N. 246 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 giugno 2015
Ordinanza del 26 giugno 2015 del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia sul ricorso proposto da D.M. contro Ministero della difesa. Militari - Codice dell'ordinamento militare - Perdita del grado, senza giudizio disciplinare, del militare condannato con sentenza definitiva non condizionalmente sospesa, per reato non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici. - Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare), artt. 866, comma 1, in combinato disposto con gli artt. 867, comma 3, e 923. -(GU n.47 del 25-11-2015 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LOMBARDIA (Sezione Prima) Ha pronunciato la presente sentenza non definitiva sul ricorso numero di registro generale 1143 del 2014, proposto da: M.D. rappresentato e difeso dagli avv.ti Marco Zambelli e Giovanni Marco Bertarini, con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Milano, Via Cerva, 1; Contro Ministero della difesa, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici e' domiciliato in Milano, Via Freguglia, 1; Per l'annullamento: del decreto del Direttore della 3ª Divisione della Direzione Generale per il personale militare, n. D.M. 621/I-3/2013 in data 16 dicembre 2013, notificato in data 22 gennaio 2014, con il quale e' stata disposta nei confronti del ricorrente la «perdita del grado» ai sensi degli articoli 866, comma 1 e 867, comma 3 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, a decorrere dal 24 settembre 2010 e, per effetto del quale, lo stesso ricorrente e' stato iscritto d'ufficio nel ruolo militari di truppa dell'Esercito Italiano, senza alcun grado, a norma dell'art. 861, comma 4 del richiamato decreto legislativo n. 66/2010; di ogni altro atto e provvedimento, anche tacito, precedente o conseguente, comunque presupposto o condizionato, in esso compreso il provvedimento tacito di cessazione del rapporto d'impiego e collocamento in congedo, in quanto desumibile dalla condotta successiva dell'Amministrazione d'appartenenza. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 aprile 2015 il dott. Roberto Lombardi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. Fatto Con ricorso depositato in data 8 aprile 2014 il sig. D. gia' Maresciallo capo dell'Arma dei Carabinieri, impugnava il provvedimento con il quale era stata disposta nei suoi confronti la «perdita del grado» ai sensi degli articoli 866, comma 1 e 867, comma 3 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, con conseguente e contestuale cessazione del rapporto d'impiego. Nello specifico, l'amministrazione di appartenenza del Maresciallo D. avendo preso atto della condanna penale definitiva emessa a carico di costui - con irrogazione della pena di 2 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione e contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta -, aveva dichiarato, quale effetto automatico dell'applicazione in sede penale della predetta pena accessoria, la perdita del grado. Il ricorrente deduceva l'illegittimita' dell'atto impugnato per i seguenti motivi: 1. violazione delle norme di cui agli articoli 6 e 13 della CEDU, in quanto l'atto lesivo sarebbe la diretta conseguenza di una sentenza emessa a seguito di un processo penale celebrato con violazione del diritto fondamentale della persona a non essere sottratta al suo giudice naturale; 2. incompetenza dell'autorita' amministrativa emanante il provvedimento, in quanto nell'organizzazione gerarchica del Ministero della difesa il decreto di perdita del grado per motivi diversi da quelli disciplinari sarebbe attribuito alla competenza di divisioni diverse dalla terza; 3. illegittima applicazione retroattiva di norma sanzionatoria, risultando i fatti per i quali e' stato emesso il provvedimento impugnato commessi in data anteriore all'introduzione del nuovo codice dell'ordinamento militare; 4. illegittimita' costituzionale delle disposizioni sulla cui base e' stata comminata la perdita del grado, in quanto facenti derivare dalla sentenza penale di condanna una sanzione espulsiva automatica dal rapporto di impiego, non preceduta da apposito procedimento disciplinare; 5. violazione dell'art. 923, comma 3 del decreto legislativo n. 66/2010, per avere l'amministrazione dato corso alla cessazione del rapporto di impiego, in difetto di apposito decreto ministeriale. Si costituiva l'amministrazione convenuta, che resisteva al ricorso. La Sezione accoglieva la proposta domanda cautelare, sotto il profilo della violazione del principio di irretroattivita' delle sanzioni penali accessorie, mentre il Consiglio di Stato, IV Sezione, in sede di appello cautelare, riteneva di respingerla, «in forza di un orientamento giurisprudenziale da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare anche alla luce di esiti su analoghe questioni recentemente ribaditi (C.d.S. Sez. IV, 2489/2014)». Dopo l'adempimento dell'amministrazione ad una richiesta istruttoria, la causa veniva trattenuta in decisione all'udienza pubblica del 29 aprile 2015. Diritto 1. Preliminarmente, occorre esaminare le censure di carattere formale e procedurale articolate dal ricorrente con il secondo e con l'ultimo motivo di ricorso. 1.1. Con la nota di deposito di documenti acquisita agli atti in data 9 marzo 2015, il Ministero convenuto ha dimostrato che la competenza anche interna per l'emissione del provvedimento impugnato sia del Direttore della 3ª Divisione, in quanto si tratta senz'altro di «attivita' connessa con i procedimenti penali e disciplinari a carico del personale militare» (cfr., sul punto, il decreto ministeriale del 16 gennaio 2013, in atti). D'altra parte, nel corpo del decreto che ha disposto la perdita del grado, e' espressamente menzionata la norma in base alla quale il Direttore generale per il Personale militare ha delegato il direttore della terza divisione «all'adozione di atti di gestione amministrativa in materia di disciplina militare fino al grado di Tenente Colonnello e gradi corrispondenti». Il motivo di ricorso va dunque respinto. 1.2. Con riferimento alla censura relativa alla presunta violazione dell'art. 923, comma 3 del decreto legislativo n. 66/2010, occorre sottolineare che l'amministrazione convenuta ha riferito in giudizio (con la nota di deposito di documenti del 9 marzo 2015) che, «nel caso di specie, non e' stato adottato autonomo decreto ministeriale, tenuto conto che gli effetti» di cui al citato art. 923 «sono da intendersi in re ipsa, trattandosi di sottufficiale dell'Arma dei Carabinieri in servizio permanente». Sul punto, occorre considerare che la norma in discussione prevede, al comma 3, che il provvedimento di cessazione dal servizio sia adottato con decreto ministeriale, ma anche, al comma 5, che il militare cessi dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi si verifichi una delle cause di cessazione, tra cui, appunto, la perdita di grado. La doglianza del ricorrente sembra pertanto fondata solo dal punto di vista della mancata applicazione di un segmento della procedura interna da parte dell'amministrazione; il sig. D. puo', dunque, senz'altro esigere il decreto di cessazione del rapporto d'impiego, ma tale decreto avrebbe una funzione meramente ricognitiva di un rapporto che e' comunque da considerarsi venuto meno a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, ovvero dal 24 settembre 2013 (come peraltro evidenziato nel decreto che ha disposto la perdita del grado). D'altra parte, l'assenza del provvedimento di cessazione del rapporto d'impiego non ha alcun riflesso sulla legittimita' del decreto impugnato, che contiene gia' in se' la piena lesivita' dell'interesse azionato in giudizio dal ricorrente, trattandosi, come detto, di provvedimento che accerta implicitamente anche l'avvenuta cessazione del rapporto di impiego. Anche questo motivo e' dunque da ritenersi infondato. 2. Passando ai vizi di illegittimita' di natura sostanziale, non e' fondata la censura contenuta nel primo motivo di ricorso - violazione delle norme di cui agli articoli 6 e 13 della CEDU -, in quanto l'amministrazione convenuta non avrebbe potuto ne' tanto meno dovuto disapplicare il giudicato penale, andando a sindacare l'andamento processuale dei tre gradi di giudizio celebrati, ostando a cio' il principio della certezza del diritto, da considerarsi primario e intangibile - salvo i limiti evidenziati in tema di competenza esclusiva della Commissione europea - anche in ambito comunitario. D'altra parte, non vi e' agli atti del fascicolo processuale evidenza sul fatto che la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia accolto le doglianze del ricorrente sulla lesione del suo diritto di difesa, e se anche cio' accadesse, l'ordinamento offre al sig. D. tramite lo strumento della revisione della sentenza (a seguito della pronuncia additiva della Corte costituzionale n. 113/2011), la possibilita', all'esito della celebrazione di un nuovo processo, di' essere pienamente reintegrato nel suo grado. 2.2. Non e' infine fondata neppure la censura sull'erronea applicazione al caso di specie del nuovo codice dell'ordinamento militare, in quanto, come statuito dal Consiglio di Stato in sede di riforma dell'ordinanza cautelare emessa dalla Sezione, la misura adottata nel caso di specie (perdita del grado), non puo' essere equiparata ad una sanzione (ne' penale, ne' amministrativa), ma deve essere assimilata ad un effetto indiretto delle pene accessorie di carattere interdittivo, che sono da considerarsi, in tale evenienza, quale mero presupposto oggettivo cui e' ricollegato l'effetto ex lege della perdita del grado e della cessazione dai servizio; trova dunque applicazione, nel caso di specie, il principio generale «tempus regit actum», che impone all'amministrazione, in assenza di deroghe, di conformarsi alla normativa sostanziale vigente al momento dell'esercizio del potere amministrativo, in ossequio, peraltro, a quanto disposto dall'art. 2187 del decreto legislativo n. 66/2010. Il Collegio ritiene di recepire l'impostazione del Giudice di secondo grado, salvo quanto si esporra' in ordine alla questione di costituzionalita' sollevata dalla parte ricorrente. Ne consegue che la normativa applicabile ratione temporis era quella di cui al decreto legislativo n. 66/2010, trattandosi di procedimento per l'applicazione dell'effetto legale della perdita del grado instaurato in epoca successiva all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 66/2010, e non ponendosi, come detto, un problema di irretroattivita' dell'applicazione di una sanzione a fatti commessi sotto il vigore di una disciplina asseritamente piu' favorevole al ricorrente. Sotto questo profilo, l'amministrazione ha dunque correttamente inflitto al ricorrente la misura della perdita del grado prevista dagli articoli 866 e 867 del codice dell'ordinamento militare, senza dare corso ad alcun procedimento disciplinare. 3. Venendo all'esame del quarto motivo di ricorso, il Collegio ritiene rilevante ai fini del decidere, e non manifestamente infondata, la questione d'illegittimita' costituzionale sollevata dalla difesa del sig. D. con riferimento agli articoli 866, comma 1 (ai sensi del quale «la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'art. 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale»), 867, comma 3 (secondo cui «se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza») e 923 del decreto legislativo n. 66/2010 (che prevede che il rapporto di impiego del militare cessi, tra l'altro, a seguito di perdita del grado), per violazione dell'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui le predette norme prevedono la cessazione del rapporto di lavoro come conseguenza automatica (senza l'attivazione di apposito procedimento disciplinare) dell'applicazione in sede di condanna penale definitiva della sanzione accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Invero, il ricorrente, fino al 24 settembre 2013 in servizio presso l'Arma dei Carabinieri in qualita' di Maresciallo capo, nell'impugnare il provvedimento con il quale e' stata disposta nei suoi confronti la perdita del grado, ha dedotto, quale vizio di legittimita' dell'atto impugnato, anche l'illegittimita' costituzionale della norma di cui si e' avvalsa l'amministrazione per decretare la perdita di grado suddetta. Il Comando dell'Arma ha infatti proceduto all'emissione del provvedimento ablativo sulla base dell'art. 866 del decreto legislativo n. 66/2010 - che prevede, quale effetto automatico dell'applicazione in sede penale della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, la perdita del grado - prendendo atto della condanna definitiva del sig. D. alla pena di 2 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, per fatti risalenti al giugno 2007, con contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta. 3.1. In punto di rilevanza della questione di costituzionalita' che si sta per esporre, occorre preliminarmente precisare come soltanto l'eventuale accoglimento del relativo motivo di ricorso, con la conseguente caducazione della norma sottoposta al vaglio di costituzionalita', consentirebbe a questo Giudice di annullare il provvedimento impugnato. Va altresi' osservato che, a seguito di apposita richiesta istruttoria formulata dal Tribunale rimettente nel corso del giudizio, l'amministrazione competente ha precisato che il decreto impugnato ha comportato in via automatica anche la cessazione del rapporto di pubblico impiego, in applicazione dell'art. 923 del decreto legislativo n. 66/2010, che prevede che il rapporto di impiego del militare cessi, tra l'altro, a seguito di perdita del grado. E' stato dunque accertato che l'applicazione della norma della cui legittimita' costituzionale si dubita ha determinato in via diretta - anche nell'interpretazione che ne ha adottato il datore di lavoro pubblico - la fine del rapporto di impiego tra dipendente e amministrazione. Infine, come gia' precisato, anche se i fatti sono stati commessi sotto il vigore della precedente disciplina in materia di perdita del grado (art. 12, lettera f, e art. 34, numero 7 della legge n. 1168/1961), la normativa applicabile concretamente al caso di specie e' da ritenersi quella di cui al decreto legislativo n. 66/2010 (cd. codice dell'ordinamento militare) in quanto, secondo l'orientamento consolidato del Consiglio di Stato (cfr., tra le altre, sent. n. 389/2014 e ordinanza n. 3369/2014), cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, il provvedimento che dispone la perdita del grado in conseguenza della sanzione accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici non a' assimilabile ad una sanzione (ne' penale ne' amministrativa), ma ad un effetto indiretto delle pene accessorie di carattere interdittivo. Va dunque applicata la disciplina vigente al momento dell'emanazione del provvedimento ablativo e non quella vigente al momento della commissione dei fatti di reato, non venendo in rilievo nel caso di specie il principio di irretroattivita' delle sanzioni penali. 3.2. Passando al merito della questione di costituzionalita' da sottoporre a codesta Corte, il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione d'illegittimita' costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del decreto legislativo n. 66/2010, per violazione dell'art. 3 della Costituzione - nei termini e nei limiti gia' in precedenza indicati -, sotto il seguente, duplice profilo. Invero, ritiene il Collegio rimettente che le norme di cui si sospetta l'incostituzionalita' violino l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore e del trattamento identico di due situazioni strutturalmente diverse. 3.2.1. Con riferimento al primo aspetto, si richiamano le pronunce di codesta Corte (sentenza n. 971 del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenze nn. 40 del 1990, 16, 415 e 104 del 1991, 134 del 1992, 197 del 1993 e 363 del 1996) che hanno statuito l'incompatibilita' costituzionale della destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare. Nel caso di specie, come rilevato, la perdita del grado consegue automaticamente alla sanzione penale accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici e determina senza soluzione di continuita' la cessazione del rapporto di impiego dell'appartenente all'Arma dei Carabinieri. Invero, il quinto comma dell'art. 923 del decreto legislativo n. 66/2010 prevede che il militare cessi dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi si verifica la perdita del grado (che e' una delle cause di cessazione del rapporto di impiego elencate nel primo comma) e il comma 3 dell'art. 867 del decreto legislativo n. 66/2010 stabilisce che se la perdita del grado consegue a condanna penale (come nel caso di specie), la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza. L'art. 866, comma 1, a sua volta, prevede che «la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all'art. 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale». Ne deriva che il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, con applicazione della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, determina l'automatica cessazione del rapporto di impiego (come peraltro confermato dall'amministrazione competente nella concreta applicazione di tali norme). Nella sentenza della Corte costituzionale n. 363 del 1996, che aveva scrutinato la legittimita' costituzionale della norma (art. 34, numero 7 della legge n. 1168/1961) che stabiliva l'automatica cessazione del rapporto di impiego a seguito di applicazione della perdita del grado conseguente alla pena accessoria della rimozione, in una fattispecie analoga a quella per cui e' causa, si legge: «La questione e' fondata, alla luce dell'art. 3 della Costituzione. Questa Corte non puo' che ribadire l'illegittimita' della destituzione di diritto, e la necessita' che si svolga il procedimento disciplinare al fine di assicurare l'indispensabile gradualita' sanzionatoria, riconducendo alla loro sede naturale le relative valutazioni. L'automatismo presente nella normativa denunciata e' illegittimo per violazione dell'art. 3 della Costituzione, con riguardo, innanzitutto, al canone della razionalita' normativa (sentenza n. 971 del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenze nn. 415 e 104 del 1991, 134 del 1992, 126 del 1995). D'altra parte, il trattamento deteriore riservato agli appartenenti all'Arma dei carabinieri non trova valida ragione giustificatrice nel loro status militare: questa Corte ha rilevato come la mancata previsione del procedimento disciplinare, nel vulnerare le garanzie procedurali poste a presidio della difesa, finisca per ledere il buon andamento dell'amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali, oltre che l'art. 3 della Costituzione (sentenza n. 126 del 1995)». Il Collegio rimettente osserva che la motivazione adottata nella sentenza appena citata abbia validita' anche nel caso di specie, in cui l'unica differenza rispetto alla questione all'epoca sottoposta a codesta Corte consiste nella circostanza che la pena accessoria che aveva dato luogo alla perdita del grado fosse quella della rimozione e non dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. Il Collegio non ritiene peraltro di ravvisare una differenza di rilievo tra le due ipotesi (rimozione e interdizione temporanea dai pubblici uffici), tale cioe' da giustificare una diversa applicabilita' dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996. Si tratta, infatti, in entrambe le ipotesi, di sanzioni penali (di cui una accessoria alla condanna per un reato militare, l'altra accessoria alla condanna per un reato comune) che comportano la perdita del grado e la conseguente cessazione dal rapporto di impiego, ai sensi dell'art. 923 del decreto legislativo n. 66/2010 (norma che riproduce, di fatto, l'art. 34, numero 7 della legge n. 1168/1961, gia' dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 363 sopra citata). Comune e' anche il presupposto generale applicativo, ovvero una condanna in via definitiva alla reclusione (comune o militare) per durata non inferiore a tre anni (tre anni e un giorno, ai sensi del codice penale militare di pace). Peraltro, la sanzione penale accessoria della rimozione e' perpetua, mentre l'interdizione temporanea e', per definizione, non definitiva. In entrambi i casi, la sanzione della destituzione di diritto (dovendosi considerare tale ogni mutamento dello status del lavoratore implicante la fine traumatica del suo rapporto di impiego), comminata in ossequio all'automatismo applicativo della legge di cui e' posta in dubbio la costituzionalita', colpisce, senza alcuna distinzione, la molteplicita' dei comportamenti possibili nell'area dello stesso illecito penale, con offesa del «principio di proporzione», che e alla base della razionalita' che domina «il principio di eguaglianza», e che postula l'adeguatezza della sanzione al caso concreto. Adeguatezza che non puo' essere raggiunta se non attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell'illecito amministrativo, che soltanto il procedimento disciplinare consente. 3.2.2. Sotto altro, concorrente profilo, le norme in questione violerebbero l'art. 3 della Costituzione, perche' equiparano tra di loro gli effetti della interdizione perpetua e gli effetti della interdizione temporanea dai pubblici uffici. Si tratta, invero, di pene accessorie profondamente diverse tra di loro, per presupposti applicativi (tipologie di condanna) e conseguenze sullo status del soggetto condannato (temporaneita' o definitivita' degli effetti interdittivi). Ritiene, pertanto, il Collegio rimettente, che risulti manifestamente illogica la scelta del legislatore di far conseguire a due sanzioni cosi' differenti lo stesso effetto espulsivo con riguardo al rapporto di lavoro in corso tra amministrazione ed appartenente all'Arma, senza consentire al datore di lavoro di graduare la sanzione da applicare in rapporto alla condanna subita dal dipendente colpito da interdizione temporanea nella sua «sede naturale», ovvero all'interno del procedimento disciplinare. 3.2.3. Tale valutazione non cambia se rapportata alla piu' recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in quanto le scelte di maggiore severita' del legislatore con riferimento alle conseguenze di pronunce penali sull'onorabilita' dei pubblici funzionari devono essere contemperate con il parametro costituzionale del diritto al lavoro (articoli 4 e 35 della Cost.), nella cui accezione piu' estensiva e' da ricomprendere anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro e, in particolare, a difendersi all'interno del procedimento disciplinare rispetto a contestazioni che in sede penale comportano pene accessorie espulsive. Al contrario, il Collegio rileva - con particolare riferimento alla disciplina di cui alla legge n. 97 del 2001, che ha introdotto nel corpo del codice penale l'art. 32-quinquies - l'incongruita' di un sistema normativo che, da un lato, fa derivare automaticamente l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici soltanto in caso di sua condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (e unicamente per alcune fattispecie di delitti contro la p.a), dall'altro, impone lo stesso automatismo anche nell'ipotesi di perdita del grado connessa a condanne dello stesso tipo ma inferiori ai tre anni (come nel caso del ricorrente). D'altra parte, il particolare status del sig. D. (gia' facente parte dell'Arma dei Carabinieri) non giustifica una diversa e deteriore applicabilita' nei suoi confronti delle garanzie connesse e connaturate allo status generale di dipendente pubblico. Non occorre dimenticare, al riguardo, che la pronuncia di incostituzionalita' restituirebbe al ricorrente la possibilita' di essere sottoposto a procedimento disciplinare, e non l'automatica salvaguardia del suo rapporto di impiego; resterebbero pertanto pienamente operative, accanto alle garanzie del procedimento disciplinare, anche le peculiarita' (tra cui la notoria severita' dei applicati agli appartenenti all'Arma, in virtu' del delicato compito istituzionale agli stessi assegnato) dello specifico status di militare. In sostanza, la pronuncia d'incostituzionalita' richiesta si limiterebbe a porre riparo al vulnus di ragionevolezza ravvisabile nella disciplina del nuovo codice dell'ordinamento militare, introducendo tra l'interdizione temporanea dai pubblici uffici e la fine del rapporto di impiego il filtro del procedimento disciplinare, cosi' come gia' avvenuto per la disciplina precedente al codice - e sempre con specifico riguardo all'Arma dei carabinieri - con la richiamata pronuncia di codesta Corte (la n. 363 del 1996), seppure con riferimento all'ipotesi speculare di perdita del grado per rimozione. Non osta a tale soluzione la natura dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici, che, proprio per la sua intrinseca transitorieta', garantisce, a differenza dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici, la possibilita' per il dipendente di riprendere il servizio dopo il periodo di temporanea impossibilita'. Rileva infine il Collegio rimettente che in una situazione di crisi occupazionale e delle finanze erariali come e' quella attuale, dove specialmente nel settore pubblico le assunzioni sono sempre piu' rare e legate a parametri di ricambio generazionale, la cessazione automatica del rapporto di impiego nei confronti dell'appartenente all'Arma dei Carabinieri a seguito di un'interdizione solo temporanea (nel caso di specie, meno di due anni e sette mesi) si tramuterebbe, nella sostanza, in un'espulsione definitiva dall'intero comparto pubblico, cioe' proprio dal comparto dove e' ragionevole presumere che il soggetto espulso abbia maggiori attitudini e background professionale. Il procedimento disciplinare conseguente alla sanzione penale che ha comportato, quale pena accessoria, l'interdizione temporanea, puo' dunque costituire la prima - e, forse, l'ultima - chance del dipendente di far valere, anche ai fini di una graduazione della sanzione da infliggere, la competenza e il valore professionali gia' acquisiti nel tempo (in termini, sentenza n. 363 del 1996 di codesta Corte). 4. Sulla base delle su esposte considerazioni, il Collegio ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale affinche' si pronunci sulla questione. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese resta riservata alla decisione definitiva.
P. Q. M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I), non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge parzialmente, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del decreto legislativo n. 66/2010, in relazione all'art. 3 della Costituzione. Dispone la sospensione del presente giudizio. Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che, a cura della Segreteria della sezione, la presente sentenza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorita' amministrativa. Cosi' deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 29 aprile 2015 con l'intervento dei magistrati: Silvia Cattaneo, Presidente FF; Roberto Lombardi, referendario, estensore; Oscar Marongiu, referendario. Il Presidente: Cattaneo L'estensore: Lombardi