N. 184 SENTENZA 8 - 23 luglio 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Equa riparazione in caso di violazione del  termine
  di ragionevole durata - Determinazione  del  momento  iniziale  del
  processo - Computabilita' dei periodi di sospensione. 
- Legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in  caso
  di violazione del  termine  ragionevole  del  processo  e  modifica
  dell'articolo 375 del codice di procedura civile),  art.  2,  commi
  2-bis e 2-quater, aggiunti  dall'art.  55,  comma  1,  lettera  a),
  numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure  urgenti
  per  la  crescita  del  Paese),  convertito,   con   modificazioni,
  dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134. 
-   
(GU n.30 del 29-7-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
  Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita'  costituzionale  dell'art.  2,  commi
2-bis e 2-quater, della legge 24 marzo 2001,  n.  89  (Previsione  di
equa riparazione in caso di violazione del  termine  ragionevole  del
processo  e  modifica  dell'articolo  375  del  codice  di  procedura
civile), aggiunti dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero  2),  del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita
del Paese), convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d'appello  di
Firenze, con ordinanza del 1° aprile 2014, e dalla Corte d'appello di
Catanzaro, con ordinanza del 10 marzo 2014, rispettivamente  iscritte
ai nn. 180 e 248 del  registro  ordinanze  2014  e  pubblicate  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  45,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2014 e n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio dell'8  luglio  2015  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 1° aprile 2014 (r.o. n. 180 del  2014),  la
Corte d'appello di Firenze  ha  proposto  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 2, commi 2-bis e 2-quater,  della  legge  24
marzo 2001,  n.  89  (Previsione  di  equa  riparazione  in  caso  di
violazione  del  termine  ragionevole   del   processo   e   modifica
dell'articolo 375 del codice di  procedura  civile),  in  riferimento
agli  artt.  3,  111  e  117,  primo   comma,   della   Costituzione,
quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(d'ora in  avanti  «CEDU»),  firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950,
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Il rimettente premette di dover decidere un  ricorso,  depositato
nel 2013, con cui talune persone hanno proposto opposizione contro un
decreto che ha rigettato una domanda di  equa  riparazione  ai  sensi
dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001. La domanda si  riferiva  alla
dedotta inosservanza del termine ragionevole  di  conclusione  di  un
processo penale nei confronti dei ricorrenti, che era stato  definito
con sentenza della Corte di cassazione del 28 gennaio 2013. 
    Il giudice a quo osserva che la decisione  di  rigetto  e'  stata
assunta in  applicazione  delle  disposizioni  censurate,  introdotte
dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero 2),  del  decreto-legge  22
giugno 2012, n. 83  (Misure  urgenti  per  la  crescita  del  Paese),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1,  della  legge  7
agosto 2012, n. 134. 
    In particolare, la  complessiva  durata  del  processo  e'  stata
determinata in otto anni e sei mesi, escludendo dal calcolo  la  fase
delle  indagini  preliminari  di  «oltre  sei  anni  e   mezzo»,   in
applicazione dell'art. 2, comma 2-bis, della legge impugnata, in base
al quale il «processo penale si considera iniziato  con  l'assunzione
della qualita' di imputato, di parte civile o di responsabile civile,
ovvero quando l'indagato ha avuto legale  conoscenza  della  chiusura
delle indagini preliminari». 
    E' stato altresi' escluso il periodo,  di  un  anno  e  due  mesi
circa, di  sospensione  del  processo  di  primo  grado  dovuta  alla
proposizione di una  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
applicazione  dell'art.  2,  comma  2-quater,  impugnato,  il   quale
stabilisce che «Ai fini del computo non si tiene conto del  tempo  in
cui il processo e' sospeso». 
    Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni  di
inammissibilita' del ricorso sollevate dall'Avvocatura generale dello
Stato, e dopo avere escluso,  come  sollecitavano  i  ricorrenti,  di
poter disapplicare le disposizioni censurate in  forza  dell'adesione
dell'Unione europea alla CEDU,  osserva  che  l'art.  6  della  CEDU,
secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo,  imporrebbe  di   calcolare   la   fase   delle   indagini
preliminari, ai  fini  dell'osservanza  dei  termini  di  ragionevole
durata  del  processo  penale.  Quest'ultimo  dovrebbe   considerarsi
iniziato, a tal fine, con il compimento di  atti  che  comportino  la
partecipazione dell'indagato o del suo difensore al procedimento.  La
Corte d'appello aggiunge che, nel caso di specie,  taluni  ricorrenti
hanno ricevuto l'informazione di garanzia il 15 febbraio 1994, mentre
altri sono stati soggetti a custodia cautelare  fin  dal  5  novembre
1994. 
    Escludendo dal computo il tempo che ha preceduto  il  momento  in
cui gli imputati hanno avuto legale conoscenza della  chiusura  delle
indagini  preliminari,  la  disposizione  censurata  si  porrebbe  in
contrasto con gli artt. 111 e 117, primo comma,  Cost.,  quest'ultimo
in relazione all'art. 6  della  CEDU.  La  conseguente  questione  di
costituzionalita' sarebbe rilevante, in  ragione  dell'applicabilita'
della norma impugnata,  e  comunque  tenuto  conto  della  «rilevanza
concreta della durata delle indagini preliminari (oltre  sei  anni  e
mezzo) nella complessiva durata del procedimento» penale. 
    Quanto alla sospensione  del  processo  di  primo  grado  dal  28
gennaio 2006 al 21 marzo 2007, il rimettente ribadisce  la  rilevanza
delle questioni di costituzionalita' che investono  l'art.  2,  comma
2-quater, della legge n. 89 del 2001, in quanto norma applicabile,  e
«anche per la rilevanza  concreta  della  durata  della  sospensione»
nella «complessiva durata del procedimento di primo grado». 
    La disposizione violerebbe gli artt.  111  e  117,  primo  comma,
Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della  CEDU,  nonche'  il
principio di uguaglianza (art. 3  Cost.),  perche'  escluderebbe  dal
calcolo del termine di ragionevole durata del processo i  periodi  di
sospensione, «senza distinguere se i motivi della sospensione siano o
meno riconducibili alle parti ricorrenti per l'equa riparazione». Tra
le cause di sospensione non riconducibili alle parti  vi  sarebbe  la
proposizione della  questione  di  legittimita'  costituzionale  che,
«seppure fosse stata sollecitata dalle parti ricorrenti  e'  comunque
ovviamente un provvedimento giurisdizionale del giudice a quo». 
    Posto che questi dubbi di costituzionalita' non sono  risolvibili
in  via  interpretativa,  il  rimettente  ha  sollevato  le   odierne
questioni di legittimita' costituzionale. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione relativa all'art. 2, comma 2-quater
(recte: comma  2-bis),  impugnato,  sia  dichiarata  inammissibile  e
comunque non fondata, e che altrettanto non fondata sia  reputata  la
questione relativa all'art. 2, comma 2-quater. 
    L'Avvocatura generale dello Stato  da'  atto  che  in  base  alla
giurisprudenza europea il termine di ragionevole durata del  processo
penale decorre da  quando  e'  formulata  un'«accusa»  nei  confronti
dell'indagato,    e,    «potenzialmente,    quindi,    anche    prima
dell'assunzione da parte del medesimo della qualita'  di  imputato  o
prima  della  legale  conoscenza  della   chiusura   delle   indagini
preliminari». 
    Tuttavia, l'art. 2, comma 2-bis, impugnato,  avrebbe  appunto  la
funzione  di  stabilire   «un   momento   tipico   cui   riconnettere
l'individuazione del dies a quo ai fini  della  determinazione  della
ragionevole durata del processo», che si giustificherebbe in  ragione
della «fluidita' della posizione dell'indagato»  fino  a  quando  non
siano chiuse le indagini preliminari, o comunque sia stata esercitata
l'azione penale. Solo da allora, l'«ipotesi  accusatoria»  diverrebbe
un'«accusa» in senso proprio. 
    La questione sarebbe in ogni caso priva di rilevanza, perche'  il
rimettente, diversamente dal giudice di prima  istanza,  non  avrebbe
considerato che la complessita' degli accertamenti compiuti  in  fase
di  indagini  preliminari  sarebbe  stata  tale  da  giustificare  il
superamento del termine di due anni a tal fine previsto dalla  legge,
giungendo a durare oltre quattro anni. 
    Quanto all'art. 2, comma 2-quater,  la  mancata  valutazione  del
periodo di sospensione del processo sarebbe  giustificata  dal  fatto
che «la sospensione comunque opera nell'interesse dell'imputato». 
    La norma impugnata a buon titolo non avrebbe percio'  distinto  i
casi in cui la sospensione e' stata chiesta dall'imputato  da  quelli
in cui essa viene disposta d'ufficio dal giudice. 
    Nel caso di specie, poi, andrebbe considerato che la  sospensione
conseguente  alla  proposizione  di  una  questione  di  legittimita'
costituzionale  verrebbe  in  ogni  modo  a  soddisfare   l'interesse
dell'imputato, e comunque  renderebbe  ragionevole  un  prolungamento
della durata del processo. 
    Infine, la questione di  costituzionalita'  relativa  all'art.  3
Cost. sarebbe non fondata, perche' il principio di  uguaglianza  «non
puo' trovare applicazione diacronica con riferimento alla successione
di norme». 
    3.- Con ordinanza del 10 marzo 2014 (r.o. n. 248  del  2014),  la
Corte d'appello di Catanzaro ha sollevato questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del  2001,
in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione
all'art. 6 della CEDU. 
    Il giudice a quo e' investito dell'opposizione avverso il decreto
monocratico con cui e' stata rigettata la domanda della parte diretta
ad ottenere un'equa riparazione, conseguente all'eccessiva durata  di
un processo penale. 
    Il giudice monocratico  ha  stimato  la  complessiva  durata  del
processo in quattro anni  e  cinque  mesi,  assumendo  che,  ai  fini
dell'equa riparazione, esso sia stato avviato  con  la  richiesta  di
rinvio a giudizio e si sia concluso al momento in cui e' maturata  la
prescrizione dei reati addebitati, nel giugno del 2011.  Tale  durata
e' stata reputata non eccessiva. 
    La  Corte  d'appello  osserva  che  il   termine   iniziale   del
procedimento e' stato determinato in applicazione dell'art. 2,  comma
2-bis, impugnato, nel testo introdotto dall'art. 55 del  d.l.  n.  83
del 2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie. 
    Su eccezione di  parte,  il  rimettente  reputa  tale  previsione
normativa di dubbia costituzionalita' con riferimento  all'art.  117,
primo comma, Cost., da porsi in relazione all'art. 6 della  CEDU.  La
giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  infatti,
avrebbe ripetutamente  e  costantemente  affermato  che  il  processo
penale,  ai  fini  dell'indennizzo,  si  considera  avviato  con   la
«contestazione dell'infrazione penale». Percio' nel caso di specie si
sarebbe dovuto individuare  il  termine  iniziale  del  processo  nel
giorno in cui l'indagato e' stato sottoposto ad una misura cautelare. 
    Qualora la questione fosse accolta, la durata del processo penale
andrebbe stimata in sei anni e quattro mesi, e  non  sarebbe  affatto
giustificata  neppure  alla  luce  degli  «aspetti  di   complessita'
connotanti il caso in esame». 
    4.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, nel
merito, non fondata. 
    In punto di ammissibilita', la difesa dello Stato rileva  che  il
processo si e' concluso con la prescrizione dei  reati  addebitati  e
che l'art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della  legge  impugnata,
nega l'indennizzo nel caso di estinzione del  reato  per  intervenuta
prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte. 
    Il rimettente, ai fini della motivazione sulla rilevanza, avrebbe
percio' dovuto verificare se si fosse realizzata quest'ultima ipotesi
normativa, la quale comporterebbe il rigetto della domanda,  privando
con cio' di rilevanza la questione. 
    Nel merito, l'Avvocatura generale dello  Stato  sostiene  che  la
norma impugnata, tenendo in conto l'art. 6 della CEDU,  individua  un
«momento tipico» da cui calcolare la durata del  processo  penale,  e
che solo da tale momento, in accordo con la normativa  europea,  puo'
dirsi «realmente configurata e cristallizzata un'accusa». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di Firenze  (r.o.  n.  180  del  2014)  ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 2, commi
2-bis e 2-quater, della legge 24 marzo 2001,  n.  89  (Previsione  di
equa riparazione in caso di violazione del  termine  ragionevole  del
processo  e  modifica  dell'articolo  375  del  codice  di  procedura
civile), in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo  comma,  della
Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il  4  novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    Il  rimettente  giudica  dell'opposizione  proposta  avverso   il
decreto  con  cui  il  giudice  monocratico,  applicando   le   norme
impugnate, ha rigettato una domanda di equa  riparazione  conseguente
alla durata di un processo penale (stimata in otto anni e  sei  mesi,
per tre gradi di giudizio), che i ricorrenti ritengono  irragionevole
e pertanto lesiva del diritto garantito dall'art. 2 della legge n. 89
del 2001. 
    Il giudice a quo premette che, al fine  di  calcolare  la  durata
complessiva del  processo,  rilevano  entrambe  le  norme  impugnate,
introdotte  dall'art.  55,  comma  1,  lettera  a),  numero  2),  del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per  la  crescita
del Paese), convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 7 agosto 2012, n. 134,  e  applicabili  ratione  temporis
alla fattispecie. 
    L'art. 2, comma 2-bis,  stabilisce  che  il  processo  penale  si
considera iniziato con l'assunzione della qualita' di imputato, parte
civile o di responsabile civile, ovvero quando  l'indagato  ha  avuto
legale conoscenza  della  chiusura  delle  indagini  preliminari.  Ne
consegue che nel  calcolo  la  legge  vieta  di  includere  il  tempo
occupato dallo svolgimento delle indagini preliminari, che  nel  caso
del processo principale si sono protratte per circa sei anni. 
    L'art. 2, comma 2-quater, prevede, per quanto ora interessa,  che
ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui  il  processo
e' sospeso. Il rimettente precisa che il  giudizio  a  quo  e'  stato
sospeso per un anno e due mesi, in ragione della proposizione di  una
questione di legittimita' costituzionale. 
    Una volta chiarita la necessita' di applicare le norme impugnate,
la Corte d'appello rimettente reputa che l'art. 2, comma  2-bis,  sia
lesivo degli artt. 111 e 117, primo  comma,  Cost.,  quest'ultimo  in
relazione  all'art  6  della  CEDU,  poiche'  la  giurisprudenza   di
Strasburgo avrebbe reiteratamente riconosciuto  il  diritto  all'equa
riparazione anche per la fase delle indagini  preliminari.  Parimenti
dovrebbe ritenersi che l'art. 2, comma 2-quater, e' illegittimo nella
parte in cui esclude dal calcolo la durata della  sospensione  «senza
distinguere se i motivi della sospensione siano o meno  riconducibili
alle parti». In tale ultimo caso, sarebbe leso anche il principio  di
uguaglianza enunciato dall'art. 3 Cost. 
    2.- La Corte d'appello  di  Catanzaro  (r.o.  n.  248  del  2014)
dubita, a sua volta, delle legittimita' costituzionale  dell'art.  2,
comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., con riguardo all'art. 6 della CEDU. 
    Il rimettente si trova a giudicare  dell'opposizione  al  decreto
con cui il giudice monocratico, applicando  le  norme  impugnate,  ha
negato la riparazione per i danni subiti dal ricorrente a causa della
durata di un processo penale, calcolata in quattro anni e cinque mesi
per un grado di giudizio. 
    Anche in questo caso il giudice a quo e' tenuto ratione  temporis
ad applicare la norma impugnata e quindi  ad  escludere  dal  calcolo
della  durata  complessiva  del  processo  la  fase  delle   indagini
preliminari (computando la quale, invece, il processo valicherebbe il
limite di sei anni). Tale regola pare al rimettente in contrasto  con
quella opposta che si desumerebbe  dalla  consolidata  giurisprudenza
europea, e di conseguenza lesiva dell'art. 117, primo  comma,  Cost.,
in relazione all'art. 6 della CEDU. 
    3.- I giudizi vertono, in parte, sulla  medesima  disposizione  e
pongono questioni analoghe. Essi vanno percio' riuniti,  ai  fini  di
una decisione congiunta. 
    4.-   L'Avvocatura   generale    dello    Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' per difetto di motivazione sulla  rilevanza  delle
questioni relative all'art. 2, comma 2-bis, impugnato, osservando che
i rimettenti non avrebbero valutato se il superamento del termine  di
ragionevole durata del processo, ove fosse computata  anche  la  fase
preliminare  all'esercizio  dell'azione  penale,  potesse   ritenersi
comunque tollerabile, e  tale  da  non  ledere  il  diritto  all'equa
riparazione, in ragione della complessita' delle  indagini.  Inoltre,
la Corte d'appello di Catanzaro,  a  fronte  della  prescrizione  del
reato, avrebbe dovuto motivare  in  ordine  all'assenza  di  condotte
dilatorie dell'imputato, dato  che  esse  comportano  il  diniego  di
indennizzo, ai sensi dell'art. 2, comma 2-quinquies, della  legge  n.
89 del 2001. 
    Le eccezioni non sono fondate. 
    I rimettenti sono tenuti ad  applicare  le  norme  impugnate  nel
compimento  di  un'operazione   logico-giuridica   che   precede   la
valutazione relativa alla fondatezza della  domanda  di  riparazione.
Per stabilire se la durata  del  processo,  pur  valicando  i  limiti
temporali indicati dall'art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della  legge  n.
89 del 2001, sia stata giustificata dalla complessita'  del  caso,  o
indotta  dal  comportamento  delle  parti,  e'  necessario,  in   via
preliminare, sulla base dei criteri indicati dalla legge, determinare
tale  durata.  Questo  comporta  l'applicazione  delle   disposizioni
censurate e la conseguente rilevanza delle questioni di  legittimita'
costituzionale di cui esse  sono  oggetto,  che  i  rimettenti  hanno
adeguatamente motivato. 
    5.- La questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2,
comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, sollevata in modo analogo da
entrambi i rimettenti  in  riferimento  all'art.  117,  primo  comma,
Cost., e' fondata nei termini che seguono. 
    Va premesso che i processi principali sono stati avviati  da  chi
ha rivestito, nei  giudizi  penali  di  cui  si  lamenta  l'eccessiva
durata, la  veste  di  imputato.  In  accordo  con  cio',  si  desume
chiaramente dalle motivazioni delle ordinanze di  rimessione  che  la
norma impugnata viene censurata con  riferimento  alla  posizione  di
tale parte e non anche a quella della parte civile e del responsabile
civile, ovvero degli altri soggetti  menzionati  dall'art.  2,  comma
2-bis. 
    I giudici a quibus, nel valutare il contrasto  tra  la  normativa
nazionale e la norma interposta, costituita dall'art. 6  della  CEDU,
hanno proceduto, in conformita' alla giurisprudenza di questa  Corte,
sia ad escludere la disapplicazione della prima (sentenze n.  80  del
2011, n. 349 e n. 348 del 2007), sia ad  assegnare  alla  seconda  il
significato che si trae dalla giurisprudenza consolidata della  Corte
di Strasburgo, dalla quale soltanto non e'  permesso  di  discostarsi
nell'esercizio  del  potere  interpretativo  garantito   al   giudice
nazionale dall'art. 101, secondo comma, Cost.  (sentenza  n.  49  del
2015). 
    Sotto quest'ultimo profilo, non vi e' dubbio che la Corte europea
dei diritti dell'uomo, attraverso reiterate pronunce (tra  le  molte,
sentenze 16 luglio 1971, Ringeisen c. Austria; 15 luglio 1982,  Eckle
c. Germania; 10 dicembre 1982,  Corigliano  c.  Italia;  19  febbraio
1991, Manzoni c. Italia; 26  febbraio  1993,  Messina  c.  Italia;  4
aprile 2006, Kobtsev c. Ucraina), abbia  dedotto  dall'art.  6  della
CEDU la  regola  che  impone,  ai  fini  dell'indennizzo  conseguente
all'inosservanza del  termine  di  ragionevole  durata  del  processo
penale, di tenere  conto  del  periodo  che  segue  la  comunicazione
ufficiale,  proveniente  dall'autorita'  competente,  dell'accusa  di
avere commesso un reato. 
    Si tratta, peraltro, di un approdo ermeneutico del tutto  consono
alle finalita' perseguite dal giudizio di riparazione  e  sollecitate
dall'osservanza  del   canone   del   giusto   processo   in   ambito
convenzionale. La violazione del diritto a una celere definizione del
processo penale, espresso dall'art. 6 della CEDU, genera  infatti  la
pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare  il  patimento  cagionato
dalla eccessiva pendenza dell'accusa, quando essa sia stata  espressa
per mezzo di un atto dell'autorita' giudiziaria e abbia in  tal  modo
acquisito una consistenza tale  da  ripercuotersi  significativamente
sulla vita dell'indagato (Corte EDU, sentenza 15 luglio  1982,  Eckle
c. Germania). E' questa un'evenienza in  alcun  modo  circoscrivibile
alla fase del processo che  segue  all'esercizio  dell'azione  penale
(art. 405  cod.  proc.  pen.)  e  all'assunzione  della  qualita'  di
imputato (art. 60 cod. proc. pen.), posto che essa tende naturalmente
a manifestarsi fin dal tempo in cui una persona e' venuta formalmente
a  conoscenza  dell'esistenza  di  un'indagine  a  suo   carico,   in
particolare quando si accompagna al compimento di atti invasivi della
sfera di liberta' dell'individuo. 
    Pertanto, una volta penetrato nel nostro ordinamento, per effetto
della giurisprudenza europea e con valore di fonte sovra-legislativa,
il principio che collega alla lesione del  diritto  alla  ragionevole
durata del processo, sancito dall'art.  6  della  CEDU,  una  pretesa
riparatoria nei confronti  dello  Stato,  viene  da  se'  che  l'equa
riparazione avra' ad oggetto non soltanto la fase  che  la  normativa
nazionale qualifica "processo", ma anche le attivita'  procedimentali
che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro e'
preposta l'azione. 
    In altri  termini,  se  si  individua  nella  CEDU  il  parametro
interposto  con  cui  confrontare  la   legittimita'   delle   scelte
legislative in punto di equa riparazione, la nozione di "processo" si
rende  per  cio'  stesso  autonoma  dalle   ripartizioni   per   fasi
dell'attivita' giudiziaria finalizzata  all'accertamento  dei  reati,
per come viene disegnata dal legislatore nazionale.  In  cio'  ancora
una volta «si manifesta in modo vivido la natura  della  CEDU,  quale
strumento  preposto,  pur   nel   rispetto   della   discrezionalita'
legislativa degli  Stati,  a  superare  i  profili  di  inquadramento
formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei
diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l'effettivita'»
(sentenza n. 49 del 2015). 
    La stessa legge n. 89 del 2001 intende dichiaratamente offrire un
rimedio interno per i casi di violazione dell'art. 6, comma 1,  della
CEDU (art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001), cosi' confermando
che  nell'ordito  normativo   e'   quest'ultima   disposizione,   nel
significato conferitole dalla consolidata giurisprudenza  europea,  a
definire il ventaglio delle opzioni che si offrono al legislatore. 
    Tra queste vi e' la specificazione dei criteri di quantificazione
della somma dovuta,  purche'  essi  non  conducano  ad  accordare  un
indennizzo manifestamente incongruo rispetto  a  quello  che  sarebbe
stato invece conseguito ove fosse stato esperito ricorso avanti  alla
Corte  di  Strasburgo.  Proprio  quest'ultima,  nella   sua   massima
composizione e dunque con pronuncia senz'altro valevole ad  esprimere
l'indirizzo vincolante del giudice europeo, ha accordato  agli  Stati
un largo margine di apprezzamento nella  costruzione  di  un  rimedio
compensatorio   interno,   che   tenga   conto   delle   peculiarita'
dell'ordinamento nazionale e dei livelli di vita del paese,  fino  al
punto da giustificare indennizzi, pur sempre adeguati, ma inferiori a
quelli ottenibili con un ricorso davanti alla  Corte  europea  (Corte
EDU, Grande Camera, sentenza  29  marzo  2006,  Scordino  c.  Italia;
sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia). 
    Vi e', percio', uno spazio per scelte discrezionali (sentenza  n.
30 del 2014) che incidono sulla determinazione  di  quanto  spetta  a
titolo  di  equa  riparazione,  purche'  esse  siano  esercitate  nel
rispetto dei principi cardine con cui la Corte di  Strasburgo  colora
di significato l'art. 6 della CEDU  e  purche'  tali  scelte  non  si
prestino, in linea astratta, ad incidere sull'an stesso del  diritto,
anziche' sul quantum. 
    L'art. 2, comma 2-bis, impugnato, non rispetta  nessuna  di  tali
condizioni. 
    Non la prima, perche'  il  legislatore  si  e'  svincolato  dalla
generale nozione di "processo" penale rilevante ai sensi dell'art.  6
della Convenzione e tale da abbracciare anche  parte  delle  indagini
preliminari, per ripiegare sulla  qualificazione  nazionale  di  tale
istituto, benche' essa, come si e' visto, non sia conciliabile con la
finalita' perseguita dal rimedio compensatorio garantito dalla CEDU. 
    Non la seconda, giacche'  e'  senza  dubbio  possibile  che  solo
aggiungendo il periodo di svolgimento delle indagini al computo della
durata del successivo processo penale si superi il limite  di  tempo,
di fase o complessivo, rispettato il quale  non  sorge  diritto  alla
riparazione. La norma impugnata, amputando il "processo", per come va
inteso ai sensi dell'art. 6 della CEDU,  di  una  sua  componente  si
congiunge alla  previsione  normativa  che  vieta  di  accogliere  la
domanda di riparazione se il giudizio non ha ecceduto  la  durata  di
tre anni in primo grado, di due in secondo grado  e  di  uno  innanzi
alla Corte di cassazione, e comunque quella complessiva di sei  anni.
In  tal  modo,  viene  formulata  una  previsione  astratta,  la  cui
applicazione si presta  ad  incidere  negativamente  non  solo  sulla
misura della riparazione, ma anche  sulla  sussistenza  del  relativo
diritto.  Tale  effetto,  connaturato  alla  norma  censurata,   deve
ritenersi precluso al legislatore (sentenza n. 30 del 2014; ordinanza
n. 124 del 2014). 
    Compito di  questa  Corte  e'  percio'  di  ricondurre  la  norma
impugnata     alla     legalita'     convenzionale,     dichiarandone
l'illegittimita' costituzionale per  la  parte  in  cui  essa  si  e'
allontanata dall'osservanza  della  normativa  interposta,  e  quindi
anche dell'art. 117, primo comma, Cost. 
    A  tal  fine,  va  osservato  che  la  Corte  di  Strasburgo   ha
specificamente affermato che  l'art.  6  della  CEDU  non  impone  di
assumere in considerazione l'intera fase delle indagini (sentenza  10
dicembre 1982, Corigliano c. Italia; sentenza 15 luglio  1982,  Eckle
c. Germania), se esse non hanno comportato la  comunicazione  formale
dell'accusa penale, o  comunque  il  compimento  di  atti,  da  parte
dell'autorita' a cio' competente, che si siano ripercossi sulla sfera
giuridica  della  persona.  Una  pronuncia  di   questa   Corte   che
prescrivesse l'obbligo di computare l'intera  durata  delle  indagini
preliminari finirebbe percio'  per  eccedere  quanto  necessario  sul
piano della legittimita' costituzionale,  includendo  arbitrariamente
fasi   durante   le   quali   l'indagato,   ignaro    dell'iniziativa
dell'autorita' giudiziaria, non ha  subito  alcun  patimento,  e  che
quindi il legislatore ben puo' escludere  dal  periodo  rilevante  ai
fini della riparazione. 
    Del resto, prima  dell'introduzione  dell'art.  2,  comma  2-bis,
impugnato, la giurisprudenza di legittimita'  si  era  assestata  nel
senso che ad assumere rilievo  fosse  solo  il  tempo  successivo  al
momento  in  cui  l'indagato  aveva  avuto   concreta   notizia   del
procedimento penale (Corte di cassazione, sezioni  unite  civili,  23
settembre 2014, n. 19977). 
    Calando la giurisprudenza europea nel contesto nazionale, risulta
che  l'autorita'  competente  a  conferire   all'accusa   penale   la
consistenza  necessaria  ad  interferire  con  la   sfera   personale
dell'indagato e' l'autorita' giudiziaria, attraverso il compimento di
atti dai quali consegua la conoscenza, da parte della persona,  della
pendenza di un'indagine a suo carico. 
    L'art.  2,  comma  2-bis,  della  legge  n.  89  del   2001,   va
conseguentemente  dichiarato  costituzionalmente  illegittimo,  nella
parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con
l'assunzione della qualita' di imputato, ovvero quando l'indagato  ha
avuto legale conoscenza della chiusura  delle  indagini  preliminari,
anziche' quando l'indagato,  in  seguito  a  un  atto  dell'autorita'
giudiziaria, ha  avuto  conoscenza  del  procedimento  penale  a  suo
carico. 
    Va da se' che,  pur  dopo  avere  ristabilito  la  conformita'  a
Costituzione della  norma  impugnata,  ed  avere  cosi'  incluso  nel
calcolo della durata del processo le indagini preliminari, nei limiti
appena  indicati,  persiste  la  discrezionalita'   giudiziaria   nel
verificare, alla luce dei fattori indicati  dalla  Corte  EDU  e  dal
legislatore,  se  l'eventuale  inosservanza  dei  termini  di   legge
comporti o meno violazione del diritto alla  ragionevole  durata  del
processo. 
    Resta assorbita la censura  di  violazione  dell'art.  111  Cost.
proposta dalla Corte d'appello di Firenze. 
    6.- Le questioni  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  2,
comma 2-quater, della legge n. 89  del  2001,  sollevate  dalla  sola
Corte d'appello di Firenze, in riferimento agli artt. 3, 111  e  117,
primo comma, Cost., sono inammissibili. 
    Il rimettente  reputa  costituzionalmente  illegittima  la  norma
impugnata, nella parte in cui sottrae al  computo  della  durata  del
processo i periodi di sospensione che non siano «riconducibili»  alle
parti, ovvero «dovuti al comportamento delle parti». 
    Questa Corte ha gia' avuto modo di affermare con  riferimento  al
processo penale, ma  con  argomenti  di  carattere  sistematico  piu'
ampio, che la sospensione e' istituto «oggetto non di una  disciplina
generale, bensi' di specifiche regolamentazioni dettate con  riguardo
alla  diversita'  dei  presupposti  e  delle  finalita'   perseguite»
(sentenza n. 24 del 2004). 
    A cio' si aggiunga che, allo scopo  di  saggiare  la  conformita'
della  previsione  legislativa  impugnata  alla  Costituzione,  e  in
particolare all'art. 6  della  CEDU,  sarebbe  necessario  verificare
l'aderenza del divieto di  prendere  in  considerazione  le  fasi  di
sospensione del processo, rispetto alle finalita' cui deve rispondere
la disciplina del diritto all'equa riparazione. 
    Esse si sostanziano, come si e' visto, nel ristoro del  patimento
subito  a  causa  della  pendenza  del   processo,   attribuibile   a
disfunzioni dell'apparato statuale. 
    A fronte di cio', il criterio normativo suggerito dal  rimettente
per distinguere un'ipotesi di sospensione dall'altra appare anzitutto
indeterminato, perche' non chiarisce se la  "riconducibilita'"  della
causa sospensiva alle parti implichi un giudizio di imputabilita', in
ragione di una condotta ostruzionistica che osta al ristoro del danno
(Corte EDU, Grande Camera, sentenza  29  maggio  1986,  Deumeland  c.
Germania), ovvero un apprezzamento in ordine alla domanda delle parti
cui consegua la sospensione del processo, ove essa valga quale  fatto
obiettivo, non imputabile  allo  Stato,  e  idoneo  ad  incidere  sul
diritto all'equa riparazione (Corte EDU,  sentenza  12  maggio  1999,
Saccomanno  c.  Italia),  ovvero  ancora  la   corrispondenza   della
sospensione a un  interesse,  o  anche  ad  un'esigenza  processuale,
propria delle sole parti. 
    L'eterogeneita' delle ipotesi di sospensione previste dai diversi
settori  processuali  dell'ordinamento  non  e',  in  altri  termini,
ricondotta a unita' per mezzo dell'ambigua formula cui il  rimettente
ha ancorato il dubbio di costituzionalita'. 
    Tale criterio, oltre che  vago,  si  mostra  inoltre  inadeguato,
poiche'  appare  slegato  dalle  linee  direttrici  promananti  dalla
giurisprudenza europea. 
    E'  sufficiente  considerare,  a  tal  fine,  che  la  Corte   di
Strasburgo, in modo costante, include nel periodo rilevante  ai  fini
della ragionevole durata  del  processo  il  periodo  di  sospensione
conseguente  alla  proposizione  di  un  incidente  di   legittimita'
costituzionale (Grande Camera, sentenza 29 maggio 1986, Deumeland  c.
Germania; inoltre, a sezioni  semplici,  sentenza  4  dicembre  1995,
Terranova c. Italia; sentenza  25  febbraio  2000,  Gast  e  Popp  c.
Germania; sentenza 31 maggio  2001,  Metzger  c.  Germania),  ma  non
quello derivante dal rinvio pregiudiziale  alla  Corte  di  giustizia
dell'unione europea, per la cui protrazione nulla e' imputabile  allo
Stato (sentenza 26 febbraio 1998, Pafitis e altri c. Grecia; sentenza
30 settembre 2003, Koua Poirrez c. Francia). 
    E'  chiaro  che  tali  ipotesi  di  sospensione  sono  del  tutto
equivalenti, quanto all'attivita' e agli interessi  delle  parti  del
processo a quo, ovvero al criterio normativo sposato dal  rimettente,
ma ben si comprende  la  ragione  per  cui,  agli  effetti  dell'equa
riparazione per  la  eccessiva  durata  del  processo,  la  Corte  di
Strasburgo non ritenga di accomunarle. 
    Il  giudice  a  quo,  anziche'   limitarsi   a   dubitare   della
legittimita' costituzionale della  porzione  di  norma  attinente  al
processo principale, che verteva sulla sospensione per  incidente  di
legittimita'  costituzionale,  ha  impugnato  l'intera  disposizione,
propugnandone la declaratoria  di  incostituzionalita'  in  un  senso
indeterminato  e  inadeguato,  e  comunque   non   costituzionalmente
obbligato. 
    Tale vizio determina l'inammissibilita' delle questioni. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1) dichiara l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  2,  comma
2-bis,  della  legge  24  marzo  2001,  n.  89  (Previsione  di  equa
riparazione  in  caso  di  violazione  del  termine  ragionevole  del
processo  e  modifica  dell'articolo  375  del  codice  di  procedura
civile), nella parte  in  cui  prevede  che  il  processo  penale  si
considera iniziato  con  l'assunzione  della  qualita'  di  imputato,
ovvero quando l'indagato ha avuto legale  conoscenza  della  chiusura
delle indagini preliminari, anziche' quando l'indagato, in seguito  a
un  atto  dell'autorita'  giudiziaria,  ha   avuto   conoscenza   del
procedimento penale a suo carico; 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 2, comma 2-quater, della  legge  n.  89  del
2001, nella parte in cui sottrae al computo della durata del processo
i periodi di sospensione che  non  siano  riconducibili  alle  parti,
sollevate, in riferimento agli artt.  3,  111  e  117,  primo  comma,
Cost., dalla Corte d'appello di Firenze, con l'ordinanza indicata  in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI