N. 55 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 gennaio 2014

Ordinanza  del  10  gennaio  2014  del  Tribunale   di   Tivoli   nel
procedimento civile promosso da Bordin Valentina contro Equitalia Sud
Spa - Agenzia della riscossione per la provincia di Roma ed altri. 
 
Tutela  giurisdizionale  -  Impugnabilita'  del  preavviso  di  fermo
  amministrativo di beni mobili registrati - Mancata disciplina della
  giurisdizione sulla controversia - Obbligo  per  il  cittadino  che
  abbia ricevuto un preavviso di fermo per crediti di diversa  natura
  (tributaria ed extratributaria) di rivolgersi  a  giudici  diversi,
  con raddoppio di spese ed oneri  -  Carenza  di  "una  formulazione
  della normativa  di  comprensione  univoca  e  chiara  del  proprio
  significato"  -  Assoggettamento  dello  stesso  provvedimento  [di
  preavviso] alla valutazione di  giudici  diversi,  con  rischio  di
  contrasto  nella  soluzione  -  Violazione  del  principio  di  non
  incertezza  del  diritto  ("default   de   securite'   juridique"),
  enunciato  dalla  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
  dell'uomo (CEDU), come interpretata dalla Corte  di  Strasburgo,  e
  recepito dalla Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea
  (CDFUE) -  Contrasto  con  il  principio  di  eguaglianza,  con  la
  garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti  e  degli  interessi
  legittimi, con la regola del giusto processo (nella  sua  accezione
  piu' lata) e con il principio di sicurezza giuridica  -  Violazione
  del principio  di  effettivita'  del  ricorso  e  di  accesso  alla
  giustizia. 
- Decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni,
  dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,  art.  35,  comma  26-quinquies,
  aggiuntivo delle lettere e-bis) [ed e-ter)] all'art. 19,  comma  1,
  del  decreto  legislativo  31  dicembre  1992,  n.   546;   decreto
  legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 2 e  19,  in  combinato
  disposto con l'art. 91-bis del d.P.R. 29 settembre  1973,  n.  602,
  con l'art. 86 della legge 26  febbraio  1999,  n.  46  [recte:  del
  d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall'art. 16  del
  decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46], e con l'art. 1, comma
  1, lett. q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193. 
- Costituzione, artt. 11, 24, 111 e 117  (primo  comma);  Convenzione
  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
  fondamentali [resa esecutiva con legge  4  agosto  1955,  n.  848],
  artt. 6 e 13; Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea,
  artt. 47, 52 e 53. 
In via subordinata: Procedimento civile  -  Impossibilita'  per  ogni
  giudice  di  qualsiasi   ordine   e   grado   di   richiedere   una
  interpretazione pregiudiziale vincolante alle Sezioni  unite  della
  Corte di cassazione (analogamente a quanto previsto  dall'art.  267
  del Trattato sul funzionamento  dell'Unione  europea  in  relazione
  alle pronunce pregiudiziali della Corte  di  Giustizia  Europea  in
  merito ai dubbi interpretativi  di  norme  comunitarie)  -  Mancata
  attribuzione  ai  principi  espressi  dalle  pronunce  della  Corte
  Suprema di Cassazione a Sezioni  Unite  del  valore  di  precedente
  vincolante  per  tutte  le  successive   decisioni   degli   uffici
  giudiziari della Repubblica  -  Violazione  del  principio  di  non
  incertezza  del  diritto  ("default   de   securite'   juridique"),
  enunciato  dalla  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
  dell'uomo (CEDU), come interpretata dalla Corte  di  Strasburgo,  e
  recepito dalla Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  europea
  (CDFUE) -  Contrasto  con  il  principio  di  eguaglianza,  con  la
  garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti  e  degli  interessi
  legittimi, nonche' con la regola  del  giusto  processo  nella  sua
  accezione piu' lata. 
- Cod. proc. civ., art. 362, commi secondo e terzo. 
- Costituzione,  artt.  11,  24,  111  e  117;  Convenzione  per   la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali
  [resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848], art. 6; Carta dei
  diritti fondamentali dell'Unione europea, artt. 47, 52 e 53. 
(GU n.15 del 15-4-2015 )
 
                         TRIBUNALE DI TIVOLI 
                         - Sezione civile - 
 
    Il Tribunale di Tivoli, nella persona  del  Giudice  unico  dott.
Alessio Liberati, nel procedimento iscritto al numero 3840/2013 RG  e
proposto dalla sig.ra VALENTINA  BORDIN  (CF  BRD  VNT  78E52  I153W)
rappresentata e difesa dall'avv. Umberto Diaco e domiciliata ex  lege
presso  la   cancelleria   del   Tribunale   di   Tivoli   (domicilio
invalidamente eletto in Roma), attrice nei confronti di: 
        Equitalia  Sud  Spa  -  Agenzia  della  Riscossione  per   la
Provincia di Roma con sede in Roma, via Cristoforo  Colombo  n.  269,
cap 00147; Convenuta contumace 
        Regione Lazio, Convenuta contumace 
        Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale I Roma, Convenuta
contumace 
        Comune di Mazzano Romano, Convenuta contumace 
        Roma Capitale, Convenuta contumace 
    ha pronunciato la seguente ordinanza con la quale si  solleva  di
ufficio questione di legittimita' costituzionale 
 
                              In fatto 
 
    Parte attrice ha citato con atto ritualmente  notificato  innanzi
al tribunale di Tivoli la parte convenuta per  ottenere  declaratoria
di annullamento/nullita' o inefficacia del  fermo  amministrativo  n.
09781201300007113  per  l'importo  di  euro  7.376,54  relativa  alle
cartelle di pagamento n. 097 2008 02571276 23000 (Comune  di  Roma  -
sanzione amministrativa codice strada), n. 097  2008  02739941  79000
(Irpef),  n.   097   2009   0052805083000   (regione   Lazio,   tasse
automobilistiche) e n. 097 097 2009 02299295 50000 (tassa smaltimento
rifiuti, comune di Mazzano r,), con  il  quale  si  preannunciava  il
fermo del veicolo MINI 1.4. ONE D tg. CN757PT. 
    Tra le cartelle indicate, solo la cartella n. 097  2008  02571276
23000 (Comune di Roma - sanzione amministrativa  codice  strada),  e'
relativa a  questioni  non  rientranti  nella  materia  tributaria  e
fiscale e come tali attribuite al GO (cfr. Cass. sentenza n. 1864 del
27 gennaio del 2011)). 
    Si pone preliminarmente il problema - rilevabile di  ufficio  dal
giudice - circa la attribuzione della giurisdizione a decidere  sulla
controversia. 
    Il  problema  in  diritto  concerne  quindi  il  presupposto   di
conoscibilita' del giudizio, che e' certamente rilevante e prodromica
per la successiva prosecuzione del giudizio stesso. 
 
                             In diritto 
 
    Il  fermo  amministrativo:  la  norma  in  questione  e  la   sua
interpretazione 
    Le norme  in  oggetto  sono  l'art.  35  comma  26-quinquies  del
decreto-legge n. 223 del  2006  cosi'  come  modificato  in  sede  di
conversione dalla legge  n.  248  del  2006  ha  introdotto  in  seno
all'art. 19 comma 1 del  decreto  legislativo  n.  546  del  1992  le
lettere e-bis, nonche' gli artt.  2  e  19  del  d.lgs.  546/1992  in
combinato disposto con l'art. 91-bis del DPR n. 602/73, con l'art. 86
legge n. 46 del 1999 e con l'art. 1 comma 1 lettera  q)  del  decreto
legislativo n. 193 del 2001. 
    Va premesso che la natura giuridica  del  fermo  e'  controversa,
circostanza che ha determinato anche  estrema  incertezza  in  ordine
alla titolarita' della giurisdizione delle relative controversie. 
    Secondo una prima opinione, il  fermo  sarebbe  un  provvedimento
amministrativo discrezionale nell'an e nel quid, circostanza  da  cui
si  inferiva   che   la   giurisdizione   appartenesse   al   giudice
amministrativo (cosi' Consiglio Stato, sez. VI, 18  luglio  2006,  n.
4581 in Bollettino trib. 2006, 15-16, 1328). 
    Altri  ritengono  che  il   fermo   avrebbe   natura   cautelare,
circostanza questa che secondo taluni comportava l'attribuzione della
giurisdizione al giudice ordinario (cosi' Tribunale  Bari,  ordinanza
del 17 marzo 2003 in Giur.  merito  2003,  1501),  secondo  altri  al
giudice  tributario  (cosi'  Commissione  tributaria  provinciale  di
Cosenza, Sez. I, sentenza 28 maggio 2003 n. 397/1/03 in Dir. e  prat.
trib. 2004, II, 984). 
    Secondo altro orientamento, fatto proprio dalla giurisprudenza di
legittimita', il fermo sarebbe invece un atto che  si  inserisce  nel
processo di  espropriazione  forzata  esattoriale,  e  come  tale  le
controversie relative  andavano  attribuite  alla  giurisdizione  del
giudice ordinario (cosi' Cassazione civile, sez. un., 23 giugno 2006,
n. 14701 in Giust. civ. Mass. 2006, 7-8). 
    In  questo  contesto  di  incertezza,  acuito   dal   sostanziale
contrasto tra la giurisprudenza della Cassazione da  un  lato  e  dal
Consiglio di Stato dall'altro,  e'  intervenuto  il  legislatore  nel
2006. L'art. 35 comma 26-quinquies del decreto-legge n. 223 del  2006
cosi' come modificato in sede di conversione dalla legge n.  248  del
2006  ha  introdotto  in  seno  all'art.  19  comma  1  del   decreto
legislativo n. 546 del  1992  le  lettere  e-bis)  ed  e-ter),  cosi'
annoverando tra  gli  atti  autonomamente  impugnabili  dinanzi  alle
commissioni tributarie rispettivamente l'iscrizione di ipoteca  sugli
immobili  di  cui  all'art.  77  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 29 settembre 1973  n.  602  e  il  fermo  di  beni  mobili
registrati di cui all'art. 86. 
    L'intervento del legislatore non ha pero'  sortito  l'effetto  di
chiarire definitivamente la questione del riparto  di  giurisdizione,
dal momento che e' rimasta incerta la titolarita' della giurisdizione
allorquando  il  fermo  riguardi  (o  riguardi  anche)   obbligazioni
extratributarie. 
    Da un lato, si  e'  affermato  che  il  legislatore  ha  soltanto
ampliato il novero degli atti  impugnabili,  ma  non  l'ambito  della
giurisdizione.  Infatti,  l'elencazione  degli   atti   autonomamente
impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie si rinviene  in  seno
all'art. 19 del decreto legislativo n.  546  del  1992  (norma  sulla
quale e' appunto intervenuta la modifica  del  legislatore),  laddove
l'ambito della giurisdizione e' disegnato dall'art. 2,  cosicche'  il
giudice  tributario  sarebbe  competente  a   conoscere   del   fermo
amministrativo solo quando sia correlato all'iscrizione  a  ruolo  di
crediti di natura tributaria. (cosi' Comm.trib.  prov.le  Roma,  sez.
LXI, 16/05/2007, n. 173 in Bollettino trib. 2007, 14, 1232). 
    Dall'altro lato si e' invece affermato che la natura del  credito
sarebbe irrilevante, e che tutte le controversie sul fermo  sarebbero
state  attribuite  al  giudice  tributario,  e  cio'  sulla  base  di
differenti considerazioni. 
    Secondo un primo punto  di  vista,  si  e'  ritenuto  che  se  la
disposizione  di   cui   all'art.   35,   comma   26-quinquies,   del
decreto-legge n. 223/2006 fosse da interpretarsi  nel  senso  che  ha
attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione limitatamente
ai fermi amministrativi azionati  per  crediti  tributari,  la  norma
sarebbe inutile atteso che non vi sarebbe stata alcuna necessita'  di
un intervento legislativo.  D'altro  canto,  se  e'  vero  che,  come
affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, il fermo e' atto  di
esecuzione forzata, la disposizione  si  porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992  che  esclude  dalla
giurisdizione tributaria gli atti di  esecuzione  forzata  successivi
alla notifica della cartella di pagamento. Secondo  tale  prospettiva
dunque si dovrebbe prendere atto  che  il  legislatore  abbia  voluto
intervenire,  al  fine  di  eliminare  i  contrasti  attribuendo   la
giurisdizione alle commissioni  tributarie  in  ogni  caso  di  fermo
amministrativo, azionato sia per crediti di natura tributaria sia per
crediti di natura non  tributaria  (cosi'  Comm.  Trib.  Prov.  Roma.
sentenza del 24/07/2007 n. 269 reperibile su  internet  all'indirizzo
http://def.finanze.it/). 
    Un  altro  orientamento  ha   invece   ritenuto   sussistere   la
giurisdizione esclusiva  del  giudice  tributario  perche'  il  fermo
amministrativo avrebbe natura di sanzione amministrativa irrogata  da
un "ufficio finanziario" (tale sarebbe da considerare l'agente  della
riscossione) e come tale da attribuire al  giudice  tributario  sulla
base dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992 (cosi' Comm.
Trib. Prov. Milano. sentenza del  14/11/2007  n.  395  reperibile  su
internet   all'indirizzo   http://def.finanze.it/).    Tale    natura
sanzionatoria emergerebbe dalla eliminazione del  previo  esperimento
negativo del pignoramento,  che  avrebbe  modificato,  di  fatto,  la
natura  del  fermo  amministrativo,  svincolando  tale  procedura  da
qualsiasi accertamento preventivo circa l'esistenza di un pregiudizio
effettivo o potenziale per la realizzazione di un credito iscritto  a
ruolo, cosi' che  l'atto  avrebbe  perso  la  sua  natura  cautelare,
acquisendo un carattere coercitivo, afflittivo e sanzionatorio (cosi'
Comm. Trib. Prov. Roma, sentenza del 13/06/2007 n. 192 reperibile  su
internet all'indirizzo http://def.finanze.it/). 
    La tesi dell'attribuzione esclusiva al giudice  tributario  delle
controversie  in  materia   di   fermo,   sembrava   trovare   sponda
nell'ordinanza n. 3171/2008 delle  Sezioni  unite  della  Cassazione,
secondo cui "Il legislatore puo',  senza  violare  l'art.  102  cost.
attribuire ai giudici tributari le controversie che  riguardino  atti
"neutri",  cioe'  utilizzabili  a  sostegno  di   qualsiasi   pretesa
patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica. In questo quadro,
la legge 248/2006 ha inserito fra gli atti elencati nell'art. 19  del
D.lg. 546/1992, ed impugnabili avanti  alle  commissioni  Tributarie:
"e-bis) l'iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all'art. 77 del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n.  602,  e
successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni  mobili  registrati
di cui all'art. 86 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  29
settembre 1973 n. 602, e successive modificazioni; cio' in quanto  si
tratta di misure collocate all'interno nel sistema  della  esecuzione
esattoriale,  di  matrice  tributaristica,  cui  il  legislatore   ha
ritenuto di far  ricorso  per  facilitare  la  riscossione  anche  di
entrate non  tributarie.  Di  conseguenza,  il  relativo  contenzioso
riguarda questioni attinenti alla regolarita' formale  e  sostanziale
della misura adottata; non alla fondatezza della pretesa che ha  dato
luogo al provvedimento di fermo ed alla iscrizione  di  ipoteca  (dal
momento che questa fondatezza deve gia' essere  stata  accertata  con
atti definitivi)" (Cassazione civile, sez. un., 11/02/2008, n.  3171,
in Diritto di Giustizia 2008). 
    L'argomento del fermo come  "atto  neutro"  non  teneva  tuttavia
conto della circostanza che, com'e' noto, il comma 3 del  piu'  volte
citato art. 19 del decreto legislativo n. 546 del  1992  prevede  che
"la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati
precedentemente  all'atto  notificato,  ne  consente   l'impugnazione
unitamente a quest'ultimo", cosa che  ovviamente  non  puo'  avvenire
dinanzi alle commissioni tributarie, qualora l'atto  presupposto  non
precedentemente notificato  esuli  dalla  giurisdizione  del  giudice
tributario. 
    Questo indirizzo  interpretativo  tuttavia  non  si  consolidava,
anche a causa di due importanti pronunce della Corte  costituzionale,
la n. 64 e la n. 130 del 2008, che hanno posto un freno alla tendenza
espansiva della giurisdizione tributaria,  la  prima  affermando  che
l'attribuzione alla  giurisdizione  tributaria  di  controversie  non
aventi natura tributaria viola il divieto costituzionale di istituire
giudici  speciali,  la  seconda,  sulla   stessa   scia,   affermando
l'illegittimita' dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del  1992
nella parte in  cui  attribuisce  alla  giurisdizione  tributaria  le
controversie relative  alle  sanzioni  comunque  irrogate  da  uffici
finanziari,  anche  laddove  esse  conseguano  alla   violazione   di
disposizioni non aventi natura tributaria. Con l'ordinanza  n.  14831
del 2008 le Sezioni unite si sono poi adeguate a quanto stabilito dal
giudice delle leggi. Hanno osservato le Sezioni unite che «Se  questo
necessario ancoraggio alla  natura  tributaria  del  rapporto  e'  il
fondamento  della  legittimita'  costituzionale  della  giurisdizione
tributaria, anche per quanto riguarda il fermo bisogna affermare  che
in tanto  il  giudice  tributario  potra'  conoscere  delle  relative
controversie in quanto le  stesse  siano  attinenti  ad  una  pretesa
tributaria. Sicche' deve essere affermato il  seguente  principio  di
diritto: "La giurisdizione sulle controversie relative  al  fermo  di
beni mobili registrati di cui al D.P.R. n. 602  del  1973,  art.  86,
appartiene al giudice tributario ai sensi del combinato  disposto  di
cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1 e art.  19,  comma  1,
lett. e-ter), solo quando  il  provvedimento  impugnato  concerna  la
riscossione di tributi"». 
    Ed  ancora:  «L'affermato  principio  di  diritto  non   comporta
conseguenze negative per  l'ipotesi  che  il  fermo  di  beni  mobili
registrati concerna una pluralita'  di  pretese,  solo  alcune  delle
quali di natura tributaria». 
    4.1. In una simile ipotesi, infatti, qualora il ricorso  non  sia
stato originariamente  proposto  innanzi  al  giudice  competente  in
relazione alla specifica natura dei crediti posti  a  fondamento  del
provvedimento di fermo,  opererebbe  il  principio  della  translatio
iudicii che consente al processo, iniziato erroneamente, in  parte  o
in  tutto,  davanti  ad  un  giudice  che  non  ha  la  giurisdizione
necessaria, di poter continuare  davanti  al  giudice  effettivamente
dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una  pronuncia  di  merito
che conclude la controversia, comunque iniziata, realizzando in  modo
piu'    sollecito    ed    efficiente    il    servizio    giustizia,
costituzionalmente rilevante (v. Cass. S.U. n.  4109  del  2007).  E'
questo un modo per assicurare il rispetto del  principio  del  giusto
processo senza  forzare  il  dato  costituzionale  sull'ambito  della
giurisdizione tributaria:  l'applicazione  della  translatio  iudicii
rappresenta, infatti, una adeguata  tutela  del  cittadino  che  deve
avere  la  possibilita'  di  ricorrere   alle   garanzie   apprestate
dall'ordinamento sul piano  giurisdizionale  attraverso  un  percorso
lineare e privo di "trappole formali", senza che tuttavia le esigenze
di semplificazione e celerita' del  processo  si  convertano  in  una
violazione dei limiti costituzionali. 
    4.2. Sicche' il giudice adito  dovra'  verificare  se  i  crediti
posti   a   fondamento   del   provvedimento   di    fermo    oggetto
dell'impugnazione siano crediti di natura tributaria - ipotesi  nella
quale sussistera' la giurisdizione del giudice tributario - o crediti
di natura  non  tributaria  -  ipotesi  nella  quale  sussistera'  la
giurisdizione  del  giudice  ordinario  -  e,   in   esito   a   tale
accertamento, affermera' o declinera' la propria  giurisdizione,  nel
primo caso, trattenendo la causa per la  decisione  del  merito;  nel
secondo caso, rimettendo la stessa, innanzi  al  giudice  competente.
Tanto avverra' anche nell'ipotesi in cui il  provvedimento  di  fermo
oggetto di impugnazione  concerna  piu'  crediti  di  diversa  natura
(tributaria e non): in tal caso il giudice adito separera' le  cause,
trattenendo quella per la quale egli ha giurisdizione e rimettendo la
restante al giudice competente.  Il  debitore  potra'  in  ogni  caso
proporre  originariamente  l'impugnazione  separatamente  innanzi  ai
giudici diversamente competenti in relazione alla natura dei  crediti
posti a base del provvedimento di fermo contestato.» 
    Da ultimo, la Corte di Cessazione con la sentenza n. 17915 del 23
luglio 2013 e' intervenuta in tema di competenza del giudice naturale
affermando che  il  fermo  amministrativo  dell'auto  conseguente  al
mancato pagamento dei contributi previdenziali deve essere  impugnato
di fronte al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro. 
    Sembra quindi essere stata ribadita, almeno per il momento  (come
noto non sussiste alcuna vincolativita' del precedente, come dimostra
lo stesso  revirement  giurisprudenziale  della  Suprema  Corte),  la
autonoma impugnabilita' del preavviso di fermo (si  osserva  tuttavia
che la giurisprudenza di merito continua talvolta  ad  orientarsi  in
modo diverso) e consolida altresi' l'orientamento in tema di  riparto
della  giurisdizione,  che  vuole  i   limiti   della   giurisdizione
tributaria saldamente ancorati alla natura  tributaria  del  rapporto
sottostante e  la  determinazione  del  giudice  legata  alla  natura
creditoria della pretesa sottostante. 
    Non si puo' non rilevare come la  necessita'  di  proporre  cause
separate per l'impugnazione del medesimo atto finisce per raddoppiare
gli oneri (non solo economici) a carico del contribuente e quindi, in
definitiva, a comprimerne il diritto costituzionalmente  tutelato  di
agire in  giudizio  per  difendere  i  propri  diritti  ed  interessi
legittimi. 
    Inoltre, le diverse e contrastanti tesi della Suprema Corte (come
degli altri giudici  di  ultimo  grado:  consiglio  di  Stato)  hanno
indubbiamente creato un problema di scelta  della  tesi  da  seguire,
potendo certamente mettersi in dubbio che la soluzione  possa  essere
affidata solo al criterio temporale della cronologa  delle  decisioni
(favorendo  l'ultima),  considerato  altresi'   che   il   precedente
giurisprudenziale  non  costituisce   vincolo   al   di   fuori   del
procedimento in cui e' espresso. 
    Premessa sulla rilevanza costituzionale del  dubbio  ermeneutico:
la  mancanza  di  certezza  del  diritto  integrante  una  violazione
dell'art. 6 CEDU e dell'art. 13 CEDU 
    Sono noti gli impatti economici (e non)  che  le  sentenze  della
CEDU hanno avuto sull'irrisolto problema della ragionevole durata del
processo, e che hanno portato alla normativizzazione della c.d. legge
Pinto. 
    Ritiene  questo  giudice  che  costituisca  un'altra  e   diversa
questione,  altrettanto  preoccupante  e   del   tutto   sottostimata
nell'ordinamento italiano, che  potrebbe  portare  anch'essa  ad  una
elevatissima casistica di condanne per  la  Repubblica  italiana,  in
qualita'  di  parte  aderente  alla  Convenzione   Europea   per   la
Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo. Ci si riferisce  alla  violazione
dell'art. 6 della  Convenzione  EDU  sotto  il  profilo  del  "defaut
securite' juridique" , cioe' della certezza del diritto. 
    Invero una moltitudine di questioni ermeneutiche sono  affrontare
- a causa  della  scarsa  determinazione,  della  non  univocita'  di
significato  ed   intellegibilita'   delle   norme   -   in   termini
assolutamente diversi dalla giurisprudenza, non  esclusa  la  Suprema
Corte di Cassazione, financo a Sezione Unite. 
    La funzione di nomofilachia attribuita alla Cassazione a  Sezioni
Unite, del resto, e' uno strumento solo in parte  dirimente,  per  un
duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, alla  luce  della  irrisolta
questione della durata  dei  processi,  l'eventuale  decisione  delle
Sezioni Unite interviene in genere ad anni di distanza dal momento in
cui si crea il dubbio ermeneutico, costringendo le parti a rivolgersi
alla autorita' giudiziario in un clima di incertezza giuridica,  cio'
che di per se'  -  ad  avviso  di  questo  Tribunale  -  implica  una
violazione dell'art. 6 della CEDU. Cio' anche in  considerazione  del
fatto che nell'ordinamento italiano non e' consentito al  Giudice  di
rimettere direttamente la questione interpretativa alle Sezioni Unite
della Suprema Corte di  Cassazione,  in  funzione  nomofilattica.  In
secondo luogo la decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite non e'
comunque vincolante per le  pronunce  successive  (ne'  sono  mancati
revirement delle medesime Sezioni  Unite,  come  gia'  sottolineato),
sicche' nemmeno dopo il piu'  autorevole  pronunciamento  gli  utenti
della Giustizia possono ritenersi certi  della  regola  giuridica  da
seguire,   essendo   comunque   soggetta   a   possibili,    diverse,
interpretazioni. 
    Ne  consegue  che  gli  utenti   della   giustizia   non   hanno,
nell'ordinamento  giuridico  italiano,  una  certezza  delle   regole
giuridiche  da  applicare,  stante  la  possibilita'   di   soluzioni
completamente  diverse   a   seconda   dell'interpretazione   fornita
dall'organo giudicante,  che  potrebbe  portare  (come  non  di  rado
accade) a soluzioni  diverse  o  addirittura  diametralmente  opposte
dinanzi a fattispecie uguali. 
    Orbene, tale incertezza integra ad avviso di questo  Giudice  una
violazione della Convenzione EDU che merita di  essere  rimessa  alla
attenzione  del  Giudice  delle  Leggi,   per   la   verifica   della
compatibilita'  delle  norme  di  riferimento  con  l'art.  6   della
Convenzione EDU. 
    La giurisprudenza della Corte  EDU  e'  molto  chiara  sul  punto
(Broniowski v.  Poland  [GC],  no.  31443/96,  §  151,  ECHR  2004-V;
Păduraru v. Romania, no. 63252/00, § 92,  ECHR  2005-XII  (extracts);
and  Beian  v.  Romania),  a  far   data   dall'importante   sentenza
Broniowski. 
    Il principio implica che chi e' sottoposto ad una normativa debba
sapere cosa e' permesso e cosa no, cosa e' obbligatorio e cosa non lo
e', in base a norme chiare e di costante applicazione.  Solo  in  tal
modo e' rispettata l'aspettativa in  un  diritto  certo  ed  univoco,
senza il quale si perde il concetto stesso di  diritto  inteso  quale
regola generale da seguire, In sostanza la norma perde la sua  stessa
ragion d'essere. Detto in altre parole, l'affermazione del  principio
di non incertezza del diritto risponde alla esigenza  di  far  fronte
alla crescente complessita' del diritto,  di  fronte  alla  quale  la
certezza giuridica appare come un baluardo al quale  appigliarsi  per
mantenere una unita' e, in definitiva, il senso ultimo  della  regola
giuridica, idoneo ad evitare l'arbitrio. 
    In questa prospettiva, del resto, si  sono  gia'  espressi  altri
Stati  aderenti  alla  Convenzione,  trovando  anche  un  riferimento
specifico nella propria Carta fondamentale.  Ad  esempio  il  Conseil
constitutionnel francese si e' espresso nel senso dell'obbligo per la
legge  di   esprimere   -   pena   l'incostituzionalita'   -   regole
intellegibili, precise e non equivoche (decisione n. 2004-500 DC  del
29 juillet 2004, cons. 13): (testualmente: «Il incombe au legislateur
d'exercer pleinement la competence que lui confie la Constitution et,
en particulier, son article 34. A cet egard le principe de clarte' de
la loi, qui decoule du même article de la Constitution, et l'objectif
de valeur constitutionnelle d'intelligibilite' et d'accessibilite' de
loi, qui decoule des articles 4, 5, 6 et  16  de  la  Declaration  de
1789, lui imposent d'adopter des dispositions  suffisamment  precises
et des formules non equivoques afin de premunir les sujets  de  droit
contre une interpretation contraire a' la Constitution ou  contre  le
risque d'arbitraire, sans reporter sur les autorites  administratives
ou  juridictionnelles  le  soin  de  fixer   des   regles   dont   la
determination n'a ete' confiee par la Constitution qu'a' la loi.»). 
    In Italia il riferimento costituzionale va rinvenuto ad avviso di
questo Tribunale negli artt. 3, 24 e 111 e nel riferimento  normativo
di  cui  all'art.  6  e  13  della  Convenzione  EDU,  come  recepito
nell'ordinamento italiano - secondo l'insegnamento della  Consulta  -
ai sensi degli artt. 111 e 117 della Costituzione,  oltre  che  negli
artt. 47 52 e 53 della Carta  dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione
Europea (CDFUE). 
    Ne consegue che le norme prive di sicuro ed univoco significato e
valore precettivo sono contrarie alla Costituzione, sempre ad  avviso
di  questo  Giudice,  per  il  combinato  disposto   con   le   norme
sovranazionali di principio. In particolare, simili norme - frutto di
un legiferare in termini eccessivamente generico - non sono in  grado
di ottemperare ne' all'obbligo costituzionale dettato  dal  principio
di  eguaglianza  innanzi  alla  legge  (sancito  dall'art.  3   della
Costituzione), ne' alla finalita' di assicurare la tutela dei diritti
ed interessi legittimi (tutelati dall'art.  24  della  Costituzione),
ne' alla regola del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., inteso
nella accezione piu' lata, ne', infine,  al  principio  di  sicurezza
giuridica di cui all'art. 6 Convenzione EDU come  interpretata  dalla
Corte di Strasburgo e come  recepito  ai  sensi  dell'art.  52  della
CDFUE. 
    Stesso discorso vale per l'art. 13 della CEDU, posto che  l'unica
interpretazione  possibile  allo  stato  della  normativa,   ove   si
riconosce la impugnabilita' del preavviso di  fermo,  e'  quella  che
sancisce la necessita' di proporre cause separate per  l'impugnazione
del medesimo atto finisce  per  raddoppiare  i  costi  a  carico  del
contribuente e  quindi,  in  definitiva,  a  comprimerne  il  diritto
tutelato di agire in giudizio  per  difendere  i  propri  diritti  ed
interessi legittimi. 
    Cio', inoltre, mette a rischio  la  certezza  del  diritto  sotto
altro profilo, ben potendo due diversi giudici addivenire a soluzioni
diverse. 
 
                Sulla ammissibilita' della questione 
 
    Il Giudice delle Leggi si e'  espresso,  in  passato,  sulla  non
proponibilita' di questioni ermeneutiche alla Consulta  (ex  plurimis
sentenze 419/05 e 466/2000), non potendosi  la  Corte  costituzionale
sostituirsi al giudice nella interpretazione corretta di una norma. 
    Va a maggior ragione rilevato che la questione che si  pone  oggi
alla attenzione della Consulta non e' - come nelle ipotesi in cui  si
e'  in  passato  pronunciata   -   meramente   propositiva   di   una
interpretazione piuttosto di un'altra, ma, al contrario, e'  atta  ad
evitare la violazione (che implicherebbe una possibile condanna della
Repubblica  italiana  per  "defaut  de  securite'  juridique")  della
violazione del principio di certezza giuridica  in  base  all'art.  6
della Convenzione EDU, nel caso in  cui  il  Giudice  a  quo  dovesse
decidere  in  base  a  dettato  normativo  non  chiaro   e   la   cui
determinazione in concreto del significato fosse di fatto  attribuito
in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza  ed
intellegibilita'  della  norma  (palesata  peraltro   dai   contrasti
giurisprudenziali gia' in  atto)  o  addirittura  sconfinasse  in  un
potere - di fatto - creativo della regola. 
    Sicche' si tratta di vero  e  proprio  dubbio  di  compatibilita'
costituzionale della norma di cui all'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010,  n.
28 con l'art. 6 della Convenzione Europea  per  la  Salvaguardia  dei
Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo  dalla
sentenza Broniowski in poi, e con gli artt. 47 e 52 della CDFUE. 
    Tale questione deve essere quindi portata alla  attenzione  della
Corte costituzionale, in base al meccanismo generale  indicato  dalla
Corte stessa, per le ipotesi di contrasto con le  norme  CEDU  o  con
norme UE recanti principi generali. 
    Sulla esperibilita' del rimedio della questione  di  legittimita'
costituzionale per contrasto della norma invocata con la  Convenzione
Europea  per  la  Salvaguardia  dei  Diritti  dell'Uomo,  secondo  la
consulta. 
    Invero, la Corte costituzionale ha in piu' occasioni (ex  multis:
Corte Cost. 347/2007 e 348/2007) precisato che la Convenzione EDU non
crea un ordinamento giuridico sopranazionale  e  non  produce  quindi
norme direttamente applicabili  negli  Stati  contraenti.  Ad  avviso
della Consulta, la Convenzione EDU e' configurabile come un  trattato
internazionale multilaterale - pur con caratteristiche peculiari - da
cui  derivano  "obblighi"  per   gli   Stati   contraenti,   ma   non
l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano  in  un  sistema
piu' vasto, dai  cui  organi  deliberativi  possano  promanare  norme
vincolanti, omisso medio, per tutte le autorita' interne degli  Stati
membri, rilevando che il giudice a quo aveva correttamente escluso di
poter risolvere il dedotto contrasto della norma  censurata  con  una
norma CEDU, come interpretata dalla Corte di  Strasburgo,  procedendo
egli  stesso  a  disapplicare  la  norma  interna  asseritamente  non
compatibile con la seconda. 
    In altre decisioni (Corte costituzionale 311/2009 e 317/2009)  il
Giudice delle leggi ha anche precisato che  la  Corte  costituzionale
non puo' sostituire la propria interpretazione  di  una  disposizione
della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con cio'  uscendo  dai
confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno
assunto dallo Stato italiano con la  sottoscrizione  e  la  ratifica,
senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma  puo'  valutare
come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione  della  Corte
europea si inserisca  nell'ordinamento  costituzionale  italiano.  La
norma CEDU, nel momento  in  cui  va  ad  integrare  il  primo  comma
dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema  delle
fonti, con tutto cio' che  segue  in  termini  di  interpretazione  e
bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla  Corte
in tutti i giudizi di sua competenza. 
    In definitiva, facendo leva sul dettato dell'art. 117 della Carta
fondamentale, la Consulta ha rilevato che il parametro costituzionale
e' espresso dall'art. 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in  cui
impone  la  conformazione  della  legislazione  interna  ai   vincoli
derivanti dagli «obblighi internazionali». Pertanto, ove  si  profili
un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della  CEDU,
il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilita' di  una
interpretazione della  prima  in  senso  conforme  alla  Convenzione,
avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e,  ove
tale verifica dia esito negativo  -  non  potendo  a  cio'  rimediare
tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante
- egli  deve  denunciare  la  rilevata  incompatibilita',  proponendo
questione di legittimita' costituzionale in riferimento  all'indicato
parametro. A sua volta,  la  Corte  costituzionale,  investita  dello
scrutinio, pur non potendo  sindacare  l'interpretazione  della  CEDU
data dalla Corte europea, resta legittimato a verificare se la  norma
della Convenzione - la quale si  colloca  pur  sempre  a  un  livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovra'  essere  esclusa
la idoneita' della  norma  convenzionale  a  integrare  il  parametro
considerato. Sulla integrazione da  parte  delle  norme  della  CEDU,
quali «norme interposte», dell'art. 117, primo comma, nella parte  in
cui impone la conformazione della legislazione interna  a;i'  vincoli
derivatiti dagli «obblighi internazionali». 
    Alla stregua di tale ragionamento, il giudice nazionale e' tenuto
a rimettere alla Consulta la questione sottostante  la  decisione  da
adottare, posto che implica la soluzione di un problema di  contrasto
tra la norma interna e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei
Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. 
    La   rilevanza   della    giurisprudenza    della    Corte    EDU
nell'ordinamento interno, secondo la consulta 
    Vanno anche svolte  le  opportune  precisazioni  in  merito  alla
valorizzazione  del   potere   interpretativo   dei   giudici   nella
giurisprudenza costituzionale e' tale che, nella sentenza n. 239  del
2009, la Corte si spinge fino al punto di ritenere che  l'esperimento
del tentativo d'interpretazione conforme alla Convenzione europea sia
una condizione necessaria per la valida instaurazione del giudizio di
legittimita' costituzionale, ripetendo lo schema che ormai da anni e'
utilizzato a proposito  del  dovere  di  interpretazione  conforme  a
Costituzione.  Per  superare  il  vaglio  di   ammissibilita'   della
questione di legittimita' costituzionale,  quindi,  il  giudice  deve
dimostrare che il tenore testuale della norma interna  o  il  diritto
vivente  eventualmente  formato  sulla  legge  interna  si  oppongono
all'assegnazione a tale legge di un significato  compatibile  con  la
norma convenzionale. 
    Peraltro, come la stessa Corte costituzionale  esplicitamente  ha
sottolineato, in  relazione  alla  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo,  il  giudice  comune  non  ha  soltanto   il   dovere   di
interpretare  il  diritto  interno  in   modo   conforme   a   quello
internazionale,  ma  deve  fare  cio'  tenuto   conto   della   norma
convenzionale come interpretata dalla Corte di Strasburgo. 
    In realta', gia' prima dell'intervento della Consulta, il vincolo
dell'interpretazione adeguatrice si era affermato  presso  i  giudici
comuni, come confermano, tra le altre, le  sentenze  della  Corte  di
Cassazione a Sezioni Unite da n. 1339 a n.  1341  del  2004,  ove  si
impone ai giudici nazionali di non  discostarsi  dall'interpretazione
che della Convenzione da' il giudice europeo. E', tuttavia, oggi, che
la Corte costituzionale eleva questo compito a vero e proprio vincolo
per il giudice comune. 
    Con  riferimento  alle  sole  norme   convenzionali,   la   Corte
costituzionale precisa che esse vivono nell'interpretazione che viene
data loro dalla Corte europea (cosi' la sent. n.  348  del  2007,  ma
similmente anche la sent. n. 349 del 2007), nel  senso  che  la  loro
"peculiarita'",   nell'ambito    della    categoria    delle    norme
internazionali pattizie che fungono da  norme  interposte,  "consiste
nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo,  alla
quale  gli  Stati  contraenti,   salvo   l'eventuale   scrutinio   di
costituzionalita', sono  vincolati  ad  uniformarsi"  (sent.  39  del
2008). 
    Quando viene in rilievo la  Convenzione  europea,  su  tutti  gli
organi  giurisdizionali  nazionali,  Corte  costituzionale  compresa,
ciascuno nell'esercizio delle proprie competenze,  grava  un  vincolo
interpretativo assoluto e incondizionato  alla  giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo per la determinazione dell'esatto  contenuto  del
vincolo internazionale. 
    La rigidita' di tale condizionamento ermeneutico  rappresenta  il
risultato di un iter le cui tappe fondamentali  si  rinvengono  nelle
sentenze 348 e 349  del  2007,  39/2008,  311  e  317/2009  e  187  e
196/2010. 
    Nelle  sentenze  nn.   348   e   349   emergeva   una   "funzione
interpretativa eminente" da parte della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo che si sostanzia anche nel fatto che "le norme  della  CEDU
vivono nell'interpretazione che viene data loro dalla Corte europea".
La consacrazione del ruolo della giurisprudenza avviene, quindi,  per
via giurisprudenziale: e' una Corte a legittimare un'altra Corte (con
affermazioni, si noti, suscettibili di assumere valenza  generale,  e
quindi, all'occorrenza, anche autoreferenziale)]. 
    Al riconoscimento della funzione  interpretativa  eminente  della
Corte Edu segue un passaggio in cui si afferma che "[s]i  deve  (...)
escludere  che  le  pronunce  della   Corte   di   Strasburgo   siano
incondizionatamente   vincolanti   ai   fini   del    controllo    di
costituzionalita' delle leggi nazionali", dovendosi "[t]ale controllo
[...] sempre ispirar[e] al ragionevole bilanciamento tra  il  vincolo
derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117,
comma 1,  Cost.,  e  la  tutela  degli  interessi  costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione". 
    Si  poteva,  quindi,   ancora   legittimamente   dubitare   della
sussistenza di un monopolio esclusivo, in capo alla Corte europea dei
diritti dell'uomo, circa il  significato  da  attribuire  alla  CEDU,
senza possibilita' alcuna, da parte dei giudici comuni e specialmente
da parte della Corte costituzionale, di integrare quel significato. 
    Qualche tempo dopo i dubbi sul punto si sono dissolti  quasi  del
tutto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella  decisione  n.  39  del
2008,  facendo  dire,  attraverso  la  nota  tecnica   di   citazione
manipolativa del precedente, quanto in realta' non  si  diceva  nelle
decisioni del  2007,  ha  sottolineato  che  tali  decisioni  avevano
precisato che la peculiarita'  delle  norme  della  CEDU  nell'ambito
della categoria delle  norme  interposte  risiede  "nella  soggezione
all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale  gli  Stati
contraenti, salvo l'eventuale scrutinio  di  costituzionalita',  sono
vincolati ad uniformarsi". 
    Un vincolo interpretativo, dunque, assoluto e incondizionato alla
giurisprudenza della Corte europea in capo ai giudici comuni ed  alla
Corte costituzionale per quanto riguarda l'inquadramento  dell'esatta
portata della norma convenzionale. Vincolo che non emergeva,  invece,
dalle decisioni del 2007 e che  viene  invece  ora  confermato  dalle
decisioni nn. 311 e 317/2009, ove  espressamente  si  dice  che  alla
Corte costituzionale, salvo ovviamente la possibilita' che una  norma
CEDU sia in contrasto con la Costituzione, "e' precluso di  sindacare
l'interpretazione della Convenzione europea fornita  dalla  Corte  di
Strasburgo, cui tale funzione e' stata attribuita  dal  nostro  Paese
senza apporre riserve" (sent. 311/09). 
    La funzione  interpretativa  della  Corte  europea  e'  diventata
dunque talmente eminente da escludere qualsiasi intervento  da  parte
di altri giudici, comuni e costituzionali,  volto  ad  una  possibile
integrazione del significato  delle  disposizioni  della  Convenzione
oggetto di interpretazione da parte della Corte di Strasburgo. 
    Alla valorizzazione  del  vincolo  interpretativo  nei  confronti
della giurisprudenza della Corte europea si accompagna, tuttavia,  il
riconoscimento della possibilita' che, in determinati casi, la stessa
Corte europea dei diritti dell'uomo attribuisca agli Stati membri  la
facolta' di discostarsi dagli orientamenti di Strasburgo.  Cio'  puo'
avvenire, come, specifica  la  sentenza  n.  311,  in  relazione,  ad
esempio, alla possibilita' che per "motivi  imperativi  di  interesse
generale, il legislatore si possa  sottrarre  al  divieto,  ai  sensi
dell'art.  6   CEDU   di   interferire   nell'amministrazione   della
giustizia". 
    La posizione della Corte  costituzionale  in  merito  al  vincolo
ermeneutico gravante sul giudice interno rispetto alla giurisprudenza
della Corte Edu risulta recentemente confermata  nelle  sentenze  nn.
187 e 196 del 2010. 
    Nella prima delle due pronunce la Corte, dopo aver  richiamato  e
ripercorso la giurisprudenza della  Corte  di  Strasburgo  pertinente
alla disposizione che veniva in rilevo nel caso  di  specie,  afferma
che: "Lo  scrutinio  di  legittimita'  costituzionale  andra'  dunque
condotto alla luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di
Strasburgo e' pervenuta nel ricostruire la portata del  principio  di
non discriminazione sancito dall'art. 14 della  Convenzione,  assunto
dall'odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all'art. 1
del  Primo  Protocollo  addizionale,  che  la  stessa  giurisprudenza
europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali,
al principio innanzi indicato (in particolare, sul punto,  la  citata
decisione di ricevibilita' nella causa Stec  ed  altri  contro  Regno
Unito)". 
    Nella  sentenza  n.  196/2010  la  Corte   afferma   che   "dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo,  formatasi  in  particolare
sull'interpretazione degli articoli 6 e  7  della  Cedu,  si  ricava,
pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di  carattere
punitivo - afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina
della sanzione penale in senso stretto". 
    Le affermazioni contenute nelle sentenze del 2010 sono indicative
di come progressivamente il  ruolo  della  Corte  di  Strasburgo  sia
cambiato, non tanto nelle modalita' di azione, che  si  concretizzano
nell'accertamento   e   nella   condanna   delle   violazioni   della
Convenzione, quanto nel significato sempre maggiore assunto dalla sua
attivita' interpretativa. Come e' noto, non esiste  per  la  CEDU  un
meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 267 TFUE (ex art.  234
TCE), che permetta al giudice di rivolgersi alla Corte qualora  abbia
un dubbio interpretativo, ma la prassi ha determinato  nel  tempo  un
legame  altrettanto  forte,  legame   che   oggi   e'   espressamente
riconosciuto dalla Corte costituzionale. 
    Il quadro complessivo che risulta dalle due sentenze del 2010  si
avvicina, quindi, a quello che  era  stato  delineato  da  chi  aveva
previsto che "nella  misura  in  cui  si  afferma  negli  ordinamenti
nazionali il principio di supremazia delle  norme  internazionali  su
quelle interne, almeno  nella  forma  del  pacta  sunt  servanda,  le
pronunce della  Corte  europea  finiranno  con  l'assumere  carattere
vincolante, sia nel senso di determinare  l'invalidita'  delle  norme
interne  ritenute  incompatibili  con  la  CEDU,  sia  nel  senso  di
orientare   in   funzione   della    giurisprudenza    della    Corte
l'interpretazione delle norme nazionali". 
    L'affermazione secondo cui, in  generale,  "le  norme  giuridiche
vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i
giudici in primo luogo" e,  in  particolare,  "le  norme  della  CEDU
vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data  dalla  Corte
europea"  (sicche'   "tra   gli   obblighi   internazionali   assunti
dall'Italia con la sottoscrizione e la  ratifica  della  CEDU  vi  e'
quello di  adeguare  la  propria  legislazione  alle  norme  di  tale
trattato,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed  applicazione")  sembra
quindi aver portato a compimento e, per cosi' dire, alle sue  estreme
conseguenze un percorso di acquisizione di consapevolezza  del  ruolo
della CEDU nell'ordinamento interno. 
    Cio' non puo' che valere anche per il  principio  della  certezza
del diritto (il defaut de securite' juridique). 
    La rilevanza della Convenzione EDU nell'ordinamento interno,  nel
caso di specie 
    Cio' premesso, va sottolineato anche che, nel caso di specie,  vi
e' una diretta interconnessione anche con la CDFUE. 
    Il ragionamento relativo al "defaut de securite'  juridique"  che
si e' pocanzi prospettato e' quindi  egualmente  valido  ed  operante
nell'ordinamento interno  anche  per  le  ulteriori  motivazioni  che
seguono. 
    Invero, la Carta Europea  dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione
Europea (CDFUE) ha valore di trattato per gli Stati membri,  in  base
al trattato di Lisbona. 
    Tale carta CEDFUE disciplina il rapporto con la Convenzione EDU e
la relativa giurisprudenza precisando all'art. 52  comma  3  che  "3.
Laddove la presente Carta contenga diritti  corrispondenti  a  quelli
garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il significato e la  portata
degli  stessi  sono  uguali  a  quelli   conferiti   dalla   suddetta
convenzione. La presente disposizione non  preclude  che  il  diritto
dell'Unione conceda una protezione piu' estesa." 
    Orbene, l'art. 47 della CEDFUE dispone che "Ogni individuo i  cui
diritti e le cui liberta' garantiti  dal  diritto  dell'Unione  siano
stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice,
nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. 
    Ogni individuo ha diritto  a  che  la  sua  causa  sia  esaminata
equamente, pubblicamente  ed  entro  un  termine  ragionevole  da  un
giudice indipendente e  imparziale,  precostituito  per  legge.  Ogni
individuo  ha  la  facolta'  di  farsi   consigliare,   difendere   e
rappresentare. 
    A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti e'  concesso  il
patrocinio a spese  dello  Stato  qualora  cio'  sia  necessario  per
assicurare un accesso effettivo alla giustizia." 
    La corrispondenza con la Convenzione EDU e' evidente e palese dal
raffronto con l'art. 6, che recita "Ogni persona ha diritto a che  la
sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un  termine
ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per
legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi  sulle  controversie  sui
suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di  ogni
accusa penale formulata nei suoi confronti: (...)" e  con  l'art.  13
"Ogni persona i cui diritti e  le  cui  liberta'  riconosciuti  nella
presente Convenzione siano stati violati, ha  diritto  a  un  ricorso
effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la  violazione
sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle  loro
funzioni ufficiale». 
    Ne deriva che i principi elaborati dalla Corte EDU  in  relazione
alla Convenzione EDU, ivi compreso  quello  relativo  al  "defaut  de
securite' juridique" trovano applicazione nell'ordinamento  italiano,
anche al di fuori  delle  materie  di  competenza  della  Convenzione
stessa. In tali ipotesi, ad avviso di parte della Giurisprudenza,  si
potrebbe procedere a disapplicazione della norma interna direttamente
da parte del giudice nazionale. Anche ove si volesse aderire  a  tale
orientamento, la questione, pero', non verrebbe comunque  in  rilievo
nel caso di specie. 
    Sulla necessita' della  rimessione  della  questione  alla  Corte
costituzionale 
    Nella fattispecie, difatti, si pone il problema di come procedere
quando il contrasto della norma legislativa interna sussiste non gia'
nei confronti di una norma comunitaria  direttamente  applicabile,  a
sua volta idonea a fornire la  regula  juris  per  il  caso  concreto
(poiche' allora il  contrasto  si  risolve  con  la  applicazione  di
quest'ultima, e la "disapplicazione" (o non applicazione) della norma
interna, da parte del giudice comune), ma nei confronti di  principio
di diritto comunitario o della Convenzione EDU. 
    Ci si deve domandare cioe' se, in questo caso, il giudice possa o
debba risolvere da se' il contrasto, negando applicazione alla  legge
interna, non perche' utilizza in sua vece una  norma  comunitaria  di
diretta applicazione, ma solo perche' la  legge  interna  gli  appare
viziata dal conflitto con  i  principi  del  diritto  comunitario  in
combinato disposto con il diritto della Convenzione EDU. 
    Il problema e'  particolarmente  delicato  perche'  il  contrasto
riguarda  di  principi  "comunitari"  di  contenuto   sostanzialmente
corrispondente ai principi costituzionali, posto  che  si  tratta  di
diritti fondamentali (ipotesi che sussiste automaticamente quando  si
chiama in causa la applicazione della Giurisprudenza della  Corte  di
Strasburgo sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei  Diritti
dell'Uomo). 
    Infatti, in questa ipotesi, se si ammette che  il  giudice  possa
disapplicare la legge nazionale perche' la ritiene in contrasto con i
principi  comunitari/CEDU  in  tema  di  diritti,   senza   sollevare
questione di costituzionalita', si verifica un paradosso; il giudice,
al quale il nostro ordinamento preclude  sia  l'applicazione  sia  la
disapplicazione  della   legge   sospetta   di   incostituzionalita',
obbligandolo a investire della  questione,  in  via  incidentale,  la
Corte   costituzionale,   potrebbe   invece,   in   alternativa,    e
sostanzialmente per gli stessi motivi, disapplicare  direttamente  la
legge per contrasto con i principi comunitari. 
    Nella giurisprudenza comune e'  dato  gia'  di  rinvenire  alcune
pronunce di giudici di merito che ragionano cosi' nei riguardi  della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo: la Convenzione, in  quanto
richiamata dai Trattati, e' diritto comunitario (e cio' varra'  ancor
piu' una volta costituzionalizzata la Carta dei diritti, e una  volta
realizzata l'adesione formale dell'Unione  alla  Convenzione  europea
dei diritti, come previsto dall'art. 7, paragrafo 2, del progetto  di
trattato costituzionale); il diritto comunitario prevale sul  diritto
interno,  e  il  giudice  e'  abilitato  e  tenuto   ad   applicarlo,
disapplicando la legge interna contrastante. Ergo,  il  giudice  puo'
direttamente disapplicare la legge  italiana  che  contrasta  con  la
Convenzione europea. 
    Dato il carattere generale e di principio proprio di molte  norme
della Convenzione, pero', questo modo di ragionare conduce ad  avviso
di questo giudice ad  instaurare  un  nuovo  sistema,  parallelo,  di
sindacato di costituzionalita'  sulle  leggi,  realizzabile  in  modo
diffuso dai giudici comuni. 
    Ma cio' porrebbe  sostanzialmente  nel  nulla  il  principio  del
nostro  ordinamento,  secondo  cui  sono   accentrati   nella   Corte
costituzionale il potere e il compito  di  privare  di  efficacia  le
leggi ordinarie in contrasto con la Costituzione: principio a cui non
sarebbe implausibile  attribuire  la  portata  di  principio  supremo
dell'ordinamento costituzionale, sicche' non pare applicabile. 
    Mentre,  infatti,  il  conflitto  fra  norme  interne   e   norme
comunitarie di diretta applicazione puo' essere risolto in termini di
separazione dei due ordinamenti, applicando la  norma  comunitaria  e
conseguentemente   negando   applicazione    alla    norma    interna
incompatibile, il conflitto della norma interna con principi  sanciti
nella Costituzione e insieme nel diritto comunitario UE in  relazione
alla Convenzione EDU (come quelli in tema  di  diritti  fondamentali)
non puo' essere risolto se non attraverso un  espresso  sindacato  di
legittimita' sull'atto legislativo ordinario: e questo,  nel  sistema
vigente,  spetta,  per  quanto  riguarda  gli  atti  di  legislazione
ordinaria, statale o regionale, alla  Corte  costituzionale,  essendo
precluso  al  giudice  comune   sia   applicare,   sia   direttamente
disapplicare le norme legislative riguardo alle quali sorga il dubbio
sulla loro compatibilita' con norme di rango sovraordinato. 
    Resta quindi in ogni caso interamente in capo ai giudici comuni -
cosi' come essi debbono sempre interpretare le leggi  in  conformita'
alla Costituzione - il potere-dovere di interpretare le leggi, quando
operano in campi coperti dal diritto comunitario, in conformita'  con
quest'ultimo, come accertato in ultima analisi  dalla  giurisprudenza
della Corte di giustizia, oltre che, in conformita' alle norme  della
convenzione europea sui diritti, quali risultano dalla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo. 
    Pur non potendo escludersi,  nemmeno  in  un  contesto  siffatto,
incertezze o contrasti di giurisprudenza in un campo delicato  com'e'
quello della  garanzia  dei  diritti  fondamentali,  si  eviterebbero
comunque conseguenze "eversive" dei criteri cui il nostro costituente
si e' ispirato  in  tema  di  rapporto  fra  giurisdizioni  comuni  e
giurisdizione costituzionale,  oltre  che  foriere,  in  pratica,  di
imprevedibili sviluppi (o avventure) giurisprudenziali. 
    A sostegno di tale tesi si e' recentemente pronunciata  la  Corte
di Giustizia dell'Unione Europea, Grande Sezione, con  decisione  del
24 aprile 2012 nella controversia C-571/10. 
 
              Questione di legittimita' costituzionale 
 
    Per queste ragioni si ritiene di dover sollevare di  ufficio,  in
quanto rilevante e non manifestamente infondata, la  questione  della
legittimita' costituzionale dell'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28  -
attuazione dell'art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia
di  mediazione  finalizzata  alla  conciliazione  delle  controversie
civili e commerciali (GU n. 53 del 5-3-2010) in relazione all'art. 24
della Costituzione ed all'art. 6 della CEDU, come interpretata  dalla
stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede una regola
certa ed idonea ad evitare un vero e  proprio  "defaut  de  securite'
juridique" (mancanza di certezza del  diritto)  nei  confronti  delle
parti del processo. 
 
                                 *** 
 
    In subordine, fermo restando che la  presente  questione  che  si
pone alla attenzione della Consulta non ha  carattere  interpretativo
riguardo alla specifico significato della norma, ma tende a risolvere
la situazione di incertezza in cui si trova l'utente della  giustizia
di fronte a normative lacunose, poco  chiare  o  contraddittorie,  il
quale - in base ai meccanismi dell'ordinamento nazionale - e'  tenuto
ad aspettare che gli inevitabili contrasti giurisprudenziali  che  di
regola insorgono vengano chiariti dalla Suprema Corte  di  Cassazione
in funzione nomofilattica, sovente dopo anni e rischiando comunque di
incorrere  nella  eventuale  interpretazione  meno  favorevole   sino
all'ultimo grado di giudizio; si pone la  questione  della  possibile
incostituzionalita' dell'attuale sistema  processuale  civile,  nella
parte in cui preclude al Giudice di ogni  ordine  e  grado  di  poter
offrire una soluzione (in quanto in evidente contrasto con  l'art.  6
della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti  dell'Uomo)
interessando direttamente il giudice della nomofilachia, analogamente
a  quanto  avviene  con  riferimento  alle  questioni   pregiudiziali
relative al diritto comunitario (innanzi alla Corte di Giustizia UE). 
    Si ritiene quindi  di  dover  sollevare  di  ufficio,  in  quanto
rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  la   questione   della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  362  comma  2  e  3  cpc  in
relazione all'art. 24, 111 della  Costituzione  e  all'art.  6  della
CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte
in cui non prevede la possibilita' per il giudice di  ogni  ordine  e
grado di richiedere preventivamente una pronuncia delle Sezioni Unite
in funzione nomofilattica, analogamente a quanto  previsto  dall'art.
267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea  in  relazione
alle pronunce pregiudiziali  della  Corte  di  Giustizia  Europea  in
merito ai dubbi interpretativi di  norme  comunitarie.  Solo  in  tal
modo, invero, potrebbe evitarsi che nel caso di specie  le  parti  si
trovino a chiedere l'applicazione di una norma  dal  contenuto  certo
senza essere a conoscenza prima della decisione  stessa  della  reale
portata precettiva della norma,  in  presenza  di  dubbi  ermeneutici
irrisolti, affrontando un giudizio in stato di  defaut  de  securite'
juridique contrario alla Convenzione Europea per la Salvaguardia  dei
Diritti dell'Uomo dome interpretata dalla Corte di Strasburgo e  come
recepito nell'ordinamento UE ai sensi  degli  artt.  47  e  52  della
CDFUE. 
    In sostanza si porta alla attenzione del Giudice delle  Leggi  la
questione, non nuova nel dibattito sulle tecniche  di  redazione  dei
testi normativi, della conformita' alla  Costituzione  (in  combinato
disposto con la Convenzione EDU) di testi legislativi  dal  contenuto
non  univoco  e  di  non  certa  interpretazione,  cosi'  come   gia'
affrontato dagli organi di verifica della legittimita' costituzionale
di altri Paesi membri, non ultima la  citata  decisione  del  Conseil
Costitutionnel della Repubblica Francese. 
 
                               P.Q.M. 
 
    II Tribunale di Tivoli, sezione civile, in  persona  del  Giudice
unico  dott.  Alessio  Liberati,  visti  gli   articoli   137   della
Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1984 n. 1 e  23
della legge 11 marzo 1953 n. 87,  ritenuta  la  rilevanza  e  la  non
manifesta infondatezza, 
    In via principale 
        - solleva d'ufficio questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 35 comma 26-quinquies del decreto-legge  n.  223  del  2006
cosi' come modificato in sede di conversione dalla legge n.  248  del
2006  ha  introdotto  in  seno  all'art.  19  comma  1  del   decreto
legislativo n. 546 del 1992 le lettere e-bis, nonche' degli artt. 2 e
19 del d.lgs. 546/1992 in combinato disposto con  l'art.  91-bis  del
DPR n. 602/73, con l'art. 86 legge n. 46 del  1999  e  con  l'art.  1
comma 1 lettera q) del decreto legislativo n.  193  del  2001,  nella
parte  in  cui  non   disciplinano   la   giurisdizione   del   fermo
amministrativo e nella parte in cui obbligano un soggetto  che  abbia
ricevuto un avviso di fermo amministrativo  per  crediti  di  diversa
natura a rivolgersi a diversi giudici, con riferimento agli  articoli
11, 24, 111, 117 della Costituzione nonche' dell'art. 6  e  13  della
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e degli
artt. 47, 52 e 53 della Carte dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione
Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza  del
diritto  ("defaut  de  securite'  juridique")  non   prevedendo   una
formulazione della normativa di comprensione  univoca  e  chiara  del
proprio  significato,  assoggettando  lo  stesso  provvedimento  alla
valutazione giudici diversi con rischio di contrasto nella soluzione,
e nella parte in cui viola il principio di effettivita' del ricorso e
di accesso alla giustizia, obbligando la parte a  rivolgersi  a  piu'
organi giurisdizionali, con relative spese ed oneri; 
    In via subordinata 
        - solleva d'ufficio questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 362 comma 2 e 3 cpc con riferimento agli articoli  11,  24,
111, 117 della Costituzione nonche'  dell'art.  6  della  Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e degli  artt.  47,
52 e 53 della Carte dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione  Europea,
nella parte in cui non consente ad ogni giudice di qualsiasi ordine e
grado di richiedere una interpretazione pregiudiziale vincolante alle
Sezioni Unite  della  Corte  di  Cassazione,  analogamente  a  quanto
previsto dall'art. 267 del  Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione
europea in relazione  alle  pronunce  pregiudiziali  della  Corte  di
Giustizia  Europea  in  merito  ai  dubbi  interpretativi  di   norme
comunitarie, e nella parte in cui i principi espressi dalle  pronunce
della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite  non  costituiscono
precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli  uffici
giudiziari della Repubblica. 
    Ordina   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso. 
    Ordina che a cura della cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei  ministri  e
che venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
        Tivoli, 9 gennaio 2014 
 
                    Il giudice: Alessio Liberati