N. 2 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 16 luglio 2015
Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (merito) depositato il 16 luglio 2015 . Giurisdizione domestica - Controversie concernenti il rapporto di impiego dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica - Disciplina regolamentare contenuta nel decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34 - Attribuzione alla Presidenza della Repubblica dell'autodichia sui propri dipendenti - Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nei confronti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e della Presidenza della Repubblica - Denunciato contrasto con il principio di uguaglianza - Lesione del diritto di agire in giudizio e della difesa come diritto inviolabile - Violazione del divieto di istituire giudici speciali - Violazione della riserva di legge prevista con riguardo all'ordinamento giudiziario e a ogni magistratura e con riguardo al giusto processo - Richiesta alla Corte costituzionale di dichiarare che non spetta al Presidente della Repubblica deliberare i decreti presidenziali sopra indicati nella parte in cui precludono l'accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune in riferimento alle controversie di lavoro insorte con lo stesso. - Decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34. - Costituzione, artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, comma secondo (quest'ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria), 108, primo comma, e 111, primo comma. In via subordinata: Giurisdizione domestica - Controversie concernenti il rapporto di impiego dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica - Disciplina regolamentare contenuta nel decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34 - Attribuzione alla Presidenza della Repubblica dell'autodichia sui propri dipendenti - Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nei confronti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e della Presidenza della Repubblica - Denunciata lesione della garanzia del ricorso in Cassazione contro le sentenze per violazione di legge - Richiesta alla Corte costituzionale di dichiarare che non spetta al Presidente della Repubblica deliberare i decreti presidenziali sopra indicati nella parte in cui non consentono, contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali (Collegio giudicante di primo grado e Collegio di appello), previsti dai sopra indicati decreti presidenziali, il ricorso in Cassazione per violazione di legge. - Decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34. - Costituzione, artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 102, comma secondo (quest'ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria), 108, primo comma, e 111, primo comma.(GU n.34 del 26-8-2015 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sezioni unite civili Composta dagli illustrissimi signori magistrati: dott. Luigi Antonio Rovelli - Primo Presidente f.f.; dott. Maria Gabriella Luccioli - Presidente Sezione; dott. Salvatore Di Palma - Consigliere; dott. Giovanni Amoroso - Consigliere; dott. Aurelio Cappabianca - Consigliere; dott. Vittorio Nobile - Rel. consigliere; dott. Angelo Spirito - Consigliere; dott. Adelaide Amendola - Consigliere; dott. Alberto Giusti - Consigliere; ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso n. 15044/2012 proposto da: Varano Sandro, Palmese Roberto, Iacovella Mario, Valeri Anna Maria, Valeri Ivana, Piazza Giovanni, elettivamente domiciliati in Roma, Via Dora n. 1, presso lo studio dell'avvocato Vincenzo Cerulli Irelli, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato Rosario Siciliano, per delega a margine del ricorso; Ricorrenti contro: Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis; Controricorrente, nonche' contro: Presidenza della Repubblica; Intimata avverso la decisione n. 2/2012 del Collegio di appello, depositata il 17 aprile 2012; Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18 novembre 2014 dal consigliere dott. Vittorio Nobile; Uditi gli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli, Federico Basilica dell'Avvocatura generale dello Stato; Udito il pubblico ministero in persona dell'avvocato generale dott. Umberto Apice, che ha concluso per il dichiarare ammissibile il ricorso ex art. 111 della Costituzione, in subordine sollevare il conflitto di attribuzione. Ritenuto in fatto Con ricorso del 26 novembre 2010 gli odierni ricorrenti, in epigrafe indicati unitamente ad altri 55 dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, chiedevano il riconoscimento del diritto alla corresponsione delle somme maturate a titolo di indennita' perequativa e di indennita' di comando, non piu' corrisposte dal Segretariato a far data dal loro inquadramento nei ruoli, avvenuto in data 1° dicembre 2005 (ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n. 74/N del 18 ottobre 2005, al livello iniziale delle rispettive carriere di appartenenza, senza il riconoscimento dell'anzianita' gia' maturata e con la soppressione delle dette indennita'), con la condanna dell' amministrazione al pagamento delle somme quantificate in ricorso per il periodo dal 1° dicembre 2005 al 1° dicembre 2010, oltre rivalutazione e interessi. Il Collegio giudicante di primo grado, con decisione n. 3/2011, respingeva il ricorso. Gli odierni ricorrenti proponevano appello avverso la detta decisione deducendo, tra l'altro, la violazione dei principi costituzionali di uguaglianza, imparzialita', buon andamento e parita' di trattamento economico dei pubblici dipendenti, non essendo stata calcolata, al momento dell'inquadramento, l'anzianita' maturata, con irrazionale disparita' nei confronti dei colleghi gia' inquadrati in ruolo, nonche' la violazione, nel contempo, dell'art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (chiedendo a tale ultimo proposito la sospensione del giudizio con la rimessione degli atti alla Corte di giustizia dell'Unione europea). Il Segretariato generale resisteva al gravame chiedendone il rigetto. Il Collegio d'appello, con decisione depositata il 17 aprile 2012, rigettava l'appello e compensava le spese. In particolare, il detto Collegio affermava la piena applicabilita' nella fattispecie della norma speciale di cui all'art. 28, comma 2, del Regolamento del personale del Segretariato generale che prevede la salvaguardia della sola retribuzione principale percepita dal dipendente prima del passaggio in ruolo, con esclusione, quindi, delle indennita' accessorie. «In ogni caso» il Collegio rilevava altresi' che «anche qualora si volesse ritenere applicabile la normativa generale sugli impiegati civili dello Stato non potrebbe pervenirsi a diversa soluzione». Il Collegio, poi, escludeva che nella specie potesse parlarsi di ingiusta sperequazione sia con riferimento al precedente trattamento goduto nel periodo di comando, sia con riferimento ai colleghi gia' in ruolo di pari qualifica e, parimenti per la inesistenza di situazioni oggettivamente discriminatorie, affermava che non ricorrevano i presupposti per l'accoglimento della richiesta di sospensione del giudizio con rimessione degli atti alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Per la cassazione di tale decisione i dipendenti in epigrafe indicati hanno proposto ricorso con due motivi (violazione degli articoli 202 decreto del Presidente della Repubblica n. 3/57 e 28 del Regolamento sullo stato giuridico e sul trattamento economico del personale del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica; violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 3, 36, 97 Cost. e del principio di parita' di trattamento economico nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 45 decreto legislativo n. 165/2001) preceduti da una premessa sulla ammissibilita' del ricorso. Il Segretariato generale ha resistito con controricorso, deducendo la inammissibilita' del ricorso (stante l'autodichia della Presidenza della Repubblica) e, comunque, la infondatezza dello stesso. I ricorrenti e il controricorrente hanno, poi, depositato memoria ex art. 378 codice di procedura civile. Nell'udienza del 17 dicembre 2013 la causa, con ordinanza interlocutoria n. 2288 depositata il 3 febbraio 2014, e' stata rinviata a nuovo ruolo, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sull'ordinanza di queste Sezioni Unite n. 10400/2013, riguardante la autodichia del Senato in tema di controversie dei suoi dipendenti (ed in specie la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12 del Regolamento del Senato 17 febbraio 1971 e successive modificazioni, per contrasto con gli articoli 3, 24, 102 secondo comma, 111 commi primo, secondo e settimo, e 113 della Costituzione). In particolare, queste Sezioni Unite, con la citata ordinanza n. 2288/2014, nel ritenere di dover attendere la pronuncia della Corte costituzionale, hanno rilevato che, «a parte le considerazioni connesse alla diversita' delle fonti delle autodichie... nonche' dei rispettivi organi giudicanti previsti dalle specifiche normative..., la soluzione delle questioni rimesse alla Corte costituzionale» avrebbe potuto «investire direttamente l'intero quadro sistematico delle autodichie, con conseguente rilevanza anche nella controversia in esame», in considerazione sia del fatto che la gran parte degli argomenti relativi alle questioni sollevate con la ordinanza di rimessione, in effetti avrebbe potuto riguardare tutte le autodichie, sia della eventualita' che avrebbe potuto assumere «rilevanza significativa una eventuale rimeditazione generale, da parte del Giudice delle leggi, del sistema delle autodichie, alla luce dei principi costituzionali e dei principi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (ai sensi dell'art. 117, comma primo, della Costituzione)», nel contempo essendo possibile lo scioglimento da parte della Corte costituzionale, di «alcuni nodi fondamentali ormai ineludibili e comuni a tutte le autodichie», come «la stessa configurabilita' di una "giurisdizione domestica" degli organi costituzionali sui propri dipendenti, a fronte del sistema delle "norme sulla giurisdizione" delineato dalla sezione II del titolo IV della Costituzione (e dalla VI disposizione transitoria)» o come la «ricorribilita' in cassazione ex art. 111, comma settimo, della Costituzione, contro le decisioni degli organi giudicanti dei detti organi costituzionali ed anche, nella specie, della decisione impugnata». Con sentenza n. 120 del 9 maggio 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale sollevata da questa Corte con la citata ordinanza n. 10400 del 2013. Fissata, quindi, nuovamente l'udienza di trattazione del ricorso i ricorrenti e il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica hanno depositato nuove memorie ex art. 378 codice di procedura civile, i primi ribadendo la ammissibilita' e la fondatezza del ricorso, il secondo, reiterando le difese svolte nel controricorso e nella precedente memoria e insistendo per il rigetto del ricorso. Il Procuratore generale ha concluso ritenendo in via principale ammissibile il ricorso ed in via subordinata chiedendo che questa Corte sollevi conflitto di attribuzione. Considerato in diritto Preliminarmente va rilevato che, nella premessa del ricorso (v. punto I), partendo dal principio affermato da queste Sezioni Unite con la ordinanza del 17 marzo 2010, n. 6529, i ricorrenti - richiamata anche la giurisprudenza della Corte di giustizia sui requisiti che gli organi nazionali devono possedere per poter essere considerati quali «giurisdizione» ai fini del rinvio pregiudiziale alla stessa Corte - rilevano che i Collegi giudicanti della Presidenza della Repubblica sono senz'altro ascrivibili alla nozione comunitaria di «giurisdizione», presentando tutti i caratteri all'uopo necessari. Alla luce, quindi, di tale configurazione i ricorrenti sostengono che diventa ormai «ineludibile la ricorribilita' in Cassazione contro le decisioni definitive di detti organi, ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.», in base ad una interpretazione «sostanzialistica» della detta norma costituzionale. Al riguardo, pur non ignorando l'indirizzo contrario di questo Supremo Collegio (che con la citata ordinanza n. 6529/2010, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso di un giudizio innanzi al tibunale amministrativo regionale, ha riconosciuto la «effettivita' e congruita' dell'autodichia della Presidenza della Repubblica» dichiarando sulla controversia in esame la «carenza assoluta di giurisdizione», e con altre sentenze, relative ad analoghi organi di tutela previsti dall'ordinamento del Senato e della Camera dei deputati - v. S.U. 19 novembre 2002, n. 16267 e S.U. 10 giugno 2004, n. 11019, ha negato la ricorribilita' in Cassazione avverso le pronunce di detti organi, rilevando tra l'altro che detto rimedio «e' precluso dal sistema stesso dell'autodichia» e precisando altresi' che tale sistema non «ha subito effetti innovativi ad opera del nuovo testo dell'art. 111 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, che - pur senza estromettere la autodichia dall'area della giurisdizione - non ha comunque scalfito le garanzie di indipendenza del Parlamento, mantenendo pur sempre alcune aree di esenzione o di delimitazione del sindacato di legittimita' proprio della Corte di cassazione», v. Cass. S.U. n. 11019/2004 cit.), i ricorrenti rilevano che tale posizione giurisprudenziale «necessita di revisione alla luce dei principi generali, di rango costituzionale (segnatamente, di cui all'art. 24 Cost.), alla luce dei principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6), come affermati dalla giurisprudenza di quella Corte, nonche' alla luce dei principi del diritto comunitario». Cio' posto, osserva il Collegio che, innanzitutto, va identificata la fattispecie di autodichia in materia di controversie di lavoro del personale del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e delle norme che la prevedono. Inizialmente, una autodichia vera e propria in tema di controversie dei dipendenti della Presidenza della Repubblica e' stata a lungo negata. In specie (senza considerare il regime transitorio anteriore alla istituzione del Segretariato generale, caratterizzato dalle funzioni del commissario previsto dal decreto legislativo 19 giugno 1946, n. 3, relative ai servizi del soppresso Ministero della Real Casa, e quello pregresso di tale Ministero - le cui controversie con i dipendenti appartenevano, al pari dei dipendenti delle altre pubbliche amministrazioni, al Consiglio di Stato, v. C.d.S. Sez. IV 25 febbraio 1942) va rilevato che Cass. S.U. 5 agosto 1975, n. 2979 aveva affermato che «le controversie relative ai rapporti di impiego del personale dipendente dal Segretariato generale della Presidenza della Repubblica appartengono alla competenza del giudice amministrativo, senza che possa prospettarsi una inammissibile interferenza del potere giurisdizionale nelle funzioni del Capo dello Stato, in quanto, siccome, a norma dell'art. 3 della legge 9 agosto 1948, n. 1077 e regolamento interno approvato dal d.p. 19 novembre 1968, il suddetto personale dipende esclusivamente dal Segretario generale, oggetto del Sindacato giurisdizionale e' soltanto l'attivita', meramente amministrativa, di tale organo.». Tale indirizzo veniva, poi, confermato anche dopo i rilievi espressi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 1981, la quale nel negare che alla Corte dei conti spettasse il potere di sottoporre a giudizio contabile i tesorieri della Presidenza della Repubblica (al pari di quelli della Camera e del Senato), affermava che «l'autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali di vertice va riconosciuta non soltanto nella potesta' auto-organizzativa, ma anche nel momento applicativo di tale normazione, cui si riconnette l'esclusione di qualsiasi attivazione di rimedi amministrativi o giurisdizionali» e che «l'esenzione dai giudizi di conto s'inserisce in un regime fondamentalmente comune a tutti gli organi costituzionali ricorrenti, rinsaldato da una lunga tradizione e radicato nell'autonomia spettante agli organi stessi.». In specie, per quanto concerne la Presidenza della Repubblica, la Corte costituzionale rilevava che: «malgrado per essa non sussista alcuna previsione costituzionale analoga a quella concernente i regolamenti parlamentari», il Presidente della Repubblica abbisogna «di un proprio apparato, non solo e non tanto per amministrare i beni rientranti nella dotazione, quanto per consentire un efficiente esercizio delle funzioni presidenziali, garantendo in tal modo la non-dipendenza del Presidente rispetto ad altri poteri dello Stato; sicche' il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica non puo' essere riduttivamente configurato quale apparato burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato dell'amministrazione dello Stato». Successivamente, in sostanza considerando tali rilievi riferiti alla sola materia contabile e alla relativa lunga tradizione, Cass. S.U. 10 maggio 1988, n. 3422 confermava che «le controversie inerenti al rapporto pubblico di impiego del personale del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, ancorche' investano i provvedimenti presidenziali di approvazione delle norme regolamentari sullo stato giuridico ed economico e sul trattamento pensionistico (ma non direttamente la liquidazione della pensione), non si sottraggono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, tenuto conto che quei provvedimenti integrano atti amministrativi attinenti al rapporto d'impiego e che difettano disposizioni di deroga alla suddetta giurisdizione in favore di organi interni della Presidenza della Repubblica (come invece previsto negli ordinamenti del personale della Camera e del Senato).». Tale indirizzo veniva, poi, ribadito anche da Cass. S.U. 17 dicembre 1998, n. 12614, che nuovamente affermava che «alla Presidenza della Repubblica non puo' essere riconosciuta l'autodichia in materia di controversie in tema di rapporti di impiego del personale dipendente; da cio' consegue che esse rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo.». In particolare, premesso che «per autodichia si intende, secondo la comune opinione, la capacita' di una istituzione - ed in particolar modo degli organi costituzionali - di decidere direttamente, con proprio giudizio, ogni controversia attinente all'esercizio delle proprie funzioni» e che «nell'attuale assetto costituzionale, e' lecito dubitare che l'autodichia costituisca un necessario attributo implicato dalla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali», essendo «arduo sostenere che, vigendo una Costituzione scritta, principio implicito, o una norma inespressa, possa di per se' porsi in vittorioso contrasto con un principio fondamentale esplicito»; la detta sentenza rilevava che «in effetti eccezioni esplicite al principio della indefettibilita' della tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni (ordinari ed amministrativi), integranti ipotesi di autodichia a favore di organi costituzionali, si rinvengono nel diritto positivo» (alcune con fondamento costituzionale diretto, come quella prevista per ciascuna Camera dall'art. 66 Cost. in materia di titoli di ammissione dei componenti e di cause sopraggiunte di ineleggibilita' e di incompatibilita'; altre con fondamento costituzionale indiretto, come quella relativa alle controversie dei propri dipendenti della quale Camera e Senato si sono dotate nell'esercizio del potere regolamentare loro attribuito dall'art. 64, comma 1 Cost. - i cui dubbi di legittimita' costituzionale sono rimasti irrisolti per la insindacabilita' davanti alla Corte costituzionale delle relative fonti, v. Corte cost. n. 154 del 1985; altra ancora, come la giurisdizione domestica della Corte costituzionale, «in virtu' del concatenato operare dell'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e dell'art. 14, comma 3, della legge 11 marzo 1953, n. 87, come modificato dall'art. 4 della legge 18 marzo 1958, n. 265, e che viene esercitata in base al regolamento della stessa Corte). Analoga situazione, pero', non era ravvisabile per la Presidenza della Repubblica. La detta pronuncia precisava, infatti, che «la legge n. 1977/1948, legge ordinaria istitutiva del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, non ha previsto l'autodichia nei confronti del personale addetta ai servizi ed agli uffici della Presidenza della Repubblica, limitandosi a stabilire, in materia di personale, che il Segretario generale «propone al Presidente della Repubblica l'approvazione del regolamento interno e dei provvedimenti relativi al personale» (art. 3, comma 3); che «lo stato giuridico ed economico e gli organici del personale addetto alla Presidenza sono stabiliti con decreto del Presidente della Repubblica» (art. 4, comma 1); che "alle spese....per tutto il personale dipendente dal Segretariato si provvede con legge speciale" (art. 4, comma 2)». La stessa pronuncia, inoltre, aggiungeva che «una forma di giurisdizione domestica esclusiva» neppure «risulta disciplinata nei regolamenti concernenti il personale, previsti dai suindicati articoli 3, comma 3, e 4, comma 1, ed in particolare nel decreto n. 31/1980, vigente all'epoca dell'instaurazione del giudizio» (che all'art. 5, istitutivo della Commissione per i ricorsi del personale, precisava che il ricorso interno e' dichiarato improcedibile «se nei confronti dello stesso atto o provvedimento amministrativo sia stato da chiunque presentato ricorso al giudice amministrativo», «in tal modo inequivocabilmente riconoscendo la giustiziabilita' degli atti davanti al giudice comune»). Del resto, neppure potevano richiamarsi al riguardo i principi e i rilievi espressi, nella materia contabile, da Corte costituzionale n. 129/1981, non essendo rinvenibile in materia di autodichia nelle controversie del personale della Presidenza della Repubblica una analoga uniforme tradizione ed anzi essendo stata costantemente affermata la soggezione delle stesse alla giurisdizione comune. Tale indirizzo consolidato, affermato con riferimento al regime anteriore alla nuova disciplina regolamentare del contenzioso interno di cui ai decreti presidenziali n. 81 e 89 del 1996, e' stato ritenuto superato da Cass. S.U. 17 marzo 2010, n. 6529, la quale, in sede di regolamento di giurisdizione, ha registrato «la situazione per la quale l'organo costituzionale in disamina, assistito da una potesta' di autoorganizzazione a fondamento costituzionale indiretto, da una indiscussa autonomia contabile (l'una e l'altra imperniate sull'interazione di una consolidata prassi costituzionale con il riferimento normativo) e da una idoneita' alla normazione sui conflitti domestici attraverso l'adozione di regolamenti, si e' dotato consapevolmente, sin dal 1996, di una struttura decisionale articolata per la soluzione di tali conflitti ed ha visto, negli ultimi anni, il giudice amministrativo dubitare (anche alla luce della esplicita «astensione» dal pronunziare formulata nella sentenza del 1998 di queste Sezioni Unite) della propria potestas judicandi sui conflitti stessi.». In specie con tale pronuncia e' stato affermato che «dall'esercizio di tale potere regolamentare - di natura chiaramente normativa (e rispetto al quale la legge n. 1077 del 1948, assume mero ruolo ricognitivo (Corte costituzionale n. 129/81) - deriva dunque la «possibilita'» di riservare alla propria giurisdizione domestica le controversie insorte nella costituzione e nella gestione del rapporto con il personale necessario per il perseguimento dei propri fini, una possibilita' che il pregresso decreto del 1980 confessava non essere stata utilizzata (prevedendosi solo un procedimento interno non ostativo del ricorso al giudice) e che invece i decreti del 1996 hanno pienamente utilizzato, creando un doppio grado di cognizione con specifica regolamentazione procedurale e nell'intento di istituire una sede decisoria tecnica, imparziale e stabile.». In particolare, poi, premesso che alla Corte regolatrice della giurisdizione spetta la «verifica del fondamento costituzionale per l'esercizio di un potere decisorio che, specularmente, decurta poteri decisori dalla giurisdizione amministrativa» e che tale verifica deve essere fatta «alla stregua dei fondamentali criteri posti dalla Costituzione per la tutela dei diritti, ma anche rammentando che tali criteri sono integrati dalle norme della Convenzione europea (art. 6, p. 1), quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, secondo il procedimento di ingresso nell'ordinamento nazionale precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007», con la pronuncia in esame e' stato rilevato che «la Corte europea, nella sentenza del 28 aprile 2009 resa in causa Savino ed altri c. Italia, proposta all'esito dell'esercizio della autodichia della Camera dei deputati, ha rammentato che il rispetto dell'art. 6, p. 1 della Convenzione ben puo' essere assicurato con la riserva di controversie ad organismi diversi da quelli comuni ma a condizione che anche per tali organismi siano garantite le condizioni di precostituzione, imparzialita' ed indipendenza che presidiano all'esercizio della giurisdizione ordinaria, condizioni, va aggiunto, che trovano perfetta corrispondenza nei principii di cui agli articoli 25, 104, 107 e 108 Cost.». Tanto premesso e rilevato, queste Sezioni Unite hanno ritenuto che «tali condizioni, evidenziate dalla Corte europea e da questa non ravvisate nella pregressa disciplina dell'autodichia della Camera dei deputati, assistano il disegno perseguito dai decreti presidenziali numeri 81 ed 89 del 1996. Ed infatti: la istituzione regolamentare di collegi stabili a durata quadriennale ed i cui componenti sono selezionati prevalentemente (in primo grado) o totalmente (in appello) in ragione della loro professionalita', appare previsione sufficiente al perseguimento del primo obiettivo, quello diretto a garantire che la trattazione di ogni affare sia riservata ad un organo decidente gia' designato e destinato ad operare stabilmente per una serie ulteriore di affari; del pari l'imparzialita' dei collegi decidenti e' tendenzialmente assicurata dalla appartenenza ordinamentale (magistrati ordinari, amministrativi e contabili) e dalla autorevolezza della fonte di designazione dei componenti dei collegi (i Presidenti degli organi di provenienza) nonche' dalla volonta' di sottoporne il funzionamento alle regole procedurali generali ed alle norme di deontologia degli ordini di appartenenza (se pur la relativa osservanza, in difetto di rimedi demolitori, sostitutivi, riparatori resta nulla piu' che oggetto di auspicio); certamente rende omaggio al requisito di indipendenza la scelta di costituire i collegi in prevalenza (in primo grado) o in via esclusiva (in appello) con personale totalmente esterno all'organo costituzionale, designato dal vertice dell'organo di appartenenza e legato con il Segretariato generale da un rapporto puramente onorario.» (cosi' Cass. S.U. n. 6529/2010 cit.). In definitiva, quindi, con tale ultima pronuncia e' stato affermato il principio secondo cui «il potere della Presidenza della Repubblica di riservare, mediante regolamento, alla propria cognizione interna le controversie in materia di impiego del personale ha fondamento costituzionale indiretto (connesso alla potesta' di autoorganizzazione e all'autonomia contabile, fondate sull'interazione della consolidata prassi costituzionale con la legge 9 agosto 1948, n. 1077), ed e' stato esercitato - mediante i regolamenti emanati con i decreti del Presidente della Repubblica 24 luglio e 9 ottobre del 1996 - in modo da assicurare la precostituzione, l'imparzialita' e l'indipendenza dei collegi, previsti per la risoluzione delle suddette controversie, quali condizioni che presidiano l'esercizio della giurisdizione ordinaria, secondo i principi fissati dalla Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali». Tale pronuncia ha suscitato in dottrina non poche perplessita', in considerazione della non meglio spiegata sussistenza di un «fondamento costituzionale indiretto» per la autodichia della Presidenza della Repubblica, in sostanza fondato soltanto sul potere auto-organizzativo interno (nonostante sia stata confermata la negazione della autodichia come «momento essenziale per assicurare effettivita' alla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi costituzionali») e su una «lunga tradizione» (gia' rilevata, pero', soltanto in materia contabile), nonche' in ragione della creazione, in sostanza, di nuovi giudici speciali in contrasto con la Costituzione e, prima ancora, della insussistenza di superiori esigenze di protezione che giustifichino una deroga ai principi costituzionali sulla tutela giurisdizionale. D'altra parte e' stato anche evidenziato che non e' configurabile una eccezione ad un principio «cardine» espresso nella Costituzione attraverso un principio costituzionale inespresso o implicito (peraltro espresso in atti regolamentari, emessi in base ad una legge ordinaria, non assimilabili ai regolamenti parlamentari). Per altro verso, poi, la pronuncia in esame, incentrata soltanto sullo specifico regolamento di giurisdizione, non ha considerato i dubbi di incostituzionalita' poi sollevati, con riferimento all'autodichia del Senato nelle controversie dei suoi dipendenti, con l'ordinanza di questa Corte n. 10400/2013, i quali, come e' stato affermato nella ordinanza interlocutoria n. 2288/2014, in gran parte potrebbero in effetti riguardare tutte le autodichie. Infine e' intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2014, che seppure ha dichiarato inammissibile la questione di legittimita' costituzionale sollevata da questa Corte con l'ordinanza n. 10400/2013, ribadendo la insindacabilita' dei regolamenti parlamentari, non ha adottato una pronuncia di manifesta inammissibilita', come nel caso delle ordinanze numeri 444 e 445 del 1993 sulla scia di Corte costituzionale n. 154 del 1985, ma nella motivazione ha delineato la direttrice di possibili sviluppi, fornendo significativi elementi di novita'. In sostanza dalla non sindacabilita' generalizzata dei regolamenti parlamentari si passa alla sindacabilita' relativa, nella forma del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, che - unitamente al giudizio in via principale (nella specie non ipotizzabile) - e' uno dei modi di controllo di costituzionalita' ai sensi dell'art. 134 Cost. Il distacco dall'arresto del 1985, in termini di evoluzione della giurisprudenza, viene segnato innanzi tutto dall'affermazione che i regolamenti parlamentari non sono fonti puramente interne al Parlamento; essi sono fonti dell'ordinamento generale della Repubblica, produttive di norme sottoposte agli ordinari canoni interpretativi, alla luce dei principi e delle disposizioni Costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza. Quindi vi e' un ambito, seppur limitato, di competenza normativa dei regolamenti parlamentari ed il limite, in chiave parametrica, e' dato proprio dalle norme della Costituzione. E tra queste vengono in rilevo soprattutto gli articoli 64 e 72 Cost. che assolvono alla funzione di definire e, al tempo stesso, di delimitare «lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari» (sentenza n. 379 del 1996). E' dunque all'interno di questo statuto di garanzia - sottolinea la Corte - che viene stabilito l'ambito di competenza riservato ai regolamenti parlamentari, avente ad oggetto l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione. Per ricostruire questo ambito - e verificare che in questo ambito si sia contenuta la produzione normativa regolamentare e subregolamentare delle Camere - e' possibile il conflitto di attribuzione tra poteri nella misura in cui il superamento di tale ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello Stato, quale quello giurisdizionale che ha carattere diffuso e che altro non e' che espressione della garanzia generale alla tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale. Non solo quindi c'e' un ambito disegnato in Costituzione del potere normativo regolamentare delle Camere, ma viene in gioco anche rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali - ricorda la Corte - il diritto di accesso alla giustizia (art. 24, primo comma, Cost.). Pertanto il rispetto dei diritti fondamentali costituisce un limite alla competenza regolamentare delle Camere. L'eventuale superamento di questo limite non ridonda in vizio di incostituzionalita' censurabile nei modi del giudizio di costituzionalita' in via incidentale, che rappresenta la forma ordinaria del controllo di costituzionalita' accentrato nella giurisdizione della Corte costituzionale, ma costituisce un'invasione di campo, una violazione delle regole di competenza, un'alterazione dell'equilibrio dei poteri dello Stato. Processualmente il modo per accertare questa eventuale violazione e' diverso - conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e non gia' incidente di costituzionalita' - anche se poi nel merito la valutazione richiesta alla Corte e' analoga, derivante dalla denuncia di un non manifestamente infondato contrasto tra la norma regolamentare ed un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione. Il portato innovativo della sentenza n. 120 del 2014 si racchiude nell'affermazione che la sede naturale in cui trovano soluzione le questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati e' quella del conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato. La Corte, richiamando anche la sentenza n. 379 del 1996, sottolinea che il confine tra autonomia delle Camere e giurisdizione appartiene al sindacato della Corte stessa, che puo' essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal Potere che si ritenga leso o menomato dall'attivita' dell'altro. L'indipendenza delle Camere non puo' infatti compromettere diritti fondamentali, ne' pregiudicare l'attuazione di principi inderogabili; in generale deve prevalere la «grande regola» dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti ex articoli 24, 112 e 113 Cost. sentenza n. 379 del 1996). Con riferimento poi all'autodichia in materia di controversie di lavoro del personale del Senato la Corte - che non manca di rilevare che in altri ordinamenti giuridici non dissimili dal nostro l'autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti delle Assemblee legislative (e quella sui rapporti con i terzi) non e' piu' prevista - sottolinea che anche norme non sindacabili potrebbero essere fonte di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili e, d'altra parte, deve ritenersi sempre soggetto a verifica il fondamento costituzionale di un potere decisorio che limiti quello conferito dalla Costituzione ad altre autorita'. In sintesi la Corte opera una riserva: non e' possibile il giudizio incidentale di costituzionalita', ma una verifica di costituzionalita' e' possibile per il tramite del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. In tale sede la Corte - come puntualmente affermato dalla sentenza n. 120 del 2014 - puo' ristabilire il confine, ove questo sia violato, tra i poteri legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza e quelli che competono ad altri, cosi' assicurando il rispetto dei limiti delle prerogative e del principio di legalita', che e' alla base dello Stato di diritto. In tale evidenziata evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di autodichia in materia di controversie di lavoro del personale delle Camere (dalla sentenza n. 154/1985 alla sentenza n. 120/2014) puo' leggersi una applicazione di settore del principio di continuita' del controllo di costituzionalita' che vuole che non ci siano aree franche sottratte al controllo di costituzionalita'. Recentemente la sentenza n. 1 del 2014 ha rimarcato che - come principio generale - non puo' esserci un'area esclusa dal controllo di costituzionalita'. Cfr. anche sentenza n. 162 del 2014 che ha ribadito che la Corte, «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto piu' se attinente a diritti fondamentali - e' tenuta comunque a porvi rimedio» (sentenza n. 113 del 2011). Puo' aggiungersi che la continuita' del controllo di costituzionalita' si affianca alla continuita' del sindacato di legittimita' (ex art. 111, settimo comma, Cost.): come nessuna fonte normativa e' sottratta al rispetto della Costituzione cosi' nessuna decisione di giustizia e' sottratta al rispetto della legge. Conclusivamente, in base a Corte costituzionale n. 120 del 2014, puo' quindi dirsi che e' possibile il raffronto tra la normativa subregolamentare del Senato in tema di autodichia in materia di controversie di lavoro del personale dipendente e la Costituzione e che lo strumento processuale di verifica e' il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ex art. 134 Cost. Orbene, in tale quadro sistematico, ritiene il Collegio che i citati elementi di novita' e gli sviluppi delineati dalla Corte costituzionale con riferimento alla autodichia del Senato, non possono che trovare analoga applicazione anche con riguardo alla autodichia della Presidenza della Repubblica in materia di controversie del personale, pur nella sua particolare connotazione. In particolare, come sopra si e' accennato, con il decreto presidenziale n. 81 del 26 luglio 1996 successivamente integrato dal decreto presidenziale n. 89 del 9 ottobre 1996 e modificato dal decreto presidenziale n. 34 del 30 dicembre 2008, emanati in base alla legge n. 1077 del 1948 (che, pero', prevede soltanto - v. art. 4 - che «lo stato giuridico ed economico e gli organici del personale addetto alla Presidenza sono stabiliti con decreto del Presidente della Repubblica»), eliminandosi il precedente carattere eventuale dell'autodichia (di cui al decreto n. 31 del 1980) ed escludendosi implicitamente la possibilita' di ricorso al giudice amministrativo, e' stato istituito quale organo di primo grado il Collegio giudicante nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del segretario generale, e composto da un consigliere di Stato, che lo presiede, da un consigliere di Corte d'appello, da un consigliere della Corte dei conti, designati rispettivamente dai Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte d'appello di Roma e della Corte dei conti (nel 2008 e' stata abrogata la norma che prevedeva la presenza in detto Collegio giudicante di un funzionario dell'Amministrazione designato dal segretario generale e di un rappresentante del personale sorteggiato...); nel contempo quale organo di secondo ed ultimo grado e' stato istituito il Collegio di appello, anch'esso nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del segretario generale, e composto da un Presidente di sezione del Consiglio di Stato, che lo presiede, da un consigliere di Cassazione e da un consigliere della Corte dei conti, designati rispettivamente dal Presidente del Consiglio di Stato, dal Primo Presidente della Corte di cassazione e dal Presidente della Corte dei conti; non possono far parte del Collegio i magistrati componenti del Collegio giudicante, nonche' quelli in posizione di comando o di fuori ruolo presso il Segretariato generale o consulenti dello stesso (v. articoli 1, 2, 3 e 8). La procedura ricalca quella prevista per i ricorsi dinanzi ai giudici amministrativi e le udienze dei Collegi sono pubbliche. Le pronunce, denominate «decisioni», sia in primo che in secondo grado devono essere adottate entro 180 giorni e producono immediatamente i loro effetti, senza che sia necessario un provvedimento di recepimento da parte dell'Amministrazione. I ricorsi non hanno effetti sospensivi, ma puo' essere richiesta la sospensione dell'esecuzione degli atti e delle pronunce per gravi motivi. E' ammesso ricorso per revocazione davanti allo stesso organo che ha pronunciato la decisione nei modi e nei termini previsti dagli articoli 395 e 396 codice di procedura civile. I detti organi giudicanti, per la loro configurazione e composizione, come si e' detto, sono stati ritenuti idonei a soddisfare le condizioni di precostituzione, imparzialita' ed indipendenza previste dall'art. 6, p. 1, della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo con la sentenza del 28 aprile 2009 resa in causa Savino ed altri c. Italia, condizioni che peraltro trovano perfetta corrispondenza nei principi di cui agli articoli 25, 104, 107 e 108 della Costituzione (v. Cass. S.U. 17 marzo 2010, n. 6529 cit., che, ravvisata la autodichia de qua, ha dichiarato la «carenza assoluta di giurisdizione», ma non ha preso in considerazione ulteriori profili di incostituzionalita'). Orbene, seppure la fonte diretta della autodichia della Presidenza della Repubblica non sia assimilabile ai regolamenti parlamentari, a parte ogni considerazione sul fondamento costituzionale indiretto della autodichia in esame (in sostanza istituita, propriamente - in quanto autonoma ed esclusiva - soltanto nel 1996 e modificata nel 2008), in primo luogo non puo' negarsi che i decreti presidenziali citati, non essendo atti con forza di legge, non sono censurabili sollevando questione incidentale di costituzionalita'. Nel contempo, pero', e' altrettanto indubbio che gli stessi non possono essere sottratti ad un controllo di costituzionalita' sul piano della sindacabilita' relativa nella forma del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Anche nella fattispecie in esame, infatti, assume rilievo determinante la ricostruzione dell'ambito di competenza riservato ai decreti presidenziali aventi ad oggetto l'organizzazione della Presidenza della Repubblica, all'interno dello statuto di garanzia del Presidente della Repubblica, ed e' possibile il conflitto di attribuzione tra poteri, nella misura in cui il superamento del detto ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello Stato, quale quello giurisdizionale che ha carattere diffuso e che altro non e' che espressione della garanzia generale alla tutela giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale. Del resto anche per la Presidenza della Repubblica in generale deve prevalere la «grande regola» dello Stato di diritto ed anche riguardo alla stessa il rispetto dei diritti fondamentali, cosi' come l'attuazione dei principi inderogabili, sono assicurati dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale, che costituisce la sede naturale nella quale trovano soluzione le questioni relative alla delimitazione degli ambiti di competenza riservati dei poteri dello Stato. La tutela, quindi, del confine tra i due distinti valori della autonomia della Presidenza della Repubblica, da un lato, e la legalita' giurisdizione, dall'altro, spetta senz'altro alla Corte costituzionale, investita in sede di conflitto di attribuzione. Peraltro e' indubbio che anche per la Presidenza della Repubblica vale il principio generale secondo cui non puo' esserci un'area esclusa dal controllo di costituzionalita', tanto piu' se attinente a diritti fondamentali e, nel contempo, deve ritenersi sempre soggetto a verifica il fondamento costituzionale di un potere decisorio che limiti quello conferito dalla Costituzione ad altri poteri. Puo', quindi, passarsi all'esame dei profili di illegittimita' costituzionale rilevabili nella fattispecie, posto che l'invasione del potere giurisdizionale richiede non di meno l'indicazione dei parametri di riferimento versandosi comunque in una ipotesi di vizio di illegittimita' costituzionale in senso lato. Invero, ad avviso di questa Corte, la menomazione o turbativa del potere giurisdizionale e' segnatamente di duplice portata: una piu' generale, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, quest'ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria, 108 primo comma, 111 primo comma, Cost., e l'altra piu' specifica, in riferimento agli articoli 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost. Si ha nella specie che agli attuali ricorrenti e' risultato menomato l'accesso alla giustizia non essendo consentito - in ragione della sussistente autodichia della Presidenza della Repubblica - adire la giurisdizione comune, sia essa ordinaria che speciale. La rilevanza di questo profilo di invasivita' (o incostituzionalita' in senso lato) di maggiore e piu' radicale portata risiede nella circostanza che, se fosse rimossa l'autodichia della Presidenza della Repubblica, la giurisdizione comune si riespanderebbe, venendo meno l'assoluto difetto di giurisdizione nell'attuale situazione di pieno dispiegarsi della detta autodichia. Alternativamente e subordinatamente, in una prospettiva piu' limitata, ove si ritenga legittima in particolare la configurazione degli organi di giustizia interna della Presidenza della Repubblica come giudici speciali, rileverebbe la preclusione - sempre in ragione dell'autodichia de qua - dell'accesso al sindacato di legittimita' nella forma del ricorso straordinario ex art. 111, settimo comma, Cost. ed art. 360, quarto comma, codice di procedura civile, con conseguente ingiustificato trattamento differenziato (art. 3, primo comma, Cost.). La rilevanza di questo piu' circoscritto profilo di invasivita' (o incostituzionalita' in senso lato) risiede la circostanza che, ove fosse rimossa tale preclusione, si riespanderebbe la possibilita' di esperire il ricorso straordinario per cassazione avverso le decisioni in ultimo grado, degli organi di giustizia interna della Presidenza della Repubblica con la conseguenza che l'attuale ricorso per cassazione sarebbe, sotto questo profilo, ammissibile e le censure di violazione di legge, mosse dai ricorrenti all'impugnata pronuncia del Collegio di appello, potrebbero in ipotesi essere esaminate nel merito. Sotto il primo enunciato profilo l'autodichia della Presidenza della Repubblica appare in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), coniugato con il riconoscimento a «tutti» della facolta' di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.). L'eguaglialza davanti alla legge, come canone generale e principio fondamentale, si specifica come eguaglianza in particolare nell'accesso alla tutela giurisdizionale, quale diritto inviolabile. E' un principio fondamentale che si salda ad un diritto espressamente riconosciuto come inviolabile e che genera una tutela forte, appartenente al nucleo essenziale ed irrinunciabile del patto sociale su cui si fonda l'ordinamento costituzionale fin da essere attratto all'area dei c.d. controlimiti, ossia dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili della persona che costituiscono gli elementi identificativi essenziali ed irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale. Questa garanzia viene in sofferenza - ad avviso di questa Corte - nel momento in cui una categoria di soggetti e' esclusa dalla tutela giurisdizionale comune in ragione di un elemento - l'essere dipendenti della Presidenza della Repubblica - non significativo, ne' giustificativo sul piano costituzionale, ai fini del loro trattamento differenziato. Nella stessa cit. sentenza n. 120 del 2014 in cui veniva in rilevo proprio questo trattamento differenziato relativo ai dipendenti del Senato, la Corte costituzionale ha posto in evidenza che il diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.) costituisce un diritto fondamentale; affermazione confermata ancor piu' recentemente dalla cit. sentenza n. 238 del 2014 che ha ribadito che «fra i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale vi e' il diritto di agire e di resistere in giudizio a difesa dei propri diritti riconosciuto dall'art. 24 Cost., in breve il diritto al giudice», aggiungendo che «il diritto al giudice ed a una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili e' sicuramente tra i grandi principi di civilta' giuridica in ogni sistema democratico del nostro tempo». Pertanto «l'azione in giudizio per la difesa dei propri diritti [...] e' essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili e caratterizzanti lo stato democratico di diritto» (sentenze n. 26 del 1999, n. 120 del 2014, n. 386 del 2004 e n. 29 del 2003). Del resto non appare concretamente ipotizzabile che l'autonomia della Presidenza della Repubblica, che certamente ha una posizione guarentigiata di alto profilo costituzionale, possa bilanciare, fino a comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela giurisdizionale del personale dipendente, nella misura in cui puo' ragionevolmente escludersi che alcun rischio tale autonomia guarentigiata corra a causa di un'iniziativa giudiziaria di suoi dipendenti, quali gli attuali ricorrenti che, gia' comandati e poi, dal 1° dicembre 2005, inquadrati nei ruoli del Segretariato generale, rivendichino il diritto alla corresponsione delle somme maturate a titolo di indennita' perequativa e di indennita' di comando, non piu' corrisposte dalla detta data del 1° dicembre 2005. Puo' poi denunciarsi anche la violazione dell'art. 102, secondo comma, Cost., che esclude che possano essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali; parametro questo che va coniugato con la VI disposizione transitoria che prescrive che entro cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione all'epoca esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (nonche' dei tribunali militari per i quali pero' e' prescritto il «riordinamento» con legge). Il Collegio giudicante di primo grado e il Collegio di appello, in sostanza, quali giudici delle controversie dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, si pongono, rispetto alla giurisdizione ordinaria, come giudici speciali, istituiti dopo l'entrata in vigore della Costituzione, senza che in essa ci sia una salvezza, cosi' come invece espressamente previsto per il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; salvezza che deroga a tale generale divieto proprio per essere essa di rango costituzionale. Ne', d'altra parte, come sopra si e' evidenziato, nella specie, potrebbe ravvisarsi una continuita' con un analogo apparato di autodichia (vera e propria) nel sistema ordinamentale anteriore alla entrata in vigore della Costituzione (e neppure in quello prerepubblicano). Sotto altro profilo, poi, pur riconoscendosi, sulla scorta di Cass. S.U. n. 6529/2010 cit., che i «giudici» istituti con i citati decreti presidenziali soddisfano le esigenze di precostituzione, imparzialita' e indipendenza, richieste dall'art. 6 p. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e dagli articoli 108, secondo comma e 111, secondo comma, della Costituzione, va senz'altro denunciata la violazione nella riserva di legge prevista, con riguardo all'«ordinamento giudiziario» e ad «ogni magistratura» dall'art. 108, primo comma Cost. e al «giusto processo regolato dalla legge» dall'art. 111, primo comma Cost. In ogni caso, quand'anche, in ipotesi, si ritengano insussistenti le violazioni fin qui denunciate, sotto il secondo enunciato profilo, a tutto concedere, vi sarebbe comunque la violazione dell'art. 111, settimo comma, Cost. coniugato all'art. 3, primo comma, Cost. Si e' gia' rilevato che il carattere chiuso e circoscritto del sistema di autodichia della Presidenza della Repubblica preclude, sia testualmente sia per giurisprudenza di questa Corte, la possibilita' del ricorso straordinario per cassazione che invece il settimo comma dell'art. 111 Cost. riconosce nei confronti di qualsivoglia sentenza che, ove non impugnabile altrimenti, puo' essere censurata per violazione di legge; garanzia questa che costituisce proiezione del principio di eguaglianza. Se «tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e sono eguali davanti alla legge» - come predica solennemente il primo comma dell'art. 3 Cost. - e' necessario che la legge sia interpretata ed applica/a allo stesso modo nei confronti di tutte le parti in giudizio. E' quindi generalizzato ed indefettibile un sindacato accentrato di legittimita' quale quello che il settimo comma dell'art. 111 Cost. assegna alla Corte di cassazione come missione specifica e caratterizzante, unitamente al sindacato sulla giurisdizione. Tale garanzia non e' suscettibile, a livello di conformita' a Costituzione, di una deroga per la giurisdizione degli organi di autodichia, nella specie, della Presidenz.a della Repubblica se solo si considera che e' lo stesso settimo comma dell'art. 111 Cost. a prevedere che «si puo' derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra» e che per escludere le pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti - giudici speciali di antica tradizione - e' stata necessaria un'espressa previsione nel successivo ottavo comma del medesimo art. 111 (che appunto prevede che contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in cassazione e' ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione e quindi non per violazione di legge, come in generale consente il settimo comma). Tali dubbi di legittimita' costituzionale non possono essere superati da un'interpretazione adeguatrice della citata normativa regolamentare della Presidenza della Repubblica. Nella specie - come sopra si e' gia' rilevato - e' testuale nella citata normativa il riferimento ad organi di autodichia. Pur riconoscendo ad essi natura giurisdizionale, la qualificazione come autodichia di questa giurisdizione, articolata in due gradi con la possibilita' anche di un'impugnazione per revocazione, ma nell'ambito di quella stessa giurisdizione, e' inequivocabilmente tale da escludere ogni permeabilita' della giurisdizione ordinaria, finanche nella forma del sindacato di legittimita' esercitato in generale da questa Corte. Inoltre non sembra che l'interpretazione adeguatrice in sede di sindacato di legittimita' possa arrivare laddove non arriva la Corte costituzionale nell'esercizio del sindacato di costituzionalita' in forma incidentale. Se una norma regolamentare della Presidenza della Repubblica e' sottratta all'ordinario controllo di costituzionalita' in via incidentale, vi e' anche uno schermo per l'interpretazione adeguatrice del giudice comune che realizza una sorta di sindacato diffuso in chiave di filtro di ammissibilita' dell'incidente di costituzionalita'. La compressione del diritto alla tutela giurisdizionale significa si' lesione di un diritto fondamentale. Ma la Corte (sentenza n. 238 del 2014) - nell'avvertire che la verifica di compatibilita' con i principi fondamentali dell'assetto costituzionale e di tutela dei diritti umani e' di sua esclusiva competenza - ha aggiunto, con riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.) e richiamando proprio la sentenza n. 120/2014 sull'autodichia del Senato, che il rispetto dei diritti fondamentali, cosi' come l'attuazione di principi inderogabili, e' assicurato dalla funzione di garanzia assegnata alla Corte costituzionale. Rimane quindi solo la strada del conflitto tra poteri atteso che i sopra richiamati dubbi di legittimita' costituzionale e soprattutto la denunciata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale in capo ai dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, quali sono gli odierni ricorrenti, ridondano in menomazione o turbativa del potere giurisdizionale di questa Corte che si trova impedita ad esercitare il sindacato di legittimita' domandato dai ricorrenti. Anche in questa prospettiva piu' circoscritta alla violazione dei soli articoli 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost., non appare a questa Corte praticabile l'interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata, perche' il denunciato vizio di illegittimita' costituzionale comunque si atteggia a menomazione o turbativa del potere giurisdizionale ad opera di un potere dello Stato qual e' il Presidente della Repubblica e spetta solo alla Corte costituzionale accertare tale invasione o turbativa. Quanto, poi, alla tempestivita' del conflitto deve osservarsi che la circostanza che le disposizioni invasive - ossia le menzionate norme regolamentari che prevedono la giurisdizione interna della Presidenza della Repubblica in forma di autodichia - siano risalenti nel tempo non esclude ne' fa venir meno l'ammissibilita' del conflitto. Infatti - secondo la giurisprudenza costituzionale - non e' previsto alcun temine in ipotesi decorrente dalla lesione della prerogativa costituzionale (sentenza n. 116 del 2003), a differenza del ricorso per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni che e' soggetto al termine di decadenza di cui all'art. 39, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. La mancanza di un termine per la proposizione del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri comporta - sempre secondo la giurisprudenza costituzionale - che il ricorso puo' essere proposto in ogni tempo, anche dopo anni dall'assunta lesione della prerogativa costituzionale: cfr. sentenza n. 58 del 2004 secondo cui «non incide il tempo trascorso dall'epoca dei fatti alla data di proposizione del conflitto». Nella specie sussiste l'attualita' dell'interesse a ricorrere dovendo questa Corte dare una risposta di giustizia agli attuali ricorrenti che invocano il sindacato di legittimita' di questa Corte, impedito dalla richiamata normativa regolamentare in tema di autodichia in materia di rapporti di lavoro del personale della Presidenza della Repubblica. Quanto al requisito soggettivo, la natura di potere dello Stato sia di questa Corte che del Presidente della Repubblica sono stati piu' volte affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Quanto al requisito oggettivo il tono costituzionale del conflitto e' insito nella natura di diritto fondamentale della tutela giurisdizionale la cui lesione gli attuali ricorrenti lamentano e che ridonda non gia' in vizio di incostituzionalita', ma in lesione o turbativa del potere giurisdizionale. Conclusivamente la normativa dei citati decreti presidenziali appare avere carattere invasivo delle attribuzioni del potere giudiziario e segnatamente di quello di questa Corte, che e' chiamata a pronunciarsi sul ricorso dei ricorrenti proposto ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost.; cio' induce questa Corte a sollevare il presente conflitto in riferimento alle censure ed ai parametri sopra indicati sotto i due profili sopra illustrati. Quindi il petitum del presente atto di promuovimento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, richiesto come contenuto del «ricorso» ex art. 24 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, puo' formularsi, in via principale, in termini piu' ampi: l'autodichia della Presidenza della Repubblica nelle controversie di lavoro del proprio personale e' in toto invasiva del potere giurisdizionale sicche', non spettando al Presidente della Repubblica prevederla con le proprie norme regolamentari, deve riespandersi l'ordinaria tutela giurisdizionale. In via subordinata tale autodichia e' ritenuta, da questa Corte, invasiva del potere giurisdizionale almeno nella misura in cui non consente il sindacato di legittimita' ex art. 111, settimo comma, Cost.; sicche', non spettando al Presidente della Repubblica prevederla con le proprie norme regolamentari, deve riespandersi l'ordinaria facolta' di proporre ricorso straordinario per cassazione per violazione di legge avverso le decisioni in ultimo grado degli organi di giustizia interna. Quanto infine alla forma per sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato da parte di un organo del potere giudiziario, va considerato che, ove i presupposti del conflitto insorgano, cosi' come nella specie, nel corso del giudizio e quindi il conflitto si presenti con i caratteri dell'incidentalita', tale forma e' l'ordinanza. E' vero che l'art. 37, terzo comma, della legge n. 87 del 1953 prevede che la Corte costituzionale decide (nella prima fase in camera di consiglio) sulla ammissibilita' del «ricorso» e che l'art. 24 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale contempli, anche nella sua rubrica, il «ricorso» come atto propulsivo di questo speciale giudizio costituzionale. Pero' tale riferimento testuale al «ricorso», come atto iniziale di attivazione del proceditnento per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, va coniugato con il generale rinvio che il quinto comma della medesima disposizione (art. 37) fa ai precedenti articoli 23, 25 e 26 e segnatamente all'art. 23; cui secondo comma prevede l'«ordinanza» come atto con cui l'autorita' giurisdizionale investe la Corte costituzionale della risoluzione di una questione di legittimita' costituzionale che si ponga come pregiudiziale rispetto alla decisione che la stessa autorita' giurisdizionale e' chiamata a rendere. Il carattere incidentale del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato rispetto ad una decisione di giustizia richiesta in un giudizio comune rende applicabile, in parte qua, tale disposizione (art. 23, secondo comma), in quanto richiamata dall'art. 37, quale norma speciale rispetto al generale riferimento al «ricorso» contenuto nel terzo comma di quest'ultima. Nel giudizio civile l'ordinanza e' la tipica forma del provvedimento che non definisce il giudizio (art. 279 codice di procedura civile) e per la sua deliberazione si applicano, ove adottata dal collegio in camera di consiglio, le prescrizioni dell'art. 276 codice di procedura civile, unitamente a quelle dell'art. 134 codice di procedura civile quanto alla sottoscrizione dell'atto. Il carattere incidentale del conflitto di attribuzione comporta anche l'applicazione del medesimo secondo comma dell'art. 23 nella parte in cui prevede che l'autorita' giurisdizionale sospenda il giudizio in corso; contenuto questo che non potrebbe avere un «ricorso». Inoltre in tal caso il promuovimento del procedimento, pur attivando la fase iniziale di mera ammissibilita' ex art. 37, terzo comma, cit. che e' priva di contraddittorio essendo la notifica del ricorso prescritta solo per la fase successiva ex art. 37, quarto comma, avviene - in applicazione dell'art. 23, quarto comma, cit. stante il gia' evidenziato richiamo dell'art. 37 - con la «trasmissione» dell'ordinanza e degli atti di causa alla Corte costituzionale - e non gia' con il deposito del «ricorso» - unitamente alle notifiche e alle comunicazioni prescritte dalla prima disposizione. Comunque la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 10 del 2000; e piu' recentemente, ex plurimis, numeri 151, 129 e 317 del 2013 e n. 161 del 2014) ritiene che, pur dovendo il conflitto essere sollevato in ogni caso con ricorso, l'ordinanza pronunciata da un'autorita' giudiziaria costituisce atto parimenti idoneo allo scopo.
P.Q.M. Visti l'art. 134 Cost. e l'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dispone la sospensione del giudizio civile iscritto al n.r.g. 15044/2012 su ricorso Varano Sandro ed altri cinque nei confronti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e della Presidenza della Repubblica; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, sollevando conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato e chiede che la Corte: dichiari ammissibile il presente conflitto; e, nel merito, dichiari che non spettava al Presidente della Repubblica deliberare gli articoli 1 e seguenti del decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89 e modificato dal decreto presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34, nelle parti seguenti: a) in via principale nella parte in cui - violando gli articoli 3, primo comma, 24, primo comma, 102, secondo comma, quest'ultimo in combinato disposto con la VI disposizione transitoria, 108, primo comma e 111, primo comma, Cost. - precludono l'accesso dei dipendenti del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune, in riferimento alle controversie di lavoro insorte con lo stesso; b) in via subordinata nella parte in cui - violando gli articoli 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost. - non consentono, contro le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali da tali disposizioni previste, il ricorso in cassazione per violazione di legge ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost. Ordina che a cura della cancelleria la su estesa ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle sezioni unite della Corte di cassazione, il 18 novembre 2014. Il Presidente: Rovelli Avvertenza: L'ammissibilita' del presente conflitto e' stata decisa con ordinanza n. 138/2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana - 1ª Serie speciale n. 28 - del 15 luglio 2015.