N. 154 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 marzo 2015

Ordinanza del 17 marzo 2015 emessa dalla Corte  d'appello  di  Reggio
Calabria nel procedimento di esecuzione  nei  confronti  di  Vitalone
Rosaria. 
 
Mafia - Provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  organizzata  -
  Confisca ex art.  12-sexies  del  decreto-legge  n.  306  del  1992
  (confisca c.d. allargata) - Applicazione dell'istituto nel caso  di
  condanna  per  il  delitto  di   cui   all'art.   648   cod.   pen.
  (Ricettazione) - Irragionevole assimilazione alla condanna per  gli
  altri "gravi"  delitti  indicati  dalla  disposizione  censurata  -
  Ingiustificata identita' di trattamento. 
- Decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni,
  dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 12-sexies, comma 1. 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.34 del 26-8-2015 )
 
                 CORTE D'APPELLO DI REGGIO CALABRIA 
                        Sezione Prima Penale 
 
    La Corte d'Appello di  Reggio  Calabria,  Sezione  Prima  penale,
riunita in camera di consiglio e cosi' composta: 
        1) Dott.ssa Iside Russo - Presidente; 
        2) Dott. Massimo Gullino - Consigliere; 
        3) Dott. Francesco Petrone - Consigliere rel. 
          nell'esecuzione  penale  a  carico  di   Vitalone   Rosaria
(Sinopoli, 4 dicembre 1959), nei cui confronti risulta  esecutiva  la
sentenza 14 luglio 2009 di questa Corte d'Appello  in  riforma  della
sentenza emessa in data 16 febbraio 2006 del  GUP  del  Tribunale  di
Palmi (irr. il 5 gennaio 2010); 
          richiamata la propria ordinanza di sequestro  preventivo  e
confisca ex  artt.  321,  676,  comma  1,  667,  comma  4,  c.p.p.  e
12-sexies,  legge  n.  356/1992  emessa  in   data   29.10/11.11.2013
nell'ambito della procedura esecutiva n. 257/13 R.G.Esec.1ª; 
          vista l'opposizione ex  dell'art.  667,  comma  4,  c.p.p.,
verso detto provvedimento proposta in data  25  novembre  2013  dalla
condannata  unitamente  ai  terzi  interessati  Panuccio  Antonio   e
Panuccio Carmela oltre che da Panuccio  Carmelo  (pure  asseritamente
terzo interessato, quantunque non intestatario di alcuno dei beni  in
sequestro); 
          a scioglimento della riserva formulata all'udienza camerale
del 14 ottobre 2014 all'esito della discussione delle parti; 
 
                               Osserva 
 
    Con ordinanza 29 ottobre 2013 depositata in data 11 novembre 2013
(notificata il 16 novembre 2013) la Corte, accogliendo  la  richiesta
del P.G. in sede, sulle premesse: 
        che la Vitalone e' stata condannata alla pena di anni 1  mesi
4 di reclusione ed euro 400,00 di multa, con la  citata  sentenza  14
luglio 2009 di questa Corte d'Appello (irr. il 5 gennaio  2010),  per
il reato di cui  agli  artt.  110,  648,  c.p.,  commesso  in  Reggio
Calabria dall'8 aprile 2003 (data del furto) al 31 agosto 2004  (data
dell'accertamento), titolo di reato  per  il  quale  e'  prevista  la
speciale confisca dei beni di cui all'art. 12-sexies del D.L. n.  306
citato;  che  dagli  accertamenti  svolti  dal  R.O.N.I.   del   C.do
Provinciale dei Carabinieri di Reggio  Calabria  su  espressa  delega
della Procura Generale in sede (condensati nelle note Informative  23
giugno 2011, n. 51/30-8-2010 e 20 maggio 2013, n. 51/30.11.2010)  era
emerso che alla condannata era riferibile, oltre  ad  un  consistente
patrimonio immobiliare (non oggetto di richiesta], la  disponibilita'
di risparmi per importi davvero considerevoli [per lo  piu'  i  buoni
postali, i depositi ed i titoli oggetto di richiesta, ma non solo]; 
        che, a  fronte  di  cio'  l'analisi  dei  flussi  di  reddito
(peraltro espressi al lordo delle imposte) riferibili alla condannata
ed al suo nucleo familiare nel periodo compreso tra  il  1990  ed  il
2011  (gli  impieghi  piu'  considerevoli  si   riferivano   comunque
all'ultimo decennio), rivelavano una media  attestantesi  intorno  ai
12.000,00 euro annui [ovvero una somma gia' difficilmente compatibile
con il mantenimento di un nucleo familiare composto da cinque persone
e che certo non avrebbe potuto consentire  l'accumulo  dei  rilevanti
risparmi oggetto della richiesta tanto piu' che ad essi  si  dovevano
cumulare gli esborsi corrisposti per gli  acquisti  immobiliari  pure
effettuati nello stesso periodo]; 
        ordinava la confisca ex art. 676, comma 1, c.p.p., 12-sexies,
legge n. 356/1992  e  12  (disponendone  nel  contempo  il  sequestro
preventivo a termini dell'art. 321 c.p.p.): 
        dei   Buoni   Postali   meglio   indicati   nella   ordinanza
(rispettivamente intestati alla condannata  ed  al  coniuge  Panuccio
Antonio ed alla condannata ed alla  figlia  Carmela)  per  un  totale
complessivo di euro 86.500,00; 
        del Libretto Postale n. 23436632 acceso il 14  febbraio  2005
presso Poste Italiane SPA - Filiale di San Procopio con saldo  (al  2
agosto 2012) pari ad euro 28.107,20 intestato alla condannata  ed  al
coniuge Panuccio Antonio; 
        del Deposito Titoli n. 2185989 acceso  il  14  febbraio  2005
presso Poste Italiane SPA - Filiale di San Procopio con titolo 416666
CAP 07/13 RELOAD3II  sottoscritto  nell'anno  2007  e  pari  ad  euro
5.000,00  e  con  titolo  431504  BP  08/14  RELOAD3IIC  sottoscritto
nell'anno 2008 e pari ad euro 53.000,00 intestato alla condannata  ed
al coniuge Panuccio Antonio. 
    Con atto a firma dei difensori di fiducia depositato in  data  25
novembre 2013, verso  la  predetta  ordinanza  interponevano  rituale
opposizione la Vitalone ed i terzi  interessati  Panuccio  Antonio  e
Panuccio Carmela, unitamente a Panuccio Carmelo,  pure  figlio  della
Vitalone e asseritamente terzo interessato,  quantunque  non  formale
intestatario di alcuno dei beni in sequestro). 
    Gli opponenti, ribadito in capo al requirente l'onere della prova
della sproporzione del valore dei  beni  nella  disponibilita'  della
famiglia Panuccio-Vitalone, pur riservando al successivo deposito  di
una  consulenza  di  parte  la  ricostruzione  storica   dei   volumi
reddituali e  dunque  la  dimostrazione  della  compatibilita'  degli
stessi con i risparmi oggetto di confisca,  evidenziavano  da  subito
come, proprio in punto di verifica dell'asserita sproporzione  tra  i
valori oggetto di confisca ed i redditi leciti  prodotti  dal  nucleo
familiare, gli accertamenti del RONI fossero da ritenersi  gravemente
carenti in quanto non aventi  nel  conto  altre  lecite  redditivita'
facenti capo al nucleo familiare  (cui  doveva  ascriversi  anche  il
Panuccio Carmelo). In ogni caso, si osservava  come  la  Corte  fosse
andata  ultra  petitum  quanto  alla  confisca  dei   Buoni   Postali
cointestati  alla  Panuccio  Carmela  (avendo  il  PG  chiestone   il
sequestro per la sola quota facente  capo  alla  Vitalone)  ed  aveva
omesso di considerare anche la  discrasia  apprezzabile  tra  i  dati
documentali derivanti  dai  tabulati  INPS,  di  cui  all'allegato  3
dell'Informativa del RONI dei Carabinieri, e la  ricostruzione  della
capacita'  reddituale  poi  concretamente  effettuata  nella  sintesi
riepilogativa. 
    Ancora, si evidenziava: 
        che parte considerevole della capacita' reddituale del nucleo
familiare derivava da poste reddituali non oggetto  di  dichiarazione
fiscale, e non poteva esservi  dubbio  che  la  sproporzione  dovesse
essere apprezzata, per espressa indicazione normativa,  non  solo  in
relazione al reddito dichiarato, ma anche in relazione alla attivita'
economica; 
        che s'erano presi in considerazione solo i redditi prodotti a
far tempo dal 1991, mentre  il  nucleo  familiare  aveva  iniziato  a
produrre redditi gia' dal 1978; 
        ch'era stata omessa la  considerazione  delle  disponibilita'
economiche aggiuntive venute dai redditi agrari dei terreni posseduti
dai coniugi e dai contributi integrativi dell'AGEA; delle  indennita'
di disoccupazione percepite; del fatto che  il  Panuccio  Antonio  e'
titolare di doppio trattamento pensionistico, uno dei  quali  erogato
da ente previdenziale australiano di cui non s'era tenuto conto; 
        ch'era stata omessa la considerazione  dei  redditi  prodotti
all'estero da Panuccio Carmelo negli anni 2000-2003; 
        che anche l'esame dei flussi di spesa, elaborati  sulla  base
degli indicatori ISTAT di consumo medio familiare, non tenevano nella
giusta considerazione l'elevata capacita' di risparmio di  un  nucleo
familiare come quello della Vitalone, conducente un  tenore  di  vita
piu' che parco. 
    I  temi  del  giudizio  di  opposizione  venivano  dalla   difesa
approfonditi in una memoria depositata il 5 giugno 2014 a corredo  di
corposa produzione documentale pure contestualmente effettuata, fatta
oggetto di approfondimento in una consulenza  tecnica  di  parte.  Si
assumeva cosi' di aver dimostrato redditi leciti in  capo  al  nucleo
familiare pari a circa  25.500  euro  annui,  asseritamente  ritenuti
compatibili  con  l'accumulo  dei  risparmi  oggetti   di   confisca,
provvedimento di cui s'e' pertanto invocata la revoca. 
    Tanto premesso, reputa la Corte rilevante  e  non  manifestamente
infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
12-sexies, comma primo, legge n. 356/1992, in  relazione  all'art.  3
Cost. nella parte in cui annovera il delitto di cui all'art. 648 cod.
pen. nel catalogo dei delitti per i quali, nel caso  di  sentenza  di
condanna o applicazione  di  pena  ex  art.  444  c.p.p.,  e'  sempre
disposta la  speciale  ipotesi  di  confisca  prevista  dallo  stesso
articolo. 
    La questione e' rilevante nel presente giudizio  essendo  proprio
la condanna irrevocabile per tale delitto inflitta alla  Vitalone  il
primo fondamentale presupposto per confermare (in ipotesi anche  solo
parzialmente) la confisca  gia'  disposta  inaudita  altera  parte  a
termini dell'art. 676 c.p.p. e dell'art. 12-sexies legge n. 356/1992,
dopo la proposta opposizione ex art. 667 comma 4 c.p.p. 
    In ogni caso, ed ancora in  punto  di  evidenza  della  rilevanza
della questione, mette conto anticipare che la Corte, senza voler qui
soffermarsi   approfonditamente   sugli   esiti   del   giudizio   di
opposizione, ritiene che  debba  essere  sostanzialmente  confermata,
almeno nella sua  maggiore  consistenza,  la  confisca  dei  risparmi
postali nella disponibilita' della condannata. 
    Davvero sinteticamente, puo' al riguardo  significarsi  che,  pur
riconoscendosi  valenza  implementativa  ad  alcuni   degli   apporti
finanziari ulteriori (perche' non considerati nell'Informativa di  PG
fondante  l'ordinanza)  evidenziati  dall'opponente   e   dai   terzi
interessati, deve comunque escludersi che gli stessi possano  davvero
ribaltare l'evidenza di una sproporzione che rimane  di  obiettiva  e
manifesta consistenza; gia' nell'ordinanza opposta  s'era  del  resto
rilevato   come   i   buoni   e   i   rapporti   postali   confiscati
(sostanzialmente dunque denaro contante) fossero stati realizzati  di
fatto  unitamente  ad  investimenti  immobiliari,  non   oggetto   di
confisca, ma i cui esborsi devono  chiaramente  considerati  come  in
grado di erodere la capacita' di risparmio ed investimento del nucleo
familiare. 
    E tanto senza considerare che, trattandosi di beni comunque -  al
meno - in considerevole quota nella titolarita' anche  formale  della
sola condannata, risulta non  del  tutto  propria  la  considerazione
globale delle risorse economiche del nucleo familiare proposta  dalla
difesa, chiaramente indirizzata a «coprire» con risorse dei familiari
- terzi interessati e non - anche l'ammontare della quota  (del  50%)
del patrimonio confiscato nella titolarita'  della  sola  condannata.
Invero solo nel caso di beni formalmente intestati a soggetti diversi
dal   condannato,   grava   sull'accusa   pure    la    dimostrazione
dell'effettiva disponibilita' in capo al condannato del bene medesimo
(qui denunciata proprio dalla contestazione  dei  rapporti);  qualora
poi  si  tratti  di  beni  formalmente  intestati  ai  suoi  prossimi
congiunti, per fondare adeguatamente  gli  indizi  di  disponibilita'
materiale derivanti da tale specifica relazione, occorre altresi' (ma
e' ancora  una  volta,  pure,  sufficiente)  che  venga  offerta  dal
requirente  la  dimostrazione  dell'incapienza  dei  redditi   leciti
prodotti da questi ultimi avuto riguardo al valore del bene medesimo.
Nella specie, dunque, rispetto alla quota formalmente intestata  alla
Vitalone (ma il ragionamento mutatis mutandis riguarda anche la quota
in testa al Panuccio Antonio), la difesa avrebbe  dovuto  fornire  la
prova  che  i  risparmi  postali  sequestrati   fossero   interamente
provenienti da risorse proprie del singolo cointestatario (prova  che
certamente  non  e'  stata  fornita),  non  potendo  a  cio'  bastare
l'allegazione - per esemplificare - che  anche  il  Panuccio  Carmelo
avesse contribuito con le proprie risorse finanziarie (pure  prodotte
all'estero) a costituire la provvista dei  risparmi  confiscati  (non
rinvenendosi ragione per cui lo stesso, ove cosi' fosse stato, avesse
inteso  lasciare  che  solo  la  madre  ed  il  padre  si  rendessero
intestatari di buoni fruttiferi sottoscritti  anche  con  consistenti
risorse sue proprie; tanto piu' che cio'  non  era  stato  fatto  con
l'altra figlia Carmela e per importi di molto piu' contenuti). 
    In ultima analisi, la Corte si  avvia  a  confermare  (pressoche'
integralmente) l'ordinanza di confisca opposta. 
    Tanto chiarito la necessita' preliminare di sciogliere i dubbi di
legittimita'  costituzionale  che  ci  si   accinge   a   prospettare
costituisce diretta conseguenza dell'assetto,  anche  interpretativo,
che la disciplina della confisca che ci occupa ha assunto. 
    E' noto infatti che, per far luogo alla  confisca  conseguente  a
condanna  per  uno  dei  reati  indicati  nell'art.   12-sexies,   e'
necessario - ma anche sufficiente - che sia  provata  l'esistenza  di
una sproporzione  tra  il  reddito  dichiarato  dal  condannato  o  i
proventi della sua attivita' economica e il valore economico dei beni
da confiscare, e che non emerga una giustificazione  credibile  circa
la provenienza di essi,  non  essendo  invece  sufficiente  la  prova
negativa della loro non  provenienza  dal  reato  per  cui  e'  stata
inflitta condanna. Costituisce infatti ius receptum che  non  risulta
affatto necessaria la dimostrazione di un nesso di «pertinenzialita'»
tra il bene da assoggettare a confisca  ed  il  reato  per  cui  s'e'
pronunciata condanna e soprattutto che la confisca dei  singoli  beni
non e' esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti  in  epoca
anteriore o successiva al reato commesso o che il loro valore  superi
il provento del medesimo reato. 
    Punto di riferimento indiscusso al riguardo rimane  ancora  Cass.
Pen. Sez. Un., 17 dicembre 2003,  n.  920  (dep.  19  gennaio  2004),
Montella, che risolvendo un contrasto di decisioni proprio in  ordine
al problema del rapporto di pertinenzialita'  tra  beni  confiscabili
sulla base  dell'art.  12-sexies  e  reati  per  cui  e'  intervenuta
condanna  [si  dava  atto  dell'esistenza  di  tre  distinti   filoni
interpretativi non univoci: il primo, che escludeva la necessita'  di
qualsiasi nesso esistente tra beni confiscabili e reati; l'altro che,
al contrario, pretendeva che fosse almeno ipotizzabile la provenienza
delittuosa dei beni; infine, il terzo che  individuava  un  nesso  di
pertinenzialita' piu' ampio, riferito cioe' non allo specifico  fatto
delittuoso, ma all'attivita' criminosa facente capo ad un  soggetto],
ha  specificato  che  «...  la  norma  in  esame  non  offre   alcuna
indicazione positiva in ordine al rapporto  che  dovrebbe  sussistere
tra i beni ed il reato specifico ed anzi la legge 7  marzo  1996,  n.
108, nell'indicare, come s'e' detto, un campo operativo della  nostra
confisca piu'  ampio  rispetto  al  tantundem,  induce  ad  allentare
ulteriormente il nesso  di  derivazione  della  cosa,  non  solo  dal
delitto  per  cui  si  procede,  ma  anche   dal   valore   economico
corrispondente ...»; percio' «...  dire  che  la  norma  autorizza  a
valorizzare  anche  ipotesi  di  relazioni   mediate,   indirette   o
occasionali   del   bene   col   reato,   significa   lasciare   alla
discrezionalita'  creativa  dell'interprete  la  determinazione   dei
presupposti di applicabilita' della confisca, in  violazione  patente
del principio di legalita'»; la stessa pronuncia ha poi pure  escluso
che la norma «... richieda un accertamento della provenienza dei beni
non dal reato oggetto del giudizio, ma  dall'attivita'  illecita  del
condannato»,  per  concludere  infine  che   «...   il   legislatore,
nell'individuare   i   reati   dalla   cui   condanna   discende   la
confiscabilita' dei beni, non ha presupposto la derivazione  di  tali
beni  dall'episodio  criminoso  singolo  per  cui  la   condanna   e'
intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla  sola  condanna
del  soggetto  che  di  quei  beni  dispone,  senza  che  necessitino
ulteriori accertamenti in ordine all'attitudine criminale.  In  altri
termini  il  giudice,   attenendosi   al   tenore   letterale   della
disposizione, non deve ricercare alcun nesso  di  derivazione  tra  i
beni confiscabili e il  reato  per  cui  ha  pronunziato  condanna  e
nemmeno  tra  questi  stessi  beni  e   l'attivita'   criminosa   del
condannato. Cosa che, sotto un profilo positivo, significa  che,  una
volta intervenuta la condanna, la confisca va sempre ordinata  quando
sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il  valore  economico
dei beni di cui il condannato ha la disponibilita' e  il  reddito  da
lui dichiarato o i proventi  della  sua  attivita'  economica  e  non
risulti una giustificazione  credibile  circa  la  provenienza  delle
cose. Con il corollario che, essendo la condanna e la presenza  della
somma  dei  beni  di  valore  sproporzionato  realta'   attuali,   la
confiscabilita' dei singoli beni,  derivante  da  una  situazione  di
pericolosita' presente, non e' certo esclusa per il fatto che i  beni
siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui
si e' proceduto o che il loro valore superi il provento  del  delitto
per cui e' intervenuta condanna. Si conferma in tal modo quanto  gia'
queste Sezioni Unite hanno affermato (17 luglio 2001,  Derouach)  che
cioe' ci si trova dinanzi ad una  misura  di  sicurezza  atipica  con
funzione anche dissuasiva, parallela all'affine misura di prevenzione
antimafia introdotta dalla legge 32 maggio 1965, n. 575.». 
    Questi essendo i presupposti ed i criteri cui deve  attenersi  la
Corte nel giudizio di opposizione, v'e' che la loro evidenza vale nel
contempo a rafforzare la rilevanza ai fini  della  decisione  e,  per
quanto qui si ritiene,  pure  la  non  manifesta  infondatezza  della
questione di legittimita' costituzionale che qui si propone. 
    Colpisce invero nella vicenda in  esame  la  circostanza  che  la
Vitalone, ed il suo nucleo  familiare,  si  apprestano  a  subire  la
conferma - pressoche' integrale  -  della  forzosa  ablazione  di  un
cospicuo patrimonio mobiliare [in parte considerevole forse (giacche'
non s'e' proposta  un'autentica  e  piena  allegazione  difensiva  al
riguardo)  provento  dell'accaparramento   di   risorse   finanziarie
provenienti dalla liquidazione di cespiti  facenti  capo  al  suocero
premorto della condannata con lesione  dei  diritti  di  altri  eredi
(tant'e' che la stessa difesa ha dato  conto  della  pendenza  di  un
contenzioso civile sul  punto)]  in  primo  luogo  in  ragione  della
(unica) definitiva condanna per la ricettazione  di  una  autovettura
commessa in epoca prossima alla data del furto  (in  Reggio  Calabria
l'8 aprile 2003) ed accertata il 31 agosto 2004. 
    E'  parsa  quindi  necessaria  una   riflessione   sulla   tenuta
costituzionale della norma che tanto prevede ed impone. 
    S'e' gia' detto che, come chiarito dalle Sezioni Unite citate, la
confisca ex art. 12-sexies, legge n. 356/1992, ha  come  presupposto,
non la derivazione  dei  beni  dall'episodio  criminoso  per  cui  la
condanna e' intervenuta, ma la mera condanna del soggetto che di quei
beni dispone e senza che si ponga verifica in  ordine  all'attitudine
criminale del reo, essendo necessaria e sufficiente la sola esistenza
di una sproporzione tra il  valore  economico  dei  beni  di  cui  il
condannato ha la disponibilita' e il reddito da lui  dichiarato  o  i
proventi  della  sua  attivita'   economica   e   non   risulti   una
giustificazione credibile circa la provenienza delle cose. 
    In  altre  parole,  il  legislatore   ha   posto   a   fondamento
dell'istituto una presunzione di provenienza delle risorse economiche
e finanziarie (purche' sproporzionate  ed  ingiustificate,  e  dunque
vincibile  dalla  dimostrazione  contraria)  rinvenute  in  capo   al
condannato   dalla   accumulazione   ordinariamente   connessa   alla
redditivita' illecita derivante dalla commissione di alcuni  delitti;
essendo appunto quell'accumulazione l'elemento in se'  pure  ritenuto
intrinsecamente dimostrativo della pericolosita' sociale  (fondamento
generale della misura di sicurezza patrimoniale),  dovendosi  appunto
sottrarre  al  reo   il   patrimonio   sproporzionato   astrattamente
utilizzabile per «finanziare» la commissione  di  altri  delitti  e/o
comunque reimpiegabile nel circuito  economico-finanziario  alterando
la fisiologia del sistema economico legale. 
    Questa  essendo  indubitabilmente  la  ratio  dell'istituto   non
disconosce la Corte che la stessa ha gia' positivamente  superato  il
vaglio  di  costituzionalita'  della  Corte  costituzionale,  che  ha
escluso  che  la  confisca  c.d.  allargata  violi  il  principio  di
uguaglianza e il diritto di difesa, anche in riferimento all'art.  42
Cost., «... avendo il legislatore non irragionevolmente  ritenuto  di
presumere l'esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune  categorie
di reati e i beni di cui il  condannato  non  possa  giustificare  la
provenienza e che risultino  di  valore  sproporzionato  rispetto  al
reddito o all'attivita' economica del  condannato  stesso»  (Ord.  n.
18/1996). 
    Anche la pronuncia delle Sezioni Unite  n.  920/2003  piu'  volte
citata ha sul punto considerato  che  «La  conclusione  raggiunta  e'
conforme  ad  una  fondamentale  scelta  di  politica  criminale  del
legislatore ...» e che «...  in  realta'  e'  proprio  contro  questa
scelta  politica  che,  in  modo  piu'  o  meno  palese,  si  nutrono
preoccupazioni  di  legittimita'   costituzionale,   tanto   che   le
interpretazioni che in qualche modo cercano di introdurre un concreto
nesso di derivazione non muovono da  vere  e  proprie  considerazioni
esegetiche  o  sistematiche,  ma  da  una  supposta   necessita'   di
adeguamento del dettato normativo ai  principi  costituzionali»,  per
evidenziare appunto, sulla scia della citata ordinanza n. 18 del 1996
della Corte costituzionale, che il fondamento di ragionevolezza della
presunzione  legale  fondante  la  confisca  in  argomento  e'  tutta
residente nella notoria  capacita'  di  alcuni  particolari  delitti,
almeno nel loro normale atteggiarsi, individuati dal  legislatore  ad
essere «... perpetrati in forma quasi professionale e a  porsi  quali
fonti di illecita ricchezza» (Cass. Pen. Sez. Un., n. 920/2003 cit.). 
    Non e' tuttavia nei termini appena  riferiti  che,  a  parere  di
questa Corte, la  norma  in  questione  pone  dubbi  di  legittimita'
costituzionale. 
    Nel catalogo dei delitti la condanna per i quali l'art. 12-sexies
consente la confisca infatti  viene,  infatti,  annoverato  anche  il
delitto di ricettazione previsto e punito  dall'art.  648  cod.  pen.
(con la sola esclusione dell'ipotesi attenuata di  cui  al  capoverso
dello stesso articolo)  per  il  quale  -  si  ritiene  -  non  abbia
fondamento razionale la presunzione  legale  che  lo  eleva  a  fonte
ordinaria di illecito accumulo di ricchezza. 
    La prassi giurisdizionale [di cui sono evidente espressione ancor
prima che le rilevazioni statistiche del Ministero  della  giustizia,
la sua risalente attribuzione alla  cognizione  del  Pretore  pure  a
fronte di una pena edittale non  esigua  e  dunque  per  materia]  e'
invero  in  grado  di  denunciare  senza  necessita'  di  particolari
dimostrazioni l'enorme diffusivita' di tale tipologia  di  delitto  e
soprattutto la sua varieta' casistica (evidentemente  precipitato  di
una condotta incriminatrice che sul piano strutturale ne fa un «reato
da reato»), sia sul piano  della  criminogenesi  che  sul  piano  del
modello di agente tipo, tutti elementi che lo  rendono  difficilmente
assimilabile alle altre fattispecie delittuose previste come fonte di
confisca c.d. allargata dall'articolo in esame;  e  proprio  per  non
potersi dire, parafrasando le SS.UU. ordinariamente  «...  perpetrato
in forma quasi professionale»  e  idoneo  a  porsi  «quale  fonte  di
illecita ricchezza». 
    Si vuol significare che se un condannato per associazione maliosa
puo'  essere  razionalmente  assimilato  (per  connotati  del   fatto
commesso, delle sue conseguenze, per coinvolgimento soggettivo, etc.)
ad altro condannato per lo stesso reato,  e  lo  stesso  puo'  dirsi,
mutatis mutandis, per i condannati per violazioni alla  legge  droga,
per estorsione e sequestro di persona a scopo di  estorsione,  usura,
corruzione, riciclaggio, etc., quindi per essi tutti puo'  poi  dirsi
(anzi deve dirsi,  alla  luce  della  citata  pronuncia  della  Corte
costituzionale) non irragionevole la presunzione di  cui  s'e'  detto
posta a base della confisca  c.d.  allargata,  non  altrettanto  puo'
dirsi per i condannati per ricettazione. 
    Accanto al condannato  per  ricettazione,  corrispondente  ad  un
modello  di  agente  tipico,  anche  non  professionale,   abbastanza
delineato e per il quale (anche  in  ragione  della  sua  sostanziale
assimilabilita' all'autore del delitto di cui all'art. 648-bis  c.p.)
mantiene certo fondamento la presunzione legale  in  esame,  si  pone
infatti la stragrande maggioranza di condannati per lo stesso delitto
per i  quali  non  e'  dato  di  rinvenire  analogo  fondamento  alla
presunzione; si tratta invero per  lo  piu'  di  soggetti  che  hanno
commesso  il  reato,  affatto  estemporaneamente,  procurandosi   sul
«mercato nero» res provento di delitto, per realizzare  un  risparmio
sul prezzo d'acquisto (come probabilmente nel  caso  dell'auto  della
Vitalone) o per acquisire la disponibilita'  di  beni  desiderati  ma
fuori  della  loro  portata  economica  o  legale  (si   pensi,   per
esemplificare, all'acquisto di beni di pregio, o ai documenti per gli
extracomunitari), o per altre innumerevoli ragioni. 
    Ne' vale a contenere in termini  razionalmente  accettabili  tale
eterogeneita' di condotte e tipi di autore il temperamento costituito
dall'esclusione dalle condanne per tale delitto fondanti la  confisca
di quelle inflitte per l'ipotesi di cui al  capoverso  dell'art.  648
c.p.; sono notori infatti i limiti affatto contenuti entro  cui,  per
consolidata  giurisprudenza,  puo'  riconoscersi  il  fatto  «...  di
particolare tenuita'», con verifica riferita primieramente al  valore
della res ricettata (che puo' essere non modesto e dunque impedire il
riconoscimento dell'attenuante pur rimanendo il fatto  asignificativo
nella  prospettiva  presuntiva  posta  a  base  della  confisca  c.d.
allargata), e dunque alla condotta e alle  sue  conseguenze,  ma  con
esclusione di qualsiasi valutazione della personalita' del reo, della
sua capacita' a delinquere e della sua pericolosita' sociale. 
    E' pertanto opinione della Corte che non  possa  dirsi  certa  la
compatibilita' con l'art. 3  Costituzione  dell'inserzione  dell'art.
648 c.p. nel catalogo dei delitti che, a termini dell'art. 12-sexies,
legge n. 356/1992, primo comma, fondano,  in  caso  di  condanna,  la
confisca c.d. allargata prevista dallo stesso articolo. 
    Quel che qui viene in rilievo non e'  infatti  la  ragionevolezza
dell'istituto  globalmente  considerato,  ma   la   possibilita'   di
applicazione dell'istituto nel caso di condanna per detto delitto. 
    E tanto in  primo  luogo,  conviene  ripeterlo,  per  la  «dubbia
ragionevolezza» dell'assimilazione della condanna per il  delitto  di
cui all'art. 648 c.p., alla condanna per gli  altri  «gravi»  delitti
indicati nell'articolo in esame, non potendo dirsi sempre  realizzata
in relazione alle condanne per ricettazione - per le  ragioni  appena
sopra esplicitate  -  quella  presunzione  di  redditivita'  illecita
sostanziante  il   presupposto   razionale   della   confisca   delle
accumulazioni ingiustificate e sproporzionate prevista dalla norma in
questione; ed infatti la «gravita'»  della  ricettazione  in  termini
fondanti la presunzione, lungi dall'essere  un  dato  ontologicamente
discendente dalla condotta siccome prevista e punita dal  legislatore
(come appunto  puo'  dirsi  per  gli  altri  delitti  del  catalogo),
costituisce precipitato in primo luogo del delitto c.d. presupposto e
puo' non essere (anzi di norma non e', pure fuori  dalla  sussunzione
del fatto nell'ipotesi attenuata di cui al  capoverso  dell'art.  648
c.p.) sintomatica di una redditivita' illecita che inquina  l'origine
del patrimonio «sproporzionato» rinvenuto  nella  disponibilita'  del
condannato. 
    Esiste poi, sempre a parere della Corte (e  per  come  pure  gia'
accennato),  un  ulteriore  profilo   di   dubbio   di   legittimita'
costituzionale, ancora una  volta  riferibile  al  parametro  di  cui
all'art. 3 Cost., per ingiustificata identita' di trattamento: invero
il riferimento alla condanna per il delitto di cui all'art. 648  c.p.
come elemento autoefficiente all'esplicarsi della presunzione e senza
altre specificazioni che impongano  (e  consentano)  al  giudice  una
concreta verifica della riconducibilita' della condanna al  paradigma
del  modello  di  ricettazione  fondante  la  presunzione  legale  di
arricchimento illecito [e non - piuttosto - a fatto la cui intrinseca
modestia,  pur  al  di  fuori  degli  ambiti  della  riconducibilita'
all'ipotesi attenuata del capoverso, non fondi  quella  presunzione],
si  risolve  in  una  oggettiva  assimilazione  di   trattamento   di
situazioni ontologicamente affatto diverse ed esplicanti una  diversa
significativita'   in   termini   di   ragionevole   presunzione   di
pericolosita' sociale. 
    Non  sembra  peraltro  (diversamente  da  quanto  argomentato  da
Sezioni Unite n. 920/2003, cit., ma ancora una volta con  riflessione
riferita all'istituto complessivamente considerato e sullo sfondo  di
una questione concreta all'esame della  Cassazione  nel  suo  massimo
consesso relativa ad un addebito di usura) che la congruita'  di  cui
qui si dubita possa dirsi «... rafforzata dal fatto  che  il  giudice
non e' autorizzato ad espropriare un patrimonio quando  comunque  sia
di ingente valore, ma deve invece accertarne la sproporzione rispetto
ai redditi ed alle attivita' economiche del condannato». 
    V'e' infatti che comunque alla  verifica  della  sproporzione  si
acceda sempre e comunque in forza e a motivo di una presunzione  «...
della provenienza illecita di un patrimonio» (sono sempre  parole  di
SS.UU. n. 920/2003) che - almeno  si  sospetta  da  parte  di  questo
remittente - non rinviene adeguato fondamento razionale nel  concreto
atteggiarsi del delitto di ricettazione nella prassi applicativa. Del
resto la varieta' delle situazioni  che  si  possono  prospettare  in
concreto  e'  talmente   multiforme   [tenuto   anche   conto   della
eventualita',   tutt'altro   che   remota,   che   l'indagine   sulla
sproporzione si rivolga ad epoche anche molto risalenti  rispetto  al
momento dell'accertamento, con conseguenti, obiettive ed  aggiuntive,
difficolta' per i condannati di recuperare, a distanza a volte  anche
di decenni, elementi (soprattutto documentali) di dimostrazione della
provenienza lecita, anche se esterna ai redditi  dichiarati  ed  alle
risorse derivanti  dalla  propria  attivita'  economica  (riferimento
unico della prova della sproporzione  da  parte  dell'accusa),  degli
impieghi finanziari nel singolo acquisto; e se pure (forse) la stessa
esistenza della previsione normativa dovrebbe per cio'  solo  imporre
loro particolare prudenza nella conservazione di  detti  elementi  di
prova (si' da imputare implicitamente esclusivamente a loro  medesimi
il deficit dimostrativo), non si puo' disconoscere che l'accertamento
finisce il piu' delle volte per coinvolgere anche soggetti terzi,  ai
quali, per definizione estranei al reato ed alla condanna, si  impone
di vincere la prova (solo presuntiva nel caso di prossimi  congiunti)
della  riferibilita'  di  fatto  al  condannato   di   propri   beni,
dimostrando le,  anche  molto  risalenti  nel  tempo,  disponibilita'
economiche necessarie all'acquisto in proprio ed alla titolarita' non
solo formale] che non sembra possa dirsi che il solo rilievo  di  una
sproporzione (anche rilevante) tra il valore dei beni da assoggettare
a misura  ed  i  redditi  e  o  comunque  l'attivita'  economica  del
condannato, valga in se' a ritenere inverata la presunzione legale di
accumulazione illecita. Vero e' che il «rischio» di  apprensione  con
la confisca c.d. allargata anche di beni lecitamente acquisiti rimane
contenuto in  limiti  intrinsecamente  accettabili  e  conformi  agli
intenti del legislatore, solo se  mantiene  fondamento  razionale  la
presunzione  di  illecito  arricchimento  che  sta  alla  base  della
condanna presupposto. Ch'e' proprio cio' di cui qui si dubita. 
    Ritenuta pertanto la rilevanza e non manifesta infondatezza della
questione di legittimita' costituzionale, in riferimento  all'art.  3
della Costituzione, e nei termini sin qui specificati, della norma di
cui all'art. 12-sexies, legge n. 356/2002, cui  la  Corte  deve  dare
applicazione nel presente giudizio di esecuzione,  se  ne  impone  il
rilievo d'ufficio e la rimessione alla Corte  costituzionale  per  la
decisione, con conseguentemente sospensione del giudizio in corso. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 1, legge cost.  n.  1/48  e  23  della  legge  n.
87/1953, solleva d'ufficio e dichiara rilevante e non  manifestamente
infondata, in riferimento all'art. 3 Costituzione,  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art.  12-sexies,  comma  primo,  del
decreto-legge 8 giugno 1992, n.  306,  convertito  con  modificazioni
nella legge 7 agosto 1992, n. 356 e successive  modificazioni,  nella
parte in cui comprende la condanna per il delitto di cui all'art. 648
c.p. nel catalogo di quelli fondanti la spedale ipotesi  di  confisca
prevista dallo stesso articolo. 
    Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata  trasmissione
degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che la presente ordinanza sia  notificata  alle  parti  in
causa  nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  e  sia
comunicata ai  Presidenti  delle  due  Camere  del  Parlamento  della
Repubblica. 
        Reggio Calabria, addi' 12 marzo 2015 
 
                        Il Presidente: Russo 
 
 
                                         Il Consigliere est.: Petrone