N. 154 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 marzo 2015
Ordinanza del 17 marzo 2015 emessa dalla Corte d'appello di Reggio Calabria nel procedimento di esecuzione nei confronti di Vitalone Rosaria. Mafia - Provvedimenti di contrasto alla criminalita' organizzata - Confisca ex art. 12-sexies del decreto-legge n. 306 del 1992 (confisca c.d. allargata) - Applicazione dell'istituto nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 648 cod. pen. (Ricettazione) - Irragionevole assimilazione alla condanna per gli altri "gravi" delitti indicati dalla disposizione censurata - Ingiustificata identita' di trattamento. - Decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, art. 12-sexies, comma 1. - Costituzione, art. 3.(GU n.34 del 26-8-2015 )
CORTE D'APPELLO DI REGGIO CALABRIA Sezione Prima Penale La Corte d'Appello di Reggio Calabria, Sezione Prima penale, riunita in camera di consiglio e cosi' composta: 1) Dott.ssa Iside Russo - Presidente; 2) Dott. Massimo Gullino - Consigliere; 3) Dott. Francesco Petrone - Consigliere rel. nell'esecuzione penale a carico di Vitalone Rosaria (Sinopoli, 4 dicembre 1959), nei cui confronti risulta esecutiva la sentenza 14 luglio 2009 di questa Corte d'Appello in riforma della sentenza emessa in data 16 febbraio 2006 del GUP del Tribunale di Palmi (irr. il 5 gennaio 2010); richiamata la propria ordinanza di sequestro preventivo e confisca ex artt. 321, 676, comma 1, 667, comma 4, c.p.p. e 12-sexies, legge n. 356/1992 emessa in data 29.10/11.11.2013 nell'ambito della procedura esecutiva n. 257/13 R.G.Esec.1ª; vista l'opposizione ex dell'art. 667, comma 4, c.p.p., verso detto provvedimento proposta in data 25 novembre 2013 dalla condannata unitamente ai terzi interessati Panuccio Antonio e Panuccio Carmela oltre che da Panuccio Carmelo (pure asseritamente terzo interessato, quantunque non intestatario di alcuno dei beni in sequestro); a scioglimento della riserva formulata all'udienza camerale del 14 ottobre 2014 all'esito della discussione delle parti; Osserva Con ordinanza 29 ottobre 2013 depositata in data 11 novembre 2013 (notificata il 16 novembre 2013) la Corte, accogliendo la richiesta del P.G. in sede, sulle premesse: che la Vitalone e' stata condannata alla pena di anni 1 mesi 4 di reclusione ed euro 400,00 di multa, con la citata sentenza 14 luglio 2009 di questa Corte d'Appello (irr. il 5 gennaio 2010), per il reato di cui agli artt. 110, 648, c.p., commesso in Reggio Calabria dall'8 aprile 2003 (data del furto) al 31 agosto 2004 (data dell'accertamento), titolo di reato per il quale e' prevista la speciale confisca dei beni di cui all'art. 12-sexies del D.L. n. 306 citato; che dagli accertamenti svolti dal R.O.N.I. del C.do Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria su espressa delega della Procura Generale in sede (condensati nelle note Informative 23 giugno 2011, n. 51/30-8-2010 e 20 maggio 2013, n. 51/30.11.2010) era emerso che alla condannata era riferibile, oltre ad un consistente patrimonio immobiliare (non oggetto di richiesta], la disponibilita' di risparmi per importi davvero considerevoli [per lo piu' i buoni postali, i depositi ed i titoli oggetto di richiesta, ma non solo]; che, a fronte di cio' l'analisi dei flussi di reddito (peraltro espressi al lordo delle imposte) riferibili alla condannata ed al suo nucleo familiare nel periodo compreso tra il 1990 ed il 2011 (gli impieghi piu' considerevoli si riferivano comunque all'ultimo decennio), rivelavano una media attestantesi intorno ai 12.000,00 euro annui [ovvero una somma gia' difficilmente compatibile con il mantenimento di un nucleo familiare composto da cinque persone e che certo non avrebbe potuto consentire l'accumulo dei rilevanti risparmi oggetto della richiesta tanto piu' che ad essi si dovevano cumulare gli esborsi corrisposti per gli acquisti immobiliari pure effettuati nello stesso periodo]; ordinava la confisca ex art. 676, comma 1, c.p.p., 12-sexies, legge n. 356/1992 e 12 (disponendone nel contempo il sequestro preventivo a termini dell'art. 321 c.p.p.): dei Buoni Postali meglio indicati nella ordinanza (rispettivamente intestati alla condannata ed al coniuge Panuccio Antonio ed alla condannata ed alla figlia Carmela) per un totale complessivo di euro 86.500,00; del Libretto Postale n. 23436632 acceso il 14 febbraio 2005 presso Poste Italiane SPA - Filiale di San Procopio con saldo (al 2 agosto 2012) pari ad euro 28.107,20 intestato alla condannata ed al coniuge Panuccio Antonio; del Deposito Titoli n. 2185989 acceso il 14 febbraio 2005 presso Poste Italiane SPA - Filiale di San Procopio con titolo 416666 CAP 07/13 RELOAD3II sottoscritto nell'anno 2007 e pari ad euro 5.000,00 e con titolo 431504 BP 08/14 RELOAD3IIC sottoscritto nell'anno 2008 e pari ad euro 53.000,00 intestato alla condannata ed al coniuge Panuccio Antonio. Con atto a firma dei difensori di fiducia depositato in data 25 novembre 2013, verso la predetta ordinanza interponevano rituale opposizione la Vitalone ed i terzi interessati Panuccio Antonio e Panuccio Carmela, unitamente a Panuccio Carmelo, pure figlio della Vitalone e asseritamente terzo interessato, quantunque non formale intestatario di alcuno dei beni in sequestro). Gli opponenti, ribadito in capo al requirente l'onere della prova della sproporzione del valore dei beni nella disponibilita' della famiglia Panuccio-Vitalone, pur riservando al successivo deposito di una consulenza di parte la ricostruzione storica dei volumi reddituali e dunque la dimostrazione della compatibilita' degli stessi con i risparmi oggetto di confisca, evidenziavano da subito come, proprio in punto di verifica dell'asserita sproporzione tra i valori oggetto di confisca ed i redditi leciti prodotti dal nucleo familiare, gli accertamenti del RONI fossero da ritenersi gravemente carenti in quanto non aventi nel conto altre lecite redditivita' facenti capo al nucleo familiare (cui doveva ascriversi anche il Panuccio Carmelo). In ogni caso, si osservava come la Corte fosse andata ultra petitum quanto alla confisca dei Buoni Postali cointestati alla Panuccio Carmela (avendo il PG chiestone il sequestro per la sola quota facente capo alla Vitalone) ed aveva omesso di considerare anche la discrasia apprezzabile tra i dati documentali derivanti dai tabulati INPS, di cui all'allegato 3 dell'Informativa del RONI dei Carabinieri, e la ricostruzione della capacita' reddituale poi concretamente effettuata nella sintesi riepilogativa. Ancora, si evidenziava: che parte considerevole della capacita' reddituale del nucleo familiare derivava da poste reddituali non oggetto di dichiarazione fiscale, e non poteva esservi dubbio che la sproporzione dovesse essere apprezzata, per espressa indicazione normativa, non solo in relazione al reddito dichiarato, ma anche in relazione alla attivita' economica; che s'erano presi in considerazione solo i redditi prodotti a far tempo dal 1991, mentre il nucleo familiare aveva iniziato a produrre redditi gia' dal 1978; ch'era stata omessa la considerazione delle disponibilita' economiche aggiuntive venute dai redditi agrari dei terreni posseduti dai coniugi e dai contributi integrativi dell'AGEA; delle indennita' di disoccupazione percepite; del fatto che il Panuccio Antonio e' titolare di doppio trattamento pensionistico, uno dei quali erogato da ente previdenziale australiano di cui non s'era tenuto conto; ch'era stata omessa la considerazione dei redditi prodotti all'estero da Panuccio Carmelo negli anni 2000-2003; che anche l'esame dei flussi di spesa, elaborati sulla base degli indicatori ISTAT di consumo medio familiare, non tenevano nella giusta considerazione l'elevata capacita' di risparmio di un nucleo familiare come quello della Vitalone, conducente un tenore di vita piu' che parco. I temi del giudizio di opposizione venivano dalla difesa approfonditi in una memoria depositata il 5 giugno 2014 a corredo di corposa produzione documentale pure contestualmente effettuata, fatta oggetto di approfondimento in una consulenza tecnica di parte. Si assumeva cosi' di aver dimostrato redditi leciti in capo al nucleo familiare pari a circa 25.500 euro annui, asseritamente ritenuti compatibili con l'accumulo dei risparmi oggetti di confisca, provvedimento di cui s'e' pertanto invocata la revoca. Tanto premesso, reputa la Corte rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12-sexies, comma primo, legge n. 356/1992, in relazione all'art. 3 Cost. nella parte in cui annovera il delitto di cui all'art. 648 cod. pen. nel catalogo dei delitti per i quali, nel caso di sentenza di condanna o applicazione di pena ex art. 444 c.p.p., e' sempre disposta la speciale ipotesi di confisca prevista dallo stesso articolo. La questione e' rilevante nel presente giudizio essendo proprio la condanna irrevocabile per tale delitto inflitta alla Vitalone il primo fondamentale presupposto per confermare (in ipotesi anche solo parzialmente) la confisca gia' disposta inaudita altera parte a termini dell'art. 676 c.p.p. e dell'art. 12-sexies legge n. 356/1992, dopo la proposta opposizione ex art. 667 comma 4 c.p.p. In ogni caso, ed ancora in punto di evidenza della rilevanza della questione, mette conto anticipare che la Corte, senza voler qui soffermarsi approfonditamente sugli esiti del giudizio di opposizione, ritiene che debba essere sostanzialmente confermata, almeno nella sua maggiore consistenza, la confisca dei risparmi postali nella disponibilita' della condannata. Davvero sinteticamente, puo' al riguardo significarsi che, pur riconoscendosi valenza implementativa ad alcuni degli apporti finanziari ulteriori (perche' non considerati nell'Informativa di PG fondante l'ordinanza) evidenziati dall'opponente e dai terzi interessati, deve comunque escludersi che gli stessi possano davvero ribaltare l'evidenza di una sproporzione che rimane di obiettiva e manifesta consistenza; gia' nell'ordinanza opposta s'era del resto rilevato come i buoni e i rapporti postali confiscati (sostanzialmente dunque denaro contante) fossero stati realizzati di fatto unitamente ad investimenti immobiliari, non oggetto di confisca, ma i cui esborsi devono chiaramente considerati come in grado di erodere la capacita' di risparmio ed investimento del nucleo familiare. E tanto senza considerare che, trattandosi di beni comunque - al meno - in considerevole quota nella titolarita' anche formale della sola condannata, risulta non del tutto propria la considerazione globale delle risorse economiche del nucleo familiare proposta dalla difesa, chiaramente indirizzata a «coprire» con risorse dei familiari - terzi interessati e non - anche l'ammontare della quota (del 50%) del patrimonio confiscato nella titolarita' della sola condannata. Invero solo nel caso di beni formalmente intestati a soggetti diversi dal condannato, grava sull'accusa pure la dimostrazione dell'effettiva disponibilita' in capo al condannato del bene medesimo (qui denunciata proprio dalla contestazione dei rapporti); qualora poi si tratti di beni formalmente intestati ai suoi prossimi congiunti, per fondare adeguatamente gli indizi di disponibilita' materiale derivanti da tale specifica relazione, occorre altresi' (ma e' ancora una volta, pure, sufficiente) che venga offerta dal requirente la dimostrazione dell'incapienza dei redditi leciti prodotti da questi ultimi avuto riguardo al valore del bene medesimo. Nella specie, dunque, rispetto alla quota formalmente intestata alla Vitalone (ma il ragionamento mutatis mutandis riguarda anche la quota in testa al Panuccio Antonio), la difesa avrebbe dovuto fornire la prova che i risparmi postali sequestrati fossero interamente provenienti da risorse proprie del singolo cointestatario (prova che certamente non e' stata fornita), non potendo a cio' bastare l'allegazione - per esemplificare - che anche il Panuccio Carmelo avesse contribuito con le proprie risorse finanziarie (pure prodotte all'estero) a costituire la provvista dei risparmi confiscati (non rinvenendosi ragione per cui lo stesso, ove cosi' fosse stato, avesse inteso lasciare che solo la madre ed il padre si rendessero intestatari di buoni fruttiferi sottoscritti anche con consistenti risorse sue proprie; tanto piu' che cio' non era stato fatto con l'altra figlia Carmela e per importi di molto piu' contenuti). In ultima analisi, la Corte si avvia a confermare (pressoche' integralmente) l'ordinanza di confisca opposta. Tanto chiarito la necessita' preliminare di sciogliere i dubbi di legittimita' costituzionale che ci si accinge a prospettare costituisce diretta conseguenza dell'assetto, anche interpretativo, che la disciplina della confisca che ci occupa ha assunto. E' noto infatti che, per far luogo alla confisca conseguente a condanna per uno dei reati indicati nell'art. 12-sexies, e' necessario - ma anche sufficiente - che sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attivita' economica e il valore economico dei beni da confiscare, e che non emerga una giustificazione credibile circa la provenienza di essi, non essendo invece sufficiente la prova negativa della loro non provenienza dal reato per cui e' stata inflitta condanna. Costituisce infatti ius receptum che non risulta affatto necessaria la dimostrazione di un nesso di «pertinenzialita'» tra il bene da assoggettare a confisca ed il reato per cui s'e' pronunciata condanna e soprattutto che la confisca dei singoli beni non e' esclusa per il fatto che essi siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato commesso o che il loro valore superi il provento del medesimo reato. Punto di riferimento indiscusso al riguardo rimane ancora Cass. Pen. Sez. Un., 17 dicembre 2003, n. 920 (dep. 19 gennaio 2004), Montella, che risolvendo un contrasto di decisioni proprio in ordine al problema del rapporto di pertinenzialita' tra beni confiscabili sulla base dell'art. 12-sexies e reati per cui e' intervenuta condanna [si dava atto dell'esistenza di tre distinti filoni interpretativi non univoci: il primo, che escludeva la necessita' di qualsiasi nesso esistente tra beni confiscabili e reati; l'altro che, al contrario, pretendeva che fosse almeno ipotizzabile la provenienza delittuosa dei beni; infine, il terzo che individuava un nesso di pertinenzialita' piu' ampio, riferito cioe' non allo specifico fatto delittuoso, ma all'attivita' criminosa facente capo ad un soggetto], ha specificato che «... la norma in esame non offre alcuna indicazione positiva in ordine al rapporto che dovrebbe sussistere tra i beni ed il reato specifico ed anzi la legge 7 marzo 1996, n. 108, nell'indicare, come s'e' detto, un campo operativo della nostra confisca piu' ampio rispetto al tantundem, induce ad allentare ulteriormente il nesso di derivazione della cosa, non solo dal delitto per cui si procede, ma anche dal valore economico corrispondente ...»; percio' «... dire che la norma autorizza a valorizzare anche ipotesi di relazioni mediate, indirette o occasionali del bene col reato, significa lasciare alla discrezionalita' creativa dell'interprete la determinazione dei presupposti di applicabilita' della confisca, in violazione patente del principio di legalita'»; la stessa pronuncia ha poi pure escluso che la norma «... richieda un accertamento della provenienza dei beni non dal reato oggetto del giudizio, ma dall'attivita' illecita del condannato», per concludere infine che «... il legislatore, nell'individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilita' dei beni, non ha presupposto la derivazione di tali beni dall'episodio criminoso singolo per cui la condanna e' intervenuta, ma ha correlato la confisca proprio alla sola condanna del soggetto che di quei beni dispone, senza che necessitino ulteriori accertamenti in ordine all'attitudine criminale. In altri termini il giudice, attenendosi al tenore letterale della disposizione, non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per cui ha pronunziato condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l'attivita' criminosa del condannato. Cosa che, sotto un profilo positivo, significa che, una volta intervenuta la condanna, la confisca va sempre ordinata quando sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilita' e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attivita' economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose. Con il corollario che, essendo la condanna e la presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realta' attuali, la confiscabilita' dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosita' presente, non e' certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si e' proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui e' intervenuta condanna. Si conferma in tal modo quanto gia' queste Sezioni Unite hanno affermato (17 luglio 2001, Derouach) che cioe' ci si trova dinanzi ad una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all'affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla legge 32 maggio 1965, n. 575.». Questi essendo i presupposti ed i criteri cui deve attenersi la Corte nel giudizio di opposizione, v'e' che la loro evidenza vale nel contempo a rafforzare la rilevanza ai fini della decisione e, per quanto qui si ritiene, pure la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale che qui si propone. Colpisce invero nella vicenda in esame la circostanza che la Vitalone, ed il suo nucleo familiare, si apprestano a subire la conferma - pressoche' integrale - della forzosa ablazione di un cospicuo patrimonio mobiliare [in parte considerevole forse (giacche' non s'e' proposta un'autentica e piena allegazione difensiva al riguardo) provento dell'accaparramento di risorse finanziarie provenienti dalla liquidazione di cespiti facenti capo al suocero premorto della condannata con lesione dei diritti di altri eredi (tant'e' che la stessa difesa ha dato conto della pendenza di un contenzioso civile sul punto)] in primo luogo in ragione della (unica) definitiva condanna per la ricettazione di una autovettura commessa in epoca prossima alla data del furto (in Reggio Calabria l'8 aprile 2003) ed accertata il 31 agosto 2004. E' parsa quindi necessaria una riflessione sulla tenuta costituzionale della norma che tanto prevede ed impone. S'e' gia' detto che, come chiarito dalle Sezioni Unite citate, la confisca ex art. 12-sexies, legge n. 356/1992, ha come presupposto, non la derivazione dei beni dall'episodio criminoso per cui la condanna e' intervenuta, ma la mera condanna del soggetto che di quei beni dispone e senza che si ponga verifica in ordine all'attitudine criminale del reo, essendo necessaria e sufficiente la sola esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilita' e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attivita' economica e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose. In altre parole, il legislatore ha posto a fondamento dell'istituto una presunzione di provenienza delle risorse economiche e finanziarie (purche' sproporzionate ed ingiustificate, e dunque vincibile dalla dimostrazione contraria) rinvenute in capo al condannato dalla accumulazione ordinariamente connessa alla redditivita' illecita derivante dalla commissione di alcuni delitti; essendo appunto quell'accumulazione l'elemento in se' pure ritenuto intrinsecamente dimostrativo della pericolosita' sociale (fondamento generale della misura di sicurezza patrimoniale), dovendosi appunto sottrarre al reo il patrimonio sproporzionato astrattamente utilizzabile per «finanziare» la commissione di altri delitti e/o comunque reimpiegabile nel circuito economico-finanziario alterando la fisiologia del sistema economico legale. Questa essendo indubitabilmente la ratio dell'istituto non disconosce la Corte che la stessa ha gia' positivamente superato il vaglio di costituzionalita' della Corte costituzionale, che ha escluso che la confisca c.d. allargata violi il principio di uguaglianza e il diritto di difesa, anche in riferimento all'art. 42 Cost., «... avendo il legislatore non irragionevolmente ritenuto di presumere l'esistenza di un nesso pertinenziale tra alcune categorie di reati e i beni di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e che risultino di valore sproporzionato rispetto al reddito o all'attivita' economica del condannato stesso» (Ord. n. 18/1996). Anche la pronuncia delle Sezioni Unite n. 920/2003 piu' volte citata ha sul punto considerato che «La conclusione raggiunta e' conforme ad una fondamentale scelta di politica criminale del legislatore ...» e che «... in realta' e' proprio contro questa scelta politica che, in modo piu' o meno palese, si nutrono preoccupazioni di legittimita' costituzionale, tanto che le interpretazioni che in qualche modo cercano di introdurre un concreto nesso di derivazione non muovono da vere e proprie considerazioni esegetiche o sistematiche, ma da una supposta necessita' di adeguamento del dettato normativo ai principi costituzionali», per evidenziare appunto, sulla scia della citata ordinanza n. 18 del 1996 della Corte costituzionale, che il fondamento di ragionevolezza della presunzione legale fondante la confisca in argomento e' tutta residente nella notoria capacita' di alcuni particolari delitti, almeno nel loro normale atteggiarsi, individuati dal legislatore ad essere «... perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza» (Cass. Pen. Sez. Un., n. 920/2003 cit.). Non e' tuttavia nei termini appena riferiti che, a parere di questa Corte, la norma in questione pone dubbi di legittimita' costituzionale. Nel catalogo dei delitti la condanna per i quali l'art. 12-sexies consente la confisca infatti viene, infatti, annoverato anche il delitto di ricettazione previsto e punito dall'art. 648 cod. pen. (con la sola esclusione dell'ipotesi attenuata di cui al capoverso dello stesso articolo) per il quale - si ritiene - non abbia fondamento razionale la presunzione legale che lo eleva a fonte ordinaria di illecito accumulo di ricchezza. La prassi giurisdizionale [di cui sono evidente espressione ancor prima che le rilevazioni statistiche del Ministero della giustizia, la sua risalente attribuzione alla cognizione del Pretore pure a fronte di una pena edittale non esigua e dunque per materia] e' invero in grado di denunciare senza necessita' di particolari dimostrazioni l'enorme diffusivita' di tale tipologia di delitto e soprattutto la sua varieta' casistica (evidentemente precipitato di una condotta incriminatrice che sul piano strutturale ne fa un «reato da reato»), sia sul piano della criminogenesi che sul piano del modello di agente tipo, tutti elementi che lo rendono difficilmente assimilabile alle altre fattispecie delittuose previste come fonte di confisca c.d. allargata dall'articolo in esame; e proprio per non potersi dire, parafrasando le SS.UU. ordinariamente «... perpetrato in forma quasi professionale» e idoneo a porsi «quale fonte di illecita ricchezza». Si vuol significare che se un condannato per associazione maliosa puo' essere razionalmente assimilato (per connotati del fatto commesso, delle sue conseguenze, per coinvolgimento soggettivo, etc.) ad altro condannato per lo stesso reato, e lo stesso puo' dirsi, mutatis mutandis, per i condannati per violazioni alla legge droga, per estorsione e sequestro di persona a scopo di estorsione, usura, corruzione, riciclaggio, etc., quindi per essi tutti puo' poi dirsi (anzi deve dirsi, alla luce della citata pronuncia della Corte costituzionale) non irragionevole la presunzione di cui s'e' detto posta a base della confisca c.d. allargata, non altrettanto puo' dirsi per i condannati per ricettazione. Accanto al condannato per ricettazione, corrispondente ad un modello di agente tipico, anche non professionale, abbastanza delineato e per il quale (anche in ragione della sua sostanziale assimilabilita' all'autore del delitto di cui all'art. 648-bis c.p.) mantiene certo fondamento la presunzione legale in esame, si pone infatti la stragrande maggioranza di condannati per lo stesso delitto per i quali non e' dato di rinvenire analogo fondamento alla presunzione; si tratta invero per lo piu' di soggetti che hanno commesso il reato, affatto estemporaneamente, procurandosi sul «mercato nero» res provento di delitto, per realizzare un risparmio sul prezzo d'acquisto (come probabilmente nel caso dell'auto della Vitalone) o per acquisire la disponibilita' di beni desiderati ma fuori della loro portata economica o legale (si pensi, per esemplificare, all'acquisto di beni di pregio, o ai documenti per gli extracomunitari), o per altre innumerevoli ragioni. Ne' vale a contenere in termini razionalmente accettabili tale eterogeneita' di condotte e tipi di autore il temperamento costituito dall'esclusione dalle condanne per tale delitto fondanti la confisca di quelle inflitte per l'ipotesi di cui al capoverso dell'art. 648 c.p.; sono notori infatti i limiti affatto contenuti entro cui, per consolidata giurisprudenza, puo' riconoscersi il fatto «... di particolare tenuita'», con verifica riferita primieramente al valore della res ricettata (che puo' essere non modesto e dunque impedire il riconoscimento dell'attenuante pur rimanendo il fatto asignificativo nella prospettiva presuntiva posta a base della confisca c.d. allargata), e dunque alla condotta e alle sue conseguenze, ma con esclusione di qualsiasi valutazione della personalita' del reo, della sua capacita' a delinquere e della sua pericolosita' sociale. E' pertanto opinione della Corte che non possa dirsi certa la compatibilita' con l'art. 3 Costituzione dell'inserzione dell'art. 648 c.p. nel catalogo dei delitti che, a termini dell'art. 12-sexies, legge n. 356/1992, primo comma, fondano, in caso di condanna, la confisca c.d. allargata prevista dallo stesso articolo. Quel che qui viene in rilievo non e' infatti la ragionevolezza dell'istituto globalmente considerato, ma la possibilita' di applicazione dell'istituto nel caso di condanna per detto delitto. E tanto in primo luogo, conviene ripeterlo, per la «dubbia ragionevolezza» dell'assimilazione della condanna per il delitto di cui all'art. 648 c.p., alla condanna per gli altri «gravi» delitti indicati nell'articolo in esame, non potendo dirsi sempre realizzata in relazione alle condanne per ricettazione - per le ragioni appena sopra esplicitate - quella presunzione di redditivita' illecita sostanziante il presupposto razionale della confisca delle accumulazioni ingiustificate e sproporzionate prevista dalla norma in questione; ed infatti la «gravita'» della ricettazione in termini fondanti la presunzione, lungi dall'essere un dato ontologicamente discendente dalla condotta siccome prevista e punita dal legislatore (come appunto puo' dirsi per gli altri delitti del catalogo), costituisce precipitato in primo luogo del delitto c.d. presupposto e puo' non essere (anzi di norma non e', pure fuori dalla sussunzione del fatto nell'ipotesi attenuata di cui al capoverso dell'art. 648 c.p.) sintomatica di una redditivita' illecita che inquina l'origine del patrimonio «sproporzionato» rinvenuto nella disponibilita' del condannato. Esiste poi, sempre a parere della Corte (e per come pure gia' accennato), un ulteriore profilo di dubbio di legittimita' costituzionale, ancora una volta riferibile al parametro di cui all'art. 3 Cost., per ingiustificata identita' di trattamento: invero il riferimento alla condanna per il delitto di cui all'art. 648 c.p. come elemento autoefficiente all'esplicarsi della presunzione e senza altre specificazioni che impongano (e consentano) al giudice una concreta verifica della riconducibilita' della condanna al paradigma del modello di ricettazione fondante la presunzione legale di arricchimento illecito [e non - piuttosto - a fatto la cui intrinseca modestia, pur al di fuori degli ambiti della riconducibilita' all'ipotesi attenuata del capoverso, non fondi quella presunzione], si risolve in una oggettiva assimilazione di trattamento di situazioni ontologicamente affatto diverse ed esplicanti una diversa significativita' in termini di ragionevole presunzione di pericolosita' sociale. Non sembra peraltro (diversamente da quanto argomentato da Sezioni Unite n. 920/2003, cit., ma ancora una volta con riflessione riferita all'istituto complessivamente considerato e sullo sfondo di una questione concreta all'esame della Cassazione nel suo massimo consesso relativa ad un addebito di usura) che la congruita' di cui qui si dubita possa dirsi «... rafforzata dal fatto che il giudice non e' autorizzato ad espropriare un patrimonio quando comunque sia di ingente valore, ma deve invece accertarne la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attivita' economiche del condannato». V'e' infatti che comunque alla verifica della sproporzione si acceda sempre e comunque in forza e a motivo di una presunzione «... della provenienza illecita di un patrimonio» (sono sempre parole di SS.UU. n. 920/2003) che - almeno si sospetta da parte di questo remittente - non rinviene adeguato fondamento razionale nel concreto atteggiarsi del delitto di ricettazione nella prassi applicativa. Del resto la varieta' delle situazioni che si possono prospettare in concreto e' talmente multiforme [tenuto anche conto della eventualita', tutt'altro che remota, che l'indagine sulla sproporzione si rivolga ad epoche anche molto risalenti rispetto al momento dell'accertamento, con conseguenti, obiettive ed aggiuntive, difficolta' per i condannati di recuperare, a distanza a volte anche di decenni, elementi (soprattutto documentali) di dimostrazione della provenienza lecita, anche se esterna ai redditi dichiarati ed alle risorse derivanti dalla propria attivita' economica (riferimento unico della prova della sproporzione da parte dell'accusa), degli impieghi finanziari nel singolo acquisto; e se pure (forse) la stessa esistenza della previsione normativa dovrebbe per cio' solo imporre loro particolare prudenza nella conservazione di detti elementi di prova (si' da imputare implicitamente esclusivamente a loro medesimi il deficit dimostrativo), non si puo' disconoscere che l'accertamento finisce il piu' delle volte per coinvolgere anche soggetti terzi, ai quali, per definizione estranei al reato ed alla condanna, si impone di vincere la prova (solo presuntiva nel caso di prossimi congiunti) della riferibilita' di fatto al condannato di propri beni, dimostrando le, anche molto risalenti nel tempo, disponibilita' economiche necessarie all'acquisto in proprio ed alla titolarita' non solo formale] che non sembra possa dirsi che il solo rilievo di una sproporzione (anche rilevante) tra il valore dei beni da assoggettare a misura ed i redditi e o comunque l'attivita' economica del condannato, valga in se' a ritenere inverata la presunzione legale di accumulazione illecita. Vero e' che il «rischio» di apprensione con la confisca c.d. allargata anche di beni lecitamente acquisiti rimane contenuto in limiti intrinsecamente accettabili e conformi agli intenti del legislatore, solo se mantiene fondamento razionale la presunzione di illecito arricchimento che sta alla base della condanna presupposto. Ch'e' proprio cio' di cui qui si dubita. Ritenuta pertanto la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, e nei termini sin qui specificati, della norma di cui all'art. 12-sexies, legge n. 356/2002, cui la Corte deve dare applicazione nel presente giudizio di esecuzione, se ne impone il rilievo d'ufficio e la rimessione alla Corte costituzionale per la decisione, con conseguentemente sospensione del giudizio in corso.
P. Q. M. Visti gli artt. 1, legge cost. n. 1/48 e 23 della legge n. 87/1953, solleva d'ufficio e dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12-sexies, comma primo, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992, n. 356 e successive modificazioni, nella parte in cui comprende la condanna per il delitto di cui all'art. 648 c.p. nel catalogo di quelli fondanti la spedale ipotesi di confisca prevista dallo stesso articolo. Sospende il giudizio in corso e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento della Repubblica. Reggio Calabria, addi' 12 marzo 2015 Il Presidente: Russo Il Consigliere est.: Petrone