N. 2 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 16 luglio 2015

Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  dello   Stato
(merito) depositato il 16 luglio 2015 . 
 
Giurisdizione domestica - Controversie  concernenti  il  rapporto  di
  impiego dei dipendenti del Segretariato generale  della  Presidenza
  della Repubblica - Disciplina regolamentare contenuta  nel  decreto
  presidenziale  26  luglio  1996,  n.  81,  integrato  dal   decreto
  presidenziale 9 ottobre  1996,  n.  89  e  modificato  dal  decreto
  presidenziale  30  dicembre  2008,  n.  34  -   Attribuzione   alla
  Presidenza della Repubblica dell'autodichia sui propri dipendenti -
  Ricorso per  conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato
  sollevato dalla Corte di  cassazione,  sezioni  unite  civili,  nei
  confronti  del  Segretariato  generale   della   Presidenza   della
  Repubblica  e  della  Presidenza  della  Repubblica  -   Denunciato
  contrasto con il principio di uguaglianza - Lesione del diritto  di
  agire in  giudizio  e  della  difesa  come  diritto  inviolabile  -
  Violazione del divieto di istituire giudici speciali  -  Violazione
  della  riserva  di  legge  prevista  con  riguardo  all'ordinamento
  giudiziario e a ogni magistratura e con riguardo al giusto processo
  - Richiesta alla Corte costituzionale di dichiarare che non  spetta
  al Presidente della Repubblica deliberare i  decreti  presidenziali
  sopra  indicati  nella  parte  in  cui  precludono  l'accesso   dei
  dipendenti  del  Segretariato  generale  della   Presidenza   della
  Repubblica alla tutela giurisdizionale comune in  riferimento  alle
  controversie di lavoro insorte con lo stesso. 
- Decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal  decreto
  presidenziale 9 ottobre  1996,  n.  89  e  modificato  dal  decreto
  presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 24,  primo  comma,  102,  comma
  secondo (quest'ultimo in combinato disposto con la VI  disposizione
  transitoria), 108, primo comma, e 111, primo comma. 
In via   subordinata:   Giurisdizione   domestica   -    Controversie
  concernenti il rapporto di impiego dei dipendenti del  Segretariato
  generale   della   Presidenza   della   Repubblica   -   Disciplina
  regolamentare contenuta nel decreto presidenziale 26  luglio  1996,
  n. 81, integrato dal decreto presidenziale 9 ottobre 1996, n. 89  e
  modificato dal decreto presidenziale 30  dicembre  2008,  n.  34  -
  Attribuzione alla Presidenza della Repubblica  dell'autodichia  sui
  propri dipendenti -  Ricorso  per  conflitto  di  attribuzione  tra
  poteri dello Stato sollevato dalla  Corte  di  cassazione,  sezioni
  unite  civili,  nei  confronti  del  Segretariato  generale   della
  Presidenza della Repubblica e della Presidenza della  Repubblica  -
  Denunciata lesione della garanzia del ricorso in Cassazione  contro
  le  sentenze  per  violazione  di  legge  -  Richiesta  alla  Corte
  costituzionale di dichiarare che non  spetta  al  Presidente  della
  Repubblica deliberare i decreti presidenziali sopra indicati  nella
  parte in cui non consentono, contro le decisioni pronunciate  dagli
  organi  giurisdizionali  (Collegio  giudicante  di  primo  grado  e
  Collegio  di  appello),  previsti  dai   sopra   indicati   decreti
  presidenziali, il ricorso in Cassazione per violazione di legge. 
- Decreto presidenziale 26 luglio 1996, n. 81, integrato dal  decreto
  presidenziale 9 ottobre  1996,  n.  89  e  modificato  dal  decreto
  presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34. 
- Costituzione, artt. 3, primo comma, 24,  primo  comma,  102,  comma
  secondo (quest'ultimo in combinato disposto con la VI  disposizione
  transitoria), 108, primo comma, e 111, primo comma. 
(GU n.34 del 26-8-2015 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Sezioni unite civili 
 
    Composta dagli illustrissimi signori magistrati: 
        dott. Luigi Antonio Rovelli - Primo Presidente f.f.; 
        dott. Maria Gabriella Luccioli - Presidente Sezione; 
        dott. Salvatore Di Palma - Consigliere; 
        dott. Giovanni Amoroso - Consigliere; 
        dott. Aurelio Cappabianca - Consigliere; 
        dott. Vittorio Nobile - Rel. consigliere; 
        dott. Angelo Spirito - Consigliere; 
        dott. Adelaide Amendola - Consigliere; 
        dott. Alberto Giusti - Consigliere; 
ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso  n.
15044/2012 proposto da: 
        Varano Sandro, Palmese Roberto, Iacovella Mario, Valeri  Anna
Maria, Valeri Ivana, Piazza Giovanni,  elettivamente  domiciliati  in
Roma, Via Dora n. 1, presso lo studio dell'avvocato Vincenzo  Cerulli
Irelli, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato  Rosario
Siciliano, per delega a margine del ricorso; 
    Ricorrenti contro: 
        Segretariato generale della Presidenza della  Repubblica,  in
persona  del  legale  rappresentante   pro   tempore,   elettivamente
domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n.  12,  presso  l'Avvocatura
generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis; 
    Controricorrente, nonche' contro: 
        Presidenza della Repubblica; 
    Intimata avverso la decisione n. 2/2012 del Collegio di  appello,
depositata il 17 aprile 2012; 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
18 novembre 2014 dal consigliere dott. Vittorio Nobile; 
    Uditi gli avvocati Vincenzo  Cerulli  Irelli,  Federico  Basilica
dell'Avvocatura generale dello Stato; 
    Udito il pubblico ministero  in  persona  dell'avvocato  generale
dott. Umberto Apice, che ha concluso per il dichiarare ammissibile il
ricorso ex art. 111 della Costituzione,  in  subordine  sollevare  il
conflitto di attribuzione. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con ricorso del 26  novembre  2010  gli  odierni  ricorrenti,  in
epigrafe indicati unitamente ad altri 55 dipendenti del  Segretariato
generale   della   Presidenza   della   Repubblica,   chiedevano   il
riconoscimento del diritto alla corresponsione delle somme maturate a
titolo di indennita' perequativa e di indennita' di comando, non piu'
corrisposte dal Segretariato a far data dal  loro  inquadramento  nei
ruoli, avvenuto in data 1° dicembre 2005 (ai sensi  del  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 74/N del 18 ottobre 2005,  al  livello
iniziale  delle  rispettive  carriere  di  appartenenza,   senza   il
riconoscimento dell'anzianita' gia' maturata e  con  la  soppressione
delle dette indennita'), con la  condanna  dell'  amministrazione  al
pagamento delle somme quantificate in ricorso per il periodo  dal  1°
dicembre 2005 al 1° dicembre 2010, oltre rivalutazione e interessi. 
    Il Collegio giudicante di primo grado, con decisione  n.  3/2011,
respingeva il ricorso. 
    Gli odierni  ricorrenti  proponevano  appello  avverso  la  detta
decisione  deducendo,  tra  l'altro,  la  violazione   dei   principi
costituzionali  di  uguaglianza,  imparzialita',  buon  andamento   e
parita' di trattamento economico dei pubblici dipendenti, non essendo
stata  calcolata,   al   momento   dell'inquadramento,   l'anzianita'
maturata, con irrazionale disparita' nei confronti dei colleghi  gia'
inquadrati in ruolo, nonche' la violazione, nel  contempo,  dell'art.
20  della  Carta  dei  diritti   fondamentali   dell'Unione   europea
(chiedendo a tale ultimo proposito la sospensione del giudizio con la
rimessione degli atti alla Corte di giustizia dell'Unione europea). 
    Il Segretariato generale  resisteva  al  gravame  chiedendone  il
rigetto. 
    Il Collegio d'appello, con  decisione  depositata  il  17  aprile
2012, rigettava l'appello e compensava le spese. 
    In  particolare,   il   detto   Collegio   affermava   la   piena
applicabilita' nella fattispecie della norma speciale di cui all'art.
28, comma 2, del Regolamento del personale del Segretariato  generale
che  prevede  la  salvaguardia  della  sola  retribuzione  principale
percepita  dal  dipendente  prima  del  passaggio   in   ruolo,   con
esclusione, quindi, delle indennita' accessorie. 
    «In ogni caso» il Collegio rilevava altresi' che  «anche  qualora
si volesse ritenere applicabile la normativa generale sugli impiegati
civili dello Stato non potrebbe pervenirsi a diversa soluzione». 
    Il Collegio, poi, escludeva che nella specie potesse parlarsi  di
ingiusta sperequazione sia con riferimento al precedente  trattamento
goduto nel periodo di comando, sia con riferimento ai  colleghi  gia'
in ruolo di  pari  qualifica  e,  parimenti  per  la  inesistenza  di
situazioni  oggettivamente   discriminatorie,   affermava   che   non
ricorrevano i  presupposti  per  l'accoglimento  della  richiesta  di
sospensione del giudizio con rimessione  degli  atti  alla  Corte  di
giustizia dell'Unione europea. 
    Per la cassazione di tale  decisione  i  dipendenti  in  epigrafe
indicati hanno proposto ricorso  con  due  motivi  (violazione  degli
articoli 202 decreto del Presidente della Repubblica n. 3/57 e 28 del
Regolamento sullo stato giuridico e  sul  trattamento  economico  del
personale  del   Segretariato   generale   della   Presidenza   della
Repubblica;  violazione  dei  principi  costituzionali  di  cui  agli
articoli 3, 36, 97 Cost. e del principio di  parita'  di  trattamento
economico nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 45  decreto
legislativo  n.   165/2001)   preceduti   da   una   premessa   sulla
ammissibilita' del ricorso. 
    Il  Segretariato  generale  ha   resistito   con   controricorso,
deducendo la inammissibilita' del ricorso (stante l'autodichia  della
Presidenza della  Repubblica)  e,  comunque,  la  infondatezza  dello
stesso. 
    I ricorrenti e il controricorrente hanno, poi, depositato memoria
ex art. 378 codice di procedura civile. 
    Nell'udienza  del  17  dicembre  2013  la  causa,  con  ordinanza
interlocutoria n. 2288  depositata  il  3  febbraio  2014,  e'  stata
rinviata a  nuovo  ruolo,  in  attesa  della  pronuncia  della  Corte
costituzionale sull'ordinanza di queste Sezioni Unite n.  10400/2013,
riguardante la autodichia del Senato in tema di controversie dei suoi
dipendenti (ed in specie la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 12 del Regolamento del Senato 17 febbraio 1971 e successive
modificazioni, per contrasto con gli  articoli  3,  24,  102  secondo
comma, 111 commi primo, secondo e settimo, e 113 della Costituzione). 
    In particolare, queste Sezioni Unite, con la citata ordinanza  n.
2288/2014, nel ritenere di dover attendere la pronuncia  della  Corte
costituzionale,  hanno  rilevato  che,  «a  parte  le  considerazioni
connesse alla diversita' delle fonti delle autodichie... nonche'  dei
rispettivi organi giudicanti previsti dalle specifiche  normative...,
la soluzione  delle  questioni  rimesse  alla  Corte  costituzionale»
avrebbe potuto «investire direttamente  l'intero  quadro  sistematico
delle autodichie, con conseguente rilevanza anche nella  controversia
in esame», in considerazione sia del fatto che la  gran  parte  degli
argomenti relativi alle  questioni  sollevate  con  la  ordinanza  di
rimessione, in effetti avrebbe potuto riguardare tutte le autodichie,
sia  della  eventualita'  che  avrebbe  potuto  assumere   «rilevanza
significativa una eventuale  rimeditazione  generale,  da  parte  del
Giudice delle leggi, del sistema  delle  autodichie,  alla  luce  dei
principi costituzionali e dei principi della Convenzione europea  per
la   salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo   e   delle    liberta'
fondamentali (ai   sensi   dell'art.   117,   comma   primo,    della
Costituzione)», nel contempo essendo  possibile  lo  scioglimento  da
parte della Corte costituzionale, di «alcuni nodi fondamentali  ormai
ineludibili  e  comuni  a  tutte  le  autodichie»,  come  «la  stessa
configurabilita'  di  una  "giurisdizione  domestica"  degli   organi
costituzionali sui propri dipendenti,  a  fronte  del  sistema  delle
"norme sulla giurisdizione" delineato dalla sezione II del titolo  IV
della Costituzione (e dalla VI disposizione transitoria)» o  come  la
«ricorribilita' in cassazione  ex  art.  111,  comma  settimo,  della
Costituzione, contro le decisioni degli organi giudicanti  dei  detti
organi  costituzionali  ed  anche,  nella  specie,  della   decisione
impugnata». 
    Con sentenza n. 120 del 9 maggio 2014 la Corte costituzionale  ha
dichiarato inammissibile la questione di legittimita'  costituzionale
sollevata da questa Corte con la citata ordinanza n. 10400 del 2013. 
    Fissata, quindi, nuovamente l'udienza di trattazione del  ricorso
i ricorrenti  e  il  Segretariato  generale  della  Presidenza  della
Repubblica hanno depositato nuove  memorie  ex  art.  378  codice  di
procedura civile, i primi ribadendo la ammissibilita' e la fondatezza
del  ricorso,  il  secondo,   reiterando   le   difese   svolte   nel
controricorso e nella precedente memoria e insistendo per il  rigetto
del ricorso. 
    Il Procuratore generale ha concluso ritenendo in  via  principale
ammissibile il ricorso ed in via  subordinata  chiedendo  che  questa
Corte sollevi conflitto di attribuzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Preliminarmente va rilevato che, nella premessa del  ricorso  (v.
punto I), partendo dal principio affermato da  queste  Sezioni  Unite
con la  ordinanza  del  17  marzo  2010,  n.  6529,  i  ricorrenti  -
richiamata anche la  giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia  sui
requisiti che gli organi nazionali devono possedere per poter  essere
considerati quali «giurisdizione» ai fini  del  rinvio  pregiudiziale
alla  stessa  Corte -  rilevano  che  i  Collegi   giudicanti   della
Presidenza della Repubblica sono senz'altro ascrivibili alla  nozione
comunitaria  di  «giurisdizione»,  presentando  tutti   i   caratteri
all'uopo necessari. 
    Alla luce, quindi, di tale configurazione i ricorrenti sostengono
che diventa ormai «ineludibile la ricorribilita' in Cassazione contro
le decisioni definitive di detti  organi,  ai  sensi  dell'art.  111,
comma 7, Cost.», in base ad  una  interpretazione  «sostanzialistica»
della detta norma costituzionale. 
    Al riguardo, pur non ignorando l'indirizzo  contrario  di  questo
Supremo Collegio (che con la citata ordinanza n. 6529/2010,  in  sede
di regolamento preventivo di giurisdizione proposto nel corso  di  un
giudizio    innanzi    al    tibunale amministrativo    regionale, ha
riconosciuto la  «effettivita'  e  congruita'  dell'autodichia  della
Presidenza della Repubblica» dichiarando sulla controversia in  esame
la  «carenza  assoluta  di  giurisdizione»,  e  con  altre  sentenze,
relative ad analoghi organi di tutela previsti  dall'ordinamento  del
Senato e della Camera dei deputati - v. S.U.  19  novembre  2002,  n.
16267 e S.U. 10 giugno 2004, n. 11019, ha negato la ricorribilita' in
Cassazione avverso le pronunce di detti organi, rilevando tra l'altro
che detto rimedio «e' precluso dal sistema stesso dell'autodichia»  e
precisando  altresi'  che  tale  sistema  non  «ha   subito   effetti
innovativi ad opera del nuovo testo dell'art. 111  Cost.,  introdotto
dalla  legge  costituzionale  n.  2  del  1999,   che -   pur   senza
estromettere la autodichia dall'area  della  giurisdizione -  non  ha
comunque  scalfito  le  garanzie  di  indipendenza  del   Parlamento,
mantenendo pur sempre alcune aree di esenzione o di delimitazione del
sindacato di legittimita' proprio  della  Corte  di  cassazione»,  v.
Cass. S.U. n.  11019/2004  cit.),  i  ricorrenti  rilevano  che  tale
posizione giurisprudenziale «necessita di  revisione  alla  luce  dei
principi generali, di  rango  costituzionale  (segnatamente,  di  cui
all'art. 24 Cost.), alla luce dei principi della Convenzione  europea
dei diritti dell'uomo (art. 6), come affermati  dalla  giurisprudenza
di  quella  Corte,  nonche'  alla  luce  dei  principi  del   diritto
comunitario». 
    Cio'  posto,  osserva   il   Collegio   che,   innanzitutto,   va
identificata la fattispecie di autodichia in materia di  controversie
di lavoro del personale del Segretariato  generale  della  Presidenza
della Repubblica e delle norme che la prevedono. 
    Inizialmente,  una  autodichia  vera  e  propria   in   tema   di
controversie dei dipendenti  della  Presidenza  della  Repubblica  e'
stata a lungo negata. 
    In specie (senza considerare il regime transitorio anteriore alla
istituzione del Segretariato generale, caratterizzato dalle  funzioni
del commissario previsto dal decreto legislativo 19 giugno  1946,  n.
3, relative ai servizi del soppresso Ministero  della  Real  Casa,  e
quello pregresso di  tale  Ministero -  le  cui  controversie  con  i
dipendenti  appartenevano,  al  pari  dei  dipendenti   delle   altre
pubbliche amministrazioni, al Consiglio di Stato, v. C.d.S.  Sez.  IV
25 febbraio 1942) va rilevato che Cass. S.U. 5 agosto 1975,  n.  2979
aveva affermato che «le controversie relative ai rapporti di  impiego
del personale dipendente dal Segretariato generale  della  Presidenza
della   Repubblica   appartengono   alla   competenza   del   giudice
amministrativo,  senza  che  possa  prospettarsi  una   inammissibile
interferenza del potere giurisdizionale nelle funzioni del Capo dello
Stato, in quanto, siccome, a norma dell'art. 3 della legge  9  agosto
1948, n. 1077 e regolamento interno approvato dal  d.p.  19  novembre
1968, il suddetto personale  dipende  esclusivamente  dal  Segretario
generale,  oggetto  del   Sindacato   giurisdizionale   e'   soltanto
l'attivita', meramente amministrativa, di tale organo.». 
    Tale indirizzo veniva,  poi,  confermato  anche  dopo  i  rilievi
espressi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 129  del  1981,
la quale nel negare che alla Corte dei conti spettasse il  potere  di
sottoporre a giudizio contabile i tesorieri  della  Presidenza  della
Repubblica (al pari di quelli della Camera e del  Senato),  affermava
che «l'autonomia  ed  indipendenza  degli  organi  costituzionali  di
vertice    va    riconosciuta    non    soltanto    nella    potesta'
auto-organizzativa,  ma  anche  nel  momento  applicativo   di   tale
normazione, cui si riconnette l'esclusione di  qualsiasi  attivazione
di rimedi amministrativi o giurisdizionali» e  che  «l'esenzione  dai
giudizi di conto s'inserisce in un regime fondamentalmente  comune  a
tutti gli organi costituzionali ricorrenti, rinsaldato da  una  lunga
tradizione e radicato nell'autonomia spettante agli organi stessi.». 
    In specie, per quanto concerne la Presidenza della Repubblica, la
Corte costituzionale rilevava che: «malgrado per  essa  non  sussista
alcuna previsione  costituzionale  analoga  a  quella  concernente  i
regolamenti parlamentari», il Presidente della  Repubblica  abbisogna
«di un proprio apparato, non solo e non tanto per amministrare i beni
rientranti nella  dotazione,  quanto  per  consentire  un  efficiente
esercizio delle funzioni presidenziali, garantendo  in  tal  modo  la
non-dipendenza del Presidente rispetto ad altri poteri  dello  Stato;
sicche' il Segretariato generale della  Presidenza  della  Repubblica
non puo' essere riduttivamente configurato quale apparato burocratico
di  regime  giuridico  eguale  a  quello  di  ogni   altro   apparato
dell'amministrazione dello Stato». 
    Successivamente, in sostanza considerando tali  rilievi  riferiti
alla sola materia contabile e alla relativa lunga  tradizione,  Cass.
S.U. 10 maggio 1988, n. 3422 confermava che «le controversie inerenti
al rapporto  pubblico  di  impiego  del  personale  del  Segretariato
generale della Presidenza della  Repubblica,  ancorche'  investano  i
provvedimenti presidenziali di approvazione delle norme regolamentari
sullo stato giuridico ed economico e  sul  trattamento  pensionistico
(ma  non  direttamente  la  liquidazione  della  pensione),  non   si
sottraggono alla giurisdizione esclusiva del giudice  amministrativo,
tenuto conto che quei  provvedimenti  integrano  atti  amministrativi
attinenti al rapporto  d'impiego  e  che  difettano  disposizioni  di
deroga alla suddetta giurisdizione in favore di organi interni  della
Presidenza della Repubblica (come invece previsto  negli  ordinamenti
del personale della Camera e del Senato).». 
    Tale indirizzo veniva, poi,  ribadito  anche  da  Cass.  S.U.  17
dicembre  1998,  n.  12614,  che  nuovamente  affermava   che   «alla
Presidenza della Repubblica non puo' essere riconosciuta l'autodichia
in materia  di  controversie  in  tema  di rapporti  di  impiego  del
personale dipendente; da  cio'  consegue  che  esse  rientrino  nella
giurisdizione del giudice amministrativo.». 
    In particolare, premesso che «per autodichia si intende,  secondo
la  comune  opinione,  la  capacita'  di  una  istituzione -  ed   in
particolar   modo   degli   organi   costituzionali -   di   decidere
direttamente,  con  proprio  giudizio,  ogni  controversia  attinente
all'esercizio delle proprie funzioni»  e  che  «nell'attuale  assetto
costituzionale, e' lecito dubitare che  l'autodichia  costituisca  un
necessario  attributo  implicato  dalla  posizione  di  autonomia  ed
indipendenza degli organi costituzionali», essendo  «arduo  sostenere
che, vigendo una Costituzione scritta,  principio  implicito,  o  una
norma inespressa, possa di per se' porsi in vittorioso contrasto  con
un principio fondamentale esplicito»; la detta sentenza rilevava  che
«in effetti eccezioni esplicite al principio  della  indefettibilita'
della tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni  (ordinari  ed
amministrativi), integranti ipotesi di autodichia a favore di  organi
costituzionali, si  rinvengono  nel  diritto  positivo»  (alcune  con
fondamento costituzionale diretto, come quella prevista per  ciascuna
Camera dall'art. 66 Cost. in materia  di  titoli  di  ammissione  dei
componenti  e  di  cause  sopraggiunte  di   ineleggibilita'   e   di
incompatibilita'; altre con fondamento costituzionale indiretto, come
quella relativa alle controversie dei propri dipendenti  della  quale
Camera  e  Senato  si   sono   dotate   nell'esercizio   del   potere
regolamentare loro attribuito dall'art. 64, comma  1  Cost. -  i  cui
dubbi di legittimita' costituzionale sono rimasti  irrisolti  per  la
insindacabilita' davanti alla  Corte  costituzionale  delle  relative
fonti, v. Corte  cost.  n.  154  del  1985;  altra  ancora,  come  la
giurisdizione domestica della Corte costituzionale,  «in  virtu'  del
concatenato operare dell'art. 1 della legge costituzionale  11  marzo
1953, n. 1, e dell'art. 14, comma 3, della legge 11  marzo  1953,  n.
87, come modificato dall'art. 4 della legge 18 marzo 1958, n. 265,  e
che viene esercitata in base  al  regolamento  della  stessa  Corte).
Analoga situazione, pero', non  era  ravvisabile  per  la  Presidenza
della Repubblica. 
    La  detta  pronuncia  precisava,  infatti,  che  «la   legge   n.
1977/1948, legge ordinaria istitutiva del Segretariato generale della
Presidenza  della  Repubblica,  non  ha  previsto  l'autodichia   nei
confronti del personale addetta  ai  servizi  ed  agli  uffici  della
Presidenza della Repubblica, limitandosi a stabilire, in  materia  di
personale, che il Segretario generale «propone  al  Presidente  della
Repubblica l'approvazione del regolamento interno e dei provvedimenti
relativi al personale» (art. 3, comma 3); che «lo stato giuridico  ed
economico e gli organici del personale addetto alla  Presidenza  sono
stabiliti con decreto del Presidente della Repubblica» (art. 4, comma
1);  che  "alle  spese....per  tutto  il  personale  dipendente   dal
Segretariato si provvede con legge speciale" (art. 4, comma  2)».  La
stessa pronuncia, inoltre, aggiungeva che «una forma di giurisdizione
domestica esclusiva» neppure «risulta  disciplinata  nei  regolamenti
concernenti il personale, previsti dai suindicati articoli  3,  comma
3, e 4, comma 1, ed in particolare nel decreto  n.  31/1980,  vigente
all'epoca  dell'instaurazione  del   giudizio»   (che   all'art.   5,
istitutivo della Commissione per i ricorsi del  personale,  precisava
che il ricorso interno e' dichiarato improcedibile «se nei  confronti
dello  stesso  atto  o  provvedimento  amministrativo  sia  stato  da
chiunque presentato ricorso al giudice amministrativo», «in tal  modo
inequivocabilmente  riconoscendo  la  giustiziabilita'   degli   atti
davanti al giudice comune»). Del resto, neppure potevano  richiamarsi
al riguardo i principi e i rilievi espressi, nella materia contabile,
da Corte costituzionale  n.  129/1981,  non  essendo  rinvenibile  in
materia  di  autodichia  nelle  controversie  del   personale   della
Presidenza della Repubblica una analoga uniforme tradizione  ed  anzi
essendo stata costantemente affermata la soggezione delle stesse alla
giurisdizione comune. 
    Tale indirizzo consolidato, affermato con riferimento  al  regime
anteriore alla nuova disciplina regolamentare del contenzioso interno
di cui ai decreti presidenziali  n.  81  e  89  del  1996,  e'  stato
ritenuto superato da Cass. S.U. 17 marzo 2010, n. 6529, la quale,  in
sede di regolamento di giurisdizione, ha  registrato  «la  situazione
per la quale l'organo costituzionale in disamina,  assistito  da  una
potesta' di autoorganizzazione a fondamento costituzionale indiretto,
da una indiscussa autonomia contabile  (l'una  e  l'altra  imperniate
sull'interazione di una  consolidata  prassi  costituzionale  con  il
riferimento  normativo)  e  da  una  idoneita'  alla  normazione  sui
conflitti domestici  attraverso  l'adozione  di  regolamenti,  si  e'
dotato consapevolmente, sin dal 1996, di  una  struttura  decisionale
articolata per la soluzione di tali  conflitti  ed  ha  visto,  negli
ultimi anni, il giudice  amministrativo  dubitare  (anche  alla  luce
della esplicita «astensione» dal pronunziare formulata nella sentenza
del 1998 di queste Sezioni Unite) della  propria  potestas  judicandi
sui conflitti stessi.». 
    In  specie  con   tale   pronuncia   e'   stato   affermato   che
«dall'esercizio di tale potere regolamentare - di natura  chiaramente
normativa (e rispetto al quale la legge n. 1077 del 1948, assume mero
ruolo ricognitivo (Corte costituzionale n. 129/81) - deriva dunque la
«possibilita'» di riservare alla propria giurisdizione  domestica  le
controversie insorte nella costituzione e nella gestione del rapporto
con il personale necessario per il perseguimento dei propri fini, una
possibilita' che il pregresso decreto del 1980 confessava non  essere
stata utilizzata  (prevedendosi  solo  un  procedimento  interno  non
ostativo del ricorso al giudice) e che  invece  i  decreti  del  1996
hanno pienamente utilizzato, creando un doppio  grado  di  cognizione
con  specifica  regolamentazione  procedurale   e   nell'intento   di
istituire una sede decisoria tecnica, imparziale e stabile.». 
    In particolare, poi, premesso che alla  Corte  regolatrice  della
giurisdizione spetta la «verifica del fondamento  costituzionale  per
l'esercizio di un potere decisorio che, specularmente, decurta poteri
decisori dalla giurisdizione amministrativa» e che tale verifica deve
essere fatta «alla  stregua  dei  fondamentali  criteri  posti  dalla
Costituzione per la tutela dei diritti, ma anche rammentando che tali
criteri sono integrati dalle norme della  Convenzione  europea  (art.
6, p. 1), quali interpretate dalla Corte di  Strasburgo,  secondo  il
procedimento di ingresso nell'ordinamento nazionale  precisato  dalla
Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  348  del  2007»,  con  la
pronuncia in esame e' stato rilevato che  «la  Corte  europea,  nella
sentenza del 28 aprile 2009 resa in causa Savino ed altri c.  Italia,
proposta all'esito dell'esercizio della autodichia della  Camera  dei
deputati, ha rammentato che il  rispetto  dell'art.  6,  p.  1  della
Convenzione ben puo' essere assicurato con la riserva di controversie
ad organismi diversi da quelli comuni ma a condizione che  anche  per
tali organismi siano  garantite  le  condizioni  di  precostituzione,
imparzialita' ed  indipendenza  che  presidiano  all'esercizio  della
giurisdizione  ordinaria,  condizioni,  va  aggiunto,   che   trovano
perfetta corrispondenza nei principii di cui agli articoli  25,  104,
107 e 108 Cost.». 
    Tanto premesso e rilevato, queste Sezioni  Unite  hanno  ritenuto
che «tali condizioni, evidenziate dalla Corte europea e da questa non
ravvisate nella pregressa disciplina dell'autodichia della Camera dei
deputati, assistano il disegno perseguito dai  decreti  presidenziali
numeri 81 ed 89 del 1996. Ed infatti: 
        la istituzione regolamentare  di  collegi  stabili  a  durata
quadriennale ed i cui componenti sono selezionati prevalentemente (in
primo  grado)  o  totalmente  (in  appello)  in  ragione  della  loro
professionalita', appare previsione sufficiente al perseguimento  del
primo obiettivo, quello diretto a garantire  che  la  trattazione  di
ogni affare sia riservata ad un organo  decidente  gia'  designato  e
destinato ad operare stabilmente per una serie ulteriore di affari; 
        del   pari   l'imparzialita'   dei   collegi   decidenti   e'
tendenzialmente   assicurata   dalla    appartenenza    ordinamentale
(magistrati   ordinari,   amministrativi   e   contabili)   e   dalla
autorevolezza della fonte di designazione dei componenti dei  collegi
(i Presidenti degli organi di provenienza) nonche' dalla volonta'  di
sottoporne il funzionamento alle regole procedurali generali ed  alle
norme di deontologia degli ordini di appartenenza (se pur la relativa
osservanza, in difetto di rimedi demolitori, sostitutivi,  riparatori
resta nulla piu' che oggetto di auspicio); 
        certamente rende omaggio  al  requisito  di  indipendenza  la
scelta di costituire i collegi in prevalenza (in primo  grado)  o  in
via  esclusiva  (in  appello)  con   personale   totalmente   esterno
all'organo  costituzionale,  designato  dal  vertice  dell'organo  di
appartenenza e legato con il Segretariato  generale  da  un  rapporto
puramente onorario.» (cosi' Cass. S.U. n. 6529/2010 cit.). 
        In definitiva, quindi, con tale  ultima  pronuncia  e'  stato
affermato il principio secondo cui «il potere della Presidenza  della
Repubblica  di  riservare,   mediante   regolamento,   alla   propria
cognizione  interna  le  controversie  in  materia  di  impiego   del
personale  ha  fondamento  costituzionale  indiretto  (connesso  alla
potesta' di autoorganizzazione  e  all'autonomia  contabile,  fondate
sull'interazione della consolidata prassi costituzionale con la legge
9 agosto  1948,  n.  1077),  ed  e'  stato  esercitato -  mediante  i
regolamenti emanati con i decreti del Presidente della Repubblica  24
luglio  e  9  ottobre  del  1996 -   in   modo   da   assicurare   la
precostituzione,  l'imparzialita'  e  l'indipendenza   dei   collegi,
previsti  per  la  risoluzione  delle  suddette  controversie,  quali
condizioni che presidiano l'esercizio della giurisdizione  ordinaria,
secondo i principi fissati dalla  Costituzione  e  dalla  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali». 
    Tale pronuncia ha suscitato in dottrina non  poche  perplessita',
in  considerazione  della  non  meglio  spiegata  sussistenza  di  un
«fondamento  costituzionale  indiretto»  per  la   autodichia   della
Presidenza della Repubblica, in sostanza fondato soltanto sul  potere
auto-organizzativo  interno  (nonostante  sia  stata  confermata   la
negazione della autodichia come «momento  essenziale  per  assicurare
effettivita' alla posizione di autonomia ed indipendenza degli organi
costituzionali») e su una «lunga tradizione» (gia'  rilevata,  pero',
soltanto in materia contabile), nonche' in ragione  della  creazione,
in  sostanza,  di  nuovi  giudici  speciali  in  contrasto   con   la
Costituzione  e,  prima  ancora,  della  insussistenza  di  superiori
esigenze di protezione  che  giustifichino  una  deroga  ai  principi
costituzionali sulla tutela giurisdizionale. D'altra parte  e'  stato
anche evidenziato che  non  e'  configurabile  una  eccezione  ad  un
principio  «cardine»  espresso  nella  Costituzione   attraverso   un
principio costituzionale inespresso o implicito (peraltro espresso in
atti regolamentari, emessi  in  base  ad  una  legge  ordinaria,  non
assimilabili ai regolamenti parlamentari). 
    Per altro verso, poi, la pronuncia in esame, incentrata  soltanto
sullo specifico regolamento di giurisdizione, non  ha  considerato  i
dubbi  di  incostituzionalita'   poi   sollevati,   con   riferimento
all'autodichia del Senato nelle controversie dei suoi dipendenti, con
l'ordinanza di questa Corte n. 10400/2013, i  quali,  come  e'  stato
affermato nella ordinanza interlocutoria n. 2288/2014, in gran  parte
potrebbero in effetti riguardare tutte le autodichie. 
    Infine e' intervenuta la sentenza della Corte  costituzionale  n.
120 del 2014, che seppure ha dichiarato inammissibile la questione di
legittimita' costituzionale sollevata da questa Corte con l'ordinanza
n.  10400/2013,  ribadendo  la   insindacabilita'   dei   regolamenti
parlamentari,  non   ha   adottato   una   pronuncia   di   manifesta
inammissibilita', come nel caso delle ordinanze numeri 444 e 445  del
1993 sulla scia di Corte costituzionale n. 154  del  1985,  ma  nella
motivazione  ha  delineato  la  direttrice  di  possibili   sviluppi,
fornendo significativi elementi di novita'. 
    In  sostanza   dalla   non   sindacabilita'   generalizzata   dei
regolamenti parlamentari si passa alla sindacabilita' relativa, nella
forma del conflitto di attribuzione tra poteri  dello  Stato,  che  -
unitamente  al  giudizio  in  via  principale   (nella   specie   non
ipotizzabile) - e' uno dei modi di controllo di costituzionalita'  ai
sensi dell'art. 134 Cost. 
    Il distacco dall'arresto del 1985, in termini di evoluzione della
giurisprudenza, viene segnato innanzi tutto dall'affermazione  che  i
regolamenti  parlamentari  non  sono  fonti  puramente   interne   al
Parlamento;  essi  sono   fonti   dell'ordinamento   generale   della
Repubblica, produttive  di  norme  sottoposte  agli  ordinari  canoni
interpretativi,  alla  luce  dei  principi   e   delle   disposizioni
Costituzionali, che ne delimitano la sfera di competenza. 
    Quindi vi e' un ambito, seppur limitato, di competenza  normativa
dei regolamenti parlamentari ed il limite, in chiave parametrica,  e'
dato proprio dalle norme della Costituzione. E tra queste vengono  in
rilevo soprattutto gli articoli 64 e  72  Cost.  che  assolvono  alla
funzione di definire e, al tempo stesso, di delimitare «lo statuto di
garanzia delle Assemblee parlamentari» (sentenza n. 379 del 1996). E'
dunque all'interno di questo statuto  di  garanzia  -  sottolinea  la
Corte - che viene  stabilito  l'ambito  di  competenza  riservato  ai
regolamenti parlamentari, avente ad oggetto l'organizzazione  interna
e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la
parte non direttamente regolata dalla Costituzione. 
    Per ricostruire questo ambito - e verificare che in questo ambito
si  sia   contenuta   la   produzione   normativa   regolamentare   e
subregolamentare  delle  Camere  -  e'  possibile  il  conflitto   di
attribuzione tra poteri nella misura in cui il  superamento  di  tale
ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello  Stato,
quale quello giurisdizionale che ha carattere diffuso e che altro non
e'   che   espressione   della   garanzia   generale   alla    tutela
giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale. 
    Non solo quindi c'e' un  ambito  disegnato  in  Costituzione  del
potere normativo regolamentare delle Camere, ma viene in gioco  anche
rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali - ricorda la  Corte  -
il diritto di accesso alla giustizia (art. 24, primo comma, Cost.). 
    Pertanto il rispetto  dei  diritti  fondamentali  costituisce  un
limite  alla  competenza  regolamentare  delle  Camere.   L'eventuale
superamento   di   questo   limite   non   ridonda   in   vizio    di
incostituzionalita'   censurabile   nei   modi   del   giudizio    di
costituzionalita'  in  via  incidentale,  che  rappresenta  la  forma
ordinaria  del  controllo  di  costituzionalita'   accentrato   nella
giurisdizione della Corte costituzionale, ma costituisce un'invasione
di campo, una violazione delle regole di  competenza,  un'alterazione
dell'equilibrio dei poteri dello Stato. 
    Processualmente il modo per accertare questa eventuale violazione
e' diverso - conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato  e  non
gia' incidente di costituzionalita' - anche  se  poi  nel  merito  la
valutazione richiesta alla Corte e' analoga, derivante dalla denuncia
di  un  non  manifestamente  infondato   contrasto   tra   la   norma
regolamentare   ed   un   diritto   fondamentale   garantito    dalla
Costituzione. 
    Il portato innovativo della sentenza n. 120 del 2014 si racchiude
nell'affermazione che la sede naturale in cui  trovano  soluzione  le
questioni relative alla  delimitazione  degli  ambiti  di  competenza
riservati e' quella del conflitto di attribuzione fra i poteri  dello
Stato. 
    La  Corte,  richiamando  anche  la  sentenza  n.  379  del  1996,
sottolinea che il confine tra autonomia delle Camere e  giurisdizione
appartiene  al  sindacato  della  Corte  stessa,  che   puo'   essere
investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal  Potere  che  si
ritenga leso o menomato dall'attivita' dell'altro. 
    L'indipendenza  delle  Camere  non  puo'  infatti   compromettere
diritti  fondamentali,  ne'  pregiudicare  l'attuazione  di  principi
inderogabili; in generale deve prevalere  la  «grande  regola»  dello
Stato di diritto ed il conseguente regime  giurisdizionale  al  quale
sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti
i beni giuridici e tutti i diritti ex articoli 24, 112  e  113  Cost.
sentenza n. 379 del 1996). 
    Con riferimento poi all'autodichia in materia di controversie  di
lavoro del personale del Senato la Corte - che non manca di  rilevare
che  in  altri  ordinamenti  giuridici  non  dissimili   dal   nostro
l'autodichia sui rapporti di lavoro con i dipendenti delle  Assemblee
legislative (e quella sui rapporti con i terzi) non e' piu'  prevista
- sottolinea che anche norme non sindacabili potrebbero essere  fonte
di atti lesivi di diritti costituzionalmente inviolabili  e,  d'altra
parte, deve  ritenersi  sempre  soggetto  a  verifica  il  fondamento
costituzionale di un potere decisorio  che  limiti  quello  conferito
dalla Costituzione ad altre autorita'. 
    In sintesi la Corte  opera  una  riserva:  non  e'  possibile  il
giudizio  incidentale  di  costituzionalita',  ma  una  verifica   di
costituzionalita' e'  possibile  per  il  tramite  del  conflitto  di
attribuzione tra poteri dello Stato. In tale sede  la  Corte  -  come
puntualmente  affermato  dalla  sentenza  n.  120  del  2014 -   puo'
ristabilire  il  confine,  ove  questo  sia  violato,  tra  i  poteri
legittimamente esercitati dalle Camere nella loro sfera di competenza
e quelli che competono ad altri, cosi' assicurando  il  rispetto  dei
limiti delle prerogative e del principio di legalita',  che  e'  alla
base dello Stato di diritto. 
    In   tale    evidenziata    evoluzione    della    giurisprudenza
costituzionale in tema di autodichia in materia  di  controversie  di
lavoro del personale delle Camere (dalla sentenza  n.  154/1985  alla
sentenza n. 120/2014) puo' leggersi una applicazione di  settore  del
principio di continuita' del controllo di costituzionalita' che vuole
che  non  ci  siano  aree   franche   sottratte   al   controllo   di
costituzionalita'. 
    Recentemente la sentenza n. 1 del 2014 ha rimarcato  che  -  come
principio generale - non puo' esserci un'area esclusa  dal  controllo
di costituzionalita'. Cfr. anche sentenza n.  162  del  2014  che  ha
ribadito che la Corte, «posta di fronte a un  vulnus  costituzionale,
non sanabile in via  interpretativa  -  tanto  piu'  se  attinente  a
diritti fondamentali - e' tenuta comunque a porvi rimedio»  (sentenza
n. 113 del 2011). 
    Puo'  aggiungersi   che   la   continuita'   del   controllo   di
costituzionalita' si  affianca  alla  continuita'  del  sindacato  di
legittimita' (ex art. 111, settimo comma, Cost.): come nessuna  fonte
normativa e' sottratta al rispetto della Costituzione  cosi'  nessuna
decisione di giustizia e' sottratta al rispetto della legge. 
    Conclusivamente, in base a Corte costituzionale n. 120 del  2014,
puo' quindi dirsi che e' possibile  il  raffronto  tra  la  normativa
subregolamentare del Senato in  tema  di  autodichia  in  materia  di
controversie di lavoro del personale dipendente e la  Costituzione  e
che  lo  strumento  processuale  di  verifica  e'  il  conflitto   di
attribuzione tra poteri dello Stato ex art. 134 Cost. 
    Orbene, in tale quadro sistematico, ritiene  il  Collegio  che  i
citati elementi di novita'  e  gli  sviluppi  delineati  dalla  Corte
costituzionale  con  riferimento  alla  autodichia  del  Senato,  non
possono che trovare analoga  applicazione  anche  con  riguardo  alla
autodichia  della  Presidenza  della   Repubblica   in   materia   di
controversie del personale, pur nella sua particolare connotazione. 
    In particolare, come  sopra  si  e'  accennato,  con  il  decreto
presidenziale n. 81 del 26 luglio 1996 successivamente integrato  dal
decreto presidenziale n. 89 del  9  ottobre  1996  e  modificato  dal
decreto presidenziale n. 34 del 30 dicembre  2008,  emanati  in  base
alla legge n. 1077 del 1948 (che, pero', prevede soltanto - v. art. 4
- che «lo stato giuridico ed economico e gli organici  del  personale
addetto alla Presidenza sono stabiliti  con  decreto  del  Presidente
della Repubblica»), eliminandosi il  precedente  carattere  eventuale
dell'autodichia (di cui al decreto n. 31 del  1980)  ed  escludendosi
implicitamente la possibilita' di ricorso al giudice  amministrativo,
e' stato istituito quale organo di primo grado il Collegio giudicante
nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del
segretario generale, e composto da un consigliere di  Stato,  che  lo
presiede, da un consigliere di Corte  d'appello,  da  un  consigliere
della Corte dei conti, designati rispettivamente dai  Presidenti  del
Consiglio di Stato, della Corte d'appello di Roma e della  Corte  dei
conti (nel 2008 e' stata abrogata la norma che prevedeva la  presenza
in detto Collegio giudicante di un  funzionario  dell'Amministrazione
designato  dal  segretario  generale  e  di  un  rappresentante   del
personale sorteggiato...); nel contempo quale organo  di  secondo  ed
ultimo grado e' stato istituito il  Collegio  di  appello,  anch'esso
nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del
segretario generale, e composto  da  un  Presidente  di  sezione  del
Consiglio di Stato, che lo presiede, da un consigliere di  Cassazione
e da un consigliere della Corte dei conti, designati  rispettivamente
dal Presidente del Consiglio di Stato,  dal  Primo  Presidente  della
Corte di cassazione e dal  Presidente  della  Corte  dei  conti;  non
possono far parte del Collegio i magistrati componenti  del  Collegio
giudicante, nonche' quelli in posizione di comando o di  fuori  ruolo
presso  il  Segretariato  generale  o  consulenti  dello  stesso  (v.
articoli 1, 2, 3 e 8). 
    La procedura ricalca quella prevista per  i  ricorsi  dinanzi  ai
giudici amministrativi e le udienze dei Collegi  sono  pubbliche.  Le
pronunce, denominate «decisioni», sia in primo che in  secondo  grado
devono essere adottate entro 180 giorni e producono immediatamente  i
loro  effetti,  senza  che  sia  necessario   un   provvedimento   di
recepimento  da  parte  dell'Amministrazione.  I  ricorsi  non  hanno
effetti  sospensivi,  ma  puo'  essere   richiesta   la   sospensione
dell'esecuzione degli atti e delle  pronunce  per  gravi  motivi.  E'
ammesso ricorso per revocazione davanti allo  stesso  organo  che  ha
pronunciato la decisione  nei  modi  e  nei  termini  previsti  dagli
articoli 395 e 396 codice di procedura civile. 
    I  detti  organi  giudicanti,  per  la  loro   configurazione   e
composizione,  come  si  e'  detto,  sono  stati  ritenuti  idonei  a
soddisfare  le  condizioni  di  precostituzione,   imparzialita'   ed
indipendenza previste dall'art. 6, p. 1, della  Convenzione  europea,
come interpretate dalla Corte di Strasburgo con la  sentenza  del  28
aprile 2009 resa in causa Savino ed altri c. Italia,  condizioni  che
peraltro trovano perfetta corrispondenza nei  principi  di  cui  agli
articoli 25, 104, 107 e 108 della  Costituzione  (v.  Cass.  S.U.  17
marzo 2010, n. 6529 cit., che, ravvisata la  autodichia  de  qua,  ha
dichiarato la «carenza assoluta di giurisdizione», ma non ha preso in
considerazione ulteriori profili di incostituzionalita'). 
    Orbene,  seppure  la  fonte  diretta   della   autodichia   della
Presidenza della  Repubblica  non  sia  assimilabile  ai  regolamenti
parlamentari,   a   parte   ogni   considerazione   sul    fondamento
costituzionale indiretto  della  autodichia  in  esame  (in  sostanza
istituita, propriamente - in quanto autonoma ed esclusiva -  soltanto
nel 1996 e modificata nel 2008), in primo luogo non puo' negarsi  che
i decreti presidenziali citati, non essendo atti con forza di  legge,
non   sono   censurabili   sollevando   questione   incidentale    di
costituzionalita'. 
    Nel contempo, pero', e' altrettanto indubbio che gli  stessi  non
possono essere sottratti ad un  controllo  di  costituzionalita'  sul
piano della sindacabilita' relativa  nella  forma  del  conflitto  di
attribuzione tra poteri dello Stato. 
    Anche  nella  fattispecie  in  esame,  infatti,  assume   rilievo
determinante la ricostruzione dell'ambito di competenza riservato  ai
decreti  presidenziali  aventi  ad  oggetto  l'organizzazione   della
Presidenza della Repubblica, all'interno dello  statuto  di  garanzia
del Presidente della Repubblica, ed  e'  possibile  il  conflitto  di
attribuzione tra poteri, nella misura in cui il superamento del detto
ambito ridondi in invasione o turbativa di altro potere dello  Stato,
quale quello giurisdizionale che ha carattere diffuso e che altro non
e'   che   espressione   della   garanzia   generale   alla    tutela
giurisdizionale, riconosciuta come diritto fondamentale. 
    Del resto anche per la Presidenza della  Repubblica  in  generale
deve prevalere la «grande regola» dello Stato  di  diritto  ed  anche
riguardo alla stessa il rispetto dei diritti fondamentali, cosi' come
l'attuazione  dei  principi  inderogabili,  sono   assicurati   dalla
funzione  di  garanzia  assegnata  alla  Corte  costituzionale,   che
costituisce  la  sede  naturale  nella  quale  trovano  soluzione  le
questioni relative alla  delimitazione  degli  ambiti  di  competenza
riservati dei poteri dello Stato. La tutela, quindi, del confine  tra
i  due  distinti  valori  della  autonomia  della  Presidenza   della
Repubblica, da un lato, e  la  legalita'  giurisdizione,  dall'altro,
spetta senz'altro alla Corte costituzionale,  investita  in  sede  di
conflitto di attribuzione. 
    Peraltro e' indubbio che anche per la Presidenza della Repubblica
vale il principio generale  secondo  cui  non  puo'  esserci  un'area
esclusa dal controllo di costituzionalita', tanto piu' se attinente a
diritti fondamentali e, nel contempo, deve ritenersi sempre  soggetto
a verifica il fondamento costituzionale di un  potere  decisorio  che
limiti quello conferito dalla Costituzione ad altri poteri. 
    Puo', quindi, passarsi all'esame dei  profili  di  illegittimita'
costituzionale rilevabili nella fattispecie,  posto  che  l'invasione
del potere giurisdizionale richiede non  di  meno  l'indicazione  dei
parametri di riferimento versandosi comunque in una ipotesi di  vizio
di illegittimita' costituzionale in senso lato. 
    Invero, ad avviso di questa Corte, la menomazione o turbativa del
potere giurisdizionale e' segnatamente di duplice portata:  una  piu'
generale, in riferimento agli articoli  3,  primo  comma,  24,  primo
comma, 102, secondo comma, quest'ultimo in combinato disposto con  la
VI disposizione transitoria, 108 primo comma, 111 primo comma, Cost.,
e l'altra piu' specifica, in riferimento agli articoli  111,  settimo
comma, e 3, primo comma, Cost. 
    Si ha nella specie  che  agli  attuali  ricorrenti  e'  risultato
menomato l'accesso alla giustizia non essendo consentito - in ragione
della sussistente autodichia  della  Presidenza  della  Repubblica  -
adire la giurisdizione comune, sia essa ordinaria  che  speciale.  La
rilevanza di questo profilo di invasivita' (o incostituzionalita'  in
senso lato)  di  maggiore  e  piu'  radicale  portata  risiede  nella
circostanza che, se fosse rimossa l'autodichia della Presidenza della
Repubblica, la giurisdizione comune si riespanderebbe,  venendo  meno
l'assoluto difetto di giurisdizione nell'attuale situazione di  pieno
dispiegarsi della detta autodichia. 
    Alternativamente e  subordinatamente,  in  una  prospettiva  piu'
limitata, ove si ritenga legittima in particolare  la  configurazione
degli organi di giustizia interna della Presidenza  della  Repubblica
come giudici speciali, rileverebbe la preclusione - sempre in ragione
dell'autodichia de qua - dell'accesso al  sindacato  di  legittimita'
nella forma del ricorso straordinario ex  art.  111,  settimo  comma,
Cost. ed art. 360, quarto comma,  codice  di  procedura  civile,  con
conseguente ingiustificato trattamento differenziato (art.  3,  primo
comma, Cost.). La rilevanza di questo piu'  circoscritto  profilo  di
invasivita'  (o  incostituzionalita'  in  senso  lato)   risiede   la
circostanza   che,   ove   fosse   rimossa   tale   preclusione,   si
riespanderebbe la possibilita' di esperire il  ricorso  straordinario
per cassazione avverso le decisioni in ultimo grado, degli organi  di
giustizia  interna  della  Presidenza   della   Repubblica   con   la
conseguenza che  l'attuale  ricorso  per  cassazione  sarebbe,  sotto
questo profilo, ammissibile e le  censure  di  violazione  di  legge,
mosse dai ricorrenti all'impugnata pronuncia del Collegio di appello,
potrebbero in ipotesi essere esaminate nel merito. 
    Sotto il primo enunciato profilo  l'autodichia  della  Presidenza
della Repubblica appare in contrasto con il principio di  eguaglianza
(art. 3, primo comma,  Cost.),  coniugato  con  il  riconoscimento  a
«tutti» della facolta' di agire in giudizio per la tutela dei  propri
diritti e interessi legittimi (art. 24, primo comma, Cost.). 
    L'eguaglialza  davanti  alla  legge,  come  canone   generale   e
principio fondamentale, si specifica come eguaglianza in  particolare
nell'accesso alla tutela giurisdizionale, quale diritto inviolabile. 
    E'  un  principio  fondamentale  che  si  salda  ad  un   diritto
espressamente riconosciuto come inviolabile e che genera  una  tutela
forte, appartenente al nucleo essenziale ed irrinunciabile del  patto
sociale su cui si fonda l'ordinamento costituzionale  fin  da  essere
attratto  all'area  dei  c.d.  controlimiti,   ossia   dei   principi
fondamentali  e   dei   diritti   inviolabili   della   persona   che
costituiscono   gli    elementi    identificativi    essenziali    ed
irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale. 
    Questa garanzia viene in sofferenza - ad avviso di questa Corte -
nel momento in cui una categoria di soggetti e' esclusa dalla  tutela
giurisdizionale  comune  in  ragione  di  un  elemento   -   l'essere
dipendenti della Presidenza della Repubblica - non significativo, ne'
giustificativo sul piano costituzionale, ai fini del loro trattamento
differenziato. 
    Nella stessa cit. sentenza n. 120  del  2014  in  cui  veniva  in
rilevo  proprio  questo   trattamento   differenziato   relativo   ai
dipendenti del Senato, la Corte costituzionale ha posto  in  evidenza
che il diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.)  costituisce
un  diritto  fondamentale;   affermazione   confermata   ancor   piu'
recentemente dalla cit. sentenza n. 238 del 2014 che ha ribadito  che
«fra i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale vi e' il
diritto di agire e di resistere  in  giudizio  a  difesa  dei  propri
diritti riconosciuto dall'art. 24  Cost.,  in  breve  il  diritto  al
giudice», aggiungendo che «il diritto al  giudice  ed  a  una  tutela
giurisdizionale effettiva dei diritti inviolabili e' sicuramente  tra
i grandi principi di civilta' giuridica in ogni  sistema  democratico
del nostro tempo». 
    Pertanto «l'azione in giudizio per la difesa dei  propri  diritti
[...] e' essa stessa il  contenuto  di  un  diritto,  protetto  dagli
articoli 24 e 113 della Costituzione  e  da  annoverarsi  tra  quelli
inviolabili  e  caratterizzanti  lo  stato  democratico  di  diritto»
(sentenze n. 26 del 1999, n. 120 del 2014, n. 386 del 2004  e  n.  29
del 2003). 
    Del resto non appare concretamente ipotizzabile  che  l'autonomia
della Presidenza della Repubblica, che certamente  ha  una  posizione
guarentigiata di alto profilo costituzionale, possa bilanciare,  fino
a comprimerlo del tutto, il diritto alla tutela  giurisdizionale  del
personale  dipendente,  nella  misura  in  cui  puo'  ragionevolmente
escludersi che alcun rischio tale  autonomia  guarentigiata  corra  a
causa di un'iniziativa giudiziaria  di  suoi  dipendenti,  quali  gli
attuali ricorrenti che, gia' comandati e poi, dal 1°  dicembre  2005,
inquadrati nei  ruoli  del  Segretariato  generale,  rivendichino  il
diritto  alla  corresponsione  delle  somme  maturate  a  titolo   di
indennita'  perequativa  e  di  indennita'  di  comando,   non   piu'
corrisposte dalla detta data del 1° dicembre 2005. 
    Puo' poi denunciarsi anche la violazione dell'art.  102,  secondo
comma, Cost.,  che  esclude  che  possano  essere  istituiti  giudici
straordinari o giudici speciali; parametro questo  che  va  coniugato
con la VI disposizione transitoria che  prescrive  che  entro  cinque
anni dall'entrata  in  vigore  della  Costituzione  si  procede  alla
revisione degli organi speciali di giurisdizione all'epoca esistenti,
salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti
(nonche' dei tribunali militari per i quali pero'  e'  prescritto  il
«riordinamento» con legge). 
    Il Collegio giudicante di primo grado e il Collegio  di  appello,
in sostanza, quali giudici  delle  controversie  dei  dipendenti  del
Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, si  pongono,
rispetto  alla  giurisdizione  ordinaria,  come   giudici   speciali,
istituiti dopo l'entrata in vigore della Costituzione, senza  che  in
essa ci sia una salvezza, cosi' come  invece  espressamente  previsto
per il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; salvezza che deroga a
tale  generale   divieto   proprio   per   essere   essa   di   rango
costituzionale. 
    Ne', d'altra parte, come sopra si e' evidenziato,  nella  specie,
potrebbe ravvisarsi  una  continuita'  con  un  analogo  apparato  di
autodichia (vera e propria) nel sistema ordinamentale anteriore  alla
entrata  in  vigore  della  Costituzione   (e   neppure   in   quello
prerepubblicano). 
    Sotto altro profilo, poi, pur  riconoscendosi,  sulla  scorta  di
Cass. S.U. n. 6529/2010 cit., che i «giudici» istituti con  i  citati
decreti presidenziali  soddisfano  le  esigenze  di  precostituzione,
imparzialita' e indipendenza,  richieste  dall'art.  6  p.  1,  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali e dagli articoli  108,  secondo  comma  e  111,
secondo  comma,  della  Costituzione,  va  senz'altro  denunciata  la
violazione  nella   riserva   di   legge   prevista,   con   riguardo
all'«ordinamento giudiziario» e ad «ogni magistratura» dall'art. 108,
primo comma  Cost.  e  al  «giusto  processo  regolato  dalla  legge»
dall'art. 111, primo comma Cost. 
    In ogni caso, quand'anche, in ipotesi, si ritengano insussistenti
le violazioni fin qui denunciate, sotto il secondo enunciato profilo,
a tutto concedere, vi sarebbe comunque la violazione  dell'art.  111,
settimo comma, Cost. coniugato all'art. 3, primo comma, Cost. 
    Si e' gia' rilevato che il carattere chiuso  e  circoscritto  del
sistema di autodichia della Presidenza della Repubblica preclude, sia
testualmente sia per giurisprudenza di questa Corte, la  possibilita'
del ricorso straordinario per cassazione che invece il settimo  comma
dell'art. 111 Cost. riconosce nei confronti di qualsivoglia  sentenza
che, ove  non  impugnabile  altrimenti,  puo'  essere  censurata  per
violazione di legge; garanzia questa che costituisce  proiezione  del
principio di eguaglianza. 
    Se «tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e  sono  eguali
davanti alla legge»  -  come  predica  solennemente  il  primo  comma
dell'art. 3 Cost. - e' necessario che la legge  sia  interpretata  ed
applica/a allo stesso  modo  nei  confronti  di  tutte  le  parti  in
giudizio. E'  quindi  generalizzato  ed  indefettibile  un  sindacato
accentrato  di  legittimita'  quale  quello  che  il  settimo   comma
dell'art. 111 Cost. assegna alla Corte di  cassazione  come  missione
specifica  e   caratterizzante,   unitamente   al   sindacato   sulla
giurisdizione. 
    Tale garanzia non e' suscettibile, a  livello  di  conformita'  a
Costituzione, di una deroga per  la  giurisdizione  degli  organi  di
autodichia, nella specie, della Presidenz.a della Repubblica se  solo
si considera che e' lo stesso settimo  comma  dell'art. 111  Cost.  a
prevedere che «si puo' derogare a tale norma soltanto per le sentenze
dei tribunali militari in tempo di guerra» e  che  per  escludere  le
pronunce del Consiglio di Stato e della Corte  dei  conti  -  giudici
speciali di antica  tradizione  -  e'  stata  necessaria  un'espressa
previsione nel successivo ottavo comma del  medesimo  art.  111  (che
appunto prevede che contro le decisioni  del  Consiglio  di  Stato  e
della Corte dei conti il ricorso in cassazione e' ammesso per i  soli
motivi inerenti alla giurisdizione e quindi  non  per  violazione  di
legge, come in generale consente il settimo comma). 
    Tali dubbi di  legittimita'  costituzionale  non  possono  essere
superati da un'interpretazione  adeguatrice  della  citata  normativa
regolamentare della Presidenza della Repubblica. 
    Nella specie - come sopra si e' gia' rilevato - e' testuale nella
citata normativa il riferimento ad organi di autodichia. 
    Pur   riconoscendo   ad   essi   natura    giurisdizionale,    la
qualificazione come autodichia di questa giurisdizione, articolata in
due  gradi  con  la  possibilita'  anche   di   un'impugnazione   per
revocazione,  ma  nell'ambito  di  quella  stessa  giurisdizione,  e'
inequivocabilmente  tale  da  escludere  ogni   permeabilita'   della
giurisdizione  ordinaria,  finanche  nella  forma  del  sindacato  di
legittimita' esercitato in generale da questa Corte. 
    Inoltre non sembra che l'interpretazione adeguatrice in  sede  di
sindacato di legittimita' possa arrivare laddove non arriva la  Corte
costituzionale nell'esercizio del sindacato di  costituzionalita'  in
forma incidentale. Se una norma regolamentare della Presidenza  della
Repubblica e' sottratta all'ordinario controllo di  costituzionalita'
in via incidentale, vi e' anche  uno  schermo  per  l'interpretazione
adeguatrice del giudice comune che realizza una  sorta  di  sindacato
diffuso in chiave  di  filtro  di  ammissibilita'  dell'incidente  di
costituzionalita'. 
    La compressione del diritto alla tutela giurisdizionale significa
si' lesione di un diritto fondamentale. Ma la Corte (sentenza n.  238
del 2014) - nell'avvertire che la verifica di  compatibilita'  con  i
principi fondamentali dell'assetto costituzionale  e  di  tutela  dei
diritti umani e' di sua  esclusiva  competenza  -  ha  aggiunto,  con
riguardo al diritto di accesso  alla  giustizia  (art.  24  Cost.)  e
richiamando proprio  la  sentenza  n.  120/2014  sull'autodichia  del
Senato,  che  il  rispetto  dei  diritti  fondamentali,  cosi'   come
l'attuazione di principi inderogabili, e' assicurato  dalla  funzione
di garanzia assegnata alla Corte costituzionale. 
    Rimane quindi solo la strada del conflitto tra poteri atteso  che
i sopra richiamati dubbi di legittimita' costituzionale e soprattutto
la denunciata lesione del diritto alla tutela giurisdizionale in capo
ai  dipendenti  del  Segretariato  generale  della  Presidenza  della
Repubblica,  quali  sono  gli  odierni   ricorrenti,   ridondano   in
menomazione o turbativa del potere giurisdizionale  di  questa  Corte
che si trova impedita ad  esercitare  il  sindacato  di  legittimita'
domandato dai ricorrenti. 
    Anche in questa prospettiva piu' circoscritta alla violazione dei
soli articoli 111, settimo comma, e 3, primo comma, Cost., non appare
a   questa   Corte   praticabile    l'interpretazione    adeguatrice,
costituzionalmente  orientata,  perche'  il   denunciato   vizio   di
illegittimita' costituzionale comunque si atteggia  a  menomazione  o
turbativa del potere giurisdizionale ad  opera  di  un  potere  dello
Stato qual e' il Presidente della Repubblica e spetta solo alla Corte
costituzionale accertare tale invasione o turbativa. 
    Quanto, poi, alla tempestivita' del conflitto deve osservarsi che
la circostanza che le disposizioni invasive  -  ossia  le  menzionate
norme regolamentari che  prevedono  la  giurisdizione  interna  della
Presidenza della Repubblica in forma di autodichia - siano  risalenti
nel  tempo  non  esclude  ne'  fa  venir  meno  l'ammissibilita'  del
conflitto. 
    Infatti - secondo  la  giurisprudenza  costituzionale  -  non  e'
previsto alcun temine  in  ipotesi  decorrente  dalla  lesione  della
prerogativa costituzionale (sentenza n. 116 del 2003),  a  differenza
del ricorso per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni che  e'
soggetto al termine di decadenza di cui all'art. 39,  secondo  comma,
delle  Norme  integrative  per   i   giudizi   davanti   alla   Corte
costituzionale. 
    La mancanza di un termine per la  proposizione  del  ricorso  per
conflitto di attribuzione tra poteri comporta  -  sempre  secondo  la
giurisprudenza costituzionale - che il ricorso puo'  essere  proposto
in ogni tempo, anche dopo anni dall'assunta lesione della prerogativa
costituzionale: cfr. sentenza n. 58 del 2004 secondo cui «non  incide
il tempo trascorso dall'epoca dei fatti alla data di proposizione del
conflitto». 
    Nella specie sussiste  l'attualita'  dell'interesse  a  ricorrere
dovendo questa Corte dare una  risposta  di  giustizia  agli  attuali
ricorrenti che invocano il sindacato di legittimita' di questa Corte,
impedito  dalla  richiamata  normativa  regolamentare  in   tema   di
autodichia in materia di  rapporti  di  lavoro  del  personale  della
Presidenza della Repubblica. 
    Quanto al requisito soggettivo, la natura di potere  dello  Stato
sia di questa Corte che del Presidente della  Repubblica  sono  stati
piu' volte affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. 
    Quanto  al  requisito  oggettivo  il  tono   costituzionale   del
conflitto e' insito nella natura di diritto fondamentale della tutela
giurisdizionale la cui lesione gli attuali ricorrenti lamentano e che
ridonda non gia' in vizio di  incostituzionalita',  ma  in lesione  o
turbativa del potere giurisdizionale. 
    Conclusivamente la normativa  dei  citati  decreti  presidenziali
appare  avere carattere  invasivo  delle  attribuzioni   del   potere
giudiziario e segnatamente di quello di questa Corte, che e' chiamata
a pronunciarsi sul ricorso dei ricorrenti proposto ai sensi dell'art.
111, settimo comma, Cost.; cio' induce questa Corte  a  sollevare  il
presente conflitto in riferimento alle censure ed ai parametri  sopra
indicati sotto i due profili sopra illustrati. 
    Quindi  il  petitum  del  presente  atto  di  promuovimento   del
conflitto di attribuzione tra  poteri  dello  Stato,  richiesto  come
contenuto del «ricorso» ex art. 24  delle  Norme  integrative  per  i
giudizi davanti alla Corte costituzionale, puo'  formularsi,  in  via
principale, in termini piu' ampi: l'autodichia della Presidenza della
Repubblica nelle controversie di lavoro del proprio personale  e'  in
toto invasiva del potere giurisdizionale sicche',  non  spettando  al
Presidente  della  Repubblica  prevederla  con   le   proprie   norme
regolamentari, deve riespandersi l'ordinaria tutela giurisdizionale. 
    In via subordinata tale autodichia e' ritenuta, da questa  Corte,
invasiva del potere giurisdizionale almeno nella misura  in  cui  non
consente il sindacato di legittimita' ex  art.  111,  settimo  comma,
Cost.;  sicche',  non  spettando  al  Presidente   della   Repubblica
prevederla con le  proprie  norme  regolamentari,  deve  riespandersi
l'ordinaria facolta' di proporre ricorso straordinario per cassazione
per violazione di legge avverso le decisioni in  ultimo  grado  degli
organi di giustizia interna. 
    Quanto  infine  alla  forma  per  sollevare   il   conflitto   di
attribuzione tra poteri dello Stato da parte di un organo del  potere
giudiziario, va considerato  che,  ove  i presupposti  del  conflitto
insorgano, cosi' come nella specie, nel corso del giudizio  e  quindi
il conflitto si presenti con i  caratteri  dell'incidentalita',  tale
forma e' l'ordinanza. 
    E' vero che l'art. 37, terzo comma, della legge n.  87  del  1953
prevede che la Corte  costituzionale  decide  (nella  prima  fase  in
camera di consiglio) sulla ammissibilita' del «ricorso» e che  l'art.
24  delle  Norme  integrative  per  i  giudizi  davanti  alla   Corte
costituzionale contempli, anche nella sua rubrica, il «ricorso»  come
atto propulsivo di questo speciale giudizio costituzionale. 
    Pero' tale riferimento testuale al «ricorso», come atto  iniziale
di attivazione del proceditnento per conflitto  di  attribuzione  tra
poteri dello Stato, va coniugato con il generale rinvio che il quinto
comma della medesima disposizione (art. 37) fa ai precedenti articoli
23, 25 e 26 e segnatamente all'art. 23;  cui  secondo  comma  prevede
l'«ordinanza» come atto con cui l'autorita'  giurisdizionale  investe
la  Corte  costituzionale  della  risoluzione  di  una  questione  di
legittimita' costituzionale che si ponga come pregiudiziale  rispetto
alla decisione che la stessa autorita' giurisdizionale e' chiamata  a
rendere. Il carattere incidentale del conflitto di  attribuzione  tra
poteri dello Stato rispetto ad una decisione di  giustizia  richiesta
in  un  giudizio  comune  rende  applicabile,  in  parte  qua,   tale
disposizione (art. 23, secondo comma), in quanto richiamata dall'art.
37,  quale  norma  speciale  rispetto  al  generale  riferimento   al
«ricorso» contenuto nel terzo comma  di  quest'ultima.  Nel  giudizio
civile l'ordinanza e' la  tipica  forma  del  provvedimento  che  non
definisce il giudizio (art. 279 codice di procedura civile) e per  la
sua deliberazione si applicano, ove adottata dal collegio  in  camera
di consiglio, le  prescrizioni  dell'art.  276  codice  di  procedura
civile,  unitamente  a  quelle  dell'art.  134  codice  di  procedura
civile quanto alla sottoscrizione dell'atto. 
    Il carattere incidentale del conflitto di  attribuzione  comporta
anche l'applicazione del medesimo secondo comma  dell'art.  23  nella
parte in cui prevede  che  l'autorita'  giurisdizionale  sospenda  il
giudizio in  corso;  contenuto  questo  che  non  potrebbe  avere  un
«ricorso». Inoltre in tal caso il promuovimento del procedimento, pur
attivando la fase iniziale di mera ammissibilita' ex art.  37,  terzo
comma, cit. che e' priva di contraddittorio essendo la  notifica  del
ricorso prescritta solo per la fase successiva  ex  art.  37,  quarto
comma, avviene - in applicazione dell'art.  23,  quarto  comma,  cit.
stante  il  gia'  evidenziato  richiamo  dell'art.  37   -   con   la
«trasmissione» dell'ordinanza  e  degli  atti  di  causa  alla  Corte
costituzionale  -  e  non  gia'  con  il  deposito  del  «ricorso»  -
unitamente alle notifiche e alle comunicazioni prescritte dalla prima
disposizione. 
    Comunque la giurisprudenza costituzionale  (sentenza  n.  10  del
2000; e piu' recentemente, ex plurimis, numeri 151,  129  e  317  del
2013 e n. 161 del 2014) ritiene che, pur dovendo il conflitto  essere
sollevato in  ogni  caso  con  ricorso,  l'ordinanza  pronunciata  da
un'autorita'  giudiziaria  costituisce  atto  parimenti  idoneo  allo
scopo. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visti l'art. 134 Cost. e l'art. 37 della legge 11 marzo 1953,  n.
87; 
    Dispone la sospensione del giudizio  civile  iscritto  al  n.r.g.
15044/2012 su ricorso Varano Sandro ed altri cinque nei confronti del
Segretariato generale  della  Presidenza  della  Repubblica  e  della
Presidenza della Repubblica; 
    Ordina   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale, sollevando conflitto di attribuzione tra poteri dello
Stato e chiede che la Corte: 
        dichiari ammissibile il presente conflitto; 
        e, nel merito, dichiari che non spettava al Presidente  della
Repubblica  deliberare  gli  articoli  1  e  seguenti   del   decreto
presidenziale  26  luglio  1996,  n.  81,   integrato   dal   decreto
presidenziale  9  ottobre  1996,  n.  89  e  modificato  dal  decreto
presidenziale 30 dicembre 2008, n. 34, nelle parti seguenti: 
          a) in via principale nella parte  in  cui  -  violando  gli
articoli 3,  primo  comma,  24,  primo  comma,  102,  secondo  comma,
quest'ultimo  in  combinato   disposto   con   la   VI   disposizione
transitoria, 108, primo comma e 111, primo comma, Cost. -  precludono
l'accesso dei dipendenti del Segretariato generale  della  Presidenza
della Repubblica alla tutela giurisdizionale comune,  in  riferimento
alle controversie di lavoro insorte con lo stesso; 
          b) in via subordinata nella parte in  cui  -  violando  gli
articoli  111,  settimo  comma,  e  3,  primo  comma,  Cost.  -   non
consentono,   contro   le   decisioni   pronunciate   dagli    organi
giurisdizionali  da  tali  disposizioni  previste,  il   ricorso   in
cassazione per violazione di legge ai sensi  dell'art.  111,  settimo
comma, Cost. 
    Ordina che a cura della cancelleria la su  estesa  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero,  nonche'  al
Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai  Presidenti
delle due camere del Parlamento. 
      Cosi' deciso in Roma, nella Camera di consiglio  delle  sezioni
unite della Corte di cassazione, il 18 novembre 2014. 
 
                       Il Presidente: Rovelli 
 
Avvertenza: 
    L'ammissibilita' del  presente  conflitto  e'  stata  decisa  con
ordinanza n. 138/2015 e pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica italiana - 1ª Serie speciale n. 28 - del 15 luglio 2015.