N. 55 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 gennaio 2014
Ordinanza del 10 gennaio 2014 del Tribunale di Tivoli nel procedimento civile promosso da Bordin Valentina contro Equitalia Sud Spa - Agenzia della riscossione per la provincia di Roma ed altri. Tutela giurisdizionale - Impugnabilita' del preavviso di fermo amministrativo di beni mobili registrati - Mancata disciplina della giurisdizione sulla controversia - Obbligo per il cittadino che abbia ricevuto un preavviso di fermo per crediti di diversa natura (tributaria ed extratributaria) di rivolgersi a giudici diversi, con raddoppio di spese ed oneri - Carenza di "una formulazione della normativa di comprensione univoca e chiara del proprio significato" - Assoggettamento dello stesso provvedimento [di preavviso] alla valutazione di giudici diversi, con rischio di contrasto nella soluzione - Violazione del principio di non incertezza del diritto ("default de securite' juridique"), enunciato dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretata dalla Corte di Strasburgo, e recepito dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) - Contrasto con il principio di eguaglianza, con la garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, con la regola del giusto processo (nella sua accezione piu' lata) e con il principio di sicurezza giuridica - Violazione del principio di effettivita' del ricorso e di accesso alla giustizia. - Decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, art. 35, comma 26-quinquies, aggiuntivo delle lettere e-bis) [ed e-ter)] all'art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546; decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 2 e 19, in combinato disposto con l'art. 91-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, con l'art. 86 della legge 26 febbraio 1999, n. 46 [recte: del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, come sostituito dall'art. 16 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46], e con l'art. 1, comma 1, lett. q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193. - Costituzione, artt. 11, 24, 111 e 117 (primo comma); Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848], artt. 6 e 13; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, artt. 47, 52 e 53. In via subordinata: Procedimento civile - Impossibilita' per ogni giudice di qualsiasi ordine e grado di richiedere una interpretazione pregiudiziale vincolante alle Sezioni unite della Corte di cassazione (analogamente a quanto previsto dall'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie) - Mancata attribuzione ai principi espressi dalle pronunce della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite del valore di precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica - Violazione del principio di non incertezza del diritto ("default de securite' juridique"), enunciato dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretata dalla Corte di Strasburgo, e recepito dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) - Contrasto con il principio di eguaglianza, con la garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nonche' con la regola del giusto processo nella sua accezione piu' lata. - Cod. proc. civ., art. 362, commi secondo e terzo. - Costituzione, artt. 11, 24, 111 e 117; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848], art. 6; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, artt. 47, 52 e 53.(GU n.15 del 15-4-2015 )
TRIBUNALE DI TIVOLI - Sezione civile - Il Tribunale di Tivoli, nella persona del Giudice unico dott. Alessio Liberati, nel procedimento iscritto al numero 3840/2013 RG e proposto dalla sig.ra VALENTINA BORDIN (CF BRD VNT 78E52 I153W) rappresentata e difesa dall'avv. Umberto Diaco e domiciliata ex lege presso la cancelleria del Tribunale di Tivoli (domicilio invalidamente eletto in Roma), attrice nei confronti di: Equitalia Sud Spa - Agenzia della Riscossione per la Provincia di Roma con sede in Roma, via Cristoforo Colombo n. 269, cap 00147; Convenuta contumace Regione Lazio, Convenuta contumace Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale I Roma, Convenuta contumace Comune di Mazzano Romano, Convenuta contumace Roma Capitale, Convenuta contumace ha pronunciato la seguente ordinanza con la quale si solleva di ufficio questione di legittimita' costituzionale In fatto Parte attrice ha citato con atto ritualmente notificato innanzi al tribunale di Tivoli la parte convenuta per ottenere declaratoria di annullamento/nullita' o inefficacia del fermo amministrativo n. 09781201300007113 per l'importo di euro 7.376,54 relativa alle cartelle di pagamento n. 097 2008 02571276 23000 (Comune di Roma - sanzione amministrativa codice strada), n. 097 2008 02739941 79000 (Irpef), n. 097 2009 0052805083000 (regione Lazio, tasse automobilistiche) e n. 097 097 2009 02299295 50000 (tassa smaltimento rifiuti, comune di Mazzano r,), con il quale si preannunciava il fermo del veicolo MINI 1.4. ONE D tg. CN757PT. Tra le cartelle indicate, solo la cartella n. 097 2008 02571276 23000 (Comune di Roma - sanzione amministrativa codice strada), e' relativa a questioni non rientranti nella materia tributaria e fiscale e come tali attribuite al GO (cfr. Cass. sentenza n. 1864 del 27 gennaio del 2011)). Si pone preliminarmente il problema - rilevabile di ufficio dal giudice - circa la attribuzione della giurisdizione a decidere sulla controversia. Il problema in diritto concerne quindi il presupposto di conoscibilita' del giudizio, che e' certamente rilevante e prodromica per la successiva prosecuzione del giudizio stesso. In diritto Il fermo amministrativo: la norma in questione e la sua interpretazione Le norme in oggetto sono l'art. 35 comma 26-quinquies del decreto-legge n. 223 del 2006 cosi' come modificato in sede di conversione dalla legge n. 248 del 2006 ha introdotto in seno all'art. 19 comma 1 del decreto legislativo n. 546 del 1992 le lettere e-bis, nonche' gli artt. 2 e 19 del d.lgs. 546/1992 in combinato disposto con l'art. 91-bis del DPR n. 602/73, con l'art. 86 legge n. 46 del 1999 e con l'art. 1 comma 1 lettera q) del decreto legislativo n. 193 del 2001. Va premesso che la natura giuridica del fermo e' controversa, circostanza che ha determinato anche estrema incertezza in ordine alla titolarita' della giurisdizione delle relative controversie. Secondo una prima opinione, il fermo sarebbe un provvedimento amministrativo discrezionale nell'an e nel quid, circostanza da cui si inferiva che la giurisdizione appartenesse al giudice amministrativo (cosi' Consiglio Stato, sez. VI, 18 luglio 2006, n. 4581 in Bollettino trib. 2006, 15-16, 1328). Altri ritengono che il fermo avrebbe natura cautelare, circostanza questa che secondo taluni comportava l'attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario (cosi' Tribunale Bari, ordinanza del 17 marzo 2003 in Giur. merito 2003, 1501), secondo altri al giudice tributario (cosi' Commissione tributaria provinciale di Cosenza, Sez. I, sentenza 28 maggio 2003 n. 397/1/03 in Dir. e prat. trib. 2004, II, 984). Secondo altro orientamento, fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimita', il fermo sarebbe invece un atto che si inserisce nel processo di espropriazione forzata esattoriale, e come tale le controversie relative andavano attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario (cosi' Cassazione civile, sez. un., 23 giugno 2006, n. 14701 in Giust. civ. Mass. 2006, 7-8). In questo contesto di incertezza, acuito dal sostanziale contrasto tra la giurisprudenza della Cassazione da un lato e dal Consiglio di Stato dall'altro, e' intervenuto il legislatore nel 2006. L'art. 35 comma 26-quinquies del decreto-legge n. 223 del 2006 cosi' come modificato in sede di conversione dalla legge n. 248 del 2006 ha introdotto in seno all'art. 19 comma 1 del decreto legislativo n. 546 del 1992 le lettere e-bis) ed e-ter), cosi' annoverando tra gli atti autonomamente impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie rispettivamente l'iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all'art. 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602 e il fermo di beni mobili registrati di cui all'art. 86. L'intervento del legislatore non ha pero' sortito l'effetto di chiarire definitivamente la questione del riparto di giurisdizione, dal momento che e' rimasta incerta la titolarita' della giurisdizione allorquando il fermo riguardi (o riguardi anche) obbligazioni extratributarie. Da un lato, si e' affermato che il legislatore ha soltanto ampliato il novero degli atti impugnabili, ma non l'ambito della giurisdizione. Infatti, l'elencazione degli atti autonomamente impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie si rinviene in seno all'art. 19 del decreto legislativo n. 546 del 1992 (norma sulla quale e' appunto intervenuta la modifica del legislatore), laddove l'ambito della giurisdizione e' disegnato dall'art. 2, cosicche' il giudice tributario sarebbe competente a conoscere del fermo amministrativo solo quando sia correlato all'iscrizione a ruolo di crediti di natura tributaria. (cosi' Comm.trib. prov.le Roma, sez. LXI, 16/05/2007, n. 173 in Bollettino trib. 2007, 14, 1232). Dall'altro lato si e' invece affermato che la natura del credito sarebbe irrilevante, e che tutte le controversie sul fermo sarebbero state attribuite al giudice tributario, e cio' sulla base di differenti considerazioni. Secondo un primo punto di vista, si e' ritenuto che se la disposizione di cui all'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223/2006 fosse da interpretarsi nel senso che ha attribuito alle Commissioni tributarie la giurisdizione limitatamente ai fermi amministrativi azionati per crediti tributari, la norma sarebbe inutile atteso che non vi sarebbe stata alcuna necessita' di un intervento legislativo. D'altro canto, se e' vero che, come affermato dalla giurisprudenza della Cassazione, il fermo e' atto di esecuzione forzata, la disposizione si porrebbe in contrasto con l'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992 che esclude dalla giurisdizione tributaria gli atti di esecuzione forzata successivi alla notifica della cartella di pagamento. Secondo tale prospettiva dunque si dovrebbe prendere atto che il legislatore abbia voluto intervenire, al fine di eliminare i contrasti attribuendo la giurisdizione alle commissioni tributarie in ogni caso di fermo amministrativo, azionato sia per crediti di natura tributaria sia per crediti di natura non tributaria (cosi' Comm. Trib. Prov. Roma. sentenza del 24/07/2007 n. 269 reperibile su internet all'indirizzo http://def.finanze.it/). Un altro orientamento ha invece ritenuto sussistere la giurisdizione esclusiva del giudice tributario perche' il fermo amministrativo avrebbe natura di sanzione amministrativa irrogata da un "ufficio finanziario" (tale sarebbe da considerare l'agente della riscossione) e come tale da attribuire al giudice tributario sulla base dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992 (cosi' Comm. Trib. Prov. Milano. sentenza del 14/11/2007 n. 395 reperibile su internet all'indirizzo http://def.finanze.it/). Tale natura sanzionatoria emergerebbe dalla eliminazione del previo esperimento negativo del pignoramento, che avrebbe modificato, di fatto, la natura del fermo amministrativo, svincolando tale procedura da qualsiasi accertamento preventivo circa l'esistenza di un pregiudizio effettivo o potenziale per la realizzazione di un credito iscritto a ruolo, cosi' che l'atto avrebbe perso la sua natura cautelare, acquisendo un carattere coercitivo, afflittivo e sanzionatorio (cosi' Comm. Trib. Prov. Roma, sentenza del 13/06/2007 n. 192 reperibile su internet all'indirizzo http://def.finanze.it/). La tesi dell'attribuzione esclusiva al giudice tributario delle controversie in materia di fermo, sembrava trovare sponda nell'ordinanza n. 3171/2008 delle Sezioni unite della Cassazione, secondo cui "Il legislatore puo', senza violare l'art. 102 cost. attribuire ai giudici tributari le controversie che riguardino atti "neutri", cioe' utilizzabili a sostegno di qualsiasi pretesa patrimoniale (tributaria o no) della mano pubblica. In questo quadro, la legge 248/2006 ha inserito fra gli atti elencati nell'art. 19 del D.lg. 546/1992, ed impugnabili avanti alle commissioni Tributarie: "e-bis) l'iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all'art. 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, e successive modificazioni; e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all'art. 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 602, e successive modificazioni; cio' in quanto si tratta di misure collocate all'interno nel sistema della esecuzione esattoriale, di matrice tributaristica, cui il legislatore ha ritenuto di far ricorso per facilitare la riscossione anche di entrate non tributarie. Di conseguenza, il relativo contenzioso riguarda questioni attinenti alla regolarita' formale e sostanziale della misura adottata; non alla fondatezza della pretesa che ha dato luogo al provvedimento di fermo ed alla iscrizione di ipoteca (dal momento che questa fondatezza deve gia' essere stata accertata con atti definitivi)" (Cassazione civile, sez. un., 11/02/2008, n. 3171, in Diritto di Giustizia 2008). L'argomento del fermo come "atto neutro" non teneva tuttavia conto della circostanza che, com'e' noto, il comma 3 del piu' volte citato art. 19 del decreto legislativo n. 546 del 1992 prevede che "la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all'atto notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo", cosa che ovviamente non puo' avvenire dinanzi alle commissioni tributarie, qualora l'atto presupposto non precedentemente notificato esuli dalla giurisdizione del giudice tributario. Questo indirizzo interpretativo tuttavia non si consolidava, anche a causa di due importanti pronunce della Corte costituzionale, la n. 64 e la n. 130 del 2008, che hanno posto un freno alla tendenza espansiva della giurisdizione tributaria, la prima affermando che l'attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria viola il divieto costituzionale di istituire giudici speciali, la seconda, sulla stessa scia, affermando l'illegittimita' dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992 nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria. Con l'ordinanza n. 14831 del 2008 le Sezioni unite si sono poi adeguate a quanto stabilito dal giudice delle leggi. Hanno osservato le Sezioni unite che «Se questo necessario ancoraggio alla natura tributaria del rapporto e' il fondamento della legittimita' costituzionale della giurisdizione tributaria, anche per quanto riguarda il fermo bisogna affermare che in tanto il giudice tributario potra' conoscere delle relative controversie in quanto le stesse siano attinenti ad una pretesa tributaria. Sicche' deve essere affermato il seguente principio di diritto: "La giurisdizione sulle controversie relative al fermo di beni mobili registrati di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, appartiene al giudice tributario ai sensi del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1 e art. 19, comma 1, lett. e-ter), solo quando il provvedimento impugnato concerna la riscossione di tributi"». Ed ancora: «L'affermato principio di diritto non comporta conseguenze negative per l'ipotesi che il fermo di beni mobili registrati concerna una pluralita' di pretese, solo alcune delle quali di natura tributaria». 4.1. In una simile ipotesi, infatti, qualora il ricorso non sia stato originariamente proposto innanzi al giudice competente in relazione alla specifica natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, opererebbe il principio della translatio iudicii che consente al processo, iniziato erroneamente, in parte o in tutto, davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione necessaria, di poter continuare davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia, comunque iniziata, realizzando in modo piu' sollecito ed efficiente il servizio giustizia, costituzionalmente rilevante (v. Cass. S.U. n. 4109 del 2007). E' questo un modo per assicurare il rispetto del principio del giusto processo senza forzare il dato costituzionale sull'ambito della giurisdizione tributaria: l'applicazione della translatio iudicii rappresenta, infatti, una adeguata tutela del cittadino che deve avere la possibilita' di ricorrere alle garanzie apprestate dall'ordinamento sul piano giurisdizionale attraverso un percorso lineare e privo di "trappole formali", senza che tuttavia le esigenze di semplificazione e celerita' del processo si convertano in una violazione dei limiti costituzionali. 4.2. Sicche' il giudice adito dovra' verificare se i crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo oggetto dell'impugnazione siano crediti di natura tributaria - ipotesi nella quale sussistera' la giurisdizione del giudice tributario - o crediti di natura non tributaria - ipotesi nella quale sussistera' la giurisdizione del giudice ordinario - e, in esito a tale accertamento, affermera' o declinera' la propria giurisdizione, nel primo caso, trattenendo la causa per la decisione del merito; nel secondo caso, rimettendo la stessa, innanzi al giudice competente. Tanto avverra' anche nell'ipotesi in cui il provvedimento di fermo oggetto di impugnazione concerna piu' crediti di diversa natura (tributaria e non): in tal caso il giudice adito separera' le cause, trattenendo quella per la quale egli ha giurisdizione e rimettendo la restante al giudice competente. Il debitore potra' in ogni caso proporre originariamente l'impugnazione separatamente innanzi ai giudici diversamente competenti in relazione alla natura dei crediti posti a base del provvedimento di fermo contestato.» Da ultimo, la Corte di Cessazione con la sentenza n. 17915 del 23 luglio 2013 e' intervenuta in tema di competenza del giudice naturale affermando che il fermo amministrativo dell'auto conseguente al mancato pagamento dei contributi previdenziali deve essere impugnato di fronte al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro. Sembra quindi essere stata ribadita, almeno per il momento (come noto non sussiste alcuna vincolativita' del precedente, come dimostra lo stesso revirement giurisprudenziale della Suprema Corte), la autonoma impugnabilita' del preavviso di fermo (si osserva tuttavia che la giurisprudenza di merito continua talvolta ad orientarsi in modo diverso) e consolida altresi' l'orientamento in tema di riparto della giurisdizione, che vuole i limiti della giurisdizione tributaria saldamente ancorati alla natura tributaria del rapporto sottostante e la determinazione del giudice legata alla natura creditoria della pretesa sottostante. Non si puo' non rilevare come la necessita' di proporre cause separate per l'impugnazione del medesimo atto finisce per raddoppiare gli oneri (non solo economici) a carico del contribuente e quindi, in definitiva, a comprimerne il diritto costituzionalmente tutelato di agire in giudizio per difendere i propri diritti ed interessi legittimi. Inoltre, le diverse e contrastanti tesi della Suprema Corte (come degli altri giudici di ultimo grado: consiglio di Stato) hanno indubbiamente creato un problema di scelta della tesi da seguire, potendo certamente mettersi in dubbio che la soluzione possa essere affidata solo al criterio temporale della cronologa delle decisioni (favorendo l'ultima), considerato altresi' che il precedente giurisprudenziale non costituisce vincolo al di fuori del procedimento in cui e' espresso. Premessa sulla rilevanza costituzionale del dubbio ermeneutico: la mancanza di certezza del diritto integrante una violazione dell'art. 6 CEDU e dell'art. 13 CEDU Sono noti gli impatti economici (e non) che le sentenze della CEDU hanno avuto sull'irrisolto problema della ragionevole durata del processo, e che hanno portato alla normativizzazione della c.d. legge Pinto. Ritiene questo giudice che costituisca un'altra e diversa questione, altrettanto preoccupante e del tutto sottostimata nell'ordinamento italiano, che potrebbe portare anch'essa ad una elevatissima casistica di condanne per la Repubblica italiana, in qualita' di parte aderente alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo. Ci si riferisce alla violazione dell'art. 6 della Convenzione EDU sotto il profilo del "defaut securite' juridique" , cioe' della certezza del diritto. Invero una moltitudine di questioni ermeneutiche sono affrontare - a causa della scarsa determinazione, della non univocita' di significato ed intellegibilita' delle norme - in termini assolutamente diversi dalla giurisprudenza, non esclusa la Suprema Corte di Cassazione, financo a Sezione Unite. La funzione di nomofilachia attribuita alla Cassazione a Sezioni Unite, del resto, e' uno strumento solo in parte dirimente, per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, alla luce della irrisolta questione della durata dei processi, l'eventuale decisione delle Sezioni Unite interviene in genere ad anni di distanza dal momento in cui si crea il dubbio ermeneutico, costringendo le parti a rivolgersi alla autorita' giudiziario in un clima di incertezza giuridica, cio' che di per se' - ad avviso di questo Tribunale - implica una violazione dell'art. 6 della CEDU. Cio' anche in considerazione del fatto che nell'ordinamento italiano non e' consentito al Giudice di rimettere direttamente la questione interpretativa alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica. In secondo luogo la decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite non e' comunque vincolante per le pronunce successive (ne' sono mancati revirement delle medesime Sezioni Unite, come gia' sottolineato), sicche' nemmeno dopo il piu' autorevole pronunciamento gli utenti della Giustizia possono ritenersi certi della regola giuridica da seguire, essendo comunque soggetta a possibili, diverse, interpretazioni. Ne consegue che gli utenti della giustizia non hanno, nell'ordinamento giuridico italiano, una certezza delle regole giuridiche da applicare, stante la possibilita' di soluzioni completamente diverse a seconda dell'interpretazione fornita dall'organo giudicante, che potrebbe portare (come non di rado accade) a soluzioni diverse o addirittura diametralmente opposte dinanzi a fattispecie uguali. Orbene, tale incertezza integra ad avviso di questo Giudice una violazione della Convenzione EDU che merita di essere rimessa alla attenzione del Giudice delle Leggi, per la verifica della compatibilita' delle norme di riferimento con l'art. 6 della Convenzione EDU. La giurisprudenza della Corte EDU e' molto chiara sul punto (Broniowski v. Poland [GC], no. 31443/96, § 151, ECHR 2004-V; Păduraru v. Romania, no. 63252/00, § 92, ECHR 2005-XII (extracts); and Beian v. Romania), a far data dall'importante sentenza Broniowski. Il principio implica che chi e' sottoposto ad una normativa debba sapere cosa e' permesso e cosa no, cosa e' obbligatorio e cosa non lo e', in base a norme chiare e di costante applicazione. Solo in tal modo e' rispettata l'aspettativa in un diritto certo ed univoco, senza il quale si perde il concetto stesso di diritto inteso quale regola generale da seguire, In sostanza la norma perde la sua stessa ragion d'essere. Detto in altre parole, l'affermazione del principio di non incertezza del diritto risponde alla esigenza di far fronte alla crescente complessita' del diritto, di fronte alla quale la certezza giuridica appare come un baluardo al quale appigliarsi per mantenere una unita' e, in definitiva, il senso ultimo della regola giuridica, idoneo ad evitare l'arbitrio. In questa prospettiva, del resto, si sono gia' espressi altri Stati aderenti alla Convenzione, trovando anche un riferimento specifico nella propria Carta fondamentale. Ad esempio il Conseil constitutionnel francese si e' espresso nel senso dell'obbligo per la legge di esprimere - pena l'incostituzionalita' - regole intellegibili, precise e non equivoche (decisione n. 2004-500 DC del 29 juillet 2004, cons. 13): (testualmente: «Il incombe au legislateur d'exercer pleinement la competence que lui confie la Constitution et, en particulier, son article 34. A cet egard le principe de clarte' de la loi, qui decoule du même article de la Constitution, et l'objectif de valeur constitutionnelle d'intelligibilite' et d'accessibilite' de loi, qui decoule des articles 4, 5, 6 et 16 de la Declaration de 1789, lui imposent d'adopter des dispositions suffisamment precises et des formules non equivoques afin de premunir les sujets de droit contre une interpretation contraire a' la Constitution ou contre le risque d'arbitraire, sans reporter sur les autorites administratives ou juridictionnelles le soin de fixer des regles dont la determination n'a ete' confiee par la Constitution qu'a' la loi.»). In Italia il riferimento costituzionale va rinvenuto ad avviso di questo Tribunale negli artt. 3, 24 e 111 e nel riferimento normativo di cui all'art. 6 e 13 della Convenzione EDU, come recepito nell'ordinamento italiano - secondo l'insegnamento della Consulta - ai sensi degli artt. 111 e 117 della Costituzione, oltre che negli artt. 47 52 e 53 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE). Ne consegue che le norme prive di sicuro ed univoco significato e valore precettivo sono contrarie alla Costituzione, sempre ad avviso di questo Giudice, per il combinato disposto con le norme sovranazionali di principio. In particolare, simili norme - frutto di un legiferare in termini eccessivamente generico - non sono in grado di ottemperare ne' all'obbligo costituzionale dettato dal principio di eguaglianza innanzi alla legge (sancito dall'art. 3 della Costituzione), ne' alla finalita' di assicurare la tutela dei diritti ed interessi legittimi (tutelati dall'art. 24 della Costituzione), ne' alla regola del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., inteso nella accezione piu' lata, ne', infine, al principio di sicurezza giuridica di cui all'art. 6 Convenzione EDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito ai sensi dell'art. 52 della CDFUE. Stesso discorso vale per l'art. 13 della CEDU, posto che l'unica interpretazione possibile allo stato della normativa, ove si riconosce la impugnabilita' del preavviso di fermo, e' quella che sancisce la necessita' di proporre cause separate per l'impugnazione del medesimo atto finisce per raddoppiare i costi a carico del contribuente e quindi, in definitiva, a comprimerne il diritto tutelato di agire in giudizio per difendere i propri diritti ed interessi legittimi. Cio', inoltre, mette a rischio la certezza del diritto sotto altro profilo, ben potendo due diversi giudici addivenire a soluzioni diverse. Sulla ammissibilita' della questione Il Giudice delle Leggi si e' espresso, in passato, sulla non proponibilita' di questioni ermeneutiche alla Consulta (ex plurimis sentenze 419/05 e 466/2000), non potendosi la Corte costituzionale sostituirsi al giudice nella interpretazione corretta di una norma. Va a maggior ragione rilevato che la questione che si pone oggi alla attenzione della Consulta non e' - come nelle ipotesi in cui si e' in passato pronunciata - meramente propositiva di una interpretazione piuttosto di un'altra, ma, al contrario, e' atta ad evitare la violazione (che implicherebbe una possibile condanna della Repubblica italiana per "defaut de securite' juridique") della violazione del principio di certezza giuridica in base all'art. 6 della Convenzione EDU, nel caso in cui il Giudice a quo dovesse decidere in base a dettato normativo non chiaro e la cui determinazione in concreto del significato fosse di fatto attribuito in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza ed intellegibilita' della norma (palesata peraltro dai contrasti giurisprudenziali gia' in atto) o addirittura sconfinasse in un potere - di fatto - creativo della regola. Sicche' si tratta di vero e proprio dubbio di compatibilita' costituzionale della norma di cui all'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 con l'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo dalla sentenza Broniowski in poi, e con gli artt. 47 e 52 della CDFUE. Tale questione deve essere quindi portata alla attenzione della Corte costituzionale, in base al meccanismo generale indicato dalla Corte stessa, per le ipotesi di contrasto con le norme CEDU o con norme UE recanti principi generali. Sulla esperibilita' del rimedio della questione di legittimita' costituzionale per contrasto della norma invocata con la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, secondo la consulta. Invero, la Corte costituzionale ha in piu' occasioni (ex multis: Corte Cost. 347/2007 e 348/2007) precisato che la Convenzione EDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Ad avviso della Consulta, la Convenzione EDU e' configurabile come un trattato internazionale multilaterale - pur con caratteristiche peculiari - da cui derivano "obblighi" per gli Stati contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorita' interne degli Stati membri, rilevando che il giudice a quo aveva correttamente escluso di poter risolvere il dedotto contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna asseritamente non compatibile con la seconda. In altre decisioni (Corte costituzionale 311/2009 e 317/2009) il Giudice delle leggi ha anche precisato che la Corte costituzionale non puo' sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con cio' uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma puo' valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto cio' che segue in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla Corte in tutti i giudizi di sua competenza. In definitiva, facendo leva sul dettato dell'art. 117 della Carta fondamentale, la Consulta ha rilevato che il parametro costituzionale e' espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali». Pertanto, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilita' di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo - non potendo a cio' rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante - egli deve denunciare la rilevata incompatibilita', proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimato a verificare se la norma della Convenzione - la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovra' essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. Sulla integrazione da parte delle norme della CEDU, quali «norme interposte», dell'art. 117, primo comma, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna a;i' vincoli derivatiti dagli «obblighi internazionali». Alla stregua di tale ragionamento, il giudice nazionale e' tenuto a rimettere alla Consulta la questione sottostante la decisione da adottare, posto che implica la soluzione di un problema di contrasto tra la norma interna e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. La rilevanza della giurisprudenza della Corte EDU nell'ordinamento interno, secondo la consulta Vanno anche svolte le opportune precisazioni in merito alla valorizzazione del potere interpretativo dei giudici nella giurisprudenza costituzionale e' tale che, nella sentenza n. 239 del 2009, la Corte si spinge fino al punto di ritenere che l'esperimento del tentativo d'interpretazione conforme alla Convenzione europea sia una condizione necessaria per la valida instaurazione del giudizio di legittimita' costituzionale, ripetendo lo schema che ormai da anni e' utilizzato a proposito del dovere di interpretazione conforme a Costituzione. Per superare il vaglio di ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale, quindi, il giudice deve dimostrare che il tenore testuale della norma interna o il diritto vivente eventualmente formato sulla legge interna si oppongono all'assegnazione a tale legge di un significato compatibile con la norma convenzionale. Peraltro, come la stessa Corte costituzionale esplicitamente ha sottolineato, in relazione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, il giudice comune non ha soltanto il dovere di interpretare il diritto interno in modo conforme a quello internazionale, ma deve fare cio' tenuto conto della norma convenzionale come interpretata dalla Corte di Strasburgo. In realta', gia' prima dell'intervento della Consulta, il vincolo dell'interpretazione adeguatrice si era affermato presso i giudici comuni, come confermano, tra le altre, le sentenze della Corte di Cassazione a Sezioni Unite da n. 1339 a n. 1341 del 2004, ove si impone ai giudici nazionali di non discostarsi dall'interpretazione che della Convenzione da' il giudice europeo. E', tuttavia, oggi, che la Corte costituzionale eleva questo compito a vero e proprio vincolo per il giudice comune. Con riferimento alle sole norme convenzionali, la Corte costituzionale precisa che esse vivono nell'interpretazione che viene data loro dalla Corte europea (cosi' la sent. n. 348 del 2007, ma similmente anche la sent. n. 349 del 2007), nel senso che la loro "peculiarita'", nell'ambito della categoria delle norme internazionali pattizie che fungono da norme interposte, "consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalita', sono vincolati ad uniformarsi" (sent. 39 del 2008). Quando viene in rilievo la Convenzione europea, su tutti gli organi giurisdizionali nazionali, Corte costituzionale compresa, ciascuno nell'esercizio delle proprie competenze, grava un vincolo interpretativo assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per la determinazione dell'esatto contenuto del vincolo internazionale. La rigidita' di tale condizionamento ermeneutico rappresenta il risultato di un iter le cui tappe fondamentali si rinvengono nelle sentenze 348 e 349 del 2007, 39/2008, 311 e 317/2009 e 187 e 196/2010. Nelle sentenze nn. 348 e 349 emergeva una "funzione interpretativa eminente" da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo che si sostanzia anche nel fatto che "le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che viene data loro dalla Corte europea". La consacrazione del ruolo della giurisprudenza avviene, quindi, per via giurisprudenziale: e' una Corte a legittimare un'altra Corte (con affermazioni, si noti, suscettibili di assumere valenza generale, e quindi, all'occorrenza, anche autoreferenziale)]. Al riconoscimento della funzione interpretativa eminente della Corte Edu segue un passaggio in cui si afferma che "[s]i deve (...) escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalita' delle leggi nazionali", dovendosi "[t]ale controllo [...] sempre ispirar[e] al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione". Si poteva, quindi, ancora legittimamente dubitare della sussistenza di un monopolio esclusivo, in capo alla Corte europea dei diritti dell'uomo, circa il significato da attribuire alla CEDU, senza possibilita' alcuna, da parte dei giudici comuni e specialmente da parte della Corte costituzionale, di integrare quel significato. Qualche tempo dopo i dubbi sul punto si sono dissolti quasi del tutto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella decisione n. 39 del 2008, facendo dire, attraverso la nota tecnica di citazione manipolativa del precedente, quanto in realta' non si diceva nelle decisioni del 2007, ha sottolineato che tali decisioni avevano precisato che la peculiarita' delle norme della CEDU nell'ambito della categoria delle norme interposte risiede "nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalita', sono vincolati ad uniformarsi". Un vincolo interpretativo, dunque, assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte europea in capo ai giudici comuni ed alla Corte costituzionale per quanto riguarda l'inquadramento dell'esatta portata della norma convenzionale. Vincolo che non emergeva, invece, dalle decisioni del 2007 e che viene invece ora confermato dalle decisioni nn. 311 e 317/2009, ove espressamente si dice che alla Corte costituzionale, salvo ovviamente la possibilita' che una norma CEDU sia in contrasto con la Costituzione, "e' precluso di sindacare l'interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione e' stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve" (sent. 311/09). La funzione interpretativa della Corte europea e' diventata dunque talmente eminente da escludere qualsiasi intervento da parte di altri giudici, comuni e costituzionali, volto ad una possibile integrazione del significato delle disposizioni della Convenzione oggetto di interpretazione da parte della Corte di Strasburgo. Alla valorizzazione del vincolo interpretativo nei confronti della giurisprudenza della Corte europea si accompagna, tuttavia, il riconoscimento della possibilita' che, in determinati casi, la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo attribuisca agli Stati membri la facolta' di discostarsi dagli orientamenti di Strasburgo. Cio' puo' avvenire, come, specifica la sentenza n. 311, in relazione, ad esempio, alla possibilita' che per "motivi imperativi di interesse generale, il legislatore si possa sottrarre al divieto, ai sensi dell'art. 6 CEDU di interferire nell'amministrazione della giustizia". La posizione della Corte costituzionale in merito al vincolo ermeneutico gravante sul giudice interno rispetto alla giurisprudenza della Corte Edu risulta recentemente confermata nelle sentenze nn. 187 e 196 del 2010. Nella prima delle due pronunce la Corte, dopo aver richiamato e ripercorso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo pertinente alla disposizione che veniva in rilevo nel caso di specie, afferma che: "Lo scrutinio di legittimita' costituzionale andra' dunque condotto alla luce dei segnalati approdi ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo e' pervenuta nel ricostruire la portata del principio di non discriminazione sancito dall'art. 14 della Convenzione, assunto dall'odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all'art. 1 del Primo Protocollo addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi indicato (in particolare, sul punto, la citata decisione di ricevibilita' nella causa Stec ed altri contro Regno Unito)". Nella sentenza n. 196/2010 la Corte afferma che "dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull'interpretazione degli articoli 6 e 7 della Cedu, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo - afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto". Le affermazioni contenute nelle sentenze del 2010 sono indicative di come progressivamente il ruolo della Corte di Strasburgo sia cambiato, non tanto nelle modalita' di azione, che si concretizzano nell'accertamento e nella condanna delle violazioni della Convenzione, quanto nel significato sempre maggiore assunto dalla sua attivita' interpretativa. Come e' noto, non esiste per la CEDU un meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE), che permetta al giudice di rivolgersi alla Corte qualora abbia un dubbio interpretativo, ma la prassi ha determinato nel tempo un legame altrettanto forte, legame che oggi e' espressamente riconosciuto dalla Corte costituzionale. Il quadro complessivo che risulta dalle due sentenze del 2010 si avvicina, quindi, a quello che era stato delineato da chi aveva previsto che "nella misura in cui si afferma negli ordinamenti nazionali il principio di supremazia delle norme internazionali su quelle interne, almeno nella forma del pacta sunt servanda, le pronunce della Corte europea finiranno con l'assumere carattere vincolante, sia nel senso di determinare l'invalidita' delle norme interne ritenute incompatibili con la CEDU, sia nel senso di orientare in funzione della giurisprudenza della Corte l'interpretazione delle norme nazionali". L'affermazione secondo cui, in generale, "le norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo" e, in particolare, "le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea" (sicche' "tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi e' quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione") sembra quindi aver portato a compimento e, per cosi' dire, alle sue estreme conseguenze un percorso di acquisizione di consapevolezza del ruolo della CEDU nell'ordinamento interno. Cio' non puo' che valere anche per il principio della certezza del diritto (il defaut de securite' juridique). La rilevanza della Convenzione EDU nell'ordinamento interno, nel caso di specie Cio' premesso, va sottolineato anche che, nel caso di specie, vi e' una diretta interconnessione anche con la CDFUE. Il ragionamento relativo al "defaut de securite' juridique" che si e' pocanzi prospettato e' quindi egualmente valido ed operante nell'ordinamento interno anche per le ulteriori motivazioni che seguono. Invero, la Carta Europea dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE) ha valore di trattato per gli Stati membri, in base al trattato di Lisbona. Tale carta CEDFUE disciplina il rapporto con la Convenzione EDU e la relativa giurisprudenza precisando all'art. 52 comma 3 che "3. Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione piu' estesa." Orbene, l'art. 47 della CEDFUE dispone che "Ogni individuo i cui diritti e le cui liberta' garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facolta' di farsi consigliare, difendere e rappresentare. A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti e' concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora cio' sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia." La corrispondenza con la Convenzione EDU e' evidente e palese dal raffronto con l'art. 6, che recita "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti: (...)" e con l'art. 13 "Ogni persona i cui diritti e le cui liberta' riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiale». Ne deriva che i principi elaborati dalla Corte EDU in relazione alla Convenzione EDU, ivi compreso quello relativo al "defaut de securite' juridique" trovano applicazione nell'ordinamento italiano, anche al di fuori delle materie di competenza della Convenzione stessa. In tali ipotesi, ad avviso di parte della Giurisprudenza, si potrebbe procedere a disapplicazione della norma interna direttamente da parte del giudice nazionale. Anche ove si volesse aderire a tale orientamento, la questione, pero', non verrebbe comunque in rilievo nel caso di specie. Sulla necessita' della rimessione della questione alla Corte costituzionale Nella fattispecie, difatti, si pone il problema di come procedere quando il contrasto della norma legislativa interna sussiste non gia' nei confronti di una norma comunitaria direttamente applicabile, a sua volta idonea a fornire la regula juris per il caso concreto (poiche' allora il contrasto si risolve con la applicazione di quest'ultima, e la "disapplicazione" (o non applicazione) della norma interna, da parte del giudice comune), ma nei confronti di principio di diritto comunitario o della Convenzione EDU. Ci si deve domandare cioe' se, in questo caso, il giudice possa o debba risolvere da se' il contrasto, negando applicazione alla legge interna, non perche' utilizza in sua vece una norma comunitaria di diretta applicazione, ma solo perche' la legge interna gli appare viziata dal conflitto con i principi del diritto comunitario in combinato disposto con il diritto della Convenzione EDU. Il problema e' particolarmente delicato perche' il contrasto riguarda di principi "comunitari" di contenuto sostanzialmente corrispondente ai principi costituzionali, posto che si tratta di diritti fondamentali (ipotesi che sussiste automaticamente quando si chiama in causa la applicazione della Giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo). Infatti, in questa ipotesi, se si ammette che il giudice possa disapplicare la legge nazionale perche' la ritiene in contrasto con i principi comunitari/CEDU in tema di diritti, senza sollevare questione di costituzionalita', si verifica un paradosso; il giudice, al quale il nostro ordinamento preclude sia l'applicazione sia la disapplicazione della legge sospetta di incostituzionalita', obbligandolo a investire della questione, in via incidentale, la Corte costituzionale, potrebbe invece, in alternativa, e sostanzialmente per gli stessi motivi, disapplicare direttamente la legge per contrasto con i principi comunitari. Nella giurisprudenza comune e' dato gia' di rinvenire alcune pronunce di giudici di merito che ragionano cosi' nei riguardi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo: la Convenzione, in quanto richiamata dai Trattati, e' diritto comunitario (e cio' varra' ancor piu' una volta costituzionalizzata la Carta dei diritti, e una volta realizzata l'adesione formale dell'Unione alla Convenzione europea dei diritti, come previsto dall'art. 7, paragrafo 2, del progetto di trattato costituzionale); il diritto comunitario prevale sul diritto interno, e il giudice e' abilitato e tenuto ad applicarlo, disapplicando la legge interna contrastante. Ergo, il giudice puo' direttamente disapplicare la legge italiana che contrasta con la Convenzione europea. Dato il carattere generale e di principio proprio di molte norme della Convenzione, pero', questo modo di ragionare conduce ad avviso di questo giudice ad instaurare un nuovo sistema, parallelo, di sindacato di costituzionalita' sulle leggi, realizzabile in modo diffuso dai giudici comuni. Ma cio' porrebbe sostanzialmente nel nulla il principio del nostro ordinamento, secondo cui sono accentrati nella Corte costituzionale il potere e il compito di privare di efficacia le leggi ordinarie in contrasto con la Costituzione: principio a cui non sarebbe implausibile attribuire la portata di principio supremo dell'ordinamento costituzionale, sicche' non pare applicabile. Mentre, infatti, il conflitto fra norme interne e norme comunitarie di diretta applicazione puo' essere risolto in termini di separazione dei due ordinamenti, applicando la norma comunitaria e conseguentemente negando applicazione alla norma interna incompatibile, il conflitto della norma interna con principi sanciti nella Costituzione e insieme nel diritto comunitario UE in relazione alla Convenzione EDU (come quelli in tema di diritti fondamentali) non puo' essere risolto se non attraverso un espresso sindacato di legittimita' sull'atto legislativo ordinario: e questo, nel sistema vigente, spetta, per quanto riguarda gli atti di legislazione ordinaria, statale o regionale, alla Corte costituzionale, essendo precluso al giudice comune sia applicare, sia direttamente disapplicare le norme legislative riguardo alle quali sorga il dubbio sulla loro compatibilita' con norme di rango sovraordinato. Resta quindi in ogni caso interamente in capo ai giudici comuni - cosi' come essi debbono sempre interpretare le leggi in conformita' alla Costituzione - il potere-dovere di interpretare le leggi, quando operano in campi coperti dal diritto comunitario, in conformita' con quest'ultimo, come accertato in ultima analisi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, oltre che, in conformita' alle norme della convenzione europea sui diritti, quali risultano dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Pur non potendo escludersi, nemmeno in un contesto siffatto, incertezze o contrasti di giurisprudenza in un campo delicato com'e' quello della garanzia dei diritti fondamentali, si eviterebbero comunque conseguenze "eversive" dei criteri cui il nostro costituente si e' ispirato in tema di rapporto fra giurisdizioni comuni e giurisdizione costituzionale, oltre che foriere, in pratica, di imprevedibili sviluppi (o avventure) giurisprudenziali. A sostegno di tale tesi si e' recentemente pronunciata la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Grande Sezione, con decisione del 24 aprile 2012 nella controversia C-571/10. Questione di legittimita' costituzionale Per queste ragioni si ritiene di dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, la questione della legittimita' costituzionale dell'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 - attuazione dell'art. 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (GU n. 53 del 5-3-2010) in relazione all'art. 24 della Costituzione ed all'art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede una regola certa ed idonea ad evitare un vero e proprio "defaut de securite' juridique" (mancanza di certezza del diritto) nei confronti delle parti del processo. *** In subordine, fermo restando che la presente questione che si pone alla attenzione della Consulta non ha carattere interpretativo riguardo alla specifico significato della norma, ma tende a risolvere la situazione di incertezza in cui si trova l'utente della giustizia di fronte a normative lacunose, poco chiare o contraddittorie, il quale - in base ai meccanismi dell'ordinamento nazionale - e' tenuto ad aspettare che gli inevitabili contrasti giurisprudenziali che di regola insorgono vengano chiariti dalla Suprema Corte di Cassazione in funzione nomofilattica, sovente dopo anni e rischiando comunque di incorrere nella eventuale interpretazione meno favorevole sino all'ultimo grado di giudizio; si pone la questione della possibile incostituzionalita' dell'attuale sistema processuale civile, nella parte in cui preclude al Giudice di ogni ordine e grado di poter offrire una soluzione (in quanto in evidente contrasto con l'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo) interessando direttamente il giudice della nomofilachia, analogamente a quanto avviene con riferimento alle questioni pregiudiziali relative al diritto comunitario (innanzi alla Corte di Giustizia UE). Si ritiene quindi di dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, la questione della legittimita' costituzionale dell'art. 362 comma 2 e 3 cpc in relazione all'art. 24, 111 della Costituzione e all'art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non prevede la possibilita' per il giudice di ogni ordine e grado di richiedere preventivamente una pronuncia delle Sezioni Unite in funzione nomofilattica, analogamente a quanto previsto dall'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie. Solo in tal modo, invero, potrebbe evitarsi che nel caso di specie le parti si trovino a chiedere l'applicazione di una norma dal contenuto certo senza essere a conoscenza prima della decisione stessa della reale portata precettiva della norma, in presenza di dubbi ermeneutici irrisolti, affrontando un giudizio in stato di defaut de securite' juridique contrario alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo dome interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito nell'ordinamento UE ai sensi degli artt. 47 e 52 della CDFUE. In sostanza si porta alla attenzione del Giudice delle Leggi la questione, non nuova nel dibattito sulle tecniche di redazione dei testi normativi, della conformita' alla Costituzione (in combinato disposto con la Convenzione EDU) di testi legislativi dal contenuto non univoco e di non certa interpretazione, cosi' come gia' affrontato dagli organi di verifica della legittimita' costituzionale di altri Paesi membri, non ultima la citata decisione del Conseil Costitutionnel della Repubblica Francese.
P.Q.M. II Tribunale di Tivoli, sezione civile, in persona del Giudice unico dott. Alessio Liberati, visti gli articoli 137 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1984 n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza, In via principale - solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35 comma 26-quinquies del decreto-legge n. 223 del 2006 cosi' come modificato in sede di conversione dalla legge n. 248 del 2006 ha introdotto in seno all'art. 19 comma 1 del decreto legislativo n. 546 del 1992 le lettere e-bis, nonche' degli artt. 2 e 19 del d.lgs. 546/1992 in combinato disposto con l'art. 91-bis del DPR n. 602/73, con l'art. 86 legge n. 46 del 1999 e con l'art. 1 comma 1 lettera q) del decreto legislativo n. 193 del 2001, nella parte in cui non disciplinano la giurisdizione del fermo amministrativo e nella parte in cui obbligano un soggetto che abbia ricevuto un avviso di fermo amministrativo per crediti di diversa natura a rivolgersi a diversi giudici, con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonche' dell'art. 6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza del diritto ("defaut de securite' juridique") non prevedendo una formulazione della normativa di comprensione univoca e chiara del proprio significato, assoggettando lo stesso provvedimento alla valutazione giudici diversi con rischio di contrasto nella soluzione, e nella parte in cui viola il principio di effettivita' del ricorso e di accesso alla giustizia, obbligando la parte a rivolgersi a piu' organi giurisdizionali, con relative spese ed oneri; In via subordinata - solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 362 comma 2 e 3 cpc con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonche' dell'art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, nella parte in cui non consente ad ogni giudice di qualsiasi ordine e grado di richiedere una interpretazione pregiudiziale vincolante alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, analogamente a quanto previsto dall'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie, e nella parte in cui i principi espressi dalle pronunce della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite non costituiscono precedente vincolante per tutte le successive decisioni degli uffici giudiziari della Repubblica. Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e che venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Tivoli, 9 gennaio 2014 Il giudice: Alessio Liberati