N. 190 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 marzo 2015

Ordinanza del 4  marzo  2015  del  Consiglio  di  Stato  di  Adunanza
plenaria sul ricorso proposto da Staibano Stefania  ed  altri  contro
Universita' degli studi di Napoli Federico  II,  Azienda  ospedaliera
universitaria Federico II di Napoli ed INPS.. 
 
Giustizia amministrativa -  Sentenze  del  giudice  amministrativo  -
  Revocazione - Tassativita' dei casi di  revocazione  in  base  agli
  artt. 395 e 396 c.p.c. - Mancata previsione della revocazione della
  sentenza, quando  cio'  sia  necessario,  ai  sensi  dell'art.  46,
  paragr. 1, della CEDU, per conformarsi ad una  sentenza  definitiva
  della Corte europea dei diritti dell'uomo - Lesione del diritto  di
  difesa - Violazione dei principi del giusto processo  -  Violazione
  di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU. 
- Decreto legislativo 2 luglio 2010, n.  104,  art.  106;  codice  di
  procedura civile, artt. 395 e 396. 
- Costituzione, artt. 24,  111  e  117,  primo  comma,  in  relazione
  all'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
  diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali;  Sentenze  della
  Corte EDU del 4 febbraio 2014 (Staibano  c/  Italia  e  Mottola  c/
  Italia). 
(GU n.39 del 30-9-2015 )
 
                        IL CONSIGLIO DI STATO 
             In sede giurisdizionale (Adunanza plenaria) 
 
    Ha pronunciato la presente; 
 
                              Ordinanza 
 
sul ricorso numero di registro generale 22 di A.P. del 2014, proposto
da: 
        Stefania  Staibano,  Caterina  Andrianou,  Daniela  Palmieri,
Maria  Erennia  Vitello,  Rosa  imperatore,  Federico  Toni,   Tullio
Cafiero, Antonio  Formato,  Silvana  Lombardi,  Paola  Nappa,  Donata
Martellotta, Maurizio Lo Presti,  Fausta  Micanti,  Daniela  Mattera,
Amedeo Loffredo, rappresentati e difesi  dall'avv.  Riccardo  Marone,
con domicilio eletto presso Luigi  Studio  Napolitano  in  Roma,  via
Sicilia 50; Michele  Mottola,  Maria  Angela  Losi,  Pasquale  Abete,
Amalia De Renzo,  Franco  Fulciniti,  Antonio  Fusco,  Mario  Monaco,
rappresentati e difesi dagli avv. Raffaella Veniero, Riccardo Marone,
con domicilio eletto presso Luigi  Studio  Napolitano  in  Roma,  via
Sicilia 50; 
    Contro  Universita'  degli   studi   di   Napoli   Federico   II,
rappresentato e difeso  dall'avv.  Angelo  Abignente,  con  domicilio
eletto presso Angelo Abignente in Roma, piazza  Cairoli,  2;  Azienda
ospedaliera universitaria Federico II di  Napoli;  Inps  gestione  ex
Inpdap, rappresentato e difeso  dagli  avv.  Dario  Marinuzzi,  Maria
Morrone, con domicilio eletto presso Dario  Marinuzzi  in  Roma,  via
Cesare Beccaria, 29; 
    Per la revocazione  della  sentenza  del  Consiglio  di  Stato  -
Adunanza plenaria n.  00004/2007,  resa  tra  le  parti,  concernente
riconoscimento rapporto di pubblico impiego. 
    Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio di  Universita'  degli
studi di Napoli Federico II e di Inps gestione ex Inpdap; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  28  gennaio  2015  il
cons. Nicola Russo e uditi per le parti  gli  avv.  Marone  Riccardo,
Veniero Raffaella, Abignente Angelo e Marinuzzi Dario; 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con ricorso proposto davanti a questo  Consiglio  di  Stato  i
ricorrenti, meglio indicati  in  epigrafe,  chiedono  la  revocazione
della sentenza dell'Adunanza plenaria n. 4 del 22 febbraio 2007. 
    2.  I  ricorrenti  hanno  svolto  dal  1983  al   1997   funzioni
assistenziali presso il Policlinico dell'Universita' degli  studi  di
Napoli Federico II sulla  base  di  contratti  a  termine  aventi  ad
oggetto  l'esplicazione  di  attivita'  professionale  remunerata   a
gettone. Successivamente, i detti sanitari venivano assunti  a  tempo
indeterminato  dallo  stesso  Policlinico  con  inquadramento   nella
categoria del personale non docente di «elevata professionalita'». 
    3. Con ricorsi proposto  davanti  al  Tar  Campania  nel  2004  i
ricorrenti - rifacendosi ad una giurisprudenza consolidata sul  punto
e avente ad oggetto casi analoghi - chiedevano il  riconoscimento  ab
origine dell'esistenza  di  un  rapporto  di  lavoro  dipendente  con
l'Universita'  affermando  che  la   qualificazione   di   «attivita'
professionale» attribuita ai compiti espletati dissimulava un vero  e
proprio  rapporto  di  lavoro  subordinato.  Si  chiedeva  quindi  il
riconoscimento del diritto  al  versamento  dei  relativi  contributi
previdenziali. 
    Il Tar campano accoglieva in parte il  ricorso  rilevando  che  i
medici  gettonati,  per  i  caratteri  dell'attivita'   che   avevano
espletato andassero  assimilati  ai  «ricercatori  universitari»  non
ponendosi  quindi  problemi  in   ordine   alla   sussistenza   della
giurisdizione del giudice amministrativo. 
    4. Diversamente, l'Adunanza  plenaria  del  Consiglio  di  Stato,
pronunciandosi in sede di appello con la sent.  n.  4/2007,  riteneva
applicabile  alla  controversia  l'art.  45,  co.  17   del   decreto
legislativo n. 80 del 1998 (poi confluito nell'attuale art.  69,  co.
7. del T.U. n. 165 del 2001) il quale disponeva per le liti  relative
al pubblico impiego «privatizzato» che «le  controversie  relative  a
questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore  al  30  giugno
1998 restano attribuite  alla  giurisdizione  esclusiva  del  giudice
amministrativo  se  proposte,  a  pena  di  decadenza,  entro  il  15
settembre 2000». Pertanto,  la  disposizione  legislativa  attribuiva
alla  giurisdizione  del  giudice  amministrativo   le   controversie
relative al  periodo  in  cui  il  rapporto  aveva  ancora  carattere
pubblicistico  (i.e.   fino   al   30   giugno   1998)   subordinando
l'esperimento di tale contenzioso  al  termine  decadenziale  del  15
settembre 2000. 
    Nulla espressamente prevede detta  norma  circa  la  sorte  delle
controversie proposte successivamente a tale data. 
    Ed invero, alle origini la giurisprudenza aveva ritenuto  che  la
disposizione fosse rivolta a fissare  la  giurisdizione  del  giudice
ordinario per i ricorsi proposti dopo la data del 15 settembre  2015.
Tuttavia, successivamente e'  prevalso,  nella  giurisprudenza  della
Corte  di  cassazione  ed  in  quella  amministrativa,   il   diverso
orientamento  che  ricollegava  alla  scadenza  di  tale  termine  la
radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di
contenzioso. Anche la Corte costituzionale, chiamata  a  pronunciarsi
sulla legittimita' della nuove disposizioni cosi' interpretate, aveva
avallato  tale  orientamento  ritenuto  coerente  con   le   esigenze
organizzative connesse al trapasso  da  una  giurisdizione  all'altra
(Corte cost. ordd. nn. 214/2004; 213/2005; 382/2005; 197/2006). 
    L'Ad. plen. n. 4/2004 cit. si uniformava a tale ultimo  indirizzo
e, nel caso di specie, pronunciava l'inammissibilita' per  tardivita'
di tutti i ricorsi originariamente proposti in primo  grado  dopo  15
settembre 2000 annullando le sentenze del Tar. Per il solo ricorrente
che invece aveva proposto il proprio ricorso anteriormente alla detta
data, l'Adunanza plenaria riconosceva  sussistente  la  giurisdizione
del giudice amministrativo e confermava anche nel merito la  sentenza
del Tar campano. 
    5. Alcuni dei ricorrenti  soccombenti  nel  giudizio  di  appello
definito con la detta Ad. Plen.  n.  4/2004  ricorrevano  alla  Corte
europea dei diritti dell'uomo. I giudici europei,  con  due  sentenze
del 4 febbraio 2014 (Staibano c. Italia e Mottola c. Italia) divenute
definitive il 4 maggio 2014, riconoscevano sussistere una  violazione
degli obblighi convenzionali commessa dallo Stato italiano. 
    In  sintesi,  la  Corte  di  Strasburgo  rilevava   una   duplice
violazione  dei  diritti  dei  ricorrenti.  In  primo  luogo,  veniva
accertata  la  violazione  dell'art.  6  par.  I  della   Convenzione
relativamente al diritto di accesso ad  un  tribunale.  Affermava  la
Corte che, seppur il diritto di  accesso  ad  un  tribunale  non  sia
assoluto, potendo in astratto risultare condizionato o limitato,  nel
caso di specie il diritto di accesso a  un  tribunale  era  risultato
leso nella sua sostanza. 
    In secondo luogo, la Corte di Strasburgo rilevava una  violazione
dell'art. 1 del protocollo n. 1 della Convenzione. I giudici  europei
ritenevano i ricorrenti titolari di un «bene», ai sensi  dell'art.  1
del Protocollo 1 della Convenzione, avendo il diritto di credito  dei
ricorrenti una  base  sufficiente  nel  diritto  interno,  in  quanto
confermato da consolidata giurisprudenza; gli stessi  erano  pertanto
titolari di un'aspettativa legittima al versamento dei contributi  al
pari dei loro colleghi. «La corte considera - si legge nella sentenza
- che lo Stato non abbia  garantito  un  giusto  equilibrio  tra  gli
interessi pubblici e  privati  in  gioco,  e  che  la  decisione  del
Consiglio  di  Stato  ha  svuotato  di  ogni  sostanza  l'aspettativa
legittima  dei  ricorrenti.  Gli  interessati  hanno  dovuto   dunque
sopportare un onere eccessivo ed esorbitante»  ed  «il  Consiglio  di
Stato ha, de facto, privato i ricorrenti di ogni possibilita' di  far
valere  il  proprio  diritto  di  credito  relativo  al   trattamento
pensionistico». 
    Relativamente  invece  alla  domanda  di   «equa   soddisfazione»
formulata dai ricorrenti ai sensi dell'art. 41 della Carta  CEDU,  la
Corte europea non  si  e'  pronunciata,  ritenendo  «che  allo  stato
attuale non vi sia luogo per decidere sull'applicazione dell'art. 41.
Di conseguenza,  si  riserva  la  decisione  e  fissera'  l'ulteriore
procedimento tenuto conto della  possibilita'  che  il  Governo  e  i
ricorrenti addivengano ad un accordo». 
    6. Alla luce delle dette sentenze della corte di Strasburgo,  gli
odierni ricorrenti - soccombenti nel giudizio di  appello  definitosi
con sent. Ad. Plen. n. 4/2007 e alcuni dei quali parti  del  giudizio
instauratosi davanti la corte di Strasburgo  -  si  rivolgono  ora  a
questo Consiglio di Stato chiedendo la revocazione della sentenza  n.
4/2007 cit. 
    6.1 Con riguardo all'ammissibilita' del ricorso per  revocazione,
i ricorrenti chiedono  che  questo  Collegio  dia  un'interpretazione
costituzionalmente orientata di detta disposizione e degli artt.  106
c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. 
    I ricorrenti richiamano al riguardo la sentenza della Corte cost.
n. 113 del  7  aprile  2011  che  in  materia  penale  ha  dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p.p. «nella parte  in
cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza penale  o
del decreto penale di condanna al fine di  conseguire  la  riapertura
del processo quando cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46,  par.
1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, per conformarsi  ad  una  sentenza  definitiva
della Corte europea dei diritti dell'uomo». 
    I  ricorrenti  ritengono  pertanto  che,  analogamente  a  quanto
previsto  nella  disciplina  del  processo  penale  a  seguito  della
sentenza additiva della Corte  costituzionale  del  2011,  anche  nel
processo  amministrativo  debba  ammettersi  la   revocazione   della
sentenza passata in giudicato e che cio' discenderebbe da una lettura
costituzionalmente orientata degli artt.  106  c.p.a.  e  395  e  396
c.p.c. 
    In  via  subordinata,  i  ricorrenti  chiedono  che  si   sollevi
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 106 c.p.a e  degli
artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e  117,  co.  1
Cost. 
    6.2 Nel merito del ricorso per revocazione, i ricorrenti chiedono
al Consiglio di Stato di «prendere atto della  sentenza  della  Corte
europea per i diritti umani e da essa  trarre  tutte  le  conseguenze
che, nell'ordinamento italiano, ne derivano ai sensi  dell'art.  117,
co. 1, Cost. come interpretato dalla Corte costituzionale. Si chiede,
pertanto,  in  conformita'  al  sistema   di   tutela   dei   diritti
convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea,  che  i
ricorrenti vengano rimessi nei termini di legge e che  a  loro  venga
applicato l'art. 45, co. 17 del decreto legislativo n. 80  del  1998,
oggi art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella  sola  interpretazione
resa possibile dalla sentenza della Corte europea, e cioe' nel  senso
della perdurante  giurisdizione  amministrativa,  delle  controversie
riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti  la  traslazione
della giurisdizione». 
    Pertanto, i ricorrenti chiedono che il giudice amministrativo dia
«una diretta applicazione al giudicato  della  corte  europea»  senza
passare per il controllo di costituzionalita' (sul punto i ricorrenti
richiamano il precedente Corte Cass. SS.UU. 19 luglio 2002, n. 10542)
della norma ora contenuta nel decreto legislativo n. 165/2001. 
    In via subordinata, chiedono i  ricorrenti  che  questo  Collegio
sollevi questione di legittimita' costituzionale  della  disposizione
di cui all'art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001 per contrasto  con  gli
artt. 11 e 117 1. co. Cost. 
    6.3.   Cosi'   riconosciuta   la   giurisdizione   del    giudice
amministrativo,  i  ricorrenti  insistono   affinche'   il   rapporto
professionale da loro instaurato con l'Universita' dal 1983  al  1997
venga dichiarato nullo ex art. 2126 c.c. per violazione dei  principi
generali in tema di assunzione dei pubblici  dipendenti  determinando
il  sorgere  del  diritto  al  pagamento  di  tutte   le   differenze
retributive e previdenziali. 
    Concludono i ricorrenti chiedendo la revocazione  della  sentenza
n. 4/2007 e, nel merito, il rigetto  degli  appelli  allora  proposti
dalle Amministrazioni e la conferma delle sentenze  del  Tar  campano
che aveva condannato le Amministrazioni convenute al pagamento  della
contribuzione previdenziale e dell'indennita' di fine rapporto. 
    7. Si e' costituito in giudizio l'INPS. 
    L'Istituto ritiene inammissibile il ricorso  per  revocazione  in
quanto non rientra in  alcuno  dei  casi  contemplati  dall'art.  106
c.p.a., sostenendo che il giudicato interno non possa essere travolto
da una pronuncia della Corte  di  Strasburgo.  Con  riferimento  alla
presunta illegittimita' costituzionale dell'art. 69 co. 7 del decreto
legislativo  n.  165/2001,  ritiene   l'INPS   che   la   stessa   e'
inammissibile in quanto «andava sollevata nel giudizio amministrativo
di merito» e che comunque  sulla  legittimita'  costituzionale  della
disposizione la Consulta si e' piu' volte espressa. 
    8. Si e' costituita in  giudizio  l'Universita'  degli  studi  di
Napoli Federico II.  L'Universita'  sostiene  l'inammissibilita'  del
ricorso per revocazione in quanto non ricorrerebbero i presupposti ex
art.  106  c.p.a.  Con  riferimento  alla   presunta   illegittimita'
costituzionale di detto articolo,  l'Ente  ritiene  la  questione  di
costituzionalita'  inammissibile   ed   infondata   in   quanto   non
supererebbe il vaglio della rilevanza, dal momento che «la riapertura
del processo non consentirebbe all'Adunanza plenaria di  entrare  nel
merito del giudizio reinterpretando il disposto dell'art. 69  decreto
legislativo n. 165/2001» e, inoltre, «non essendovi stato ne' essendo
in alcun modo sollecitato un intervento del legislatore  in  tema  di
revocazione delle sentenze del giudice ordinario  e/o  amministrativo
all'esito della richiamata pronuncia della Corte europea dei  diritti
dell'uomo, la Corte costituzionale, conformandosi ai suoi  precedenti
interventi,  non  potrebbe  che  limitarsi  a   siffatto   sollecito,
astenendosi da qualsiasi intervento additivo». 
    Nel merito del ricorso, l'Universita' ritiene che il Consiglio di
Stato non possa  autonomamente  disapplicare  l'art.  69  co.  7  del
decreto legislativo n. 165/2001 qualora ritenuto in contrasto con  la
Convenzione (si richiamano sul punto Corte cost. n.  348  e  349  del
2007). Circa la possibilita' che questo Collegio sollevi questione di
legittimita' costituzionale della norma,  l'Ente  ribadisce  come  la
Corte costituzionale si sia gia' espressa su tale  questione  e  che,
comunque,  gli  artt.  97,  11  e  25  Cost.   ostacolerebbero   alla
riscrittura  della  disposizione  cosi'  come  chiesta  dalla   Corte
sovranazionale. Infine, l'Universita' ritiene nel merito infondata la
pretesa  dei  ricorrenti,  non  avendo  gli  stessi   dimostrato   la
sussistenza dei presupposti necessari affinche' possa riconoscersi la
loro  prestazione  come  assimilabile  ad  un  rapporto  di  pubblico
impiego. 
    9. Alla pubblica udienza del  28  gennaio  2015,  in  prossimita'
della quale le  parti  hanno  depositato  memorie  a  sostegno  delle
proprie argomentazioni e richieste, la causa e' stata  trattenuta  in
decisione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    10. Deve in primo luogo esaminarsi l'ammissibilita'  del  ricorso
per revocazione proposto. Sul punto, il Collegio ritiene rilevante  e
non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale avente ad oggetto l'art. 106 c.p.a. e gli artt. 395  e
396 c.p.c. 
    11. Si deve anzitutto chiarire che  questo  Consiglio  di  Stato,
cosi' come ogni giudice comune, non puo'  autonomamente  disapplicare
la norma interna che ritenga incompatibile con la Convezione  europea
dei diritti dell'uomo, analogamente a quanto previsto per il  diritto
dell'Unione  europea  (a  partire  dalla  sentenza  della  Corte   di
giustizia Simmenthal del 1978 e della Corte cost. n. 170/1984). 
    Infatti,  nonostante  taluni  orientamenti  giurisprudenziali   e
dottrinari di segno contrario, il giudice delle leggi ha  piu'  volte
chiarito come sulle norme interne contrastanti con le norme  pattizie
internazionali, ivi compresa  la  CEDU,  spetti  esclusivamente  alla
stessa  Corte  costituzionale  il  sindacato   di   costituzionalita'
accentrato (cfr. Corte cost., 348 e 349 del 2007; n. 39/2008; nn. 311
e 317 del 2009; nn. 138 e 187 del 2010; nn. 1, 80, 113, 236, 303, del
2011). 
    Le norme della CEDU,  cosi'  come  interpretate  dalla  Corte  di
Strasburgo, assumono rilevanza nell'ordinamento italiano quali  norme
interposte. Alla CEDU e'  riconosciuta  un'efficacia  intermedia  tra
legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art.
117 co. 1 Cost.  che  vincola  i  legislatori  nazionali,  statale  e
regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali  assunti  dallo
Stato. 
    Tale posizione non muta anche a seguito  dell'entrata  in  vigore
del  Trattato  di  Lisbona  che  all'art.  6  prevede  una   adesione
dell'Unione europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non
ha «comportato un mutamento  della  collocazione  delle  disposizioni
della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere  ormai  inattuale
la concezione delle norme interposte» (Corte cost. n. 80/2011). 
    Di conseguenza, qualsiasi giudice, allorche' si trovi a  decidere
di un contrasto tra la CEDU e  una  norma  di  legge  interna,  sara'
tenuto   a   sollevare   un'apposita   questione   di    legittimita'
costituzionale. 
    Rimane salva l'interpretazione  «conforme  alla  convenzione»,  e
quindi conforme  agli  impegni  internazionali  assunti  dall'Italia,
delle norme interne. Tale interpretazione, anzi,  si  rende  doverosa
per il giudice che, prima  di  sollevare  un'eventuale  questione  di
legittimita', e' tenuto ad interpretare la disposizione nazionale  in
modo conforme a costituzione (ex multis, Corte cost., 24 luglio 2009,
n. 239, punto 3 del considerato in diritto). 
    12. Nel caso ora in esame, risulta esservi una  tensione  tra  le
norme  interne  che  disciplinano  la  revocazione   della   sentenza
amministrativa passata in giudicato e l'obbligo  assunto  dall'Italia
di conformarsi alle decisioni della  Corte  di  Strasburgo  (art.  46
CEDU). 
    Infatti, allorche', come nel caso di specie,  i  giudici  europei
abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei  diritti
riconosciuti dalla Convenzione,  sorge  per  lo  Stato  l'obbligo  di
riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali
necessarie. La finalita' di tali misure e' quella  della  «restitutio
in integrum» in favore dell'interessato, ossia porre il ricorrente in
una situazione analoga a quella  in  cui  si  troverebbe  qualora  la
violazione non vi fosse stata (cfr. Corte  cost.  n.  113/2011  e  la
giurisprudenza CEDU ivi richiamata). 
    Nel caso in cui, la violazione commessa dallo Stato sorga proprio
a causa della sentenza passata in giudicato, anche in questo caso non
viene meno l'obbligo per lo Stato, complessivamente  considerato,  di
conformarsi alla sentenze di Strasburgo. Sul punto, la Corte  europea
e gli organi del Consiglio d'Europa hanno  peraltro  progressivamente
individuato la «riapertura» del processo quale soluzione maggiormente
idonea a garantire la testitutio in integrum a favore  delle  vittime
delle violazioni non  altrimenti  rimediabili  (cfr.  Raccomandazione
R(2000)2 del 19 gennaio 20000 del Comitato dei Ministri).  In  questi
casi, la rimozione del giudicato formatosi risulta indispensabile per
rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo stato-giudice  nel
corso del processo. 
    Tale obbligo di riapertura  dei  processi  iniqui  e'  stato  con
maggior forza affermato dalle istituzioni del Consiglio d'Europa  con
riferimento ai processi penali, dove chiaramente i valori  in  gioco,
in  primis  quello  della  liberta'  personale,  rendono  del   tutto
intollerabile il perdurare  di  violazioni  di  diritti  fondamentali
degli imputati e/o dei condannati accertate in via  definitiva  dalla
corte sovranazionale. Cio'  ha  portato  molti  Stati  aderenti  alla
Convenzione  a  prevedere   la   possibilita'   di   riapertura   dei
processi-attraverso norme legislative o interventi giurisprudenziali. 
    Anche l'Italia si  e'  posta  in  tale  solco  culminato  con  la
sentenza della Corte cost. n. 113/2011 che con sentenza  additiva  ha
previsto la possibilita' di revisione del processo penale ex art. 630
c.p.p. qualora cio'  si  renda  necessario  per  conformarsi  ad  una
sentenza definitiva della Corte europea dei diritti umani. 
    13. Questo  Collegio  ritiene  che  un  contrasto  tra  le  norme
processuali interne e l'obbligo gravante sullo Stato  di  conformarsi
alle sentenze CEDU possa sussistere anche nel caso di specie  in  cui
e' in discussione l'ammissibilita' del ricorso per la revocazione  di
una sentenza del giudice amministrativo. 
    Infatti, le  raccomandazioni  del  Consiglio  d'Europa  circa  la
riapertura  dei  processi,  seppur  dedicano  particolare  enfasi  al
processo penale,  non  escludono  dall'ambito  della  raccomandazione
stessa i processi civili o amministrativi. Gli stati,  infatti,  sono
incoraggiati a «riaprire» i processi nel caso in  cui  ricorrano  due
condizioni: a) la parte lesa continui a  soffrire  serie  conseguenze
negative a causa della sentenza nazionale le quali non possono essere
adeguatamente rimediate attraverso la «just  satisfaction»  accordata
dalla Corte europea ex art. 41 CEDU e non possono essere  rimosse  se
non attraverso una riapertura del processo stesso; b) la  Corte  CEDU
abbia  riconosciuto  la  sentenza  domestica  quale  fonte   di   una
violazione degli obblighi convenzionali  per  ragioni  sostanziali  o
procedurali (par. II, Raccomandazione R(2000)2 del 19  gennaio  20000
del Comitato dei Ministri). 
    14. Nel caso di specie, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la
sentenza passata in giudicato di questa Adunanza plenaria  n.  4/2004
fosse fonte, come sopra evidenziato, di una  duplice  violazione  dei
diritti convenzionali, segnatamente del  diritto  di  accesso  ad  un
Tribunale (art. 6 CEDU) e del diritto alla proprieta' (art.  1  Prot.
n. 1 CEDU) che veniva in rilievo  con  riferimento  alle  prestazioni
previdenziali che i ricorrenti assumono essere loro spettanti. 
    Qualora non  fosse  ammissibile  la  revocazione  del  giudicato,
l'ordinamento  italiano   non   fornirebbe   ai   ricorrenti   alcuna
possibilita'  per  veder  rimediata   la   violazione   dei   diritti
fondamentali dagli stessi subita. 
    In particolare, i ricorrenti si vedrebbero definitivamente negato
il diritto di azionabilia  delle  proprie  posizioni  soggettive  che
all'epoca tentarono di far valere davanti al giudice  amministrativo.
Infatti, nel  2004  i  ricorrenti  si  rivolsero  al  Tar  per  veder
riconosciuti diritti. pensionistici che assumevano essere stati  lesi
e quella vicenda processuale si concluse in grado di appello  con  la
sentenza   dell'Adunanza   plenaria   che   riteneva    il    ricorso
originariamente proposto inammissibile in quanto  proposto  oltre  il
termine fissato dal legislatore con l'art.  45  co.  17  del  decreto
legislativo n. 80/1998, ora trasfuso in formulazione  quasi  identica
nell'art. 69, co. 7 del decreto legislativo n.  165/2001,  e  che  la
Plenaria interpretava quale termine  di  decadenza  la  cui  scadenza
comportava la radicale perdita del diritto a far valere, in qualsiasi
sede,  il  contenzioso.  Sul  punto,  la  Corte  di  Strasburgo,  pur
precisando che il diritto di accesso ad un tribunale non e' assoluto,
ma puo' essere di volta in volta limitato o condizionato, ha ritenuto
che, nel caso di specie, il diritto di accesso ad  un  tribunale  sia
stato leso nella sua sostanza essendovi dunque stata  una  violazione
dell'art. 6 par. 1 della Convenzione. 
    Qualora non  fosse  rimovibile  il  giudicato,  i  ricorrenti  si
vedrebbero definitivamente privati della possibilita' di accedere  ad
un tribunale e, quindi, della possibilita' di far  valere  i  diritti
pensionistici che assumono essere loro spettanti. Peraltro, sul punto
la Corte europea ha rilevato una violazione dell'art. 1 del  prot.  1
della Convenzione, ritenendo che i ricorrenti fossero titolari di  un
«bene» in quanto il diritto di credito vantato dagli stessi aveva una
base sufficiente nel diritto interno. Con la sentenza n.  4/2014,  il
Consiglio di Stato, afferma la Corte europea, ha privato i ricorrenti
di ogni possibilita' di  far  valere  il  loro  diritto  relativo  al
trattamento pensionistico, creando cosi' un'ingerenza nel diritto dei
ricorrenti al rispetto  della  proprieta'  tale  da  configurare  una
violazione dei diritti convenzionali. 
    Peraltro, incidentalmente si  evidenzia  che,  sebbene  la  Corte
costituzionale  abbia  in  piu'  occasioni  dichiarato  inammissibili
questioni di  legittimita'  costituzionale  della  norma  attualmente
contenuta al detto art. 69, co.7 del decreto legislativo n. 165/2001,
mai e' stata fino ad oggi sottoposta all'attenzione del giudice delle
leggi la questione relativa alla costituzionalita' di detta norma con
riferimento all'art. 117 co. 1 Cost. e alle norme interposte  fornite
dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 
    Anche davanti al giudice  amministrativo,  cosi'  come  a  quello
civile; viene in rilievo la tutela di diritti  fondamentali  che,  in
caso di vizi processuali o sostanziali, possono  essere  compressi  o
limitati in modo da  non  risultare  tollerabile  per  uno  stato  di
diritto e generare una responsabilita'  dello  Stato  per  violazione
degli obblighi convenzionali assunti. Qualora la Corte  CEDU  accerti
che una tale violazione vi e' stata, possono darsi  casi  in  cui  la
rimozione del giudicato si  appalesi  quale  unico  mezzo  utile  per
rimuovere  le  perduranti   violazioni   di   diritti   fondamentali,
analogamente a quanto si e'  riconosciuto  nell'ambito  del  processo
penale. 
    Infatti, molti Stati aderenti alla Convenzione hanno previsto  la
possibilita' di riaprire i processi non  solo  in  ambito  penale  ma
anche civile ed amministrativo  (ad  es.  in  Germania  e'  stata  di
recente introdotta al riguardo un'apposita disposizione all'art.  580
del Zivilprozessordnung). 
    15. Ritiene, pertanto, questo Collegio che le  norme  processuali
nazionali che disciplinano i casi di revocazione delle  sentenze  del
giudice  amministrativo  -  i.e.  l'art.  106  c.p.a.  e,  in  quanto
richiamato dallo stesso, gli artt. 395 e 396 c.p.c. - si  pongano  in
tensione con il vincolo per il legislatore statale di rispetto  degli
obblighi internazionali sancito dall'art. 117 co. 1 Cost. e che,  nel
caso di specie, viene in rilievo con riferimento all'impegno  assunto
dallo Stato - con la legge di ratifica ed esecuzione 4  agosto  1955,
n. 848 - di conformarsi alle  sentenze  della  Corte  di  Strasburgo.
Infatti, non contemplando tra i casi di  revocazione  quella  che  si
renda necessaria per conformarsi ad  una  sentenza  definitiva  della
Corte europea dei diritti dell'uomo, le norme processuali appaiono in
contrasto con l'art. 46 CEDU che, invece, sancisce tale  obbligo  per
gli Stati aderenti. 
    Altresi', l'assenza  nell'ordinamento  italiano  di  un  apposito
rimedio volto a «riaprire» il processo giudicato «iniquo» dalla Corte
europea sembra potersi porre in  contrasto  con  i  principi  sanciti
dall'art. 111 Cost. e (ritiene di dover aggiungere  questo  Collegio,
in aggiunta alle prospettazioni di parte ricorrente)  con  l'art.  24
Cost.  Infatti,  le  garanzie  di   azionabilita'   delle   posizioni
soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione  non
sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU e  puo'  argomentarsi  un
contrasto  tra  le  dette  norme  costituzionali  e   le   previsioni
legislative che non consentono la revocazione del giudicato di cui e'
stata accettata in sede CEDU l'«ingiustizia»  per  violazione  di  un
diritto fondamentale come quello di accesso ad un Tribunale. 
    16. Come sopra detto, - questo Collegio  non  puo'  autonomamente
disapplicare  le  norme  interne  incompatibili  con  la  Convenzione
europea. Altresi' non si ritiene che nel caso di specie il  contrasto
tra le norme processali interne e quelle convenzionali  possa  essere
risolto tramite un'interpretazione adeguatrice».  Basti  dire  che  i
casi di revocazione delle sentenze amministrative ammessi dal  nostro
ordinamento sono tassativamente elencati dal combinato disposto degli
artt. 106 c.p.a. e 395  e  396  c.p.c.  Un'interpretazione  volta  ad
ammettere un ulteriore caso di revocazione quale quello di cui qui si
discute non e' configurabile alla stregua di alcun canone ermeneutico
e comporterebbe un intervento oltremodo creativo del giudice tale  da
usurpare il ruolo spettante al legislatore o al giudice delle leggi. 
    17. Ritiene, dunque, il Collegio di dover sollevare questione  di
legittimita' costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.
in relazione agli artt. 117 co. 1, 111 e 24 Cost. nella parte in  cui
non prevedono un diverso caso di revocazione  della  sentenza  quando
cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46 par. 1, della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  per
conformarsi ad  una  sentenza  definitiva  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    La questione e' rilevante nel presente giudizio in  quanto  dalla
soluzione della  stessa  dipende  l'ammissibilita'  del  ricorso  per
revocazione proposto. La rilevanza della  questione  non  viene  meno
alla luce del fatto che la Corte costituzionale gia' ha avuto modo di
dichiarare in piu'  occasioni  la  non  fondatezza  di  questioni  di
legittimita'  costituzionale  aventi  ad  oggetto   la   disposizione
contenuta attualmente all'art. 69, co. 7 del decreto  legislativo  n.
165/2001. Infatti, la questione attinente all'interpretazione ed alla
legittimita' costituzionale di detta  norma  riguarda  una  eventuale
fase successiva dell'iter logico di decisione che deve seguire questo
Collegio. Una volta che verra' eventualmente ritenuto ammissibile  il
ricorso per revocazione proposto nella fase rescindente, si  dovranno
valutare,  nella  fase  rescissoria,  se,  nel  merito,  vi  siano  i
presupposti per la revocazione della sentenza  n.  4/2007  di  questa
Adunanza plenaria. 
    Per  quanto  sopra  detto,  inoltre,  la  questione  non   appare
manifestamente infondata. 
    In conclusione, il presente giudizio deve essere  sospeso  e  gli
atti vanno trasmessi alla Corte costituzionale. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Il  Consiglio  di  Stato  in   sede   giurisdizionale   (Adunanza
plenaria), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe. 
    Visti gli artt. 134 Cost., art. 1 della  legge  costituzionale  9
febbraio 1948, n. 1, art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
costituzionalita'  degli  artt.   106   del   codice   del   processo
amministrativo (legge n. 104/2010) e 395 e 396 del codice processuale
civile,  in  relazione  agli  artt.  117  co.1,  111   e   24   della
Costituzione, nella parte in cui non prevedono  un  diverso  caso  di
revocazione della sentenza  quando  cio'  sia  necessario,  ai  sensi
dell'art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
e delle  liberta'  fondamentali,  per  conformarsi  ad  una  sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Dispone  la  sospensione  del  presente  giudizio  e  ordina   la
immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che a cura  della  Segreteria  dell'Adunanza  plenaria  la
presente  ordinanza  sia  notificata  alle  parti  in  causa  ed   al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  nonche'   comunicata   ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. 
    Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore  statuizione  in
rito, nel merito ed in ordine alle spese. 
    Cosi' deciso in Roma alla pubblica udienza del giorno 28  gennaio
2015 con l'intervento dei magistrati: 
    Giorgio Giovannini, Presidente; 
    Riccardo Virgilio, Presidente; 
    Stefano Baccarini, Presidente; 
    Alessandro Pajno, Presidente; 
    Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente; 
    Francesco Caringella, consigliere; 
    Carlo Saltelli, consigliere; 
    Carlo Deodato, consigliere; 
    Nicola Russo, consigliere, estensore; 
    Salvatore Cacace, consigliere; 
    Sergio De Felice, consigliere; 
    Sandro Aureli, consigliere; 
    Roberto Giovagnoli, consigliere. 
 
                      Il Presidente: Giovannini 
 
 
                                                   L'estensore: Russo