interesse che avevano comportato l'utilizzazione del suolo ovvero, in caso contrario, acquisire al suo patrimonio indisponibile il bene su cui insiste o dovra' essere realizzata l'opera pubblica o di pubblico interesse. Il potere discrezionale dell'amministrazione di disporre l'acquisizione sanante e' in tal modo conservato (Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514): l'art. 42-bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento in termini di autonomia, consentendo l'emanazione del provvedimento dopo che «sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, Patto che abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di esproprio» od anche «durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti citati, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira»; non regola piu' invece i rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna «del giudice e successiva attivita' dell'Amministrazione. Ne consegue che, non potendo piu' essere azionato il meccanismo procedimentale accelerato previsto dal citato art. 43 (Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4650) ed essendo la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprieta' dell'immobile (Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2011, n. 4833; 28 gennaio 2011, n. 676), l'amministrazione puo' divenirne proprietaria o al termine del procedimento, che si conclude sul piano fisiologico con il decreto di esproprio o con la cessione del bene espropriando, oppure quando, essendovi una patologia per cui il bene e' stato modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', venga emesso il decreto di acquisizione al patrimonio indisponibile ai sensi dell'art. 42-bis, indennizzando il proprietario per il mancato utilizzo del bene (5% di interesse annuo sul valore venale di ogni anno), per il lamentato danno patrimoniale (al valore venale attuale) e non patrimoniale (10% del valore venale attuale salvo casi particolari in cui e' il 20%). Alla stregua dell'attuale quadro normativo, quindi, la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato e' in se' un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprieta', per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione puo' essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi) della proprieta' in altri comportamenti, fatti o contegni (Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2012 n. 5198; TAR Lazio, Roma, 6 novembre 2012 n. 9052). Ne discende che, laddove l'amministrazione non intenda comunque apprendere il bene tramite l'acquisizione del consenso della controparte o l'adozione di un provvedimento autoritativo, e' suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprieta' illegittimamente detenuta, a meno di non apprendere legittimamente il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l'acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento con le sue garanzie. L'illecita occupazione, e quindi il fatto lesivo, permangono pertanto fino al momento della realizzazione di una delle due fattispecie legalmente idonee all'acquisto della proprieta', indifferentemente dal fatto che questo evento avvenga consensualmente o autoritativamente. Ed invero, con la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 43 del Testo unico sulle espropriazioni di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 293 del 2010, con espunzione dal nostro ordinamento dell'istituto dell'acquisizione de facto della proprieta' in mano pubblica a seguito della realizzazione dell'opera, l'esecuzione dell'opera pubblica non costituisce impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente occupata e cio' indipendentemente dalle modalita' - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno (in tal senso anche Cons. Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5844). Applicando le indicate coordinate interpretative dell'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 alla fattispecie in esame, caratterizzata dall'intervenuta realizzazione di un'opera pubblica su aree di proprieta' dei ricorrenti in assenza di un valido titolo ablatorio, con conseguente illegittimita' dell'occupazione, va dunque escluso che si sia determinato un acquisto a titolo originario delle aree da parte dell'amministrazione in virtu' della radicale e definitiva trasformazione del suolo, conseguente alla sua occupazione ed alla realizzazione dell'opera pubblica, non essendosi conseguentemente estinto il diritto di proprieta' del suolo in capo alla ricorrente. Tenuto conto, inoltre, che Parti 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2000 affida all'autorita' amministrativa la scelta di determinarsi in ordine all'eventuale acquisizione delle aree irreversibilmente trasformate, ne discende l'impossibilita' per il giudice di sostituirsi all'amministrazione nella previa valutazione dei contrapposti interessi, con conseguente preclusione alla possibilita' di ordinare un facere alla pubblica amministrazione, nella specie di ordine di procedere all'adozione di un provvedimento - di acquisto ex nunc della proprieta' delle aree trasformate dalla realizzazione dell'opera pubblica. Non vi e' spazio, difatti, nell'ordinamento, per configurare un modo di acquisto della proprieta' da parte dell'amministrazione attraverso un ordine del giudice, non prevedendo il citato art. 42-bis che il proprietario danneggiato dall'occupazione illegittima possa richiedere al giudice amministrativo di ordinare all'amministrazione di attivare il procedimento espropriativo e non rientrando la fattispecie di cui al predetto art. 42-bis tra quelle indicate dall'art. 134 cod. proc. amm., in relazione alle quali l'art. 7, comma 6, cod. proc. amm. prevede che il giudice amministrativo possa sostituirsi all'Amministrazione. Ricadendo, quindi, la fattispecie in esame, nell'ambito di applicazione del citato art. 42-bis, il Collegio, come gia' evidenziato, dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente amministrazione Comunale di procedere alla restituzione delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e di risarcire il danno per l'occupazione illegittima, fermo restando che l'amministrazione potrebbe sempre paralizzare tale pronuncia mediante l'adozione del provvedimento «acquisitivo» e con la corresponsione al proprietario dell'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito. 4. Dato conto, sulla base di quando dianzi illustrato, della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 ai fini della decisione della controversia in esame, relativamente alla non manifesta infondatezza della questione, sulla scorta di quanto gia' argomentato dalla Corte di Cassazione, e' possibile rilevare quanto segue. 4.1. L'art. 42-bis («Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico») del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 - introdotto con l'art. 34 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito in Legge 15 luglio 2011, n. 111 (in materia di misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria), dispone, per come dianzi illustrato, che «Valutati gli interessi in conflitto, l'autorita' che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita', puo' disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimciniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene (comma 1). Il provvedimento di acquisizione puo' essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilita' di un'opera o il decreto di esproprio...» (comma 2). E' stata in tal modo reintrodotta, secondo la piu' qualificata dottrina e la giurisprudenza amministrativa, la possibilita' per l'amministrazione che utilizza un bene privato senza titolo per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario (e/o la riduzione in pristino stato) attraverso il ricorso ad un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile, che sostituisce il procedimento ablativo prefigurato dal T.U., e si pone, a sua volta, come una sorta di procedimento espropriativo semplificato. Esso assorbe in se' sia la dichiarazione di pubblica utilita', che il decreto di esproprio, e quindi sintetizza «uno actu» lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma. La nuova soluzione e' apparsa al legislatore indispensabile, anzitutto per «eliminare la figura sorta nella prassi giurisprudenziale della occupazione appropriativa ...nonche' quella dell'occupazione usurpativa..» (Cons. St. Ad. gen. 4/2001), e quindi al fine di adeguare l'ordinamento «ai principi costituzionali ed a quelli generali di diritto internazionale sulla tutela della proprieta'». Ed infatti, in forza di detto provvedimento cessa l'occupazione sine titulo, e nel contempo la situazione di fatto viene adeguata a quella di diritto con l'attribuzione (questa volta) formale della proprieta' alla p.a. (se prevale l'interesse pubblico), cui e' consentita una legale via/ di uscita dalle numerose situazioni di illegalita' realizzate nel corso degli anni. Viene in tal modo consentito il ripristino della legalita' anche con riferimento alle situazioni gia' verificatesi, per le quali permane egualmente la necessita' di regolarizzazione definitiva. L'art. 42-bis ha riproposto in sostanza l'applicazione estensiva dell'istituto peculiare del precedente art. 43, di cui ha ereditato perfino la rubrica, rivolgendola in diverse direzioni, in quanto: 1) ha superato la norma transitoria dell'art. 57 con l'introduzione del comma 8, per il quale «Le disposizioni del presente articolo trovano altresi' applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi e' gia' stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato»; 2) ha confermato, malgrado la critica sul punto della Corte costituzionale, l'estensione del potere di acquisizione alle servitu' di fatto (comma 7), in passato escluse dall'occupazione espropriativa (perche' ne difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell'opera pubblica); 3) non richiede piu' che l'immobile realizzando rientri in una delle categorie individuate dagli artt. 822 ed 826 cod. civ. (postulate dall'occupazione appropriativa). E' stato, anzi, rescisso perfino il collegamento con l'area delle espropriazioni per p.u., prevedendosi l'applicazione dell'istituto anche nell'ipotesi in cui sia stato annullato l'atto da cui e' sorto il vincolo preordinato all'esproprio: in base alla mera utilizzazione dell'immobile per scopi di interesse pubblico, che ne abbia provocato una qualche modifica, pur quando «attribuito...in uso speciale a soggetti privati (comma 5); 4) ha conclusivamente invertito il principio tratto dall'art. 42 Cost. ed art. 834 cod. civ. che la potesta' ablativa ha carattere eccezionale che non puo' essere esercitata se non nei casi in cui sia la legge a prevederla (L. n. 2359 del 1865 per la realizzazione di opere pubbliche, L. n. 1089 del 1939 per i beni storici, artistici; decreto legislativo n. 215 del 1933 per finalita' di bonifica; decreto legislativo n. 3267 del 1923 per fini di protezione idro-geologica ecc). In quanto l'acquisizione predisposta in via generale ed indeterminata per qualsiasi «utilizzazione» del bene - meramente detentiva, come preordinata all'esproprio, reversibile oppure irreversibile - seguito alla quale il provvedimento non e' tenuto ad individuarne neppure la destinazione, essendo sufficiente «l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio» (comma 4). Questi caratteri dell'acquisizione, qualificabile come «sanante», sono gli stessi che hanno indotto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 293 del 2010 ad osservare che l'istituto «prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'illecito, (anche) a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprieta' violato»; e che la norma, marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo, «neppure e' coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi». Ne consegue che la sua riproduzione nell'art. 42-bis, applicabile ad ogni genere di situazione sostanziale e processuale sopra indicata, con il risultato di offrire alla p.a. una vasta ed indeterminata gamma di nuove prerogative, ripropone numerosi e gravi dubbi di costituzionalita' - anche per le possibili violazioni del principio di legalita' dell'azione amministrativa - in relazione ai precetti contenuti negli art. 3, 24, 42 e 97 Cost.; nonche' di compatibilita' con la normativa della Convenzione CEDU, e quindi dell'art. 117 Cost. In linea piu' generale, infatti, dottrina e giurisprudenza si sono chieste se alla p.a. che abbia commesso un fatto illecito, fonte per qualsiasi soggetto dell'obbligazione risarcitoria/restitutoria di cui agli art. 2043 e 2058 cod. civ., possa essere riservato un trattamento privilegiato (conforme alla normativa dell'art. 3 Cost.) ed attribuita la facolta' di mutare, successivamente all'evento dannoso prodotto nella sfera giuridica altrui, e per effetto di una propria unilaterale manifestazione di volonta', il titolo e l'ambito della responsabilita', nonche' il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del «neminem laedere» per qualunque soggetto dell'ordinamento. Soprattutto al lume del principio costituzionale (ritenuto da Corte costituzionale 204/2004 «una conquista liberale di grande importanza») secondo cui sistema vigente e' privilegiata tutela della funzione amministrativa e non della p.a. come soggetto. La risposta non puo' che essere quella che, allorquando la stessa opera al di fuori di detta funzione, e' soggetta a tutte le regole vincolanti per gli altri soggetti, nonche' esposta alle medesime responsabilita', fra cui quelle di cui alle norme codicistiche menzionate; e che vale anche per essa la regola che «factum infectum fieri nequit», costituente limite invalicabile anche per il potere di sanatoria in via amministrativa di una situazione di illegittimita'. Sicche', una volta attuata in tutti i' suoi elementi costitutivi la lesione ingiusta di un diritto soggettivo, quest'ultima non puo' mai mutare natura e divenire «giusta» per effetto dell'azione amministrativa, cui non e' consentito neppure di eliminarne «ex post» le conseguenze e le obbligazioni restitutorie e risarcitorie ad esse correlate. Queste risposte hanno trovato piena corrispondenza nella rigorosa applicazione del principio di legalita' sostanziale predicato dalla normativa dell'Unione Europea (cfr. Corte giust. UE 10 novembre 2011, 0C 405/10); nonche' nella giurisprudenza della Corte Edu (1, 13 ottobre 2005, Serrao; 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 15 dicembre 2005, Scozzati; 2, 9 gennaio 2009, Sotira; Grande Chambre, 4 gennaio 2010, Guisa) proprio in materia di ingerenza illegittima nella proprieta' privata, fondata sempre e comunque sul corollario divenuto per i giudici di Strasburgo insuperabile, che alla P.A. non e' consentito (ne' direttamente ne' indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti e, piu' in generale, da una situazione di illegalita' dalla stessa determinata Laddove l'art. 42-bis, per il solo fatto della connotazione pubblicistica del soggetto responsabile, ha soppresso tale pregresso regime dell'occupazione abusiva di un immobile altrui, sottraendo al proprietario l'intera gamma delle azioni di cui disponeva in precedenza a tutela del diritto dominicale, e la stessa facolta' di scelta di avvalersene o meno. E, considerando esclusivamente gli scopi dell'amministrazione, l'ha trasferita dalla «vittima dell'ingerenza» (tale qualificata dalla Corte europea), all'autore del fatto illecito, attraverso la sostanziale introduzione con il semplice atto di acquisizione emesso da quest'ultimo, di un nuovo modo di acquisto della proprieta' privata, che prescinde ormai dal collegamento con la realizzazione di opere pubbliche, e perfino con una pregressa procedura ablativa. Ed infatti, l'istituto introdotto con Parti 42-bis, riproduttivo di quello precedente, e' rivolti; a definire in linea generale (non piu' un procedimento espropriativo in itinere, bensi') «quale sorte vada riservata ad una res utilizzata e modificata dalla amministrazione, restata senza titolo nelle mani di quest'ultima» (Cons. St. Ad. Plen. 2/2005 e succ.). Proprio per superare soluzioni analoghe, apparse non conformi al suddetto principio di legalita' in ambito espropriativo, la giurisprudenza di legittimita' fin dall'inizio degli anni 80 aveva riconsiderato ed espunto (Cass. 382/1978; 2931/1980; 5856/1981) la regola, fino ad allora seguita, che alla P.A. occupante (senza titolo): fosse concesso di completare la procedura ablativa in ogni tempo con la tardiva pronuncia del decreto di esproprio, perfino nel corso di un giudizio intrapreso dal proprietario per la restituzione dell'immobile; e che il solo fatto dell'adozione postuma del provvedimento ablativo - ammissibile fino alla decisione della Cassazione - comportasse la conversione automatica dell'azione restitutoria e/o risarcitoria, in opposizione alla stima dell'indennita': alla quale soltanto il proprietario finiva per avere diritto. E tale adeguamento alla normativa costituzionale non e' sfuggito alla ricordata decisione n. 293 del 2010 della Consulta che lo ha contrapposto agli effetti dell'acquisizione sanante (analoghi a quelli del decreto tardivo), dando atto che da decenni «secondo la giurisprudenza di legittimita', in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un'efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell'ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi». Poste tali premesse, il dubbio di elusione delle garanzie poste dall'art. 42 Cost. a tutela della «proprieta' privata» (commi 2 e 3) appare al Collegio ancor piu' consistente in relazione al primo e fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ivi indicato nella necessaria ricorrenza di «motivi di interesse generale»; che trova puntuale riscontro in quello di eguale tenore dell'art. 1 del Protocollo 1 All. alla Convenzione EDU per cui l'ingerenza nella proprieta' privata puo' essere attuata soltanto «per causa di pubblica utilita'». Fin dalle decisioni piu' lontane nel tempo la Corte costituzionale ha affermato al riguardo (sent. 90/1966) che «Il precetto costituzionale, secondo cui una espropriazione non puo' essere consentita dalla legge se non per motivi di interesse generale (o per pubblica utilita'), e cioe' se non quando lo esigano ragioni importanti per la collettivita', comporta, in primo luogo, la necessita' che la legge indichi le ragioni per le quali si puo' far luogo all'espropriazione; e inoltre che quest'ultima non possa essere autorizzata se non nella effettiva presenza delle ragioni indicate dalla legge» ed ancora che «Nelle leggi della materia - la cui fondamentale espressione e' rappresentata dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359 - si trova infatti costantemente affermato il concetto (e anche li dove esso non risulta espressamente enunciato, e' stata la giurisprudenza a proclamare l'inderogabilita' del principio) che fin dal primo atto della procedura espropriativa debbono risultare definiti non soltanto l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi e i tempi di essa...». Negli stessi termini tutti i successivi interventi della Consulta (sentenze 95/1966; 384/1990; 486/1991; 155 e 188 /1995), nonche' la consolidata giurisprudenza di legittimita' che fin dai primi anni 60 (Sez. un. 826/1960 e succ.), ha definito la dichiarazione di p.u. «la guarentigia prima e fondamentale del cittadino e nel contempo la ragione giustificatrice del suo sacrificio nel bilanciamento degli interessi del proprietario alla restituzione dell'immobile ed in quello pubblico al mantenimento dell'opera pubblica per la funzione sociale della proprieta'»; ha costantemente confermato che la suddetti garanzia costituzionale viene osservata soltanto se la causa del trasferimento e' predeterminata nell'ambito di un apposito procedimento amministrativo, nel bilanciamento dell'interesse primario con gli altri interessi in gioco. Ed e' rimasta sempre ancorata al principio che la mancanza della preventiva dichiarazione di pubblica utilita' implica il difetto di potere dell'amministrazione nel procedere all'espropriazione. La norma costituzionale richiede, quindi, che i motivi d'interesse generale per giustificare l'esercizio del potere espropriativo nei (soli) casi stabiliti dalla legge, siano predeterminati dall'amministrazione ed emergano da un apposito procedimento - individuato nel procedimento dichiarativo del pubblico interesse culminante nell'adozione della dichiarazione di pubblica utilita' - preliminare, autonomo e strumentale rispetto al successivo procedimento espropriativo in senso stretto, nel quale l'amministrazione programma un nuovo bene giuridico destinato a soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto. E che siano palesati gradualmente e anteriormente (allo spossessamento nonche') al sacrificio del diritto di proprieta', in un momento in cui la comparazione tra l'interesse pubblico e l'interesse privato possa effettivamente evidenziare la scelta migliore, nel rispetto dei principi d'imparzialita' e proporzionalita' (art. 97 Cost.): in un momento, cioe' in cui la lesione del diritto dominicale non e' ancora attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non sono ostacolate da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, comma 3 per cui l'espropriazione in tanto e' costituzionalmente legittima in quanto e' originata da «motivi di interesse generale», ovvero collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che giustificano una incisione nella sfera del privato proprietario, di questo valorizzando il ruolo partecipativo; e la conseguenza che tale risultato non sarebbe garantito dall'esercizio di un potere amministrativo che, sebbene presupponga astrattamente una valutazione degli interessi in conflitto, e' destinato in concreto a giustificare ex post il sacrificio espropriativo unicamente in base alla situazione di fatto illegittimamente determinatasi. La preventiva emersione dei motivi d'interesse generale non costituisce, conclusivamente, semplice regola procedimentale disponibile dal legislatore, ma specifica garanzia costituzionale strumentale alla tutela di preminenti valori giuridici: come dimostra l'imponente giurisprudenza, soprattutto amministrativa, secondo la quale la dichiarazione di pubblica utilita' non e' un semplice atto prodromico con l'esclusivo effetto di condizionare la legittimita' del provvedimento finale d'espropriazione ed impugnabile quindi solo congiuntamente a quest'ultimo, bensi' un provvedimento autonomo, idoneo a determinare immediati effetti lesivi nella sfera giuridica di terzi. I quali si riflettono necessariamente sul piano della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), consentendo all'espropriando di partecipare alla fase antecedente alla sua adozione, e quindi di contestarlo sin dal primo momento del suo farsi; coincidente con l'emersione dei motivi d'interesse generale. Per converso, l'art. 42 - bis,prescindendo dalla dichiarazione di autorizza l'espropriazione sostanziale in assenza di una predeterminazione dei motivi d'interesse generale che dovrebbero giustificare il sacrificio del diritto di proprieta', reputando sufficiente che la perdita del bene da parte del proprietario trovi giustificazione nella situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contea ius dell'Amministrazione, consentendone l'acquisizione anche laddove tale procedura sia stata violata o totalmente omessa, in questo modo trasformando il rispetto del procedimento tipizzato dalla legge in una mera facolta' dell'amministrazione. In tal modo la dichiarazione di pubblica utilita' viene relegata al momento procedimentale eventuale, la cui assenza puo' essere superata dai provvedimento di acquisizione che ne elimina in radice la necessarieta'. Cio' in contrasto, peraltro, anche con la complessiva e rigida disciplina delle espropriazioni posta dallo stesso del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001 che nell'art. 2 ha dichiarato di ispirarsi proprio al «principio di legalita' dell'azione amministrativa»: dal momento che il potere sanante viene di fatto ad esautorare il significato dei doveri, obblighi e limiti che scandiscono il procedimento espropriativo. Ed in contrasto soprattutto con quella specifica del capo 3^ relativo alla «fase della dichiarazione di p.u.» che ha istituito, in conformita' all'art. 97 Cost. un giusto procedimento che riconosce e valorizza il ruolo partecipativo del privato proprietario (artt. 11 seggi), reso superfluo dalla contestuale introduzione di un meccanismo «semplificato», parallelo ed alternativo, rimesso a scelte insindacabili dell'amministrazione. Alla quale in definitiva viene attribuito il potere (di volta in volta, e per ogni espropriazione), di recepire ovvero escludere le garanzie connesse al procedimento normale. Non e' sostenibile, infatti, che, siccome l'adozione del provvedimento di acquisizione e' subordinato ad una previa valutazione degli interessi in conflitto ed al fatto che il bene occupato sia utilizzato per scopi d'interesse generale, queste espressioni abbiano valenza complessiva di sostanziale sinonimo dei «motivi di interesse generale» di cui all'art. 42 Cost., comma 3: in quanto il riferimento normativo alla valutazione degli interessi in conflitto presuppone un apprezzamento di amplissima discrezionalita' dell'amministrazione espropriante, assolutamente privo di «elementi e criteri idonei a delimitarla chiaramente» (Corte costituzionale 38/1966), tanto che non viene descritto alcun parametro, neppure vaghissimo, al quale una siffatta valutazione debba essere ancorata; e neppure, viene prefigurato l'ingresso nell'iter decisionale di interessi privati che tale discrezionalita' possano in qualche misura indirizzare o soltanto attenuare. Mentre e' lo stesso art. 42-bis ad escludere che i generici ed indeterminati scopi di interesse generale - che peraltro si limitano a riprodurre la regola per cui tutta l'attivita' dell'Amministrazione e' istituzionalmente e necessariamente- finalizzata ad interessi generali - coincidano con la causa di pubblica utilita' postulata dalla Costituzione (e dalla Convenzione) per procedere all'espropriazione, ritenendo, da un lato, sufficiente per la ricorrenza dei primi che l'immobile sia occupato e utilizzato da una pubblica amministrazione: e quindi la stessa situazione di fatto venutasi a creare per effetto del comportamento contea ius di quest'ultima. E dall'altro, richiedendo che la determinazione relativa al loro accertamento, si svolga al solo fine di legittimarla ex post, peraltro attraverso passaggi conoscitivi e valutativi tutti interni all'apparato amministrativo, e percio' necessariamente soggettivi. A differenza dei «motivi di interesse generale», i quali (Corte costituzionale 95/1966 e 155/1995) «valgono non solo ad escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire un interesse meramente privato, ma richiedono anche che esso miri alla soddisfazione di effettive e specifiche esigenze rilevanti per la comunita'»; e la cui identificazione deve «rinvenirsi nella stessa legge che prevede la potesta' ablatoria; come anche in essa puo' trovarsi definita soltanto la fattispecie astratta (a mezzo di clausola generale)..» che ne implica poi l'individuazione in concreto nell'ambito di un procedimento normativamente predeterminato (e partecipato). Allorche', dunque, «il programma da realizzare» sia ancora nella fase progettuale (comportante le opportune valutazioni relative a collocazione, caratteristiche tecniche, convenienza, tutela ambientale ecc), precedente alla concreta lesione del diritto dominicale (Corte costituzionale 90/1966 citata): soltanto cosi' potendosi garantire che il relativo sacrificio consegua il giusto equilibrio con le reali esigenze della collettivita', e configurare il comportamento dell'ente espropriante come rispettoso del principio di legalita' non solo formale (cfr. art. 97 Cost. ed 1 Prot. All. 1 alla CEDU). Ma il rapporto di implicazione logica e giuridica tra la fase della dichiarazione di p.u. ed il successivo trasferimento coattivo, assolve ad una seconda e non meno rilevante funzione, risalente alla Legge fondamentale n. 2359 del 1865, art. 13; il quale, onde evitare che si protragga indefinitamente l'incertezza sulla sorte dei beni espropriandi, e nel contempo, che si eseguano opere non piu' rispondenti, per il decorso del tempo all'interesse generale, ha attribuito ai proprietari una ulteriore garanzia fondamentale, oggi rispondente al principio di legalita' e tipicita' del procedimento ablativo, disponendo nel comma 1 che nel provvedimento dichiarativo della pubblica utilita' dell'opera devono essere fissati quattro termini (e cioe' quelli di inizio e di compimento della espropriazione e dei lavori); e stabilendo, nel comma 3, che «trascorsi i termini, la dichiarazione di pubblica utilita' diventa inefficace». Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione ha assunto rilevanza costituzionale, essendo stata collegata dalla Corte costituzionale (sent 355/1985; 257/1988; 141/1992) direttamente al principio che, siccome la proprieta' privata puo' essere espropriata esclusivamente per motivi di interesse generale (art. 42 comma 3), tale possibilita' e' connaturata solo all'esigenza che l'espropriazione avvenga per esigenze effettive e specifiche: che valgano, cioe', a far considerare indispensabile e tempestivo il sacrificio della proprieta', privata in quel momento; con la conseguenza che cio' non si verificherebbe ove il trasferimento coattivo di un bene avvenisse in vista di una futura, ma attualmente ipotetica utilizzazione al servizio di specifici fini di interesse generale, ma privi di attualita' e di concretezza. Da tale quadro normativo, la giurisprudenza tanto ordinaria, quanto amministrativa, ha tratto le regole, oggi ritenute assolute e non derogabili: A) che «la fissazione di tali termini costituisce regola indefettibile per ogni e qualsiasi procedimento espropriativo» ( cosi' Corte Cost. 257/1988); B) che la loro omessa fissazione comporta la giuridica inesistenza della dichiarazione di p.u. con tutte le conseguenze sopra evidenziate: prima fra tutte che tale situazione non e' idonea a far sorgere il potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il diritto soggettivo di proprieta' sui beni espropriandi; e determina una situazione di carenza di potere che incide (negativamente) sui successivi atti e comportamenti della procedura ablativa, piu' non consentendone l'adozione; C) che tale indicazione (ove non apposta direttamente dalla legge) deve avvenire nello stesso atto avente «ex lege» valore di dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera, e quindi nell'atto con cui e' approvato il progetto di opera pubblica; ed il relativo onere non puo' essere assolto mediante atti successivi, seppure in forma di convalida e di sanatoria, idonei ad eliminare l'intrinseca illegittimita' del primo atto; D) che scaduti inutilmente i termini finali di cui all'art. 13, si esaurisce il potere dell'espropriante di condurre a compimento il procedimento ablativo; che puo' soltanto ricominciare attraverso la rinnovazione della dichiarazione di p.u necessariamente richiedente, come prescritto dalla norma, lo svolgimento ab inizio del procedimento amministrativo strumentale di cui si e' detto, e quindi il compimento exnovo di tutte le formalita' previste come indispensabili dalla legge per l'approvazione di quel progetto, con la considerazione della situazione attuale (anche dei luoghi), cosi' come evoluta nelle more. Nella diversa prospettiva dell'acquisizione coattiva, che intende riunire sia gli effetti espropriativi, sia la valutazione del pubblico interesse, anche la garanzia offerta dai termini dell'art. 13 e' destinata a non trovare spazio, ne' tutela effettiva, in quanto la norma non indica alcun limite temporale entro il quale l'amministrazione debba esercitare il relativo potere: percio' esponendo il diritto dominicale su di esso al pericolo dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo; ed accentuando, i seri dubbi di contrasto con l'art. 3 Cost., avanti manifestati, per il regime discriminatorio provocato tra il procedimento ordinario in cui l'esposizione e' temporalmente limitata all'efficacia della dichiarazione di pubblica utilita' (nella disciplina del T.U., anche a quella del vincolo preordinato all'esproprio), e quello sanante in cui il bene privato detenuto sine titolo e' sottoposto in perpetuo al sacrificio dell'espropriazione. 4.2. La nuova operazione sanante - in tutte le fattispecie individuate dall'art. 42-bis, compresa quella di utilizzazione del bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio» - presenta poi, numerosi ed insuperabili profili di criticita' - non risolvibili in via ermeneutica - con le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo (art. 117 Cost.). La quale, del resto, come gia' rilevato dalla Corte di Cassazione (Cass. 18239/2005; 20543/2008), si e' gia' pronunciata in tali sensi, esaminando sia pure incidentalmente, l'allora vigente art. 43 T.U., interamente riprodotto nell'impianto del meccanismo traslativo, dall'attuale art. 42-bis. Il suo fulcro qualificante e' ravvisato infatti nella prospettiva che la restituzione dell'immobile privato utilizzato per scopi di pubblico interesse, secondo le direttive della Convenzione, possa essere evitata soltanto a seguito di un legittimo e formale provvedimento che ne dispone l'acquisizione al patrimonio pubblico; e che deve, a sua volta, trovare giustificazione non piu' in una situazione fattuale e/o in una prassi giurisprudenziale, ma in una previsione legislativa. Per cui, la coesistenza di detti presupposti e' apparsa al legislatore necessaria e nel contempo sufficiente per garantire il «rispetto dei parametri imposti dalla Corte europea e dai principi costituzionali»: anche per l'obbligo imposto all'autorita' amministrativa di «valutare gli interessi in conflitto», e percio' di «mantenere il giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale della comunita' e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo». Il quadro normativo prospettato dalla Corte EDU nella interpretazione delle tre norme dell'art. 1 del Prot. n. 1 - la prima afferma il principio generale di rispetto della proprieta'; la seconda consente la privazione della proprieta' solo alle condizioni indicate; la terza riconosce agli Stati il potere di disciplinare l'uso dei beni conformita' all'interesse generale - muove dalla regola che, per determinare se vi sia stata privazione dei beni ai sensi della seconda norma, occorre non solo verificare se vi sono stati spossessamene o espropriazione formale, ma anche guardare al di la' delle apparenze ed analizzare la realta' della concreta fattispecie, onde stabilire se essa equivalga ad un'espropriazione di fatto o indiretta, atteso che la CEDU mira a proteggere diritti «concreti ed effettivi» (tra le tante, Papamichalopoulos c. Grecia, 24 giugno 1993; Acciardi c. Italia, 19 maggio 2005; Cadetta c. Italia, 15 luglio 2005; De Angelis c. Italia, 21 dicembre 2006; Pasculli c. Italia, 4 dicembre 2007). Per cui ha dichiarato in radicale contrasto con la Convenzione il principio espropriazione indiretta», con la quale il trasferimento della proprieta' del bene dal privato alla p.a. avviene in virtu' della constatazione della situazione di illegalita' o illiceita' commessa dalla stessa amministrazione, con l'effetto di convalidarla, di consentire a quest'ultima di trarne vantaggio, nonche' di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con il rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati. E nella categoria suddetta la Corte ha sistematicamente inserito non soltanto l'ipotesi corrispondente alla c.d. occupazione espropriativa, ma tutte indistintamente le fattispecie (sent. 19 maggio 2005, Acciardi) di «perdita di ogni disponibilita' dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e con conseguenze assai gravi per il proprietario che subisce una espropriazione di fatto incompatibili con il suo diritto al rispetto dei propri beni»: ritenendo ininfluente, «che una tale vicenda sia giustificata soltanto dalla giurisprudenza, ovvero sia consentita mediante disposizioni legislative, come e' avvenuto con la L. n. 458 del 1988, art. 3 ovvero da ultimo con l'art. 43 del T.U., in quanto il principio di legalita' non significa affatto esistenza di una norma ddi legge che consenta l'espropriazione indiretta, bensi' esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e prevedibili» Con la conseguenza che il supporto di «una base legale non e' sufficiente a soddisfare al principio di legalita'» e che «e' utile porre particolare attenzione sulla questione della qualita' della legge» (sent. Acciardi cit. 75; Scordino, 12 ottobre 2005, cit. 87 ed 88). E quella ulteriore che al nuovo istituto del T.U. i giudici di Strasburgo hanno mosso l'addebito di non aver neppure escluso, come aveva fatto la giurisprudenza ordinaria, che l'espropriazione indiretta potesse applicarsi quando la dichiarazione di p.u. sia stata annullata, avendo previsto «che anche in assenza della dichiarazione di p.u. qualsiasi terreno possa essere acquisito al patrimonio pubblico, se il giudice decide di non ordinare la restituzione del terreno occupato e trasformato dall'amministrazione» (CEDU, Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Genovese, 2 febbraio 2006; Serrao, 13 ottobre 2005; Scordino, 12 ottobre 2005, par. 90; S.A.S. Certo e/Italia, cit., par. 76-80). In tale ottica diviene del tutto indifferente per escludere la ricorrenza di espropriazioni di fatto incompatibili con il diritto al rispetto dei propri beni e ripristinare la legalita', l'adozione postuma di un provvedimento con pretesi effetti sananti, perche' il requisito della legalita' secondo la Corte Edu non permette «in generale all'amministrazione di occupare un terreno e di trasformarlo irreversibilmente, di tal maniera da considerarlo acquisito al patrimonio pubblico, senza che contestualmente un provvedimento formale che dichiari il trasferimento di proprieta' sia stato emanato» (Cfr. in particolare decisioni 17 maggio 2005, Pasculli; 19 maggio 2005, Acciardi e Campagna; 11 ottobre 2005, La Rosa; 11 ottobre 2005, Chiro'; 12 ottobre 2005, Scordino; 13 ottobre 2005, Serrao; 7 novembre 2005, Istituto diocesano; 12 gennaio 2006, Sciarrotta; 23 febbraio 2006, S.A.S.; 20 aprile 2006, De Sciscio; gennaio 2009, Sotira). Il contrasto con la Convenzione dipende, allora, dal riconoscimento nel nostro ordinamento - «en vertu d'un principe jurisprudentiel ou d'un texte de loi comme l'article 43» - di effetti traslativi all'occupazione e successiva modifica meramente fattuale di un terreno senza che sussista un atto formale che dichiari il trasferimento della proprieta' «intervenant au plus tard au moment» in cui il proprietario ha perduto ogni potere sull'immobile: cosi' come, del resto, oltre un secolo prima aveva richiesto la L. n. 2359 del 1865, art. 50. Percio' inducendola a concludere che ogni forma di espropriazione indiretta in ogni caso «n'a pas pour effet de regulariser la situation denoncee», ne' tanto meno quello di costituire «un'alternativa ad un'espropriazione in buona e dovuta forma» (CEDU, 4, 15 novembre 2005, La Rosa; 3, 12 gennaio 2006, Sciarrotta, 1, 23 febbraio 2006, Immobiliare Cerro). La «legalizzazione dell'illegale» non e' conclusivamente consentita dalla giurisprudenza di Strasburgo neppure ad una norma di legge, ne' tanto meno ad un provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale e' quello che disponga l'acquisizione sanante (Usci, 22 giugno 2006; Cerro sas, 23 maggio 2006; De Sciscio, 20 aprile 2006; Dominici, 15 febbraio 2006; Serrao, 13 gennaio 2006; Sciarrotta, 12 gennaio 2006; Carletta, 15 luglio 2005; Scordino, 17 maggio 2005); ed in termini non dissimili si e' espressa anche Corte costituzionale n. 293/2010, per la quale «non e' affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell'espropriazione indiretta, sia sufficiente di per se' a risolvere il grave vulnus al principio di legalita'». Sicche' il ritorno alla via legale, come specificamente suggerito dalla stessa Corte Edu (sent. 6 marzo 2007, Scordino 3, cfr. anche, I, 13 luglio 2006, Zaffuto; 30 marzo 2006, Gianni) allo Stato italiano onde evitare ulteriori condanne, deve essere perseguito non regolarizzando ex post occupazioni gia' illegittime, bensi', anzitutto, in via preventiva, consentendo alla p.a. di immettersi nella proprieta' privata soltanto se - e dopocche' - abbia gia' conseguito un legittimo titolo che autorizzi l'ingerenza; ed in caso in cui cio' non sia avvenuto «eliminando gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno», peraltro «in analogia con altri ordinamenti europei» (Corte Cost. 293/2010 cit.). Il principio di legalita' non e', infine, recuperabile in forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e privati devoluti dalla norma all'autorita' amministrativa che dispone l'acquisizione: avendo la Corte EDU affermato fin dalla nota decisione Belvedere - Alberghiera del 30 maggio 2000, nella quale l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. 1/1996) aveva dato precedenza all'interesse pubblico specifico della collettivita' alla realizzazione di un'opera idrica per la stessa indispensabile (seppur mancante di dichiarazione di p.u. perche' annullata dallo stesso giudice amministrativo), che la necessita' di esaminare tale questione e' inattuabile in caso di ingerenza illegittima nella proprieta' (in cui la Convenzione privilegia quello privato, postulandone comunque la reintegrazione), ma «puo' porsi soltanto a condizione che l'ingerenza litigiosa abbia osservato il principio di legalita' e non sia risultata arbitraria». Sicche' ha egualmente condannato lo Stato italiano non certamente per l'assenza (allora) nell'ordinamento interno di una norma con valore sanante della illegittimita'. della procedura ablativa, ma perche' «la decisione del Consiglio di Stato aveva privato la ricorrente della possibilita' di ottenere la restituzione del suo terreno... che per essere compatibile con l'art. 1 del Protocollo deve essere attuata per causa di pubblica utilita' e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi di diritto internazionale» ( 54 e 55; nonche' Ucci c. Italia, 22 giugno 2006). E d'altra parte, poiche' la norma attribuisce ad uno dei due portatori dell'interesse in conflitto - ovvero alla P.A. responsabile dell'illecito ed interessata alla acquisizioni dell'immobile - il potere di comparare gli interessi suddetti (CEDU, 9 febbraio 2006, renna), e, quindi la scelta di restituirlo ovvero acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, il suo assetto reale noi dipende piu' (neppure) dalla sua (oggettiva) trasformazione in un bene demaniale o patrimoniale indisponibile, ma viene affidato esclusivamente alla volonta' dell'amministrazione - per quanto detto, senza neppure limiti temporali - di ricorrere al nuovo istituto; nonche', in caso di impugnazione del provvedimento di acquisizione, alla pronuncia del giudice amministrativo di consentirne o escluderne la restituzione: con conseguente incertezza ed imprevedibilita' della situazione giuridica fino al momento della sentenza definitiva. Il che ha indotto i giudici di Strasburgo a rilevare, con la piu' qualificata dottrina, che con tale regime scompare anche quel minimo di prevedibilita' che un sistema normativo e' tenuto ad assicurare: attesa l'inidoneita' della base legale su cui si fonda la consentita compromissione della proprieta' ad assicurare il sufficiente grado di certezza postulato dalla Convenzione attraverso «l'esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili, precise e dagli effetti prevedibili»; e rende l'istituto nuovamente incompatibile con la Convenzione «non potendosi escludere il rischio di un risultato imprevedibile G arbitrario» (CEDU, 2, 28 giugno 2011, De Caterina; 20 aprile 2006, De Sciscio; 3, 2 febbraio 2006, Genovese). La Corte europea, pur non escludendo che in materia civile una nuova normativapossa avere efficacia retroattiva, ha ripetutamente considerato lecita l'applicazione dello ius superveniens in causa soltanto in presenza di «imperieux motifs d'interet general»; ed affermato che in ogni altro caso essa si concreta nella violazione dei principio di legalita' nonche' del diritto ad un processo equo perche' consente al potere legislativo di introdurre nuove disposizioni specificamente dirette ad influire sull'esito di un giudizio gia' in corso (in cui e' parte un'amministrazione pubblica), ed induce il giudice a decisioni su base diversa da quella alla quale la controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione della lite (cfr. sentenza della Grande Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonche' ForrerNiedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio 2004; nonche' Scordino c/Italia, 29 luglio 2004, 78). Questa situazione - gia' posta in evidenza dalla Cassazione vigente Pincostituzionale art. 43 T.U. (Cass. 21867/2011; 20543/2008; sez. un. 26732/2007) - si e' riproposta proprio per effetto dell'art. 42-bis, il quale, malgrado la precisazione del primo comma che l'atto di acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente (rivolta a rispondere ad uno dei rilievi espressi da Corte costituzionale n. 293 del 2010), con la menzionata disposizione ha confermato la possibilita' dell'amministrazione di utilizzare il provvedimento sanante ex tunc, ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi e' gia' stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato: in conformita' del resto alla finalita' di attribuire alle amministrazioni occupanti una legale via di uscita dalle situazioni di illegalita' venutesi a verificare nel corso degli anni (anche pregressi). 4.3. Infine, neanche l'indennizzo/risarcimento stabilito quale corrispettivo dell'acquisizione risulta esente da dubbi di legittimita'. costituzionale, in quanto l'art. 42-bis, comma 3, ne fissa i seguenti parametri: «Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 e' determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilita' e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7». Sennonche' la Corte costituzionale (sent. 369/1996), nel dichiarare l'incostituzionalita' della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 65, che aveva equiparato l'entita' del risarcimento del danno da occupazione acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo, aveva affermato che «.. e' innegabile, in primo luogo, la violazione che ne deriva del precetto di eguaglianza, stante la radicale diversita' strutturale e funzionale delle obbligazioni cosi' comparate. Infatti, mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione ex lege per atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione ex delicto - deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera gia' realizzata e la reazione dell'ordinamento a tutela della legalita' violata per effetto della manipolazione-distruzione illecita del bene privato. E quindi sotto il profilo' della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 Cost.), poiche' nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico e' gia' essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilita' del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell'indennita' si prospetta come un di piu' che sbilancia il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo» (considerazioni analoghe si rinvengono nelle decisioni 442/1993; 188/1995; 148/1999; 349/2007). Nel caso, i ricordati principi sono stati disattesi sotto diversi profili, in quanto disponendo che detto indennizzo debba essere sempre e comunque commisurato «al valore venale del bene utilizzato», il legislatore: a) attribuisce ai proprietari interessati da un provvedimento di acquisizione sanante un trattamento deteriore rispetto a quelli, che in mancanza di detto provvedimento sono ammessi a chiedere la restituzione dell'immobile insieme al risarcimento del danno, pur quando destinatari di una medesima occupazione abusiva in radice (c.d. usurpativa): in quanto soltanto a questi ultimi e' consentito ottenere l'intero risarcimento del danno sofferto, in base ai parametri dell'art. 2043 cod. civ. del danno emergente e del lucro cessante (utili, occasioni e vantaggi che il proprietario provi di aver perduto dalla mancata disponibilita' del bene: Cass. 14609/2012; 4052/2009; 2746/2008; 15710/2001; 1196/1986; 3590/1983); b) tale trattamento resta inferiore pur nel confronto con l'espropriazione legittima dello stesso immobile, in quanto, ove avente destinazione edificatoria, non e' riconosciuto l'aumento del 10% di cui al T.U., art. 37, comma 2 (non richiamato dalla norma), se l'accordo/ di cessione e' stato concluso, se non e' stato concluso per fatto non:: imputabile all'espropriato o se l'indennita' provvisoria attualizzata e' inferiore all'80% di quella definitiva: e quindi a maggior ragione se nessuna indennita' viene offerta, come e' peculiare del procedimento di cui all'art. 42-bis. Mentre se il terreno e' agricolo non e' applicabile il precedente art. 40, comma 1 che impone di tener conto (Cfr. Corte costituzionale 181/2011) delle colture effettivamente praticate sul fondo e "del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola» (Cass. 23967/2010; 10217/2009; 11782/2007; 4848/1998; c) incorre in una disparita' piu' palese con il regime di quest'ultima laddove non considera affatto l'ipotesi di espropriazione parziale; e non consente di tener conto della diminuzione di valore del fondo residuo, invece indennizzata fin dalla L. n. 2359 del 1865, art. 40 (anche nelle ipotesi di occupazione appropriativa: Cass. 8197/2012; 591/2008; 24435/2006), ora trasfuso nell'art. 33 del T.U.; d) ha trasformato il precedente regime risarcitorio in un indennizzo derivante da atto lecito, che di conseguenza assume natura di debito di valuta non automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria (art. 1224 c.c., comma 2). A differenza del risarcimento da espropriazione e/o occupazione illegittime, costituente credito di valore, che deve essere liquidato alla stregua dei valori monetari corrispondenti al momento della relativa pronuncia, sicche' il giudice deve tenere conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla decisione, anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di uno specifico pregiudizio dell'interessato dipendente dal mancato tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo (tra tante, Cass. 1889/2013; 4010/2006; 9711/2004). Tale natura risarcitoria sembra invece mantenuta dall'art. 42-bis, comma 3, al corrispettivo per il periodo di occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione («Per il periodo di occupazione senza titolo e' computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entita' del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma): tuttavia pur esso determinato in base ad un parametro riduttivo rispetto a quelli cui e' commisurato l'analogo indennizzo per l'occupazione temporanea dell'immobile. In quanto: a) il parametro base e' costituito dall'interesse del cinque per cento annuo sui valore venale dell'immobile stimato ai fini dell'indennizzo, percio' corrispondente a circa 1/20 del suo valore annuo. Laddove l'art. 50 del T.U., recependo analoga disposizione contenuta nella L. n. 865 del 1971, art. 20 stabilisce in tutti i casi di occupazione legittima di un immobile che «e' dovuta al proprietario una indennita' per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell'area e, per ogni mese o frazione di mese, una indennita' pari ad un dodicesimo di quella annua»: percio' corrispondente ad una redditivita' predeterminata piu' elevata misura percentuale dell'8,33% all'anno sul valore venale dell'immobile; b) il richiamo all'indennita' di espropriazione consente altresi' l'applicazione del principio consolidato nella giurisprudenza di illegittimita' (Cass. 21352/2004; sez. un. 10502/2012; 24303/2010), che nell'ipotesi di espropriazione parziale la percentuale suddetta vada calcolata sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto anche del decremento di valore subito dalla parte dell'immobile rimasta in proprieta' dell'espropriato: invece non autorizzato dal parametro rigido contenuto nell'art. 42-bis, comma 3. Per cui anche il ristoro patrimoniale attribuito dalla norma non consente di escludere il rilievo piu' volte rivolto dalla Corte EDU al legislatore nazionale, che pure il meccanismo riduttivo di determinazione dell'indennizzo/risarcimento da occupazione senza titolo consente all'espropriante, che omette di svolgere il procedimento previsto dalla legge, di avvantaggiarsi ulteriormente del suo comportamento illegittimo, esonerandolo dai corrispondere una porzione del ristoro dovuto nel caso di occupazione/espropriazione legittime; percio' non favorendo la buona amministrazione e non contribuendo a prevenire episodi di illegalita'. 5. Conclusivamente, vanno dichiarate rilevanti, e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale riguardanti il decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001, art. 42-bis: per contrasto con il precetto di eguaglianza nonche' di ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3 Cost. sotto ciascuno dei diversi profili di cui in motivazione, involgenti anche l'art. 24 Cost.; per contrasto con i precetti e le garanzie posti dall'art. 42 Cost, a tutela della proprieta' privata, nonche' con il principio di legalita' , dell'azione amministrativa contenuto negli art. 97 e 113 Cost. sotto i diversi profili di cui in motivazione; per contrasto con l'art. 117 Cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del primo prot. add. della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, sotto i diversi profili di cui in motivazione, con cui se ne e' evidenziata la disciplina lesiva del diritto di proprieta', nonche' del diritto al rispetto dei propri beni, in violazione dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
P. Q. M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II^, non definitivamente pronunciando sul ricorso e i motivi aggiunti, di cui in premessa, cosi' provvede: 1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del T.U. delle Espropriazioni per Pubblica Utilita' approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 2001, introdotto dall'art. 34 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, per contrasto, nei sensi di cui in motivazione, con gli artt. 3, 24, 42, 97, Costituzione, nonche' per contrasto con l'art. 117 cost., comma 1, anche alla luce dell'art. 6 e dell'art. 1 del primo Protocollo Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Liberta' Fondamentali, resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848; 2) dispone la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 3) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite all'esito del giudizio incidentale promosso con la presente pronuncia; 4) dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria, alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, ed inoltre comunicata al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati: Luigi Tosti, Presidente. Salvatore Mezzacapo, Consigliere. Silvia Martino, Consigliere, Estensore. Il Presidente: Tosti L'Estensore: Martino