N. 71 SENTENZA 11 marzo - 30 aprile 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Espropriazione per pubblica utilita' - Disciplina  dell'utilizzazione
  senza titolo, da parte della P.A., di bene immobile  per  scopi  di
  interesse pubblico, modificato in assenza di  valido  provvedimento
  di esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'. 
- D.P.R. 8 giugno  2001,  n.  327  (Testo  unico  delle  disposizioni
  legislative  e  regolamentari  in  materia  di  espropriazione  per
  pubblica utilita' - Testo A), art. 42-bis, introdotto dall'art. 34,
  comma 1, del decreto-legge  6  luglio  2011,  n.  98  (Disposizioni
  urgenti  per  la  stabilizzazione  finanziaria),  convertito,   con
  modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n.
  111. 
-   
(GU n.18 del 6-5-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo  GROSSI,  Aldo
  CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  42-bis  del
d.P.R.  8  giugno  2001,  n.  327  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica
utilita' - Testo A), articolo introdotto dall'art. 34, comma  1,  del
decreto-legge 6 luglio 2011,  n.  98  (Disposizioni  urgenti  per  la
stabilizzazione   finanziaria),   convertito,   con    modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011,  n.  111,  promossi
dalla Corte di cassazione - sezioni unite civili, con  due  ordinanze
del 13 gennaio 2014 e dal Tribunale amministrativo regionale  per  il
Lazio, sezione seconda, con ordinanze del 12 maggio e  del  5  giugno
2014, rispettivamente iscritte ai nn. 89, 90, 163 e 219 del  registro
ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 24, 42 e 50, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visti gli atti di costituzione del Comune di  Porto  Cesareo,  di
S.C. ed altri, di Corrida srl, nonche'  gli  atti  di  intervento  di
D.G.G. nella qualita' di erede universale di C.R., di SEP -  Societa'
Edilizia Pineto spa e del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 10 marzo 2015 e nella  camera  di
consiglio dell'11 marzo 2015 il Giudice relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Giuseppe Lavitola per SEP - Societa'  Edilizia
Pineto spa, Luca Di Raimondo per S.C. ed altri, Giovanni Pallottino e
Francesco Nardocci per Corrida srl e l'avvocato dello Stato Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte di cassazione, sezioni unite civili, ed il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda,  con  quattro
distinte ordinanze di  analogo  tenore,  pronunciate  in  altrettanti
giudizi, rispettivamente le prime due del 13 gennaio 2014 (r.o. n. 89
del 2014 e n. 90 del 2014), la terza del 12 maggio 2014 (r.o. n.  163
del 2014) e la quarta del 5 giugno 2014 (r.o. n. 219 del 2014), hanno
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24,  42,  97,  111,  primo  e
secondo comma, 113 e 117, primo comma, della Costituzione,  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del d.P.R.  8  giugno
2001,  n.  327  (Testo  unico  delle   disposizioni   legislative   e
regolamentari in materia di espropriazione per  pubblica  utilita'  -
Testo A), con il quale viene  disciplinata  la  «Utilizzazione  senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». 
    2.- La prima ordinanza della Corte di cassazione (r.o. n. 89  del
2014) espone che, nel giudizio a quo, instaurato innanzi al Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, il
ricorrente,  proprietario  di   un   fondo   oggetto   di   procedura
espropriativa, ha chiesto la condanna del  Comune  di  Porto  Cesareo
alla  restituzione  dei  beni,  occupati   senza   titolo   da   tale
amministrazione,  per  l'inutile  scadenza  della  dichiarazione   di
pubblica utilita'  che  li  aveva  destinati  alla  realizzazione  di
strade, parchi e parcheggi. 
    Con sentenza del 25 giugno 2010 n. 1614, il TAR  ha  ordinato  al
Comune di Porto  Cesareo  l'adozione  del  provvedimento  acquisitivo
delle aree (adottato con delibera  consiliare  19  ottobre  2011)  ai
sensi dell'allora vigente art.  43  del  T.U.  sulle  espropriazioni,
approvato con il citato d.P.R. n. 327 del 2001. 
    Dichiarata  costituzionalmente  illegittima   tale   norma,   con
sentenza n. 293 del 2010 di questa Corte, il ricorrente ha nuovamente
adito il medesimo TAR per ottenere la restituzione del  fondo  ed  il
risarcimento del danno. 
    Essendo stato introdotto, nelle more, l'art. 42-bis nello  stesso
T.U.  sulle  espropriazioni,  attraverso  l'art.  34,  comma  1,  del
decreto-legge 6 luglio 2011,  n.  98  (Disposizioni  urgenti  per  la
stabilizzazione   finanziaria),   convertito,   con    modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111,  il  Comune
di Porto Cesareo, con provvedimento del 19 ottobre 2011, ha  disposto
l'acquisizione  dei  terreni  al  suo   patrimonio,   liquidando   al
proprietario l'indennizzo previsto dalla nuova norma. 
    Avendo il ricorrente, con motivi  aggiunti,  richiesto  anche  la
rideterminazione dell'indennizzo in base al valore venale attuale dei
beni,  il  Comune  di  Porto  Cesareo  ha  proposto  regolamento   di
giurisdizione, chiedendo alla Corte di cassazione che la controversia
sulla rideterminazione dell'indennizzo fosse  attribuita  al  giudice
ordinario, in forza della  previsione  di  cui  all'art.  133,  primo
comma, lettera f), del codice del  processo  amministrativo  (decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione  dell'articolo
44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al  governo  per
il riordino del processo amministrativo»). 
    La Corte di cassazione ha cosi' ritenuto di  sollevare  questione
di legittimita' costituzionale della norma di cui all'art. 42-bis del
T.U. sulle espropriazioni, in riferimento agli artt. 3, 24,  42,  97,
111, primo e secondo comma, 113 e 117, primo comma, Cost. 
    2.1.- Il giudice rimettente, in punto di rilevanza, osserva  che,
da un lato, sarebbe  pacifica  l'applicabilita'  dell'istituto  della
cosiddetta "acquisizione sanante",  (re)introdotto  dall'art.  42-bis
del T.U. sulle  espropriazioni  e,  dall'altro,  sarebbe  proprio  il
sopravvenire di detta normativa ad  aver  mutato  quella  previgente,
piu'  favorevole,  invocata  dal  ricorrente   e   ad   impedire   la
restituzione  dei  terreni   di   fatto   occupati   dalla   pubblica
amministrazione, nonche' a sostituire il diritto al risarcimento  del
danno integrale con quello al  conseguimento  dell'indennizzo,  causa
del regolamento di giurisdizione. 
    In  particolare,  secondo  il  giudice  rimettente,  l'esame  del
ricorso potrebbe indurre astrattamente al suo  accoglimento,  con  la
traslatio iudicii al giudice ordinario,  nella  vigenza  della  norma
della cui legittimita' costituzionale si dubita.  Ove  invece  l'art.
42-bis,  per  i  prospettati   dubbi   di   compatibilita'   con   la
Costituzione,  venisse  espunto   dall'ordinamento,   il   ricorrente
fruirebbe del  trattamento  risultante  dalla  disciplina  previgente
all'emanazione delle disposizioni impugnate. Un trattamento  per  lui
piu' favorevole - gia' richiesto al Tribunale amministrativo  davanti
al quale il giudizio resterebbe incardinato  -  e  consistente  nella
restituzione  dell'immobile  soggetto  ad   occupazione   in   radice
illegittima, oltre al risarcimento del danno, informato  ai  principi
generali dell'art. 2043 del codice civile. 
    2.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione,  il
giudice rimettente ha premesso  che  l'art.  42-bis  del  T.U.  sulle
espropriazioni avrebbe riproposto l'istituto previsto dal  precedente
art. 43, di cui ha ereditato la rubrica. 
    2.2.1.- Il giudice  rimettente  dubita,  in  primo  luogo,  della
compatibilita' della norma censurata con gli artt. 3 e 24 Cost. 
    Quanto  alla  violazione  dell'art.  3  Cost.,  espressione   del
principio  di  uguaglianza,  la  Corte  di  cassazione  sostiene  che
verrebbe  riservato  un  trattamento   privilegiato   alla   pubblica
amministrazione che abbia commesso  un  fatto  illecito.  Mentre  per
qualsiasi altro soggetto dell'ordinamento  l'illecito  sarebbe  fonte
dell'obbligazione «risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt.  2043
e 2058 cod. civ., alla pubblica amministrazione  verrebbe  attribuita
la facolta' di mutare - successivamente all'evento  dannoso  prodotto
nella  sfera  giuridica  altrui,  e  per  effetto  di   una   propria
unilaterale manifestazione di volonta' - il titolo e  l'ambito  della
responsabilita', nonche' il tipo  di  sanzione  (da  risarcimento  in
indennizzo) stabiliti  in  via  generale  dal  precetto  del  neminem
laedere. 
    Secondo  il  giudice  rimettente,  la  pubblica  amministrazione,
allorquando opera al di fuori della funzione amministrativa,  sarebbe
invece soggetta a tutte le regole vincolanti per gli  altri  soggetti
(e dunque esposta alle medesime responsabilita'), sicche', una  volta
attuata in tutti i suoi elementi costitutivi una  lesione  "ingiusta"
di un diritto soggettivo, quest'ultima non potrebbe mai mutare natura
e divenire "giusta" per effetto dell'autotutela  amministrativa,  cui
non potrebbe neppure consentirsi di eliminare ex post le obbligazioni
restitutorie e risarcitorie conseguenti. 
    Questa impostazione avrebbe trovato  piena  corrispondenza  nella
giurisprudenza della  Corte  EDU  (di  cui  vengono  citate  numerose
sentenze),  proprio  in  materia  di  ingerenza   illegittima   nella
proprieta' privata, fondata sempre e comunque sul corollario che alla
pubblica amministrazione non  e'  consentito  (ne'  direttamente  ne'
indirettamente) trarre vantaggio da propri comportamenti illeciti  e,
piu' in generale, da una situazione di  illegalita'  da  essa  stessa
determinata. 
    La norma censurata, invece, per il solo fatto della  connotazione
pubblicistica  del  soggetto  responsabile,  avrebbe   soppresso   il
pregresso regime dell'occupazione  abusiva  di  un  immobile  altrui,
sottraendo  al  proprietario  l'intera  gamma  delle  azioni  di  cui
disponeva in precedenza a tutela  del  diritto  di  proprieta'  e  la
stessa facolta' di scelta di avvalersene o meno. 
    In   tal   modo,   considerando    esclusivamente    gli    scopi
dell'amministrazione, avrebbe  trasferito  tale  facolta'  di  scelta
dalla  «vittima  dell'ingerenza»  (tale   qualificata   dalla   Corte
europea),  all'autore  della   condotta   illecita,   attraverso   la
sostanziale  introduzione,  con  il  semplice  atto  di  acquisizione
autorizzato dalla norma censurata, di un nuovo modo di acquisto della
proprieta' privata, che prescinderebbe ormai dal collegamento con  la
realizzazione  di  opere  pubbliche,  e  perfino  con  una  pregressa
procedura espropriativa. 
    Inoltre, sia sotto il profilo  dell'eguaglianza,  sia  alla  luce
della  necessaria  razionalita'  intrinseca  postulata  dalla   norma
costituzionale, la disposizione censurata lederebbe l'art.  3  Cost.,
legando la determinazione  dell'«indennizzo/risarcimento»  al  valore
venale del bene utilizzato per  scopi  di  pubblica  utilita'  e,  se
l'occupazione riguarda un  terreno  edificabile,  «sulla  base  delle
disposizioni dell'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7». 
    A  tale  proposito,  il   rimettente   ricorda   che   la   Corte
costituzionale (a partire dalla sentenza n. 369 del 1996,  che  aveva
dichiarato l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  1,  comma  65,
della  legge  28  dicembre  1995,  n.   549,   recante   «Misure   di
razionalizzazione della  finanza  pubblica»,  in  quanto  tale  norma
equiparava  l'entita'  del  risarcimento  del  danno  da  occupazione
acquisitiva a quella dell'indennizzo espropriativo)  aveva  affermato
la radicale diversita' strutturale e  funzionale  delle  obbligazioni
cosi' comparate,  sicche',  sotto  il  profilo  della  ragionevolezza
intrinseca, la parificazione del  quantum  risarcitorio  alla  misura
dell'indennita'  si  prospetta  come  un  di   piu'   che   sbilancia
eccessivamente  il  contemperamento  tra  i  contrapposti  interessi,
pubblico e privato, in eccessivo favore del primo. 
    L'art.  42-bis  disattenderebbe  tali  principi   sotto   diversi
profili, in quanto, disponendo che l'indennizzo debba essere sempre e
comunque  commisurato  «al  valore  venale  del   bene   utilizzato»,
attribuisce  ai  proprietari  interessati  da  un  provvedimento   di
acquisizione "sanante" un trattamento  deteriore  rispetto  a  quello
concesso ai proprietari  che,  in  mancanza  di  tale  provvedimento,
possono   chiedere   la   restituzione   dell'immobile   insieme   al
risarcimento del  danno,  pur  quando  destinatari  di  una  medesima
occupazione abusiva in radice (cosiddetta  usurpativa),  in  base  ai
parametri del danno emergente e del lucro cessante ex art. 2043  cod.
civ. 
    Tale  trattamento,  osserva  ancora  il  rimettente,   resterebbe
inferiore nel confronto con l'espropriazione legittima  dello  stesso
immobile, in quanto: 
    a) ove  quest'ultimo  abbia  destinazione  edificatoria,  non  e'
riconosciuto l'aumento del 10 per cento di cui all'art. 37, comma  2,
del T.U. sulle espropriazioni, non richiamato dalla norma impugnata; 
    b)  ove  abbia  destinazione  agricola,  non  e'  applicabile  il
precedente art. 40, comma 1, che impone di tener conto delle  colture
effettivamente praticate  sul  fondo  e  «del  valore  dei  manufatti
edilizi legittimamente realizzati, anche in  relazione  all'esercizio
dell'azienda agricola». 
    La  norma,  poi,  non   considererebbe   affatto   l'ipotesi   di
espropriazione parziale e non  consentirebbe  di  tener  conto  della
diminuzione di valore del  fondo  residuo,  invece  indennizzata  fin
dalla legge 25 giugno 1865, n.  2359  (Espropriazioni  per  causa  di
utilita' pubblica), il cui art. 40 e' stato trasfuso nell'art. 33 del
T.U. sulle espropriazioni. 
    L'art. 42-bis, infine, secondo la prospettazione del  rimettente,
avrebbe  trasformato  il  precedente  regime   risarcitorio   in   un
indennizzo derivante da atto lecito, che di  conseguenza  assumerebbe
natura  di  debito  di  valuta   non   automaticamente   soggetto   a
rivalutazione monetaria (ai sensi del secondo  comma  dell'art.  1224
cod. civ.), a  differenza  del  risarcimento  da  espropriazione  e/o
occupazione illegittime, costituente  credito  di  valore,  che  deve
essere liquidato alla stregua dei valori monetari  corrispondenti  al
momento della relativa pronuncia,  sicche'  il  giudice  deve  tenere
conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla  decisione,
anche di ufficio, a prescindere dalla prova della sussistenza di  uno
specifico  pregiudizio  dell'interessato   dipendente   dal   mancato
tempestivo conseguimento dell'indennizzo medesimo. 
    Tale natura risarcitoria parrebbe  invece  mantenuta,  dal  terzo
comma dell'art. 42-bis, al (solo) corrispettivo  per  il  periodo  di
occupazione illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione,
che tuttavia verrebbe anch'esso determinato in base ad  un  parametro
riduttivo rispetto a quelli cui e' commisurato  l'analogo  indennizzo
per l'occupazione temporanea dell'immobile, in quanto: 
    a) il parametro base e' costituito dall'interesse del 5 per cento
annuo   sul   valore   venale   dell'immobile   stimato    ai    fini
dell'indennizzo, percio' corrispondente a circa 1/20 del  suo  valore
annuo, laddove l'art. 50 del  T.U.  sulle  espropriazioni,  recependo
analoga disposizione in precedenza contenuta nell'art. 20 della legge
22 ottobre 1971, n.  865  (Programmi  e  coordinamento  dell'edilizia
residenziale  pubblica;  norme  sulla  espropriazione  per   pubblica
utilita'; modifiche ed integrazioni alle leggi  17  agosto  1942,  n.
1150; 18  aprile  1962,  n.  167;  29  settembre  1964,  n.  847;  ed
autorizzazione di  spesa  per  interventi  straordinari  nel  settore
dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), stabilisce in
tutti i casi di occupazione legittima di un immobile che  «e'  dovuta
al proprietario una indennita' per ogni anno pari ad un dodicesimo di
quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio  dell'area  e,  per  ogni
mese o frazione di mese, una indennita'  pari  ad  un  dodicesimo  di
quella   annua»,   percio'   corrispondente   ad   una   redditivita'
predeterminata nella piu' elevata misura  percentuale  dell'8,33  per
cento all'anno sul valore venale dell'immobile; 
    b)  il  criterio  rigido   introdotto   dalla   norma   censurata
impedirebbe   l'applicazione   del   principio,   consolidato   nella
giurisprudenza  di  legittimita',  secondo   cui,   nell'ipotesi   di
espropriazione  parziale,  la  percentuale  suddetta   va   calcolata
sull'indennita' di espropriazione computata tenendo conto  anche  del
decremento di valore  subito  dalla  parte  di  immobile  rimasta  in
proprieta' dell'espropriato. 
    2.2.2.-   Il   giudice   rimettente   dubita,   inoltre,    della
compatibilita' dell'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni con gli
artt. 42, 97 e 113 Cost. 
    Ricorda che il primo e fondamentale presupposto per procedere  al
trasferimento coattivo di un  immobile  mediante  espropriazione,  ai
sensi dell'art. 42 Cost., e' costituito dalla  necessaria  ricorrenza
di «motivi d'interesse generale», con puntuale riscontro in quello di
eguale tenore dell'art.  1  del  Primo  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n.  848  (d'ora  in  avanti
«CEDU»), per cui l'ingerenza nella  proprieta'  privata  puo'  essere
attuata soltanto «per causa di pubblica utilita'». 
    Cio' comporta (come statuito  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 90 del 1966) «la  necessita'  che  la  legge  indichi  le
ragioni per le quali si puo' far luogo all'espropriazione; e  inoltre
che quest'ultima non possa essere autorizzata se non nella  effettiva
presenza delle ragioni indicate dalla legge»; ed ancora che «fin  dal
primo atto della procedura espropriativa debbono  risultare  definiti
non soltanto l'oggetto, ma anche le finalita', i mezzi e i  tempi  di
essa [...]». 
    Ne consegue, ad avviso del rimettente, che  la  dichiarazione  di
pubblica utilita'  dell'opera  si  porrebbe  come  garanzia  prima  e
fondamentale   del   cittadino   e   nel   contempo   come    ragione
giustificatrice del suo sacrificio, nel bilanciamento degli interessi
- quello del proprietario alla restituzione  dell'immobile  e  quello
dell'amministrazione al mantenimento dell'opera pubblica - in  virtu'
della funzione sociale della proprieta'. 
    La suddetta garanzia costituzionale sarebbe,  dunque,  rispettata
soltanto se la causa del trasferimento sia predeterminata nell'ambito
di un apposito procedimento amministrativo, sicche' la mancanza della
preventiva dichiarazione di pubblica utilita' implicherebbe (come  da
costante  giurisprudenza  di  legittimita')  il  difetto  di   potere
dell'amministrazione  nel  procedere  all'espropriazione  (sia   essa
rituale   o   attuata   in   forma   anomala,    come    nell'ipotesi
dell'occupazione appropriativa). 
    La norma  costituzionale  richiederebbe,  quindi,  che  i  motivi
d'interesse  generale  per  giustificare   l'esercizio   del   potere
espropriativo,  nei  (soli)  casi  stabiliti   dalla   legge,   siano
predeterminati  dall'amministrazione  ed  emergano  da  un   apposito
procedimento -  individuato,  appunto,  in  quello  dichiarativo  del
pubblico interesse culminante nell'adozione  della  dichiarazione  di
pubblica utilita' - preliminare, autonomo e strumentale  rispetto  al
successivo procedimento espropriativo in  senso  stretto,  nel  quale
l'amministrazione programma  un  nuovo  bene  giuridico  destinato  a
soddisfare uno specifico interesse pubblico, attuale e concreto. 
    Richiederebbe,  altresi',  che   tali   motivi   siano   palesati
gradualmente e anteriormente al sacrificio del diritto di proprieta',
in un momento in cui  la  comparazione  tra  l'interesse  pubblico  e
l'interesse  privato  possa  effettivamente  evidenziare  la   scelta
migliore,   nel   rispetto    dei    principi    d'imparzialita'    e
proporzionalita' (ai  sensi  dell'art.  97  Cost.).  In  un  momento,
quindi, in cui la lesione del diritto di proprieta'  non  sia  ancora
attuale ed eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non siano
ostacolate  da  una  situazione  fattuale   ormai   irreversibilmente
compromessa. Da qui la formula dell'art. 42, terzo comma, Cost.,  per
cui l'espropriazione in  tanto  e'  costituzionalmente  legittima  in
quanto  e'  originata  da  «motivi  d'interesse   generale»,   ovvero
collegata ad un procedimento amministrativo che evidenzi i motivi che
giustificano  un'incisione  nella  sfera  del  privato  proprietario,
valorizzando il  ruolo  partecipativo  di  quest'ultimo.  E  da  qui,
ancora, la conseguenza  che  tale  risultato  non  sarebbe  garantito
dall'esercizio di un potere amministrativo che,  sebbene  presupponga
astrattamente  una  valutazione  degli  interessi  in  conflitto,  e'
destinato  in  concreto  a  giustificare  ex   post   il   sacrificio
espropriativo,  unicamente  in  base   alla   situazione   di   fatto
illegittimamente determinatasi. 
    Ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale per  contrasto
con l'art. 42 Cost. e' individuato nell'omessa fissazione di  termini
certi. 
    Il  giudice  rimettente  ricorda  che  l'art.  13   della   legge
fondamentale sulle espropriazioni n.  2359  del  1865,  onde  evitare
l'indefinito  protrarsi  dell'incertezza   sulla   sorte   dei   beni
espropriandi, e, nel  contempo,  per  assicurare  l'attualita'  della
rispondenza  dell'opera  all'interesse  generale,  ha  attribuito  ai
proprietari un'ulteriore garanzia fondamentale, oggi  rispondente  al
principio di legalita' e tipicita'  del  procedimento  espropriativo,
disponendo che nel provvedimento dichiarativo della pubblica utilita'
dell'opera devono essere fissati quattro termini (e cioe'  quelli  di
inizio  e  di  compimento  della  espropriazione  e  dei  lavori),  e
stabilendo che «[t]rascorsi i termini, la dichiarazione  di  pubblica
utilita' diventa inefficace». 
    Sopravvenuta la Costituzione, questa disposizione avrebbe assunto
rilevanza costituzionale, avendo la Corte costituzionale statuito che
«la fissazione di tali termini costituisce regola  indefettibile  per
ogni e qualsiasi procedimento espropriativo»  (sentenza  n.  355  del
1985; in tal senso anche sentenze n. 141 del 1992 e n. 257 del 1988).
La loro omessa  fissazione  comporterebbe  la  giuridica  inesistenza
della dichiarazione di pubblica utilita', con  tutte  le  conseguenze
del caso, prima fra tutte che tale situazione non  e'  idonea  a  far
sorgere il potere espropriativo e, dunque, ad affievolire il  diritto
soggettivo di proprieta' sui beni espropriandi. 
    Nella   diversa   prospettiva   della   cosiddetta   acquisizione
"sanante",  invece,   anche   la   garanzia   offerta   dai   termini
espropriativi sarebbe destinata a non trovare spazio.  La  norma  non
indicherebbe,  infatti,  alcun  limite  temporale  entro   il   quale
l'amministrazione debba esercitare il relativo potere,  esponendo  il
diritto di proprieta' al pericolo dell'emanazione  del  provvedimento
acquisitivo senza limiti di tempo ed accentuando, cosi', i  dubbi  di
contrasto con l'art. 3 Cost., per il regime discriminatorio provocato
tra il procedimento ordinario - in cui l'esposizione e' temporalmente
limitata  all'efficacia  della  dichiarazione  di  pubblica  utilita'
(nella disciplina del T.U. sulle espropriazioni, anche a  quella  del
vincolo preordinato all'esproprio) - e quello "sanante",  in  cui  il
bene privato detenuto sine titulo e', invece, sottoposto in  perpetuo
al sacrificio dell'espropriazione. 
    2.2.3.- Il giudice  rimettente  ritiene,  ancora,  che  la  norma
censurata sia in contrasto con l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  in
quanto  non  sarebbe  conforme  ai  principi  della   CEDU,   secondo
l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo dell'art.  1  del
Primo Protocollo addizionale alla CEDU. 
    La  nuova  operazione  "sanante"  -  in  tutte   le   fattispecie
individuate dall'art. 42-bis, compresa quella  di  utilizzazione  del
bene senza titolo «in assenza di un valido ed efficace  provvedimento
di esproprio» - presenterebbe numerosi  ed  insuperabili  profili  di
contrasto  con  le  norme  convenzionali,  non  risolvibili  in   via
ermeneutica, sulla base dell'interpretazione offerta dalla  Corte  di
Strasburgo  delle  tre  norme  dell'art.  1  del   Primo   Protocollo
addizionale  alla  CEDU  (principio  generale   di   rispetto   della
proprieta';  privazione  della  proprieta'   solo   alle   condizioni
indicate; riconoscimento agli Stati del potere di disciplinare  l'uso
dei beni in conformita' all'interesse generale). 
    Ricorda il rimettente che la Corte EDU avrebbe in piu'  occasioni
considerato  «in  radicale  contrasto»  con  la  CEDU  il   principio
dell'"espropriazione indiretta", con la quale il trasferimento  della
proprieta' del bene dal privato alla pubblica amministrazione avviene
in virtu' della  constatazione  della  situazione  di  illegalita'  o
illiceita' commessa dalla stessa amministrazione,  con  l'effetto  di
convalidarla, consentendo a quest'ultima di  trarne  vantaggio  e  di
passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, con  il
rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o   arbitrario   per   gli
interessati. 
    Nella categoria dell'"espropriazione  indiretta",  la  Corte  EDU
avrebbe   sistematicamente   inserito    non    soltanto    l'ipotesi
corrispondente alla cosiddetta occupazione  espropriativa,  ma  tutte
indistintamente le fattispecie  di  perdita  di  ogni  disponibilita'
dell'immobile combinata con l'impossibilita' di porvi rimedio, e  con
conseguenze  assai  gravi  per  il  proprietario  che   subisce   una
espropriazione di fatto incompatibile con il suo diritto al  rispetto
dei propri beni, ritenendo  ininfluente  che  una  tale  vicenda  sia
giustificata soltanto dalla  giurisprudenza,  ovvero  sia  consentita
mediante disposizioni legislative, come  e'  avvenuto  con  l'art.  3
della legge 27 ottobre 1988, n. 458 (Concorso dello Stato nella spesa
degli enti locali in relazione  ai  pregressi  maggiori  oneri  delle
indennita' di esproprio), ovvero da ultimo con  l'art.  43  del  T.U.
sulle  espropriazioni,  in  quanto  il  principio  di  legalita'  non
significa affatto esistenza  di  una  norma  di  legge  che  consenta
l'espropriazione indiretta,  bensi'  esistenza  di  norme  giuridiche
interne sufficientemente accessibili, precise e prevedibili.  Con  la
conseguenza che il supporto di «una base legale non e' sufficiente  a
soddisfare  il  principio  di  legalita'»  e  che  «e'  utile   porre
particolare attenzione sulla questione della  qualita'  della  legge»
(sono citate le sentenze 19 maggio  2005,  Acciardi  e  altra  contro
Italia e 17 maggio 2005, Scordino contro Italia). 
    Secondo  il  rimettente,  conclusivamente,   la   "legalizzazione
dell'illegale"  non  sarebbe  consentita  dalla   giurisprudenza   di
Strasburgo neppure ad una norma  di  legge,  ne'  tanto  meno  ad  un
provvedimento amministrativo di essa attuativo, quale e'  quello  che
disponga la cosiddetta acquisizione "sanante". 
    Infine, il principio di legalita'  non  sarebbe  recuperabile  in
forza dei bilanciamenti e delle comparazioni tra interessi pubblici e
privati devoluti, dalla norma censurata, all'autorita' amministrativa
che dispone l'acquisizione. 
    La disposizione impugnata, infatti, attribuirebbe ad uno dei  due
portatori dell'interesse in conflitto - la  pubblica  amministrazione
responsabile   dell'illecito   ed   interessata   alla   acquisizione
dell'immobile - il potere di comparare  gli  interessi  suddetti,  e,
quindi la scelta di  restituirlo  ovvero  di  acquisirlo  al  proprio
patrimonio  indisponibile.   L'assetto   del   bene,   percio',   non
dipenderebbe piu' (neppure) dalla sua (oggettiva)  trasformazione  in
un bene demaniale o patrimoniale indisponibile, ma verrebbe  affidato
- senza neppure limiti temporali - esclusivamente alla  imprevedibile
volonta' dell'amministrazione di ricorrere o meno al nuovo  istituto.
In caso, poi, di  impugnazione  del  provvedimento  di  acquisizione,
l'assetto del  bene  sarebbe  affidato  alla  pronuncia  del  giudice
amministrativo,   che   potrebbe   consentirne   o   escluderne    la
restituzione,    con    conseguente    ulteriore    incertezza     ed
imprevedibilita' della sua  situazione  giuridica,  fino  al  momento
della sentenza definitiva. 
    Cio'  renderebbe  l'istituto  nuovamente  incompatibile  con   la
Convenzione «non potendosi  escludere  il  rischio  di  un  risultato
imprevedibile o arbitrario», come affermato dalla Corte EDU (sentenza
28 giugno 2011, De Caterina e altri contro Italia). 
    2.2.4.- Il giudice rimettente dubita, infine,  della  conformita'
della norma censurata agli artt. 111, primo e secondo comma,  e  117,
primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  6  della  CEDU,  secondo
l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo. 
    Il  giudice  rimettente  ricorda  che  la  Corte  EDU,  pur   non
escludendo che, in materia civile, una nuova  normativa  possa  avere
efficacia   retroattiva,   ha   ripetutamente   considerato    lecita
l'applicazione dello ius superveniens in cause gia' pendenti soltanto
in presenza di «ragioni imperative  d'interesse  generale»,  pena  la
violazione del principio di  legalita'  nonche'  del  diritto  ad  un
processo equo.  Cio'  perche',  in  ipotesi  del  genere,  il  potere
legislativo introduce nuove disposizioni  specificamente  dirette  ad
influire sull'esito di un giudizio gia' in corso (specie considerando
quelli ove  sia  parte  un'amministrazione  pubblica),  inducendo  il
giudice  a  decisioni  su  base  diversa  da  quella  alla  quale  la
controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione
della lite (Grande Camera, sentenza  28  ottobre  1999,  Zielinski  e
altri contro Francia; sentenze, 20 febbraio  2003,  Forrer-Niedenthal
contro Germania, proprio in materia di  espropriazione  per  pubblica
utilita'; 27 maggio 2004,  OGIS-Institut  Stanislas  e  altri  contro
Francia; 29 luglio 2004, Scordino contro Italia). 
    La  norma  censurata  violerebbe  questi  principi,  in   quanto,
malgrado la precisazione del  primo  comma,  secondo  cui  l'atto  di
acquisizione e' destinato a non operare retroattivamente  (rivolta  a
rispondere ad uno dei rilievi espressi dalla sentenza n. 293 del 2010
di questa Corte),  con  la  disposizione  dell'ottavo  comma  avrebbe
confermato la  possibilita'  dell'amministrazione  di  utilizzare  il
provvedimento "sanante" ex tunc, per fatti anteriori alla sua entrata
in vigore  ed  anche  se  vi  sia  gia'  stato  un  provvedimento  di
acquisizione successivamente ritirato  o  annullato,  in  conformita'
alla finalita'  di  attribuire  alle  amministrazioni  occupanti  una
legale via di uscita  dalle  situazioni  di  illegalita'  venutesi  a
verificare nel corso degli anni. 
    Pertanto, i privati proprietari -  i  quali,  per  effetto  della
sentenza n. 293 del 2010 di questa  Corte,  avrebbero  avuto  diritto
alla restituzione dei loro  immobili,  nonche'  al  risarcimento  del
danno alla stregua dei parametri contenuti nell'art. 2043 cod. civ. -
in  conseguenza   del   sopravvenuto   art.   42-bis,   nonche'   del
provvedimento acquisitivo adottato nel corso del giudizio,  avrebbero
perduto in radice la tutela reale, e potrebbero avvalersi soltanto di
quella «indennitaria/risarcitoria» introdotta dalla norma  censurata.
Quest'ultima, percio', non si sottrarrebbe neppure  all'addebito,  in
casi analoghi mosso dalla Corte europea al legislatore nazionale, «di
averla slealmente introdotta in giudizi iniziati ed impostati secondo
diversi  presupposti  normativi,  si'  da   incorrere   anche   nella
violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione» per  il  mutamento
«delle regole in corsa». 
    Sotto tale profilo, la norma risulterebbe anche in contrasto  con
l'art. 111, primo  e  secondo  comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso   delle   regole
sull'acquisizione "sanante" in seguito  ad  occupazione  illegittima,
violerebbe  i  principi  del  giusto  processo,  in  particolare   la
condizione  di  parita'  delle  parti   davanti   al   giudice,   che
risulterebbe   lesa   dall'intromissione   del   potere   legislativo
nell'amministrazione della giustizia, allo scopo  di  influire  sulla
risoluzione  di  una  circoscritta   e   determinata   categoria   di
controversie. 
    2.3.- Nel giudizio si e' costituito, con atto  depositato  il  24
giugno 2014, il Comune di Porto Cesareo. 
    Afferma l'ente comunale che, con sentenza del 25 giugno 2010,  n.
1614, il TAR Puglia,  sezione  staccata  di  Lecce,  ha  definito  un
ricorso  proposto  dal  medesimo  ricorrente  nel  giudizio  a   quo,
qualificando la domanda dallo stesso proposta - in conseguenza  della
scadenza del termine quinquennale di validita' della dichiarazione di
pubblica utilita' dell'opera pubblica programmata  (realizzazione  di
area a verde pubblico, di  parcheggi  e  strade  di  raccordo)  senza
l'emanazione del decreto definitivo di esproprio  del  fondo  privato
occupato a tale fine -  come  intesa  ad  ottenere  il  solo  ristoro
economico,   ordinando   al   Comune   convenuto   l'emissione    del
provvedimento  ex  art.  43  del  T.U.  sulle  espropriazioni  allora
vigente. 
    Dichiarata  incostituzionale  la  norma  da  ultimo  citata,   il
ricorrente ha adito nuovamente il giudice amministrativo per chiedere
la restituzione dei fondi, in palese contrasto con il giudicato ormai
formatosi sulle statuizioni della precedente  sentenza  n.  1614  del
2010, che aveva escluso il diritto a tale restituzione. 
    Nelle more del giudizio e' stato  introdotto  l'art.  42-bis  nel
T.U. sulle espropriazioni, sicche' il Comune  di  Porto  Cesareo,  in
applicazione espressa di tale norma, ha disposto  l'acquisizione  del
fondo   al   proprio   patrimonio   indisponibile,   determinando   e
quantificando l'indennizzo dovuto. 
    Tale provvedimento e' stato impugnato  con  motivi  aggiunti  dal
ricorrente, il quale ha chiesto la rideterminazione  dell'indennizzo,
in considerazione dell'effettivo valore venale del bene. 
    Il Comune di Porto Cesareo ha proposto,  dunque,  regolamento  di
giurisdizione, sul rilievo che la domanda giudiziale, avuto  riguardo
al petitum sostanziale ed alla causa petendi, atteneva esclusivamente
alla contestazione del quantum spettante a titolo di indennizzo,  con
conseguente  configurabilita'   della   giurisdizione   del   giudice
ordinario, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lettera  f),  del  codice
del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010). 
    Il  TAR  ha  dichiarato   la   manifesta   inammissibilita'   del
regolamento   preventivo   di   giurisdizione,   stante    l'asserita
intervenuta formazione di un giudicato (originato dalla  sentenza  n.
1614 del 2010) sulla domanda (esclusivamente)  risarcitoria  proposta
dal   ricorrente,   quantificando   in   sentenza   l'ammontare   del
risarcimento dovuto. 
    La pronuncia e' stata impugnata dal Comune di Porto  Cesareo  con
appello  al  Consiglio  di  Stato,  sia  in  punto  di  giurisdizione
(prospettata come spettante al giudice ordinario), sia nel merito. 
    Il giudizio  risulta  ancora  pendente  e  nelle  more  e'  stata
sollevata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
42-bis,   proprio   nell'ambito   dell'instaurato   regolamento    di
giurisdizione innanzi alla Corte di cassazione, sezioni unite civili. 
    2.3.1.- Il Comune di Porto Cesareo  eccepisce,  in  primo  luogo,
l'inammissibilita' della questione  di  legittimita'  costituzionale,
per carenza di motivazione in ordine ai requisiti della  rilevanza  e
della non manifesta infondatezza. 
    Il giudice rimettente, infatti, ha sostenuto che, qualora  l'art.
42-bis venisse espunto dall'ordinamento, il privato potrebbe aspirare
ad ottenere la restituzione del bene illegittimamente occupato. 
    Secondo l'ente comunale, invece, la restituzione non sarebbe piu'
ipotizzabile, in virtu',  in  particolare,  del  giudicato  formatosi
sulla precedente sentenza (n. 1614 del 2010) del medesimo TAR  adito,
che ne aveva  espressamente  escluso  la  possibilita',  peraltro  in
presenza di  una  sostanziale  rinuncia  dello  stesso  ricorrente  a
conseguire tale restituzione. Cio' sarebbe dimostrato  dal  contenuto
dei motivi  aggiunti  proposti  nel  giudizio  amministrativo  ancora
pendente,   tendenti   solo    ad    ottenere    la    determinazione
dell'indennizzo, in seguito al provvedimento di acquisizione ex  art.
42-bis nelle more adottato dal Comune di Porto Cesareo. 
    A fronte del giudicato formatosi sull'esclusione del diritto alla
restituzione del bene, nessuna utilita' potrebbe dunque  ricavare  il
privato dall'eventuale caducazione della norma censurata. 
    Quanto alla questione sollevata  in  riferimento  al  diritto  al
risarcimento integrale del danno (informato ai principi di  cui  agli
artt. 2043 e 2059 cod. civ.), in luogo del mero indennizzo, il Comune
di Porto  Cesareo  ne  sostiene  l'inammissibilita'  per  difetto  di
rilevanza. Infatti, il danno sarebbe gia' stato determinato in  forma
integrale,  sempre  in  esecuzione  del  giudicato  formatosi   sulla
precedente  sentenza  n.  1614  del  2010,  adempiendo  al  quale  la
determinazione  dell'indennizzo  sarebbe  stata  superiore  a  quanto
spettante in applicazione della norma censurata. 
    2.3.2.- Nel merito, il  Comune  di  Porto  Cesareo  ha  sostenuto
l'infondatezza della questione prospettata, per i seguenti motivi: 
    - quanto all'asserita violazione dell'art.  3  Cost.  (unitamente
all'art. 24  Cost.),  occorrerebbe  tenere  conto  della  particolare
natura della pubblica amministrazione e degli  interessi  di  cui  e'
portatrice, nonche' delle garanzie di cui la legge avrebbe circondato
l'esercizio del  potere  ablatorio  ex  post  conferito  dalla  norma
censurata, quali la necessita'  di  un  formale  atto  amministrativo
fondato sulla valutazione degli «interessi in conflitto», da compiere
con particolare rigore e da esibire nella motivazione  dell'atto;  il
carattere non retroattivo dell'acquisizione;  il  riconoscimento  del
ristoro dei danni; l'eccezionalita' della procedura, esperibile  solo
nell'impossibilita'  di  ricorrere  ad  una  procedura  espropriativa
ordinaria; 
    -   quanto   all'asserita   violazione   dell'art.   42    Cost.,
l'acquisizione avverrebbe in forza di  un  provvedimento  previsto  e
disciplinato (anche nel contenuto) direttamente dalla legge  e  privo
di efficacia retroattiva, previa rigorosa valutazione degli interessi
in conflitto manifestata nella  motivazione  dell'atto,  in  caso  di
preminenza delle ragioni di interesse pubblico  che  la  legge  vuole
espressamente rivestite del  carattere  dell'"eccezionalita'"  ed  in
mancanza di ragionevoli alternative; 
    - in relazione alla censura per violazione dell'art.  117,  primo
comma, Cost. - per  contrasto  con  le  norme  interposte  costituite
dall'art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU e dall'art.  6
della CEDU - il Comune di Porto  Cesareo  sostiene  il  rispetto  dei
«principi rivenienti dalla giurisprudenza  di  Strasburgo  richiamata
nell'ordinanza» di rimessione; 
    - in riferimento alla violazione  dell'art.  3  Cost.,  sotto  il
profilo   dell'intrinseca   irrazionalita'    della    determinazione
dell'indennizzo,  si  sostiene  che  la  determinazione  del  quantum
operata dal legislatore andrebbe letta in stretta connessione con gli
interessi pubblici di cui e' portatrice la pubblica  amministrazione,
fermo  restando  che  la  misura  prevista  dalla  legge  sarebbe  da
considerare come indubbiamente caratterizzata da serieta'. 
    2.4.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  sostenendo  l'infondatezza  della  sollevata   questione   di
legittimita' costituzionale,  e  prospettando,  in  via  preliminare,
l'inammissibilita' della stessa. 
    2.4.1.-   Secondo   l'Avvocatura   generale,    in    punto    di
ammissibilita',  il  riparto   di   giurisdizione   in   materia   e'
disciplinato dall'art. 133 del  codice  del  processo  amministrativo
(d.lgs. n.  104  del  2010),  la  cui  lettera  f)  attribuisce  alla
giurisdizione  esclusiva  del   giudice   amministrativo   tutte   le
controversie aventi ad oggetto  gli  atti  e  i  provvedimenti  delle
pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e  edilizia,  tranne
quelle  riguardanti  la  determinazione  e  la  corresponsione  delle
indennita'  in  conseguenza   dell'adozione   di   atti   di   natura
espropriativa. 
    Ne consegue che solo ove l'indennizzo previsto  dall'art.  42-bis
fosse  qualificabile  come  "indennita'"  potrebbe   ipotizzarsi   la
traslatio iudicii prospettata dal  giudice  rimettente,  in  caso  di
superamento dei dubbi di legittimita' costituzionale sollevati. 
    Secondo la  difesa  erariale,  invece,  al  di  la'  del  termine
utilizzato dalla norma (in  stretta  connessione  con  il  sostantivo
utilizzato dal terzo comma  dell'art.  42  Cost.),  la  ricostruzione
sistematica   dell'istituto   porterebbe   a   concludere   per    la
configurabilita'  di  una  obbligazione  di   matrice   risarcitoria.
Infatti, il presupposto dell'emanazione dell'atto ablatorio da  parte
della  pubblica  amministrazione  sarebbe  costituito  dal  pregresso
cattivo uso  dell'ordinario  potere  espropriativo,  con  conseguente
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, indipendentemente
dalla fondatezza o meno della  sollevata  questione  di  legittimita'
costituzionale della norma, che difetterebbe,  dunque,  di  rilevanza
nell'ambito del regolamento di giurisdizione azionato nel giudizio  a
quo. 
    2.4.1.2.-   Ulteriore   profilo   di   inammissibilita'   sarebbe
rinvenibile nella scarna descrizione della  fattispecie  concreta  da
cui  ha  avuto   origine   la   proposizione   del   regolamento   di
giurisdizione, non avendo specificato il giudice a quo se la  vicenda
abbia avuto origine da una ipotesi di occupazione "usurpativa"  o  di
occupazione "acquisitiva", in  dipendenza  della  mancanza,  o  meno,
della dichiarazione  di  pubblica  utilita'.  Solo  nel  primo  caso,
secondo la costante giurisprudenza di legittimita' (richiamata  nella
stessa ordinanza di rimessione),  il  privato  avrebbe  diritto  alla
restituzione del bene. 
    2.4.2.-  Quanto  al  merito,  secondo  la  difesa  erariale,   il
legislatore del 2011, con l'introduzione dell'art. 42-bis (e  non  di
un nuovo art. 43) nell'ambito del T.U. sulle espropriazioni,  avrebbe
inteso assicurare un diverso bilanciamento  degli  interessi  che  si
contrappongono in caso di occupazione senza  titolo  -  quello  della
pubblica amministrazione a conservare l'opera pubblica e  quello  del
privato  ad  un  ristoro  per  l'illegittimita'  subita  -  inserendo
nell'ordinamento un  istituto  affine,  ma  non  identico,  a  quello
disciplinato dall'art. 43, dichiarato incostituzionale. 
    Gli elementi di discontinuita', che consentirebbero  di  ritenere
superati i profili di contrasto con i principi enunciati dalla  Corte
di Strasburgo (mai pronunciatasi espressamente  sulla  compatibilita'
dell'art. 43 con le previsioni  della  CEDU),  si  coglierebbero  nei
seguenti aspetti: 
    - quanto agli effetti dell'acquisto della proprieta' del bene  da
parte della pubblica amministrazione, esso avviene ex nunc,  solo  al
momento dell'emanazione dell'atto di esproprio, sicche'  risulterebbe
sconfessata dal legislatore l'interpretazione  giurisprudenziale  del
precedente art. 43, che estendeva in via retroattiva l'acquisto della
proprieta' del bene, anche in presenza di  un  giudicato  che  avesse
gia' disposto la restituzione del bene al privato; 
    -  il  legislatore  avrebbe  previsto   uno   specifico   obbligo
motivazionale in capo alla pubblica amministrazione  procedente,  che
dovrebbe rendere note le ragioni di  eccezionale  interesse  pubblico
che la spingono ad adottare una procedura che si  presenterebbe  come
extrema ratio dell'agire amministrativo. Cio' sarebbe dimostrato  dal
fatto che nella motivazione dell'atto non risulterebbe sufficiente la
mera  indicazione  della  corrispondenza   dell'opera   all'interesse
pubblico, ma si dovrebbe  dare  conto  della  mancanza  di  possibili
alternative  all'ablazione  del   bene   e   dell'impossibilita'   di
restituirlo; 
    - nel computo dell'indennizzo viene fatto rientrare non  solo  il
danno patrimoniale, ma anche quello non patrimoniale, forfetariamente
liquidato nella misura del 10 per cento del valore  venale  del  bene
(che costituisce un surplus rispetto alla somma che sarebbe  spettata
nella vigenza della precedente disciplina), sottoponendo il passaggio
del diritto di proprieta' alla condizione  sospensiva  del  pagamento
delle somme dovute, da effettuare entro 30 giorni  dal  provvedimento
di acquisizione; 
    - la nuova disciplina si applica non solo quando manchi del tutto
l'atto espropriativo, ma  anche  laddove  sia  stato  annullato  -  o
impugnato a tal fine, nel qual  caso  occorre  il  previo  ritiro  in
autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione -  l'atto
da cui sia sorto il  vincolo  preordinato  all'esproprio,  oppure  la
dichiarazione di pubblica  utilita'  dell'opera  oppure,  ancora,  il
decreto di esproprio; 
    -  non  si  prevede  piu'  la  cosiddetta  "acquisizione  in  via
giudiziaria", precedentemente disposta dal comma 3 dell'art.  43,  in
virtu' della quale l'acquisizione del bene in favore  della  pubblica
amministrazione    poteva    realizzarsi    anche     per     effetto
dell'intermediazione di una  pronuncia  del  giudice  amministrativo,
volta a paralizzare l'azione restitutoria proposta dal privato. 
    Tali elementi di novita' sarebbero stati valorizzati  -  sostiene
l'Avvocatura   generale   -   dalla   giurisprudenza   amministrativa
(Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 marzo 2012, n.  1438)
nel vagliare la tenuta costituzionale della nuova disciplina e la sua
compatibilita'  con  i  principi  sanciti  dalla  Corte  EDU.  Questa
giurisprudenza   considera   il   nuovo   assetto    della    materia
sufficientemente chiaro, preciso e prevedibile, come tale compatibile
con il principio di legalita' di cui all'art. 1 del Primo  Protocollo
addizionale alla CEDU e con l'alto livello di protezione accordato al
diritto di proprieta' dalla Corte di Strasburgo. 
    Quanto al contrasto -  sottolineato  dalla  giurisprudenza  della
Corte EDU richiamata nell'ordinanza di rimessione  -  degli  istituti
dell'"espropriazione  indiretta"  con  il  principio   di   legalita'
sostanziale, che impedisce alla pubblica  amministrazione  di  trarre
vantaggio (anche indirettamente) da propri comportamenti illeciti, la
difesa erariale sottolinea che i richiamati precedenti della Corte di
Strasburgo    non    avrebbero    affatto    riguardato    l'istituto
dell'occupazione "sanante", quanto piuttosto il potere  conferito  al
giudice (amministrativo) di impedire  la  restituzione  del  bene  ai
sensi del terzo comma dell'art. 43, dichiarato incostituzionale e non
riproposto nella nuova disciplina. 
    2.5.- Con atto depositato in data 19 giugno 2014, e'  intervenuto
nel presente giudizio D.G.G., nella qualita' di erede  universale  di
C.R. 
    Questi specifica di non essere parte del giudizio a  quo,  ma  di
altro giudizio avente ad oggetto l'occupazione di urgenza di un fondo
- nel territorio del Comune di  Ragusa,  di  proprieta'  di  uno  dei
genitori, nel frattempo deceduto - finalizzata all'espropriazione per
la costituzione di una servitu' coattiva di acquedotto, procedura non
completatasi  nei   termini   assegnati,   nonostante   la   parziale
costruzione dell'opera, con conseguente richiesta di restituzione del
fondo, previo ripristino dello stato originario, e, in subordine,  di
risarcimento del danno. Aggiunge che  l'azione  cosi'  intrapresa  e'
stata  rigettata  dall'autorita'   giudiziaria,   per   effetto   del
provvedimento di acquisizione emanato ai sensi dell'art.  42-bis  del
T.U. sulle espropriazioni - nelle more introdotto nell'ordinamento  -
con sentenza avverso la quale e' stato proposto ricorso alla Corte di
cassazione, sezioni unite civili, ancora pendente, al pari  di  altri
tre giudizi innanzi al Tribunale  superiore  delle  acque  pubbliche,
instaurati per impugnare altrettanti  provvedimenti  di  acquisizione
emessi sempre ai sensi dell'art. 42-bis oggetto del presente giudizio
di costituzionalita'. 
    L'interveniente aderisce  a  tutte  le  argomentazioni  contenute
nell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili (ritenute  rilevanti  anche  per  la  fattispecie  concreta  -
dettagliatamente descritta ed illustrata con il deposito  di  copiosa
documentazione - affrontata nei giudizi in cui e' parte). 
    Con memoria depositata in data 26 gennaio  2015,  l'interveniente
ha,  in  particolare,  argomentato  «sull'attualita'   dell'interesse
all'intervento». 
    2.6.- Con atto depositato in data 23 giugno 2014, e'  intervenuta
nel presente giudizio la SEP  -  Societa'  Edilizia  Pineto  spa.  La
difesa della SEP spa specifica, a sua volta, di non essere parte  del
giudizio a quo, ma di altro giudizio avente ad oggetto il progetto di
lavori di sistemazione a parco pubblico di aree nel Comune  di  Roma,
opera dichiarata di pubblica  utilita'  con  conseguente  occupazione
dell'area interessata, di sua proprieta'. 
    Aggiunge che l'intera procedura espropriativa e' stata  annullata
dal giudice amministrativo, sebbene  in  un  giudizio  intrapreso  da
altri proprietari di fondi  oggetto  della  medesima  occupazione  di
urgenza, ma con efficacia erga omnes. 
    Espone di avere, quindi, adito  il  TAR  Lazio  per  ottenere  il
ristoro dei danni subiti, vedendosi tuttavia  rigettata  la  domanda,
con pronuncia impugnata in appello, in un giudizio  ancora  pendente.
Cio'  perche',  per  effetto  dell'annullamento  degli   atti   della
procedura  espropriativa,  il  privato   deve   considerarsi   ancora
proprietario del bene, onde non  puo'  chiedere  il  controvalore  di
esso, previa  rinuncia  abdicativa  alla  proprieta',  non  potendosi
imporre alla pubblica amministrazione l'acquisto del  fondo,  rimesso
piuttosto ad una scelta discrezionale da esercitare con  l'emanazione
del  provvedimento  previsto  dall'art.   42-bis   del   T.U.   sulle
espropriazioni, nelle more introdotto  dall'ordinamento  (oppure  con
l'avvio di altra legittima procedura espropriativa o con gli ordinari
strumenti contrattuali). 
    Di qui, il prospettato interesse della SEP spa ad intervenire nel
presente  giudizio,  a  sostegno   della   sollevata   questione   di
legittimita'   costituzionale   della   norma   impugnata,   il   cui
accoglimento impedirebbe la rinuncia abdicativa del fondo  in  favore
della  pubblica  amministrazione,   che   lo   ha   irreversibilmente
trasformato, previo integrale risarcimento del danno subito. 
    L'interveniente ha aderito a tutte  le  argomentazioni  contenute
nell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili  (ritenute  rilevanti  anche  per  la   fattispecie   concreta
affrontata nei giudizi di cui e' parte, dettagliatamente descritta ed
illustrata con il deposito di copiosa documentazione). 
    3.- La seconda ordinanza della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, (r.o. n. 90 del 2014) espone che il giudizio a quo  e'  stato
instaurato da alcuni  privati  proprietari  di  fondi,  dopo  che  il
Tribunale superiore  delle  acque  pubbliche,  con  sentenza  del  24
febbraio 2006 (confermata dalla Corte di  cassazione,  sezioni  unite
civili, con sentenza del 3 dicembre 2008, n. 28652), ha annullato gli
atti della procedura ablativa  condotta  dall'Agenzia  interregionale
del fiume Po (AIPO) nei confronti  di  tali  terreni,  preordinata  a
realizzare un argine lungo un torrente, per evitare il  ripetersi  di
esondazioni in danno del territorio comunale. 
    Non avendo l'AIPO dato esecuzione alla  sentenza,  i  proprietari
hanno ottenuto dal  Tribunale  superiore  delle  acque  pubbliche  la
nomina di un Commissario ad acta, con il potere  di  provvedere  alla
restituzione  degli  immobili  espropriandi,  ovvero  di  conseguirne
l'acquisizione tramite l'istituto di cui all'art. 43 del  T.U.  sulle
espropriazioni, allora vigente. 
    Dichiarata tale ultima norma incostituzionale  (con  sentenza  n.
293 del 2010), ed introdotto nello  stesso  T.U.  l'art.  42-bis,  il
Commissario  ad  acta  ha  disposto  l'acquisizione  dei  terreni  al
patrimonio dell'AIPO, liquidando ai proprietari l'indennizzo  di  cui
alla nuova norma. 
    Il ricorso contro il provvedimento commissariale e' stato  quindi
respinto dal Tribunale superiore delle acque pubbliche  con  sentenza
del 14 marzo 2012. 
    I proprietari dei terreni hanno proposto ricorso  per  cassazione
avverso la sentenza del Tribunale superiore  delle  acque  pubbliche,
sollevando,   in   primo   luogo,   l'eccezione   di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni. 
    L'autorita' giudiziaria adita ha ritenuto, dunque,  di  sollevare
questione di legittimita' costituzionale della norma di cui  all'art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni 
    3.1.- Il giudice rimettente, in punto di rilevanza,  osserva  che
l'esame dei motivi di ricorso  per  cassazione  potrebbe  portare  al
rigetto  dello  stesso,  nella  vigenza   della   norma   della   cui
legittimita' costituzionale si  dubita,  mentre,  ove  l'art.  42-bis
venisse espunto dall'ordinamento, i ricorrenti potrebbero fruire  del
trattamento, risultante dalla disciplina previgente e per  loro  piu'
favorevole, consistente nella restituzione dell'immobile soggetto  ad
occupazione in radice illegittima, oltre al  risarcimento  del  danno
informato ai principi generali di cui all'art. 2043  cod.  civ.,  con
accoglimento dei restanti motivi di ricorso. 
    In sostanza, i ricorrenti - i quali, per effetto  della  sentenza
n. 293 del 2010 di questa Corte, avrebbero avuto  diritto,  tanto  al
momento del ricorso introduttivo del giudizio, quanto  a  quello  del
passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale  superiore  delle
acque pubbliche che lo aveva interamente accolto,  alla  restituzione
dei loro immobili, nonche' al risarcimento del danno alla stregua dei
parametri contenuti nell'art. 2043 cod. civ.  -  in  conseguenza  del
sopravvenuto  art.  42-bis,  nonche'  del  provvedimento  acquisitivo
adottato nel corso del giudizio, avrebbero perduto  completamente  la
tutela   reale   e   potrebbero   avvalersi   soltanto   di    quella
«indennitaria/risarcitoria» dalla stessa introdotta. 
    3.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione,  il
giudice   rimettente   ha   ripercorso   integralmente   i   passaggi
argomentativi gia'  illustrati  in  precedenza,  con  riferimento  al
giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
    3.3.- Nel giudizio innanzi alla Corte, con atto depositato il  24
giugno 2014, si sono costituiti anche i privati proprietari dei fondi
oggetto  del  provvedimento  di  acquisizione,  i   quali,   in   via
preliminare, hanno chiarito che tutte le loro iniziative  giudiziarie
sono sempre state mirate ad ottenere la restituzione dei fondi e  non
il risarcimento del danno per equivalente pecuniario. 
    In punto di non manifesta infondatezza, le  parti  aderiscono  in
sostanza al contenuto dell'ordinanza del giudice a quo. 
    3.4.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  sostenendo  l'infondatezza  della  sollevata   questione   di
legittimita' costituzionale e  riproponendo  le  medesime  difese  di
merito svolte nel giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
    3.5.- Con atto depositato in data 19 giugno 2014, e'  intervenuto
nel presente giudizio D.G.G. nella qualita' di  erede  universale  di
C.R., specificando di non essere parte del giudizio a quo, bensi'  di
altro giudizio, riproponendo le argomentazioni  di  cui  all'atto  di
intervento nel giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
    Con memoria depositata in data 26 gennaio  2015,  l'interveniente
ha   ulteriormente   argomentato   «sull'attualita'    dell'interesse
all'intervento». 
    4.- L'ordinanza di rimessione del 12 maggio 2014 (r.o. n. 163 del
2014) e' stata adottata dal TAR Lazio, sezione seconda, nel corso  di
un giudizio avente ad oggetto  una  procedura  posta  in  essere  dal
Comune di Roma, originata dall'intervenuta approvazione, con delibera
della Giunta municipale del Comune di Roma 7 maggio  1981,  n.  3253,
del progetto per la realizzazione di  opere  di  edilizia  scolastica
comunale,  con  contestuale  dichiarazione  di   pubblica   utilita',
indifferibilita' e  urgenza  nonche'  autorizzazione  all'occupazione
d'urgenza, su una porzione di terreni  di  proprieta'  della  Corrida
srl. 
    Effettuata  l'occupazione  dei  terreni,  le  opere  sono   state
realizzate, senza che il Comune resistente abbia portato a termine la
procedura espropriativa mediante adozione di decreto di esproprio. 
    Tutti gli atti della  procedura,  ivi  compresa  la  delibera  di
approvazione del progetto e di dichiarazione  di  pubblica  utilita',
indifferibilita' ed urgenza  dell'opera,  sono  stati  annullati  con
sentenza del TAR Lazio del 28 ottobre 2002, n. 5711,  confermata  con
sentenza del Consiglio di Stato del 12 giugno 2009, n. 3731. 
    Adito il  Tribunale  civile  di  Roma  al  fine  di  ottenere  il
risarcimento dei danni da occupazione, qualificata  come  usurpativa,
la societa' ricorrente,  a  seguito  di  pronuncia  dichiarativa  del
difetto di giurisdizione, ha quindi riassunto il giudizio innanzi  al
TAR Lazio. Ritenendo che, a fronte dell'irreversibile  trasformazione
dell'area, per effetto della realizzazione dell'opera  pubblica,  non
potesse ritenersi verificata l'accessione invertita -  essendo  stata
annullata la dichiarazione di pubblica utilita' -  la  ricorrente  ha
chiesto l'accertamento dell'illiceita' dell'occupazione dei terreni e
della   loro   irreversibile   trasformazione   per   effetto   della
realizzazione  dell'opera  pubblica  comunale;  l'accertamento  e  la
declaratoria della propria abdicazione al diritto di proprieta' sulle
aree   interessate   dalla   realizzazione    dell'opera    pubblica;
l'accertamento del diritto ad ottenere il risarcimento del danno  per
equivalente, corrispondente  al  valore  venale  delle  aree  (aventi
destinazione edificatoria),  oltre  al  risarcimento  del  danno  per
mancata loro utilizzazione durante il periodo  di  occupazione  senza
titolo,  a  decorrere  dall'inizio  della   stessa,   maggiorato   da
rivalutazione monetaria ed interessi di legge. 
    Il TAR ha  preliminarmente  dichiarato  l'inammissibilita'  della
domanda  volta  all'accertamento  dell'intervenuta   abdicazione   al
diritto di proprieta'  sulle  aree  interessate  dalla  realizzazione
dell'opera pubblica. 
    4.1.- Il giudice rimettente, in punto di rilevanza,  osserva  che
la fattispecie concreta rientra  nell'ambito  di  applicabilita'  del
citato art. 42-bis. Il Tribunale dovrebbe quindi limitarsi a ordinare
all'amministrazione comunale  di  procedere  alla  restituzione  alla
societa' ricorrente  delle  aree  illegittimamente  occupate,  previa
riduzione in pristino, e  a  risarcire  il  danno  per  l'occupazione
illegittima,   fermo   restando   che   l'amministrazione    potrebbe
paralizzare tale pronuncia mediante l'adozione del  provvedimento  di
acquisizione ex nunc del bene al  proprio  patrimonio  indisponibile,
con  corresponsione  al  proprietario  di  un   indennizzo   per   il
pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale. 
    4.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione,  il
TAR ripercorre integralmente i passaggi argomentativi gia' illustrati
in precedenza, con riferimento al  giudizio  r.o.  n.  90  del  2014,
replicando    (quasi)    letteralmente    l'incedere    argomentativo
dell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, sezioni unite
civili, e riproponendo  gli  identici  profili  di  contrasto  con  i
parametri  costituzionali  evocati  nel   provvedimento   da   ultimo
menzionato. 
    4.3.- Nel giudizio innanzi alla Corte, con atto depositato il  27
ottobre 2014, si e' costituita anche  la  societa'  proprietaria  dei
fondi oggetto della procedura ablativa, chiedendo la declaratoria  di
illegittimita' costituzionale della norma impugnata. 
    4.4.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, sostenendo  l'infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale e riproponendo le medesime difese di merito svolte nel
giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
    5.- L'ordinanza di rimessione del 5 giugno 2014 (r.o. n. 219  del
2014) e' stata adottata dal TAR Lazio, sezione seconda, nel corso  di
un  giudizio  avente  ad  oggetto  l'occupazione  di  urgenza  di  un
appezzamento  di  terreno  nel  Comune  di  Roma,   appartenente   in
comproprieta' ad alcuni privati, interamente trasformato  in  maniera
irreversibile dall'amministrazione e legittimamente espropriato  solo
per una parte, con decreti del Presidente della Giunta regionale  del
Lazio 30 luglio 1993, n. 1420 e n. 1421. 
    I privati proprietari hanno promosso  un  giudizio  innanzi  alla
Corte   d'appello   di   Roma   per   ottenere   la    determinazione
dell'indennita' di occupazione,  nonche',  limitatamente  alla  parte
espropriata, la determinazione dell'indennita' di esproprio. 
    Il giudizio si e' concluso con sentenza 12 giugno 2000, n.  2043,
passata in giudicato, con la quale la  Corte  d'appello  di  Roma  ha
determinato  e  liquidato  l'indennita'  di  occupazione  dell'intero
terreno  originariamente  occupato,   per   tutto   il   periodo   di
occupazione, e ha determinato e liquidato l'indennita'  di  esproprio
per il terreno effettivamente espropriato. 
    Nel corso del giudizio di fronte alla Corte d'appello, e'  emerso
che anche la restante parte del terreno  non  espropriata  era  stata
utilizzata dal Comune,  che  vi  aveva  eseguito  la  prevista  opera
pubblica. 
    I  privati  proprietari,   dunque,   ritenuta   verificatasi   la
cosiddetta  "accessione  invertita",  con  conseguente   diritto   al
risarcimento del danno in misura pari al valore  venale  del  terreno
illecitamente  acquisito  (dopo  la  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale del comma 7-bis dell'art. 5-bis del  decreto-legge  11
luglio 1992, n. 333, recante «Misure urgenti per il risanamento della
finanza pubblica», convertito, con modificazioni, dall'art. 1,  comma
1, della legge 8 agosto 1992, n. 359, per effetto della  sentenza  di
questa  Corte  n.  349  del  2007),   con   motivi   aggiunti   hanno
rappresentato di  avere  inutilmente  diffidato  l'amministrazione  a
procedere,  secondo  il  sopravvenuto  art.  42-bis  del  T.U.  sulle
espropriazioni, all'acquisizione del terreno, previa determinazione e
pagamento delle somme loro dovute. 
    Alla luce del mutato contesto normativo,  hanno  quindi  spiegato
un'ulteriore domanda, alternativa rispetto a quella originaria, volta
a conseguire, in via costitutiva, il trasferimento in favore di  Roma
Capitale della proprieta' del terreno  (alla  quale  non  hanno  piu'
interesse), oltre alla condanna dell'amministrazione al  risarcimento
del danno. 
    Il TAR ha  preliminarmente  dichiarato  l'inammissibilita'  della
domanda volta all'accertamento dell'intervenuta abdicazione, da parte
dei ricorrenti, al diritto di proprieta' sulle aree interessate dalla
realizzazione dell'opera pubblica. 
    5.1.- Il giudice rimettente, in punto di  rilevanza,  in  termini
perfettamente identici rispetto all'ordinanza del TAR  Lazio  del  12
maggio 2014 (illustrata nell'ambito del  giudizio  r.o.  n.  163  del
2014), osserva che la fattispecie  concreta  rientra  nell'ambito  di
applicabilita'  del   citato   art.   42-bis,   sicche'   l'autorita'
giudiziaria   dovrebbe   limitarsi   a   ordinare   alla   resistente
amministrazione comunale di procedere alla restituzione alla societa'
ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione  in
pristino, e a risarcire il danno per l'occupazione illegittima, fermo
restando che l'amministrazione potrebbe  paralizzare  tale  pronuncia
mediante l'adozione del provvedimento con cui disporre l'acquisto  ex
nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione  al
proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale  e  non
patrimoniale subito. 
    5.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza della questione,  il
TAR  ha  ripercorso  integralmente  i  passaggi  argomentativi   gia'
illustrati in precedenza con riferimento al giudizio r.o. n.  90  del
2014, anche in tal caso replicando (quasi)  letteralmente  l'incedere
argomentativo dell'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione,
sezioni  unite  civili,  e  riproponendo  gli  identici  profili   di
contrasto con i parametri costituzionali evocati nel provvedimento da
ultimo menzionato. 
    5.3.- Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  sostenendo  l'infondatezza  della  sollevata   questione   di
legittimita' costituzionale e  riproponendo  le  medesime  difese  di
merito svolte nel giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Le questioni sollevate dalla  Corte  di  cassazione,  sezioni
unite civili, e dal Tribunale amministrativo regionale per il  Lazio,
sezione seconda, con quattro distinte ordinanze di contenuto in larga
misura coincidente (rispettivamente r.o. n. 89, n. 90, n.  163  e  n.
219 del 2014), riguardano l'art. 42-bis del d.P.R. 8 giugno 2001,  n.
327 (Testo unico delle disposizioni legislative  e  regolamentari  in
materia di espropriazione per pubblica utilita' - Testo  A),  con  il
quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo  di  un  bene
per scopi di interesse pubblico». 
    1.1.- I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma,  censurata  con
riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran
parte con le  stesse  argomentazioni.  Ponendo,  pertanto,  identiche
questioni, vanno riuniti e decisi con un'unica pronuncia. 
    1.2.- Va ribadito quanto statuito con l'ordinanza della quale  e'
stata  data  lettura  in  pubblica  udienza,  allegata  al   presente
provvedimento, in ordine  all'inammissibilita'  dell'intervento,  nel
giudizio promosso dalla Corte di cassazione  r.o.  n.  89  del  2014,
della SEP - Societa' Edilizia Pineto spa. 
    1.3.- Va, ancora, dichiarata l'inammissibilita'  dell'intervento,
in entrambi i giudizi promossi dalla Corte di cassazione (r.o. n.  89
del 2014 e n. 90 del 2014), di D.G.G., il  quale  non  e'  parte  dei
giudizi a quibus, ma di altri giudizi in cui si controverte circa  la
legittimita'  di  procedure  espropriative,  suscettibili  di  essere
definiti con l'applicazione della norma impugnata. 
    Secondo la costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  infatti,
possono partecipare al giudizio in via  incidentale  di  legittimita'
costituzionale le sole  parti  del  giudizio  principale  e  i  terzi
portatori di un interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (tra le tante, sentenze n. 162 del 2014, n. 293 del 2011,  n.
118 del 2011 e n. 138 del 2010; ordinanze n. 240 del 2014, n. 156 del
2013 e n. 150 del 2012). 
    I rapporti sostanziali dedotti in causa  dall'interveniente  sono
del tutto differenti rispetto a quelli oggetto  dei  procedimenti  da
cui sono scaturiti i giudizi costituzionali r.o. n. 89 e  n.  90  del
2014,  pur  essendo,   secondo   la   prospettazione   dello   stesso
interveniente, suscettibili di essere regolati dalla norma oggetto di
censura. 
    Sotto altro profilo, l'ammissibilita' d'interventi  ad  opera  di
terzi, titolari di interessi soltanto analoghi a quelli  dedotti  nel
giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale  del
giudizio di legittimita' costituzionale, in  quanto  l'accesso  delle
parti al detto giudizio avverrebbe senza  la  previa  verifica  della
rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte
del giudice a quo (per tutte, sentenze n. 119 del  2012,  n.  49  del
2011 e ordinanza n. 32 del 2013). 
    2.-  Come  l'analogo  art.  43  del  T.U.  sulle  espropriazioni,
dichiarato incostituzionale per eccesso di delega con sentenza n. 293
del 2010 di questa Corte, l'art. 42-bis oggi censurato ha ad  oggetto
la  disciplina  dell'utilizzazione  senza  titolo,  da  parte   della
pubblica amministrazione, di un bene immobile per scopi di  interesse
pubblico,  modificato  in  assenza  di  un  valido  provvedimento  di
esproprio o dichiarativo della pubblica utilita'. 
    Nei  suoi  tratti  essenziali,  la   disposizione   prevede   che
l'autorita' che utilizza il bene possa disporne  l'acquisizione,  non
retroattiva,  al  proprio   patrimonio   indisponibile,   contro   la
corresponsione di un  indennizzo  patrimoniale  e  non  patrimoniale,
quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del 10 per  cento
del valore venale del bene. Per l'eventuale  periodo  di  occupazione
senza titolo e' computato, a titolo risarcitorio, un interesse del  5
per cento annuo sul valore venale, salva la prova del maggior danno. 
    Le nuove regole valgono non solo quando manchi del  tutto  l'atto
espropriativo, ma anche laddove sia stato annullato l'atto da cui sia
sorto  il  vincolo  preordinato  all'esproprio,  l'atto   che   abbia
dichiarato  la  pubblica  utilita'  di  un'opera  o  il  decreto   di
esproprio. 
    Prevede la norma  che  il  provvedimento  di  acquisizione  possa
essere  adottato  anche  durante  la  pendenza  di  un  giudizio  per
l'annullamento  degli  atti  appena  citati,  ma  a  condizione   che
l'amministrazione che ha adottato il  precedente  atto  impugnato  lo
ritiri. 
    Il provvedimento di acquisizione deve recare l'indicazione  delle
circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area,
se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, e deve  essere
specificamente motivato in riferimento alle  attuali  ed  eccezionali
ragioni di  interesse  pubblico  che  ne  giustificano  l'emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati.  Deve
essere evidenziata altresi' «l'assenza  di  ragionevoli  alternative»
alla  adozione  del  provvedimento.  Il  pagamento   dell'indennizzo,
liquidato  nel  provvedimento,  deve  essere  disposto  entro  trenta
giorni,  e  la  notifica  dell'atto  al  proprietario  determina   il
passaggio del diritto di proprieta', sotto condizione sospensiva  del
pagamento delle somme dovute ovvero del  loro  deposito.  L'autorita'
che emana il provvedimento ne da' inoltre comunicazione, entro trenta
giorni,  alla  Corte  dei  conti,  mediante  trasmissione  di   copia
integrale. 
    Si prevede, infine, che queste disposizioni trovino  applicazione
anche con riguardo a fatti  anteriori  all'entrata  in  vigore  della
norma, ed anche se vi sia gia' stato un provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato, ferma restando la necessita' di
rinnovare la valutazione di attualita'  e  prevalenza  dell'interesse
pubblico a disporre l'acquisizione. 
    3.- In punto di  non  manifesta  infondatezza,  tutti  i  giudici
rimettenti ritengono che la norma censurata si ponga in contrasto con
diversi parametri costituzionali. 
    3.1.- In primo luogo, l'art. 42-bis contrasterebbe con gli  artt.
3 e 24 della Costituzione,  riservando  un  trattamento  privilegiato
alla pubblica amministrazione che abbia commesso un  fatto  illecito,
fonte,    per    qualsiasi    altro    soggetto,    dell'obbligazione
«risarcitoria/restitutoria» di cui agli artt. 2043 e 2058 del  codice
civile.  La  disposizione  censurata,  infatti,  attribuirebbe   alla
pubblica amministrazione la  facolta'  di  mutare  -  successivamente
all'evento dannoso prodotto  nella  sfera  giuridica  altrui,  e  per
effetto di una propria unilaterale manifestazione di  volonta'  -  il
titolo e l'ambito della responsabilita', nonche' il tipo di  sanzione
(da  risarcimento  in  indennizzo)  stabiliti  in  via  generale  dal
precetto del neminem laedere, pur avendo operato al  di  fuori  della
funzione amministrativa. Cio' le consentirebbe di trarre vantaggio da
una situazione di illegalita' da essa stessa determinata, sottraendo,
peraltro, al privato danneggiato la tutela restitutoria,  alla  quale
in precedenza aveva diritto. 
    Sotto altro profilo, l'indennizzo previsto dalla norma  impugnata
sarebbe   ingiustificatamente    inferiore    nel    confronto    con
l'espropriazione legittima dello stesso immobile. 
    La  norma,  poi,  avrebbe  trasformato   il   precedente   regime
risarcitorio in un  indennizzo  derivante  da  atto  lecito,  che  di
conseguenza   assumerebbe   natura   di   debito   di   valuta    non
automaticamente soggetto alla rivalutazione monetaria. 
    Anche il ristoro che avrebbe mantenuto natura risarcitoria, ossia
il  corrispettivo  per  il   periodo   di   occupazione   illegittima
antecedente al provvedimento di acquisizione, verrebbe determinato in
base ad un parametro riduttivo rispetto a quelli cui  e'  commisurato
l'analogo  indennizzo  per  la   legittima   occupazione   temporanea
dell'immobile. 
    3.2.- In secondo luogo, tutti i giudici rimettenti dubitano della
compatibilita' della norma impugnata con gli artt. 42, 97 e 113 Cost. 
    Osservano,  in  proposito,  che  la  dichiarazione  di   pubblica
utilita' dell'opera si pone come garanzia prima  e  fondamentale  del
cittadino e, nel contempo,  quale  ragione  giustificatrice  del  suo
sacrificio, sicche', in mancanza  di  questa,  si  determinerebbe  il
difetto    di    potere    dell'amministrazione     nel     procedere
all'espropriazione. La norma costituzionale  richiederebbe,  infatti,
che i motivi d'interesse generale che  giustificano  l'esercizio  del
potere espropriativo, nei (soli) casi stabiliti  dalla  legge,  siano
predeterminati  dall'amministrazione  ed  emergano  da  un   apposito
procedimento -  individuato,  appunto,  in  quello  dichiarativo  del
pubblico interesse culminante nell'adozione  della  dichiarazione  di
pubblica utilita' - preliminare, autonomo e strumentale  rispetto  al
successivo procedimento espropriativo in senso stretto. 
    Nella  prospettazione  dei  rimettenti,  i  motivi  di  interesse
generale richiesti dal terzo  comma  dell'art.  42  Cost.  dovrebbero
palesarsi gradualmente e anteriormente al sacrificio del  diritto  di
proprieta', in un momento in  cui  la  comparazione  tra  l'interesse
pubblico e l'interesse privato possa  effettivamente  evidenziare  la
scelta  migliore,  nel  rispetto  dei  principi   d'imparzialita'   e
proporzionalita' (ai sensi dell'art. 97 Cost.). In un momento, cioe',
in cui la lesione del diritto di proprieta' non sia ancora attuale ed
eventuali ipotesi alternative all'espropriazione non siano ostacolate
da una situazione fattuale ormai irreversibilmente compromessa. 
    L'art.  42-bis,  invece,  prescindendo  dalla  dichiarazione   di
pubblica utilita', autorizzerebbe l'espropriazione in assenza di  una
predeterminazione  dei   motivi   d'interesse   generale,   reputando
sufficiente che la perdita del bene da parte del  proprietario  trovi
giustificazione nella situazione  di  fatto  venutasi  a  creare  per
effetto del comportamento contra ius dell'amministrazione. 
    Ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale, per contrasto
con l'art. 42 Cost., e' individuato  nella  ritenuta  assenza,  nella
norma, di termini certi di avvio e conclusione del procedimento,  con
conseguente  esposizione  del  diritto  di  proprieta'  al   pericolo
dell'emanazione del provvedimento acquisitivo senza limiti di tempo. 
    3.3.- I giudici rimettenti dubitano,  ancora,  della  conformita'
della norma impugnata all'art. 117, primo comma, Cost., per contrasto
con i principi della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,  n.  848
(d'ora in avanti «CEDU»),  secondo  l'interpretazione  fornita  dalla
Corte di Strasburgo dell'art. 1 del Primo Protocollo addizionale.  La
Corte europea avrebbe, infatti, dichiarato  «in  radicale  contrasto»
con tale art. 1  il  fenomeno  dell'"espropriazione  indiretta",  nel
quale il trasferimento della proprieta' del  bene  dal  privato  alla
pubblica amministrazione avviene in virtu' della constatazione  della
situazione di illegalita' o illiceita' commessa da quest'ultima,  con
l'effetto di convalidarla, consentendo all'amministrazione di  trarne
vantaggio e  di  passare  oltre  le  regole  fissate  in  materia  di
espropriazione, con  il  rischio  di  un  risultato  imprevedibile  o
arbitrario per gli interessati. 
    La Corte EDU, osservano i rimettenti, ha sempre ritenuto che  una
tale vicenda ponga problemi alla  luce  del  principio  di  legalita'
tutelato dalla Convenzione, non solo quando  giustificata  unicamente
dalla giurisprudenza in via  pretoria,  ma  anche  quando  consentita
mediante disposizioni  legislative.  Cio'  perche'  il  principio  di
legalita' non si accontenta della mera  esistenza  di  una  norma  di
legge  che  consenta  l'espropriazione  indiretta,  bensi'   richiede
l'esistenza di norme giuridiche interne sufficientemente accessibili,
precise e prevedibili. 
    3.4.- I giudici rimettenti, infine,  dubitano  della  conformita'
della norma censurata agli artt. 111, primo e secondo comma,  e  117,
primo comma, Cost., in  relazione  all'art.  6  della  CEDU,  secondo
l'interpretazione fornita dalla Corte di Strasburgo. 
    La  Corte  EDU,  infatti,  ha  ripetutamente  considerato  lecita
l'applicazione dello ius superveniens in cause gia' pendenti soltanto
in presenza di «ragioni imperative di interesse  generale»,  pena  la
violazione del principio di  legalita'  nonche'  del  diritto  ad  un
processo equo.  Cio'  perche',  in  ipotesi  del  genere,  il  potere
legislativo introduce nuove disposizioni  specificamente  dirette  ad
influire sull'esito di un giudizio gia' in corso (specie considerando
i giudizi ove sia parte un'amministrazione  pubblica),  inducendo  il
giudice  a  decisioni  su  base  diversa  da  quella  alla  quale  la
controparte poteva legittimamente aspirare al momento di introduzione
della lite. 
    La  norma  censurata  violerebbe  questi  principi,  in   quanto,
malgrado la precisazione  del  primo  comma  secondo  cui  l'atto  di
acquisizione e' destinato a  non  operare  retroattivamente,  con  la
disposizione dell'ottavo comma  avrebbe  confermato  la  possibilita'
dell'amministrazione di utilizzare  il  provvedimento  ex  tunc,  per
fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se  vi  sia  gia'
stato un provvedimento di  acquisizione  successivamente  ritirato  o
annullato,  in  conformita'  alla  finalita'   di   attribuire   alle
amministrazioni occupanti una legale via di uscita  dalle  situazioni
di illegalita' venutesi a verificare nel corso degli anni. 
    Sotto tale profilo, la norma risulterebbe anche in contrasto  con
l'art. 111, primo  e  secondo  comma,  Cost.,  nella  parte  in  cui,
disponendo la propria applicabilita' ai giudizi in corso,  violerebbe
i principi del giusto  processo,  in  particolare  la  condizione  di
parita'  delle  parti  davanti  al  giudice,  che  risulterebbe  lesa
dall'intromissione del potere legislativo nell'amministrazione  della
giustizia,  allo  scopo  di  influire  sulla   risoluzione   di   una
circoscritta e determinata categoria di controversie. 
    4.-    In    via    preliminare,    deve    essere     dichiarata
l'inammissibilita',  per  difetto  di  rilevanza,   delle   questioni
sollevate con le due ordinanze (r.o. n. 163 del 2014  e  n.  219  del
2014) del TAR Lazio, sezione seconda. 
    In entrambi i casi, infatti, non  risulta  essere  stato  emanato
alcun provvedimento di acquisizione ex art.  42-bis  del  T.U.  sulle
espropriazioni da parte della pubblica amministrazione. 
    Il TAR rimettente, anzi, in entrambe le  ordinanze  ha  affermato
che  dovrebbe  limitarsi  a   ordinare   alla   resistente   pubblica
amministrazione di procedere alla restituzione alla parte  ricorrente
delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e
a risarcire il danno per l'occupazione  illegittima,  fermo  restando
che  l'amministrazione  «puo'  paralizzare  tale  pronuncia  mediante
l'adozione del provvedimento con cui disporre l'acquisto ex nunc  del
bene al suo patrimonio indisponibile». 
    Trattasi, dunque, di  una  circostanza  solo  eventuale  che  non
risulta essersi realizzata, il che  esclude  la  necessita'  di  fare
applicazione nel caso concreto della norma impugnata. 
    5.- Sempre in via preliminare, occorre esaminare le eccezioni  di
inammissibilita' prospettate dall'Avvocatura generale dello  Stato  e
dal Comune di Porto Cesareo (parte costituita nel procedimento a quo)
nel giudizio r.o. n. 89 del 2014. 
    5.1.- Secondo l'Avvocatura generale, il riparto di  giurisdizione
in materia e' disciplinato dall'art. 133, primo comma, del codice del
processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010,  n.  104,
recante «Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno  2009,  n.
69,  recante  delega  al  governo  per  il  riordino   del   processo
amministrativo»), la cui lettera f)  attribuisce  alla  giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie aventi  ad
oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia  urbanistica  e  edilizia,  tranne  quelle   riguardanti   la
determinazione e la corresponsione delle  indennita'  in  conseguenza
dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa. 
    Ne consegue che, solo ove l'indennizzo previsto dall'art.  42-bis
fosse  qualificabile  come  "indennita'",  potrebbe  ipotizzarsi   la
traslatio iudicii prospettata dal  giudice  rimettente,  in  caso  di
superamento dei dubbi di legittimita' costituzionale sollevati. 
    Secondo la  difesa  erariale,  invece,  al  di  la'  del  termine
utilizzato dalla norma (in  stretta  connessione  con  il  sostantivo
utilizzato dal terzo comma  dell'art.  42  Cost.),  la  ricostruzione
sistematica   dell'istituto   porterebbe   a   concludere   per    la
configurabilita' di una obbligazione  di  matrice  risarcitoria,  con
conseguente  giurisdizione  esclusiva  del  giudice   amministrativo,
indipendentemente dalla fondatezza o meno della  sollevata  questione
di legittimita' costituzionale della norma. Difetterebbe, dunque,  la
rilevanza   della   questione   nell'ambito   del   regolamento    di
giurisdizione azionato nel giudizio a quo. 
    5.1.1.- L'eccezione non e' fondata. 
    Il   giudizio   di   rilevanza,   per   costante   giurisprudenza
costituzionale,  e'  riservato  al  giudice   rimettente,   si'   che
l'intervento della Corte deve limitarsi ad accertare  l'esistenza  di
una   motivazione   sufficiente,   non    palesemente    erronea    o
contraddittoria, senza spingersi fino  ad  un  esame  autonomo  degli
elementi  che  hanno  portato  il  giudice  a   quo   a   determinate
conclusioni. 
    In altre parole,  nel  giudizio  di  costituzionalita',  ai  fini
dell'apprezzamento della rilevanza, cio' che conta e' la  valutazione
che il rimettente deve  fare  in  ordine  alla  possibilita'  che  il
procedimento pendente possa o meno essere definito  indipendentemente
dalla  soluzione  della  questione  sollevata,   potendo   la   Corte
interferire su tale valutazione solo se essa, a prima  vista,  appaia
assolutamente priva di fondamento (ex plurimis, sentenze  n.  91  del
2013, n. 41 del 2011 e n. 270 del 2010). Un simile presupposto non si
verifica nel caso di specie, avendo il rimettente motivato in maniera
non implausibile circa la qualificazione in  termini  indennitari  (e
non risarcitori) del ristoro previsto dalla norma  censurata  per  il
pregiudizio  patrimoniale  e  non  patrimoniale  subito  dal  privato
(peraltro  conformemente  ad  un  indirizzo  accolto  -  sebbene  non
unanimemente - anche dalla giurisprudenza  amministrativa:  Consiglio
di Stato, sezione quarta, sentenza 29 agosto 2013, n. 4318 e, sezione
sesta, sentenza 15 marzo 2012, n. 1438). 
    5.2.- Un ulteriore profilo di  inammissibilita'  per  difetto  di
rilevanza  e'  individuato  dall'Avvocatura  generale  nella   scarna
descrizione della fattispecie concreta da cui  ha  avuto  origine  la
proposizione del regolamento di giurisdizione. Il giudice  rimettente
non avrebbe, infatti, specificato se la vicenda abbia  avuto  origine
da  un'ipotesi  di  occupazione   "usurpativa"   o   di   occupazione
"acquisitiva".   Solo   nel   primo   caso,   secondo   la   costante
giurisprudenza di  legittimita',  il  privato  avrebbe  diritto  alla
restituzione del bene. 
    5.2.1.- Anche tale eccezione non e' fondata. 
    Sebbene in termini sintetici, l'ordinanza di rimessione specifica
che la dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera era  in  effetti
intervenuta,  ma  che  ne  erano  inutilmente  scaduti   i   termini,
rientrando,  dunque,  la  fattispecie  nell'ambito  della  cosiddetta
occupazione acquisitiva. 
    5.3.- Il Comune di  Porto  Cesareo  ha  eccepito,  a  sua  volta,
l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale. 
    Il giudice rimettente, infatti, ha sostenuto che, qualora  l'art.
42-bis venisse espunto dall'ordinamento, il privato potrebbe aspirare
ad ottenere la restituzione del bene illegittimamente occupato. 
    Ad  avviso  del  Comune,  tale  restituzione  non  sarebbe   piu'
ipotizzabile, in virtu'  del  giudicato  formatosi  sulla  precedente
sentenza (del 25 giugno 2010, n. 1614) del TAR adito,  che  ne  aveva
espressamente esclusa la possibilita'. Cio', peraltro, su sostanziale
rinuncia dello stesso ricorrente a conseguire la  restituzione,  come
dimostrato dal contenuto dei motivi aggiunti  proposti  nel  giudizio
amministrativo  ancora  pendente,  tendenti  solo  ad   ottenere   la
determinazione dell'indennizzo in seguito al  provvedimento  ex  art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni nelle more adottato  dal  Comune
di Porto Cesareo. 
    Nessuna utilita' - osserva il Comune - potrebbe  dunque  ricavare
il privato dalla eventuale caducazione della norma impugnata. 
    5.3.1.- L'eccezione non e' fondata. 
    Il regolamento di giurisdizione e' stato proposto -  proprio  dal
Comune resistente - perche' il privato ha comunque chiesto  anche  la
rideterminazione  dell'indennizzo,  esattamente  in  forza  dell'art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni, entrato in  vigore  nelle  more
del giudizio.  Come  evidenziato  nell'ordinanza  di  rimessione,  ne
risulta che se la norma censurata fosse dichiarata  incostituzionale,
il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del  risarcimento
ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del  diritto
alla restituzione del bene. 
    In altri termini, la rilevanza della questione emerge  dal  fatto
che se la questione di legittimita' costituzionale fosse accolta,  il
giudizio rimarrebbe incardinato innanzi  al  giudice  amministrativo,
investito della domanda di rideterminazione  del  ristoro  economico,
che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa  fosse  rigettata,  ne
deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario,
per i profili di quantificazione dell'indennizzo  previsto  dall'art.
42-bis del T.U. sulle espropriazioni. 
    5.4.- Sotto altro aspetto, quello  del  diritto  al  risarcimento
integrale del danno (informato ai principi di cui agli artt.  2043  e
2059 cod. civ.), in luogo del mero indennizzo,  il  Comune  eccepisce
ulteriormente  l'inammissibilita'  della  questione  per  difetto  di
rilevanza, in quanto il danno sarebbe gia' stato determinato in forma
integrale,  sempre  in  esecuzione  del  giudicato  formatosi   sulla
precedente sentenza n. 1614 del  2010  del  Tribunale  amministrativo
regionale per la Puglia, sezione distaccata di Lecce,  adempiendo  al
quale la determinazione dell'indennizzo  sarebbe  stata  superiore  a
quanto spettante in applicazione della norma censurata. 
    5.4.1.- Anche tale eccezione e' infondata, inerendo al merito del
giudizio che  ha  dato  luogo  al  regolamento  di  giurisdizione,  e
nell'ambito  del  quale   dovra'   essere   vagliata   dall'autorita'
giudiziaria   che   sara'   individuata   come   attributaria   della
controversia. 
    6.- Le questioni sollevate dalla  Corte  di  cassazione,  sezioni
unite civili, con le ordinanze r.o. n. 89 e n. 90 del 2014, non  sono
fondate, in riferimento  agli  artt.  3,  24,  97  e  113  Cost.  Con
riferimento agli artt. 42, 111, primo e secondo comma, e  117,  primo
comma, Cost., tali questioni non sono fondate nei  sensi  di  cui  in
motivazione. 
    6.1.-  L'art.  42-bis  e'  stato  introdotto   nel   T.U.   sulle
espropriazioni dall'art. 34, comma  1,  del  decreto-legge  6  luglio
2011,  n.   98   (Disposizioni   urgenti   per   la   stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art.  1,  comma  1,
della legge 15 luglio 2011,  n.  111,  dopo  che  questa  Corte,  con
sentenza  n.  293  del  2010,   aveva   dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale, per eccesso di delega, dell'art. 43 del medesimo T.U.
sulle espropriazioni, che disciplinava un istituto affine. 
    6.2.- E' utile partire dalla sommaria descrizione  del  contesto,
anche giurisprudenziale, nel  quale  sono  stati  inseriti,  dapprima
l'art. 43, e poi l'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni. 
    Come e' noto, in presenza di una serie  di  patologie  rilevabili
nei procedimenti amministrativi di espropriazione, la  giurisprudenza
di  legittimita'  aveva  elaborato  gli   istituti   dell'occupazione
«appropriativa» ed «usurpativa». 
    In sintesi, la prima  era  caratterizzata  da  una  anomalia  del
procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con
un formale atto  ablativo,  mentre  la  seconda  era  collegata  alla
trasformazione  del  fondo  di  proprieta'  privata,  in  assenza  di
dichiarazione di pubblica utilita'. Nel primo caso (a  partire  dalla
sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 26 febbraio
1983,  n.  1464),   l'acquisto   della   proprieta'   conseguiva   ad
un'inversione della fattispecie civilistica  dell'accessione  di  cui
agli  artt.  935  e  seguenti  cod.  civ.,  in  considerazione  della
trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione,
la destinazione  irreversibile  del  suolo  privato  illegittimamente
occupato  comportava  l'acquisto  a  titolo  originario,   da   parte
dell'ente pubblico, della  proprieta'  del  suolo  e  la  contestuale
estinzione del diritto  di  proprieta'  del  privato.  La  successiva
sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili,  10  giugno
1988,  n.  3940,  preciso'   poi   la   figura   della   «occupazione
acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse  una  valida
dichiarazione di pubblica utilita' che permetteva  di  far  prevalere
l'interesse pubblico su quello privato. 
    L'«occupazione   usurpativa»,   invece,   non   accompagnata   da
dichiarazione  di  pubblica  utilita',  ab  initio  o   per   effetto
dell'intervenuto annullamento del relativo atto o  per  scadenza  dei
relativi  termini,  in  quanto   tale   non   determinava   l'effetto
acquisitivo a favore della pubblica amministrazione. 
    6.3.- Nel dichiarare l'illegittimita' costituzionale dell'art. 43
del T.U. sulle espropriazioni per eccesso  di  delega,  questa  Corte
(sentenza n.  293  del  2010)  ha  rilevato  che  l'intervento  della
pubblica amministrazione sulle procedure ablatorie, come disciplinato
dalla  norma  da  ultimo  richiamata,  eccedeva  gli  istituti  della
occupazione appropriativa ed usurpativa, cosi' come  delineati  dalla
giurisprudenza di legittimita', prevedendo un generalizzato potere di
sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che aveva  commesso
l'illecito,  addirittura  a  dispetto  di  un  giudicato  che  avesse
disposto il ristoro in forma  specifica  del  diritto  di  proprieta'
violato. 
    Nella  medesima   pronuncia,   questa   Corte   aveva,   inoltre,
prospettato in termini dubitativi la compatibilita' del meccanismo di
"acquisizione sanante", per  come  disciplinato  dalla  norma  allora
impugnata,  con  la  giurisprudenza  della   Corte   di   Strasburgo.
Quest'ultima,  infatti,  sia  pure  incidentalmente,  ha  piu'  volte
osservato  che  l'espropriazione  cosiddetta  indiretta  si  pone  in
violazione del principio di legalita', perche' non  e'  in  grado  di
assicurare   un   sufficiente   grado   di   certezza   e    permette
all'amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una  situazione
di fatto derivante da «azioni illegali». Cio'  accade  sia  allorche'
tale  situazione  costituisca   conseguenza   di   un'interpretazione
giurisprudenziale, sia allorche' derivi da una  legge  (con  espresso
riferimento all'art. 43 del T.U.  sulle  espropriazioni),  in  quanto
l'espropriazione   indiretta    non    puo'    comunque    costituire
un'alternativa ad un'espropriazione adottata secondo «buona e  debita
forma» (sentenza 12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri contro Italia). 
    6.4.- E' dunque opportuno che lo scrutinio della norma  censurata
nel presente giudizio di legittimita' costituzionale sia preceduto da
un suo  raffronto  con  l'art.  43  del  T.U.  sulle  espropriazioni,
dovendosi, dapprima, stabilire se  il  nuovo  meccanismo  acquisitivo
risulti disciplinato in modo difforme rispetto a quello previsto  dal
precedente art. 43, e successivamente valutare la  consistenza  delle
censure mosse dalle ordinanze di rimessione. 
    6.5.- L'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni  ha  certamente
reintrodotto la  possibilita',  per  l'amministrazione  che  utilizza
senza titolo un bene privato per  scopi  di  interesse  pubblico,  di
evitarne  la  restituzione  al  proprietario  (e/o  la  riduzione  in
pristino stato), attraverso  un  atto  di  acquisizione  coattiva  al
proprio patrimonio indisponibile. Tale atto sostituisce  il  regolare
procedimento ablativo prefigurato dal T.U. sulle espropriazioni, e si
pone, a sua volta,  come  una  sorta  di  procedimento  espropriativo
semplificato, che assorbe in se' sia  la  dichiarazione  di  pubblica
utilita', sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza  uno  actu
lo svolgimento dell'intero procedimento, in presenza dei  presupposti
indicati dalla norma. 
    Come  evidenziato  dalla  difesa  erariale,  tuttavia,  il  nuovo
meccanismo acquisitivo  presenta  significative  differenze  rispetto
all'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni. 
    La nuova disposizione,  risolvendo  un  contrasto  interpretativo
insorto  in  giurisprudenza  sull'art.  43  appena  citato,   dispone
espressamente che l'acquisto della proprieta' del bene da parte della
pubblica  amministrazione  avvenga   ex   nunc,   solo   al   momento
dell'emanazione  dell'atto  di  acquisizione  (cio'   che   impedisce
l'utilizzo dell'istituto in presenza di un giudicato che  abbia  gia'
disposto la restituzione del bene al privato). 
    Inoltre,  la  norma  censurata  impone  uno   specifico   obbligo
motivazionale "rafforzato"  in  capo  alla  pubblica  amministrazione
procedente, che deve indicare le circostanze che hanno condotto  alla
indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data  dalla  quale
essa ha avuto inizio. 
    La motivazione, in  particolare,  deve  esibire  le  «attuali  ed
eccezionali»  ragioni  di   interesse   pubblico   che   giustificano
l'emanazione dell'atto, valutate comparativamente con i  contrapposti
interessi  privati,  e  deve,  altresi',  evidenziare  l'assenza   di
ragionevoli alternative alla sua adozione. 
    Ancora, nel computo dell'indennizzo  viene  fatto  rientrare  non
solo  il  danno  patrimoniale,  ma  anche  quello  non  patrimoniale,
forfetariamente liquidato nella misura del 10 per  cento  del  valore
venale  del   bene.   Cio'   costituisce   sicuramente   un   ristoro
supplementare rispetto alla somma che sarebbe spettata nella  vigenza
della precedente disciplina. 
    Il passaggio del diritto di proprieta',  inoltre,  e'  sottoposto
alla condizione sospensiva  del  pagamento  delle  somme  dovute,  da
effettuare entro 30 giorni dal provvedimento di acquisizione. 
    La nuova disciplina si applica non solo quando manchi  del  tutto
l'atto espropriativo, ma  anche  laddove  sia  stato  annullato  -  o
impugnato a tal fine, nel qual  caso  occorre  il  previo  ritiro  in
autotutela da parte della medesima pubblica amministrazione -  l'atto
da cui sia sorto il  vincolo  preordinato  all'esproprio,  oppure  la
dichiarazione di pubblica  utilita'  dell'opera  oppure,  ancora,  il
decreto di esproprio. 
    Non e' stata piu' riproposta la cosiddetta  acquisizione  in  via
giudiziaria, precedentemente prevista dal comma 3 dell'art. 43, ed in
virtu' della quale l'acquisizione del bene in favore  della  pubblica
amministrazione poteva realizzarsi anche per effetto  dell'intervento
di una pronuncia del  giudice  amministrativo,  volta  a  paralizzare
l'azione restitutoria proposta dal privato. 
    Non secondaria, nell'economia complessiva del nuovo istituto,  e'
infine la previsione (non presente nel precedente art.  43)  in  base
alla quale l'autorita' che emana il provvedimento di acquisizione  ne
da' comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante
trasmissione di copia integrale. 
    Si e', dunque, in presenza  di  un  istituto  diverso  da  quello
disciplinato dall'art. 43 del T.U. sulle espropriazioni. 
    Occorre  ora  esaminare  partitamente  le  censure  mosse   dalle
ordinanze  di  rimessione,  con  riferimento  ai  singoli   parametri
evocati. 
    6.6.- La prima censura attiene  al  supposto  contrasto  con  gli
artt. 3 e 24 Cost. 
    Il parametro di cui all'art. 3 Cost. viene invocato  dai  giudici
rimettenti sotto il duplice versante della violazione  del  principio
di eguaglianza - con profili involgenti anche la violazione dell'art.
24 Cost., sub specie di  compressione  del  diritto  di  difesa  -  e
dell'intrinseca irragionevolezza della norma impugnata. 
    La questione non e' fondata. 
    6.6.1.- Quanto al primo versante della questione cosi'  posta,  i
giudici rimettenti rilevano che la norma riserverebbe un  trattamento
privilegiato alla pubblica amministrazione rispetto a qualsiasi altro
soggetto dell'ordinamento che abbia commesso un fatto  illecito,  pur
in  mancanza  di  un  pregresso  effettivo  esercizio   di   funzione
amministrativa e, dunque, sulla base della sola qualifica  soggettiva
dell'autore della condotta. 
    Secondo   il   costante   orientamento    della    giurisprudenza
costituzionale, la violazione del principio di  eguaglianza  sussiste
solo qualora situazioni sostanzialmente identiche siano  disciplinate
in modo ingiustificatamente diverso, ma non quando alla diversita' di
disciplina corrispondano situazioni non  assimilabili  (ex  plurimis,
sentenza n. 155 del 2014; ordinanze n. 41  del  2009  e  n.  109  del
2004), sempre con il limite generale dei principi di proporzionalita'
e ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013). 
    Nel caso di specie, i giudici rimettenti omettono di  considerare
che,  se  pure  il  presupposto  di  applicazione  della  norma   sia
«l'indebita utilizzazione dell'area» - ossia  una  situazione  creata
dalla pubblica amministrazione in carenza di potere (per la  mancanza
di una preventiva dichiarazione di pubblica utilita' dell'opera o per
l'annullamento  o  la  perdita  di  efficacia  di  essa)  -  tuttavia
l'adozione dell'atto acquisitivo, con  effetti  non  retroattivi,  e'
certamente espressione di un potere  attribuito  appositamente  dalla
norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione. Con  l'adozione
di tale atto,  quest'ultima  riprende  a  muoversi  nell'alveo  della
legalita' amministrativa,  esercitando  una  funzione  amministrativa
ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione  degli  scopi
di pubblica utilita' perseguiti, sebbene emersi successivamente  alla
consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino. 
    Sotto questo  punto  di  vista,  trascurato  dai  rimettenti,  la
situazione appare  conforme  alla  giurisprudenza  di  questa  Corte,
secondo cui «[...] la P.A. ha una posizione  di  preminenza  in  base
alla Costituzione non in  quanto  soggetto,  ma  in  quanto  esercita
potesta' specificamente ed esclusivamente  attribuitele  nelle  forme
tipiche loro proprie. In altre parole, e' protetto non  il  soggetto,
ma la funzione, ed e' alle singole manifestazioni della P.A.  che  e'
assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici  ad
essa assegnati» (cosi' la sentenza n. 138 del 1981). 
    Di conseguenza, neppure potrebbe dirsi violato l'art.  24  Cost.,
come sostengono i rimettenti. Tale norma  costituzionale  e'  infatti
posta a presidio del diritto alla tutela  giurisdizionale  (ordinanza
n. 32 del 2013), assumendo cosi' una valenza  processuale  (ordinanze
n. 244 del 2009 e n. 180 del 2007). 
    In particolare, l'art. 24,  come  pure  il  successivo  art.  113
Cost.,  enunciano  il  principio  dell'effettivita'  del  diritto  di
difesa, il primo in ambito generale, il  secondo  con  riguardo  alla
tutela contro gli atti della pubblica  amministrazione,  ed  entrambi
tali parametri sono volti a presidiare l'adeguatezza degli  strumenti
processuali posti a disposizione dall'ordinamento per  la  tutela  in
giudizio dei diritti, operando esclusivamente sul  piano  processuale
(in tal senso, ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009). 
    Ne deriva che la violazione di tale parametro costituzionale puo'
considerarsi sussistente solo nei casi  di  «sostanziale  impedimento
all'esercizio del diritto di  azione  garantito  dall'art.  24  della
Costituzione» (sentenza n. 237 del 2007) o di  imposizione  di  oneri
tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa (ordinanza n.
213 del 2005) e non anche nel caso in  cui,  come  nella  specie,  la
norma censurata non elimini  affatto  la  possibilita'  di  usufruire
della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013).  Tale  tutela
viene bensi' parzialmente "conformata", in modo da garantire comunque
un serio ristoro  economico,  prevedendosi  l'esclusione  delle  sole
azioni restitutorie; ma  queste  ultime  non  sarebbero  congruamente
esperibili rispetto ad  un  comportamento  non  piu'  qualificato  in
termini di illecito. 
    In definitiva, il diritto alla tutela giurisdizionale, a presidio
del quale la norma costituzionale invocata e' posta (sentenza  n.  15
del 2012), non risulta violato dalla disposizione censurata. 
    6.6.2.- Sotto altro aspetto, sempre secondo i giudici rimettenti,
la violazione del principio di eguaglianza risulterebbe dal fatto che
l'indennizzo    previsto    dalla     norma     censurata     sarebbe
ingiustificatamente inferiore nel confronto con  l'espropriazione  in
via ordinaria dello stesso immobile. 
    In realta', la  norma  attribuisce  al  privato  proprietario  il
diritto ad ottenere il ristoro del danno  patrimoniale  nella  misura
pari  al  valore   venale   del   bene   (cosi'   come   accade   per
l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie), oltre ad una  somma
a titolo di danno non patrimoniale, quantificata in misura pari al 10
per cento del valore venale del bene. Si e' percio' in presenza di un
importo ulteriore, non previsto per l'espropriazione  condotta  nelle
forme ordinarie, determinato  direttamente  dalla  legge,  in  misura
certa e prevedibile. E deve sottolinearsi che il privato,  in  deroga
alle regole ordinarie, e' in  tal  caso  sollevato  dall'onere  della
relativa prova. 
    Quanto  all'indennita'  dovuta  per  il  periodo  di  occupazione
illegittima antecedente al provvedimento di acquisizione, e' vero che
essa viene determinata in base ad un parametro riduttivo  rispetto  a
quello cui e' commisurato l'analogo  indennizzo  per  la  (legittima)
occupazione temporanea dell'immobile, ma il terzo comma  della  norma
impugnata contiene una clausola di salvaguardia, in base  alla  quale
viene fatta salva la prova di una diversa entita' del danno. 
    6.6.3.- Sollecitano i giudici rimettenti un ulteriore  vaglio  di
conformita' al  principio  di  eguaglianza,  in  quanto  nel  sistema
delineato dalla norma censurata il bene privato detenuto sine  titulo
sarebbe sottoposto in  perpetuo  al  sacrificio  dell'espropriazione,
mentre nel procedimento ordinario di espropriazione l'esposizione  al
pericolo   dell'emanazione   del   provvedimento    acquisitivo    e'
temporalmente limitata all'efficacia della dichiarazione di  pubblica
utilita'. 
    La norma impugnata, in effetti, non  prevede  alcun  termine  per
l'esercizio del potere riconosciuto alla pubblica amministrazione. Ma
i  rimettenti  non  hanno  preso  in  considerazione  le   molteplici
soluzioni, elaborate dalla giurisprudenza amministrativa, per reagire
all'inerzia della pubblica amministrazione autrice  dell'illecito:  a
seconda degli orientamenti, infatti, talvolta e' stato posto a carico
del proprietario l'onere di esperire  il  procedimento  di  messa  in
mora,    per    poi    impugnare     l'eventuale     silenzio-rifiuto
dell'amministrazione; in altri casi, e' stato riconosciuto al giudice
amministrativo anche il potere di  assegnare  all'amministrazione  un
termine  per  scegliere  tra  l'adozione  del  provvedimento  di  cui
all'art. 42-bis e la restituzione dell'immobile. 
    E' dunque possibile scegliere - tra  le  molteplici  elaborate  -
un'interpretazione  idonea  ad  evitare  il  pregiudizio  consistente
nell'asserita esposizione in  perpetuo  al  potere  di  acquisizione,
senza in alcun modo forzare la lettera della disposizione (per tutte,
tra le piu' recenti, sentenza n. 235 del 2014). 
    6.6.4.-   I   rimettenti    lamentano,    infine,    l'intrinseca
irragionevolezza dell'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni,  con
presunta violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto questo profilo. 
    Secondo i giudici rimettenti, in primo luogo,  la  norma  avrebbe
trasformato  il  precedente  regime  risarcitorio  in  un  indennizzo
derivante da atto lecito, che di conseguenza  assumerebbe  natura  di
debito di valuta, non  automaticamente  soggetto  alla  rivalutazione
monetaria. 
    Lamentano,  inoltre,  i  rimettenti  che  il  ristoro   economico
assicurato  resterebbe  pur  sempre  inferiore  nel   confronto   con
l'espropriazione per le  vie  ordinarie  dello  stesso  immobile,  in
quanto: a) ove il  fondo  abbia  destinazione  edificatoria,  non  e'
riconosciuto l'aumento del 10 per cento di cui all'art. 37, comma  2,
del T.U. sulle espropriazioni, non richiamato dalla norma  impugnata;
b) se il terreno e' agricolo, non e' applicabile il  precedente  art.
40, comma 1, che impone di tener conto delle  colture  effettivamente
praticate  sul  fondo   e   «del   valore   dei   manufatti   edilizi
legittimamente   realizzati,   anche   in   relazione   all'esercizio
dell'azienda agricola». 
    E' noto che lo scrutinio di ragionevolezza, in  ambiti  connotati
da  un'ampia  discrezionalita'  legislativa,  impone  alla  Corte  di
verificare che il bilanciamento  degli  interessi  costituzionalmente
rilevanti non sia stato realizzato con modalita' tali da  determinare
il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva  e
pertanto incompatibile con il dettato costituzionale.  Tale  giudizio
deve    svolgersi    «attraverso    ponderazioni    relative     alla
proporzionalita'  dei  mezzi  prescelti  dal  legislatore  nella  sua
insindacabile discrezionalita' rispetto alle  esigenze  obiettive  da
soddisfare o alle finalita'  che  intende  perseguire,  tenuto  conto
delle circostanze  e  delle  limitazioni  concretamente  sussistenti»
(sentenza n. 1130 del 1988). 
    Orbene, alla luce di tali premesse, anche queste censure non sono
fondate. 
    Quanto a quella relativa alla mutata natura del ristoro, la norma
prevede bensi' la corresponsione di un indennizzo, ma determinato  in
misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento  al
momento del trasferimento  della  proprieta'  di  esso,  sicche'  non
vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione. 
    Quanto alle restanti censure, e' appena il caso  di  sottolineare
che l'aumento del 10 per cento previsto dal comma 2 dell'art. 37  del
T.U. sulle espropriazioni non si applica a  tutte  le  procedure,  ma
solo nei casi in cui sia stato  concluso  l'accordo  di  cessione  (o
quando  esso  non  sia  stato  concluso  per  fatto  non   imputabile
all'espropriato,  ovvero  perche'   a   questi   e'   stata   offerta
un'indennita' provvisoria che, attualizzata, risulta  inferiore  agli
otto decimi di quella determinata in via definitiva),  senza  contare
che ai destinatari del provvedimento di acquisizione spetta sempre un
surplus pari proprio al 10 per cento del valore venale  del  bene,  a
titolo di ristoro del danno non patrimoniale. 
    Va,  ancora,  considerato  che  l'inapplicabilita'  del  comma  1
dell'art. 37 del T.U. sulle espropriazioni (pure non richiamato dalla
norma censurata per i terreni a vocazione edilizia) esclude anche  la
riduzione del 25 per cento dell'indennizzo - prevista invece  per  le
espropriazioni legittime - imposta quando la vicenda  e'  finalizzata
ad attuare interventi di riforma economico-sociale. 
    Infine, i giudici rimettenti - basandosi sul solo dato  letterale
e trascurando una visione di sistema  -  non  hanno  sperimentato  la
praticabilita'  di  un'interpretazione   che,   facendo   riferimento
genericamente al «valore  venale  del  bene»,  consenta  di  ritenere
riconducibili ad esso anche le somme corrispondenti al  valore  delle
colture effettivamente praticate sul fondo e al valore dei  manufatti
edilizi legittimamente realizzati, anche in  relazione  all'esercizio
dell'azienda  agricola,  previsti  dall'art.  40   del   T.U.   sulle
espropriazioni. 
    La stessa obiezione puo' essere mossa alla censura secondo cui la
norma  impugnata  non  contemplerebbe  l'ipotesi  di   espropriazione
parziale e non consentirebbe, per questo motivo, di tener conto della
diminuzione di valore del  fondo  residuo,  invece  indennizzata  fin
dalla legge 25 giugno 1865,  n.  2359,  recante  «Espropriazioni  per
causa di utilita' pubblica» (art. 40, ora trasfuso nell'art.  33  del
T.U. sulle espropriazioni). 
    6.7.- I giudici rimettenti dubitano  della  compatibilita'  della
norma censurata con l'art. 42 Cost. 
    In particolare, ritengono che l'art. 42 Cost. - disciplinando  la
potesta'   espropriativa   come   avente    carattere    eccezionale,
esercitabile solo nei casi in cui sia la legge a prevederla  e  nella
necessaria ricorrenza di «motivi di interesse generale» - imponga che
questi ultimi siano predeterminati dall'amministrazione  ed  emergano
da un apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del  diritto
di  proprieta'.  L'emersione  del  pubblico   interesse,   culminante
nell'adozione della  dichiarazione  di  pubblica  utilita',  dovrebbe
percio' risultare da una fase  preliminare,  autonoma  e  strumentale
rispetto al successivo procedimento espropriativo in  senso  stretto,
cioe' in un momento in cui sia  possibile  un'effettiva  comparazione
tra  l'interesse  pubblico  e  l'interesse  privato,   al   fine   di
evidenziare la scelta migliore, quando eventuali ipotesi  alternative
all'espropriazione non siano ostacolate da  una  situazione  fattuale
ormai irreversibilmente compromessa. 
    La questione, cosi' posta, non  e'  fondata,  nei  sensi  qui  di
seguito indicati. 
    Da una parte, la norma censurata delinea pur sempre una procedura
espropriativa, che in quanto tale  non  puo'  non  presentare  alcune
caratteristiche essenziali. Ma non  si  deve  trascurare,  dall'altra
parte,  che  si  tratta  di  una  procedura  "eccezionale",  che   ha
necessariamente da confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a
risolvere, in  cui  la  previa  dichiarazione  di  pubblica  utilita'
dell'opera sarebbe  distonica  rispetto  ad  un'opera  pubblica  gia'
realizzata. La norma  censurata  presuppone  evidentemente  una  gia'
avvenuta modifica dell'immobile, utilizzato  per  scopi  di  pubblica
utilita': da questo punto di vista, non e'  congrua  la  pretesa  che
l'adozione del provvedimento di acquisizione consegua all'esito di un
procedimento scandito in fasi logicamente e  temporalmente  distinte,
esattamente come nella procedura espropriativa condotta  nelle  forme
ordinarie. 
    Si e', invece, in presenza di una  procedura  espropriativa  che,
sebbene  necessariamente  "semplificata"  nelle  forme,  si  presenta
"complessa" negli esiti, prevedendosi l'adozione di un  provvedimento
«specificamente motivato in riferimento alle attuali  ed  eccezionali
ragioni di  interesse  pubblico  che  ne  giustificano  l'emanazione,
valutate comparativamente con i  contrapposti  interessi  privati  ed
evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione». 
    L'adozione del provvedimento acquisitivo presuppone, appunto, una
valutazione comparata degli interessi in conflitto,  qualitativamente
diversa da quella tipicamente  effettuata  nel  normale  procedimento
espropriativo. E l'assenza di  ragionevoli  alternative  all'adozione
del provvedimento  acquisitivo  va  intesa  in  senso  pregnante,  in
stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico
richiamate  dalla  disposizione   in   esame,   da   considerare   in
comparazione con gli  interessi  del  privato  proprietario.  Non  si
tratta, soltanto, di valutare genericamente una eccessiva difficolta'
od onerosita' delle alternative a disposizione  dell'amministrazione,
secondo un principio gia' previsto in generale  dall'art.  2058  cod.
civ.  Per  risultare  conforme  a  Costituzione,   l'ampiezza   della
discrezionalita' amministrativa va delimitata alla luce  dell'obbligo
giuridico di far venir meno l'occupazione sine titulo e  di  adeguare
la situazione di fatto a quella  di  diritto,  la  quale  ultima  non
risulta mutata neppure a seguito di trasformazione irreversibile  del
fondo. Ne deriva che l'adozione dell'atto acquisitivo  e'  consentita
esclusivamente  allorche'  costituisca   l'extrema   ratio   per   la
soddisfazione  di  "attuali  ed  eccezionali  ragioni  di   interesse
pubblico",  come  recita  lo  stesso  art.  42-bis  del  T.U.   delle
espropriazioni. Dunque, solo quando siano stati escluse, all'esito di
una effettiva comparazione  con  i  contrapposti  interessi  privati,
altre opzioni, compresa  la  cessione  volontaria  mediante  atto  di
compravendita, e non sia ragionevolmente possibile  la  restituzione,
totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato
illecitamente inciso nel suo diritto di proprieta'. 
    Soltanto sotto questa luce tornano ad essere valorizzati - pur in
assenza di una preventiva dichiarazione di  pubblica  utilita'  o  in
caso di suo annullamento o  perdita  di  efficacia  -  i  «motivi  di
interesse generale» presupposti dall'art. 42 Cost., secondo il  quale
il diritto di proprieta' puo' essere compresso «sol quando  lo  esiga
il limite della "funzione sociale" [...]: funzione sociale, la  quale
esprime, accanto alla somma dei poteri attribuiti al proprietario nel
suo  interesse,  il  dovere  di  partecipare  alla  soddisfazione  di
interessi generali, nel  che  si  sostanzia  la  nozione  stessa  del
diritto di proprieta' come viene modernamente intesa e come e'  stata
recepita dalla nostra Costituzione» (sentenza n. 108 del 1986). 
    Soltanto adottando questa prospettiva ermeneutica, l'attribuzione
del potere  ablatorio  (in  questa  forma  eccezionale)  puo'  essere
ritenuta legittima, sulla scia  della  giurisprudenza  costituzionale
che impone alla legge  ordinaria  di  indicare  «elementi  e  criteri
idonei    a    delimitare     chiaramente     la     discrezionalita'
dell'Amministrazione» (sentenza n. 38 del 1966). 
    6.8.- Si lamenta, inoltre,  dai  giudici  rimettenti  che  l'art.
42-bis del T.U. sulle  espropriazioni  violerebbe  il  principio  del
giusto procedimento, desumibile dall'art. 97 Cost.  Cio'  perche'  il
provvedimento  acquisitivo  consentirebbe  il   trasferimento   della
proprieta' in assenza di una sequenza procedimentale partecipata  dal
privato. Il principio di legalita' dell'azione amministrativa sarebbe
leso anche sotto il profilo della tutela giurisdizionale effettiva di
cui all'art. 113 Cost. 
    Anche tale questione non e' fondata. 
    Bisogna, innanzitutto, ricordare che  il  principio  del  "giusto
procedimento" (in virtu' del  quale  i  soggetti  privati  dovrebbero
poter esporre le proprie ragioni, e in particolare prima che  vengano
adottati provvedimenti limitativi dei loro diritti), non  puo'  dirsi
assistito in assoluto da garanzia costituzionale (sentenze n. 312, n.
210 e n. 57 del 1995, n. 103 del 1993 e n. 23 del 1978; ordinanza  n.
503 del 1987). 
    Questa constatazione non sminuisce  certo  la  portata  che  tale
principio ha assunto nel nostro ordinamento, specie dopo l'entrata in
vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in  materia  di
procedimento amministrativo e di  diritto  di  accesso  ai  documenti
amministrativi), e successive  modifiche,  in  base  alla  quale  «il
destinatario  dell'atto  deve   essere   informato   dell'avvio   del
procedimento, avere la possibilita' di intervenire a propria  difesa,
ottenere un provvedimento motivato, adire un  giudice»  (sentenza  n.
104 del 2007). 
    Del resto, proprio in materia espropriativa, questa Corte  ha  da
tempo affermato che i privati interessati  devono  essere  messi  «in
condizioni di esporre le proprie ragioni sia  a  tutela  del  proprio
interesse, sia a titolo di  collaborazione  nell'interesse  pubblico»
(sentenza n. 13 del 1962; sentenze n. 344 del 1990, n. 143 del 1989 e
n. 151 del 1986). 
    Per parte sua, il provvedimento disciplinato dalla norma in esame
non  potrebbe,   innanzitutto,   sottrarsi   all'applicazione   delle
ricordate,  generali,  regole  di  partecipazione  del   privato   al
procedimento amministrativo, come,  infatti,  e'  riconosciuto  dalla
giurisprudenza amministrativa, che impone la previa comunicazione  di
avvio del procedimento. 
    Ma, soprattutto, in virtu'  della  effettiva  comparazione  degli
interessi contrapposti richiesta dalla norma in questione, il privato
sara' ulteriormente sempre posto in grado di  accentuare  il  proprio
ruolo partecipativo, eventualmente facendo valere  l'esistenza  delle
«ragionevoli alternative» all'adozione dell'annunciato  provvedimento
acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene. 
    6.9.- I giudici rimettenti dubitano,  ancora,  della  conformita'
della norma impugnata all'art. 117, primo comma, Cost., in quanto  la
norma sarebbe  in  contrasto  con  i  principi  della  CEDU,  secondo
l'interpretazione fornitane dalla  Corte  di  Strasburgo,  sotto  due
distinti profili. 
    In primo luogo, l'art. 42-bis violerebbe la norma  interposta  di
cui all'art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla  CEDU,  rispetto
al quale il fenomeno delle cosiddette "espropriazioni  indirette"  si
porrebbe «in radicale contrasto». 
    In secondo luogo, l'art. 42-bis violerebbe la norma interposta di
cui all'art. 6 CEDU, avendo la Corte  EDU  ripetutamente  considerato
lecita l'applicazione dello ius superveniens in cause  gia'  pendenti
soltanto in presenza di «ragioni imperative di interesse generale». 
    La norma risulterebbe anche in contrasto con l'art. 111, primo  e
secondo comma, Cost., nella  parte  in  cui,  disponendo  la  propria
applicabilita' ai giudizi in corso, violerebbe i principi del  giusto
processo, con particolare  riferimento  alla  condizione  di  parita'
delle parti davanti al giudice. 
    6.9.1.- Le doglianze possono essere esaminate congiuntamente, per
concludere  nel  senso  della  loro  infondatezza,  nei  sensi  della
motivazione che segue, per  le  ragioni  gia'  esposte,  sia  pur  in
relazione  al  diverso  parametro  di  cui  all'art.  42  Cost.,   al
precedente punto 6.7. 
    E' vero, infatti, che la norma trova applicazione anche ai  fatti
anteriori alla sua entrata in vigore,  per  i  quali  siano  pendenti
processi,  ed  anche  se  vi  sia  gia'  stato  un  provvedimento  di
acquisizione successivamente ritirato o annullato. Ma e'  anche  vero
che questa previsione risponde alla stessa esigenza primaria  sottesa
all'introduzione del nuovo istituto (cosi' come del  precedente  art.
43):  quella  di  eliminare   definitivamente   il   fenomeno   delle
"espropriazioni indirette", che aveva fatto emergere  quella  che  la
Corte EDU (nella sentenza 6 marzo 2007, Scordino contro Italia) aveva
definito una "defaillance structurelle", in contrasto  con  l'art.  1
del Primo Protocollo allegato alla CEDU. 
    Ne' si deve trascurare che  con  l'art.  42-bis  del  T.U.  sulle
espropriazioni - come peraltro gia' accadeva con il  precedente  art.
43  -  l'acquisto  della   proprieta'   da   parte   della   pubblica
amministrazione non  e'  piu'  legato  ad  un  accertamento  in  sede
giudiziale, connotato, come  tale,  da  margini  di  imprevedibilita'
criticamente evidenziati dalla  Corte  EDU.  Soprattutto,  come  gia'
rilevato (supra punto 6.5), rispetto al precedente  art.  43,  l'art.
42-bis contiene significative innovazioni, che rendono il  meccanismo
compatibile con la giurisprudenza  della  Corte  EDU  in  materia  di
espropriazioni cosiddette indirette, ed anzi rispondente all'esigenza
di trovare una  soluzione  definitiva  ed  equilibrata  al  fenomeno,
attraverso l'adozione di  un  provvedimento  formale  della  pubblica
amministrazione. 
    Le  differenze  rispetto  al  precedente  meccanismo  acquisitivo
consistono nel carattere  non  retroattivo  dell'acquisto  (cio'  che
impedisce l'utilizzo dell'istituto in presenza di  un  giudicato  che
abbia gia' disposto la  restituzione  del  bene  al  privato),  nella
necessaria rinnovazione della valutazione di attualita' e  prevalenza
dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione  e,  infine,  nello
stringente  obbligo  motivazionale  che   circonda   l'adozione   del
provvedimento. 
    Anche alla luce dell'asserita violazione degli artt. 111, primo e
secondo  comma,  e  117,   primo   comma,   Cost.,   questo   obbligo
motivazionale, in base alla significativa previsione  normativa,  che
richiede «l'assenza di ragionevoli alternative  alla  sua  adozione»,
deve essere interpretato, come gia' chiarito al punto 6.7., nel senso
che l'adozione dell'atto e' consentita - una volta escluse, all'esito
di una effettiva comparazione con i contrapposti  interessi  privati,
altre opzioni, compresa  la  cessione  volontaria  mediante  atto  di
compravendita - solo quando  non  sia  ragionevolmente  possibile  la
restituzione, totale  o  parziale,  del  bene,  previa  riduzione  in
pristino,  al  privato  illecitamente  inciso  nel  suo  diritto   di
proprieta'. 
    Solo se cosi' interpretata la norma consente infatti: 
    - di riconoscere, per le situazioni prodottesi  prima  della  sua
entrata in vigore, l'esistenza di  «imperativi  motivi  di  interesse
generale» legittimanti l'applicazione dello ius superveniens in cause
gia' pendenti. Tali motivi consistono  nell'ineludibile  esigenza  di
eliminare una situazione di deficit strutturale, stigmatizzata  dalla
Corte EDU; 
    - di prefigurare, per le situazioni successive alla  sua  entrata
in vigore, l'applicazione della norma come extrema ratio,  escludendo
che essa possa costituire una semplice alternativa ad  una  procedura
espropriativa condotta «in  buona  e  debita  forma»,  come  imposto,
ancora una volta, dalla giurisprudenza della Corte EDU; 
    - di considerare rispettata la  condizione,  posta  dalla  stessa
Corte EDU nella citata sentenza Scordino del 6  marzo  2007,  secondo
cui  lo  Stato  italiano  avrebbe  dovuto  «sopprimere  gli  ostacoli
giuridici   che   impediscono    la    restituzione    del    terreno
sistematicamente e per principio»; 
    - di impedire alla pubblica amministrazione - ancora una volta in
coerenza con le raccomandazioni della Corte EDU - di trarre vantaggio
dalla situazione di fatto da essa stessa determinata; 
    - di escludere il rischio  di  arbitrarieta'  o  imprevedibilita'
delle decisioni amministrative in danno degli interessati. 
    Va, infine, valorizzata nella giusta  misura  la  previsione  del
comma 7 dell'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni, in base  alla
quale «[l]'autorita' che emana il provvedimento di acquisizione [...]
ne da' comunicazione, entro trenta giorni,  alla  Corte  dei  conti».
Questo richiamo alle possibili conseguenze per i funzionari che,  nel
corso della vicenda espropriativa, si siano discostati  dalle  regole
di diligenza  previste  dall'ordinamento  risponde,  infatti,  ad  un
invito della stessa Corte EDU (sempre sentenza 6 marzo 2007, Scordino
contro Italia), secondo cui «lo Stato convenuto dovrebbe  scoraggiare
le pratiche non conformi alle norme degli espropri in buona e  dovuta
forma, adottando misure  dissuasive  e  cercando  di  individuare  le
responsabilita' degli autori di tali pratiche». 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)   dichiara   inammissibile,   nel   presente    giudizio    di
costituzionalita', l'intervento di D.G.G.; 
    2) dichiara non fondata, nei sensi  di  cui  in  motivazione,  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 42-bis del  d.P.R.
8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni  legislative  e
regolamentari in materia di espropriazione per  pubblica  utilita'  -
Testo A), sollevata, in riferimento  agli  artt.  42,  111,  primo  e
secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di
cassazione, sezioni  unite  civili,  con  le  ordinanze  indicate  in
epigrafe; 
    3)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  42-bis  del  d.P.R.  n.  327   del   2001,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97  e  113  Cost.,  dalla
Corte di cassazione, sezioni unite civili, con le ordinanze  indicate
in epigrafe; 
    4)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale  dell'art.  42-bis  del  d.P.R.  n.  327   del   2001,
sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24,  42,  97,  111,  primo  e
secondo  comma,  113  e  117,  primo  comma,  Cost.,  dal   Tribunale
amministrativo regionale  per  il  Lazio,  sezione  seconda,  con  le
ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 marzo 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI 
 
 
                                                            Allegato: 
                        Ordinanza letta all'udienza del 10 marzo 2015 
 
                              ORDINANZA 
 
    Rilevato che nel giudizio promosso  dalla  Corte  di  cassazione,
sezioni unite civili, con ordinanza n. 442 del 13 gennaio 2014  (r.o.
n. 89 del 2014), e' intervenuta SEP - Societa' Edilizia  Pineto  Spa,
con atto depositato in data  23  giugno  2014,  specificando  di  non
essere parte del giudizio a quo, ma  di  altro  giudizio  in  cui  si
controverte circa la legittimita'  di  una  procedura  espropriativa,
suscettibile  di  essere  definita  con  l'applicazione  della  norma
impugnata; 
    che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,  possono
partecipare  al  giudizio  in   via   incidentale   di   legittimita'
costituzionale le sole  parti  del  giudizio  principale  e  i  terzi
portatori di un interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  in  giudizio  e   non   semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di
censura (tra le tante, ordinanza n. 240 del 2014, sentenza n. 162 del
2014 e relativa  ordinanza  letta  all'udienza  dell'8  aprile  2014,
ordinanza n. 156 del 2013, ordinanza  n.  150  del  2012  e  relativa
ordinanza letta all'udienza del 22 maggio 2012, sentenza n.  293  del
2011, sentenza n. 118 del 2011, sentenza n. 138 del 2010  e  relativa
ordinanza letta all'udienza del 23 marzo 2010); 
    che, in questo caso, il rapporto sostanziale dedotto in causa  e'
del tutto differente rispetto a quello oggetto  dei  procedimenti  da
cui e' scaturito il giudizio costituzionale r.o. n. 89 del 2014,  pur
essendo, secondo la prospettazione  dell'interveniente,  suscettibile
di essere regolato dalla norma oggetto di censura; 
    che l'ammissibilita' d'interventi ad opera di terzi, titolari  di
interessi soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale,
contrasterebbe  con  il  carattere  incidentale   del   giudizio   di
legittimita' costituzionale, in quanto l'accesso delle parti al detto
giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e  della
non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo
(per tutte, ordinanza n. 32 del 2013, sentenze n. 119 del 2012  e  n.
49 del 2011). 
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara    inammissibile,    nel    presente     giudizio     di
costituzionalita', l'intervento di SEP  -  Societa'  Edilizia  Pineto
Spa. 
 
               F.to: Alessandro Criscuolo, Presidente