N. 262 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 luglio 2015

Ordinanza del 24 luglio 2015 del G.U.P. del Tribunale di  Torino  nel
procedimento penale a carico di Schmidheiny Stephan Ernest . 
 
Processo penale - Divieto di un  secondo  giudizio  -  Applicabilita'
  limitata all'esistenza del medesimo " fatto  giuridico",  nei  suoi
  elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece  che
  all'esistenza del medesimo "fatto storico",  cosi'  come  delineato
  dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. 
- Codice di procedura penale, art. 649. 
(GU n.48 del 2-12-2015 )
 
                    TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO 
             Sezione giudici per le indagini preliminari 
 
    Il Giudice, nel processo a carico di Schmidheiny Stephan  Ernest,
nato a Heerbrugg (Svizzera) il 29 ottobre  1947,  difeso  di  fiducia
dagli avv.ti Astolfo Di Amato del Foro di Roma e Alleva  Guido  Carlo
del Foro di Milano, ha emesso la seguente ordinanza (art. 23 legge 11
marzo 1953, n. 87). 
    Nel procedimento penale pendente avanti al  giudice  dell'udienza
preliminare di Torino  Schmidheiny  Stephan  Ernest  e'  ascritto  di
avere,  con  coscienza  e  volonta',  nella  qualita'  di   effettivo
responsabile della gestione delle societa' del  Gruppo  Eternit  Spa,
esercenti gli stabilimenti di lavorazione dell'amianto disseminati in
varie  parti  d'Italia,  cagionato  la  morte  di  258  persone,  tra
lavoratori, familiari degli stessi e cittadini residenti  nelle  zone
limitrofe agli stabilimenti. 
    Piu'  precisamente,  con  la  richiesta  di  rinvio  a  giudizio,
depositata in data 24 febbraio  2015,  a  Schmidheiny  sono  mossi  i
seguenti addebiti: 
        «nella qualita'  di  effettivo  responsabile  della  gestione
della  societa'  (Eternit  Spa)   esercente   gli   stabilimenti   di
lavorazione  dell'amianto  siti  in  Cavagnolo,  Casale   Monferrato,
Napoli-Bagnoli, Rubiera, e di effettivo responsabile  della  gestione
delle societa' (Industria Eternit Casale  Monferrato  Spa,  Industria
Eternit Napoli Spa, Icar Spa, Industria Eternit  Reggio  Emilia  Spa)
esercenti  gli  stabilimenti  di  lavorazione  dell'amianto  siti  in
Cavagnolo, Casale  Monferrato,  Bagnoli,  Rubiera,  nel  periodo  che
inizia il giugno 1976 con riguardo  ai  siti  di  Casale  Monferrato,
Cavagnolo, Napoli-Bagnoli, e il 27 giugno 1980 con riguardo  al  sito
di Rubiera e che termina il 4 giugno 1986 con  riguardo  ai  siti  di
Casale Monferrato e di Cavagnolo, il 19 dicembre 1985 con riguardo al
sito di Napoli-Bagnoli, il 6 dicembre 1984 con riguardo  al  sito  di
Rubiera: 
        artt. 8 comma 2, 575, 577, comma 1, nn. 2 e 4 e 61 n. 1 c.p.,
perche', in esecuzione del medesimo  disegno  criminoso,  agendo  con
coscienza e volonta',  cagionava  la  morte  di  258  tra  lavoratori
operanti presso i predetti stabilimenti,  familiari  degli  stessi  e
cittadini residenti nelle zone limitrofe tali stabilimenti, alle date
e nei luoghi indicati per ciascuno e, segnatamente di: 
    [seguono  le  generalita'  di  n.  258  persone   decedute,   con
l'indicazione di luogo, data e causa del decesso, nonche', in caso di
esposizione professionale, stabilimento presso cui ciascuna  prestava
attivita'  lavorativa,  relative  mansioni  e  durata;  in  caso   di
esposizione  ambientale,  il  periodo,  il  luogo  e   il   tipo   di
esposizione] 
in quanto fu consapevole che: 
    A) il mesotelioma pleurico o peritoneale (oltre che l'asbestosi e
il  carcinoma  polmonare)  sono  patologie  con   prognosi   infausta
correlate sotto il profilo  eziologico  all'inalazione  di  fibre  di
asbesto; 
    B)   gli   stabilimenti   di   Cavagnolo,   Casale    Monferrato,
Napoli-Bagnoli, Rubiera, presentavano condizioni di  polverosita'  da
amianto enormemente nocive per la salute  delle  popolazioni  formate
dai  lavoratori  e  dagli  abitanti  delle  zone  prossime   a   tali
stabilimenti; 
    C) le risorse finanziarie effettivamente investite per ridurre la
polverosita' all'interno dei luoghi di lavoro e nel territorio  erano
esigue; 
e cio' malgrado, per mero fine di lucro, decise di: 
    D) continuare le attivita'  gia'  svolte  negli  stabilimenti  di
Cavagnolo, Casale Monferrato, Napoli-Bagnoli, Rubiera, ancora per  un
decennio; 
    E)  non  modifricare  negli  stabilimenti  di  Cavagnolo,  Casale
Monferrato, Napoli-Bagnoli, Rubiera, le preesistenti  ed  enormemente
nocive condizioni di polverosita' da amianto mediante  conversioni  e
risanamenti realmente incisivi; 
    F)  risparmiare  sulle  gravose  spese  indispensabili  per   una
radicale revisione degli impianti e delle procedure di lavoro, con il
consapevole e voluto risultato che le fibre di asbesto continuarono a
disperdersi abbondantemente nelle fabbriche e negli ambienti di vita,
e  per  inevitabile  conseguenza,  determinarono  e  determinano  tra
lavoratori e cittadini una epidemia dilatata nel tempo  di  patologie
di cui conosceva la gravita' e la diffusivita'; 
    G)  adottare  ed  attuare  una  politica  aziendale   comportante
un'immane esposizione ad amianto di lavoratori  e  cittadini,  e,  in
particolare, diretta a: 
negli stabilimenti di Cavagnolo, Casale  Monferrato,  Napoli-Bagnoli,
Rubiera: 
    1) omettere l'individuazione e la realizzazione dei provvedimenti
tecnici,  organizzativi,   procedurali,   igienici,   necessari   per
contenere l'esposizione all'amianto (quali  impianti  di  aspirazione
localizzata, adeguata ventilazione dei locali, utilizzo di sistemi  a
ciclo chiuso, limitazione dei  tempi  di  esposizione,  procedure  di
lavoro atte ad evitare la manipolazione manuale,  lo  sviluppo  e  la
diffusione dell'amianto, sistemi di pulizia degli indumenti di lavoro
in ambito aziendale); 
    2)  omettere  la  fornitura  e  l'effettivo  impiego  di   idonei
apparecchi personali di protezione; 
    3) omettere la sottoposizione dei lavoratori esposti ad amianto a
controlli  sanitari  adeguati,  e  l'allontanamento  dei   lavoratori
dall'esposizione a rischio  per  motivi  sanitari  inerenti  la  loro
persona; 
    4) omettere l'informazione e la formazione dei lavoratori circa i
rischi specifici derivanti dall'amianto e circa le misure per ovviare
a tali rischi; 
in aree private e pubbliche al di fuori dei predetti stabilimenti: 
    5) consentire e non impedire la fornitura  a  privati  e  a  enti
pubblici, e il mantenimento in uso, dei materiali di amianto  per  la
pavimentazione di strade, cortili, aie, o  per  la  coibentazione  di
sottotetti  di  civile  abitazione,   in   tal   guisa   determinando
un'esposizione incontrollata, continuativa e a tutt'oggi  perdurante,
senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosita' dei  predetti
materiali e  per  giunta  inducendo  un'esposizione  di  fanciulli  e
adolescenti anche durante attivita' ludiche; 
presso le abitazioni private dei lavoratori: 
    6) omettere l'organizzazione della  pulizia  degli  indumenti  di
lavoro in ambito aziendale  e  determinare  la  conseguente  indebita
esposizione ad amianto  dei  familiari  conviventi  e  delle  persone
addette alla predetta pulizia; 
tanto che: 
    H) promosse una sistematica e prolungata opera di disinformazione
volta a: 
    1) tranquillizzare la  collettivita',  sia  divulgando  la  falsa
rassicurazione che erano state impegnate notevoli risorse per  sanare
la situazione, sia propalando  notizie  infondate  circa  l'efficacia
delle  bonifiche  gia'  compiute  e   lo   stato   delle   conoscenze
scientifiche in ordine alla cancerogenicita' dell'asbesto; 
    2)  diffondere  l'erronea  convinzione  che,  per  garantire   la
sicurezza e la salute nei luoghi di  lavoro  e  nelle  aree  ad  essi
vicine, sarebbe stato sufficiente rispettare valori limite di soglia,
peraltro individuati in modo inappropriato anche alla  stregua  delle
conoscenze gia' allora disponibili  e  mai  realmente  osservati  con
adeguate azioni preventive; 
    I) confido'  che  l'opera  di  disinformazione  da  lui  promossa
avrebbe   impedito   alla   collettivita'   di    acquisire    esatta
consapevolezza  del  fenomeno  epidemico  che  egli   si   era   gia'
rappresentato e che, dunque,  provoco'  pur  di  perseguire  vantaggi
economici; 
    L)  si  avvalse  sistematicamente  di  un  esperto  di  pubbliche
relazioni per allontanare dalla sua persona qualsiasi sospetto  sulla
parte avuta nella decisione di gestire gli stabilimenti italiani  con
modalita' tali da  diffondere  in  notevole  quantita'  le  fibre  di
asbesto negli ambienti di  lavoro  e  nel  territorio,  e  cosi'  per
occultare le proprie responsabilita' scaricandole sulle articolazioni
periferiche della catena di governo del gruppo. 
    Con le aggravanti di aver commesso il  fatto  per  mero  fine  di
lucro (v. punti D, E, F), e con mezzo insidioso, in  quanto  ometteva
l'informazione a lavoratori, familiari,  cittadini,  circa  i  rischi
specifici derivanti dall'amianto e circa le misure per ovviare a tali
rischi,  e  promuoveva  la  sistematica   e   prolungata   opera   di
disinformazione di cui ai punti H), I), L), in guisa da rendere  piu'
difficile per le vittime la difesa. 
    Nel quale sono persone offese: [seguono generalita' dei familiari
delle n. 258 persone decedute]. 
    Nel corso dell'udienza  preliminare,  i  difensori  dell'imputato
hanno invocato l'applicazione dell'art.  649  c.p.p.  ai  fini  della
pronuncia di una sentenza di proscioglimento ex art.  425  c.p.p.  ed
hanno altresi' chiesto che il  giudice  sottoponesse  alla  Corte  di
giustizia   dell'Unione   europea   la    questione    interpretativa
pregiudiziale dell'art.  50  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea, che sancisce il principio c.d. del  «ne  bis  in
idem». 
    In sostanza, i difensori hanno rilevato che Schmidheiny era  gia'
stato processato e giudicato, con  sentenza  divenuta  definitiva  in
data 19 novembre 2014, nel procedimento penale RG NR 24265/04, di cui
quello   odierno   costituisce   «stralcio»,   conclusosi   con    il
proscioglimento dell'imputato per intervenuta prescrizione dei  reati
in quella sede  contestati,  relativamente  a  fatti  che  le  difese
ritengono essere i «medesimi» oggetto dell'odierno processo,  pur  se
in allora  diversamente  qualificati  (omissione  dolosa  di  cautele
contro gli infortuni sul lavoro, dichiarato estinto per  prescrizione
dalla Corte d'Appello di Torino con sentenza del  3  giugno  2013,  e
disastro doloso, dichiarato estinto per prescrizione dalla  Corte  di
cassazione con sentenza n. 7941/15 del 19 novembre 2014). 
    Anche nel primo processo, come in quello oggi pendende, veniva in
rilievo la qualita' di Schmidheiny di «effettivo responsabile»  della
gestione  delle  societa'  del  «Gruppo   Eternit»,   esercenti   gli
stabilimenti di lavorazione dell'amianto siti  in  Cavagnolo,  Casale
Monferrato, Bagnoli, Rubiera; pertanto, i  fatti  risultano  commessi
negli stessi luoghi  e  nei  medesimi  periodi;  il  contenuto  della
condotta omissiva in quella sede ascritta  all'imputato  ex  articoli
437 c.p. e 434  c.p.  e'  confluita  nell'attuale  contestazione  sub
lettera G); entrambe le condotte omissive in quella sede  contestante
erano aggravate dalla malattia e dal decesso di circa 2.000  persone,
in conseguenza dell'esposizione  ad  amianto,  e  186  di  esse  sono
indicate quali vittime anche nell'attuale processo. 
    I Pubblici ministeri e  i  difensori  delle  parti  civili  hanno
chiesto che, in ossequio al consolidato orientamento della  Corte  di
cassazione,  le  richieste  fossero   entrambe   respinte   e   fosse
pronunciato il decreto che dispone il giudizio. 
    Con separata ordinanza,  letta  in  udienza,  questo  giudice  ha
respinto la richiesta dei difensori  dell'imputato  di  investire  la
Corte di giustizia della questione pregiudiziale  interpretativa:  la
situazione giuridica controversa non  rientra,  infatti  nella  sfera
d'applicazione del diritto dell'Unione e il  procedimento  principale
non riguarda l'interpretazione  o  l'applicazione  di  una  norma  di
diritto dell'Unione diversa da quelle della Carta, sicche'  la  Corte
avrebbe declinato la propria competenza (cfr.  da  ultimo,  ordinanza
Nona Sezione 15 maggio 2015, nella causa C-497/14). 
    2)  Questo  giudice  ritiene,  invece,  di  dover  sollevare   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  649  c.p.p.,  per
violazione dell'art. 117 comma 1 Cost. in relazione all'art. 4  Prot.
7 della CEDU, atteso  che  il  divieto  di  doppio  giudizio  sancito
dall'art. 649 c.p.p. ha, nell'ordinamento  processuale  italiano,  un
ambito di applicazione limitato  ai  casi  in  cui  si  riscontri  la
coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato  e  dei  beni
giuridici tutelati, non operando invece il divieto  in  presenza  del
mero accertamento della coincidenza dei fatti storici  oggetto  delle
successive e differenti imputazioni che siano state  formalizzate  ed
esaminate in due distinti procedimenti. 
    In tal modo, l'art. 649 c.p.p. si pone in conflitto con l'art.  4
Prot. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. 
    Questo giudice esclude di potersi discostare in  via  ermeneutica
dall'orientamento della Giurisprudenza di  legittimita',  che  si  e'
consolidato al punto da assumere il valore di «significato  obiettivo
della disposizione», cosi' da concretizzare  la  nozione  di  diritto
vivente. 
    3) Nell'ordinamento nazionale il divieto di «doppio giudizio» non
opera in caso di «concorso formale» di reati. 
    Con particolare riferimento  alla  materia  degli  infortuni  sul
lavoro, la Corte di cassazione ha sempre e senza  eccezioni  ritenuto
che tra  il  delitto  di  omissione  dolosa  di  cautele  contro  gli
infortuni sul lavoro aggravato dalla morte di lavoratori (art. 437 c.
2 c.p.) e  il  delitto  di  omicidio  (colposo,  ex  art.  589  c.p.)
aggravato dalla violazione delle norme di prevenzione degli infortuni
sul lavoro, sussiste «concorso formale» di  reati,  che  si  realizza
allorche' con un'unica azione si  cagionino  piu'  eventi  penalmente
rilevanti. 
    L'assunto  muove  dalla  considerazione  che  le  due  previsioni
normative  considerano  distinte  situazioni   tipiche   (la   dolosa
omissione di misure antinfortunistiche con conseguente  disastro,  la
prima, e la morte non voluta di una  o  piu'  persone,  la  seconda),
hanno diversa collocazione sistematica all'interno del codice  penale
perche' tutelano beni giuridici differenti (la pubblica  incolumita',
la prima, e la vita umana, la seconda) e  divergono  con  riferimento
all'elemento soggettivo (dolo della condotta quanto al reato previsto
dall'art. 437  cp  e  colpa  quanto  al  reato  di  omicidio)  (Cass.
10048/1993) ovvero, si e' detto, presentano differente «schema legale
tipico» e diverso «contenuto costitutivo» (Cass. 1648/1983). 
    E poiche' il danno  alla  persona  costituisce  effetto  soltanto
eventuale e  non  essenziale  dell'omissione  delle  cautele  di  cui
all'art. 437 c.p., mentre nel reato di omicidio colposo  e'  elemento
essenziale, la morte, sia pure derivante  dalla  medesima  omissione,
non puo' ritenersi assorbita nel reato di cui all'art. 437 c. 2  c.p.
(Cass. 1648/1983; Cass. 10048/1993). 
    I  principi  ora  sinteticamente  richiamati  sono  costantemente
applicati in tutti i settori dell'ordinamento penale. 
    Cosi', non potra' invocarsi la violazione del  principio  del  ne
bis in idem laddove la nuova norma incriminatrice applicata contempli
un evento giuridico diverso da quello  che  fu  oggetto  della  prima
pronuncia: atteso che il «fatto» di cui all'art. 649  c.1  c.p.p.  si
identifica  nell'elemento  materiale   del   reato,   costituito   da
«condotta-evento-nesso  causale»   e   attesa   la   non   necessaria
coincidenza tra  fatto  in  senso  naturalistico  e  fatto  in  senso
giuridico, nell'ipotesi di concorso formale  di  reati,  in  cui  con
un'unica  azione  si  cagionino  piu'  eventi  giuridici   penalmente
rilevanti, il giudicato formatosi con riguardo a uno di  tali  eventi
non impedisce l'esercizio dell'azione penale in relazione a un  altro
evento scaturito dall'unica condotta, per cui non puo' dirsi  violato
il principio del ne bis in idem qualora il soggetto venga  sottoposto
a nuovo processo, perche' il  nuovo  procedimento  per  il  reato  in
concorso formale ha per oggetto non  il  medesimo  fatto,  ma  quella
parte di fatto - in senso giuridico -  non  contemplato  dalla  prima
norma incriminatrice applicata,  caratterizzata  dal  diverso  evento
giuridico. 
    A titolo esemplificativo si vedano: 
    Cass. 3116/1994: in  applicazione  del  suesposto  principio,  la
Corte ha escluso che potesse invocarsi la regola del ne bis  in  idem
da parte di soggetto che, gia'  condannato  per  mancata  tenuta  dei
libri e delle scritture contabili, ai sensi dell'art. 217 della legge
fallimentare, era stato  poi  sottoposto,  sulla  base  della  stessa
condotta, a nuovo procedimento penale per il  reato  fiscale  di  cui
all'art. l uc. decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429,  convertito  con
modificazioni in legge 7 agosto 1982, n. 516; 
    Cass. 10472/1997: la Corte ha rigettato il ricorso con  il  quale
l'imputato, quale agente di cambio, era stato gia' condannato per  il
reato  di  bancarotta  fraudolenta  consistita,  fra  l'altro,  nella
sottrazione di titoli e denaro della clientela  e  poi  sottoposto  a
nuovo procedimento penale per il reato di appropriazione indebita  in
danno di un cliente, in forza del principio per cui  all'unicita'  di
un determinato fatto storico puo' far  riscontro  una  pluralita'  di
eventi giuridici; 
    Cass. 3755/99: nella specie si era proceduto, in relazione a  una
partita di tabacchi lavorati esteri, per  il  mancato  pagamento  dei
diritti di monopolio ex art. 2 legge 18 gennaio 1994,  n.  50,  fatto
ritenuto distinto  e  diverso  dal  reato,  nel  primo  processo  non
contestato, del mancato pagamento dei diritti doganali relativi  alla
stessa partita secondo le norme degli articoli 282 - 292 decreto  del
Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43,  in  forza  della
considerazione che, nell'ipotesi di concorso formale di reati, in cui
con un'unica azione si cagionino piu' eventi penalmente rilevanti, il
giudicato formatosi con riguardo a uno di tali eventi  non  impedisce
l'esercizio  dell'azione  penale  in  relazione  a  un  altro  evento
scaturito dall'unica condotta. 
    Inoltre,  alcune   pronunce   della   Suprema   Corte   svalutano
esplicitamente la  portata  del  «fatto  storico»,  privilegiando  la
valutazione di «tutte le implicazioni penalistiche» del fatto stesso:
si e' affermato, ad esempio, che il principio del ne bis in  idem  di
cui all'art. 649 c.p.p. impedisce al giudice di procedere  contro  la
stessa persona per lo  stesso  fatto  sul  quale  si  e'  formato  il
giudicato, ma non vieta di prendere in esame lo stesso fatto  storico
e di valutarlo in riferimento a diverso reato. 
    La preclusione non opera, quindi, allorche' il tatto  storico  in
relazione al quale e' gia' intervenuta una pronuncia irrevocabile sia
stato conseguenza di una condotta che abbia nel contempo  determinato
la violazione di piu' disposizioni di legge,  potendo  e  dovendo  la
vicenda  criminosa  essere  valutata  alla  luce  di  tutte  le   sue
implicazioni penalistiche col possibile riesame  in  direzione  delle
ipotesi delittuose rimaste  estranee  al  giudizio  precedente  (cfr.
Cass. 6801/1994; Cass. 25141/2009). 
    Altre pronunce della Corte negano  la  violazione  del  principio
sancito dall'art.  649  c.p.p.  nei  casi  di  distinta  oggettivita'
giuridica dei beni tutelati e di assorbimento solo  parziale  di  una
violazione nell'altra; cosi', la preclusione  processuale  non  opera
quando  sia  stato  celebrato  un  processo,  e  si  sia  formato  il
giudicato, in relazione ad un reato compatibile con altro  reato  non
giudicato,  non  rinvenendosi  la  medesimezza  del  fatto  richiesta
dall'art. 649 c.p.p., ancorche' entrambi  i  reati  siano  riferibili
alla medesima condotta  (cfr.  sentenza  3354/1995,  in  procedimenti
relativi a reati di resistenza a p.u. e di tentato omicidio; criterio
che si rinviene anche in Cass. 10472/97, cit.). 
    Si e' talvolta affermato che non sussiste,  comunque,  violazione
del principio del bis  in  idem  quando  sia  evitato  il  «conflitto
teorico di giudicati» (cfr. sentenza 2149/1996: la Corte ha stabilito
che  il  fatto  della  contravvenzione  in  materia  di   prevenzione
infortuni, per cui l'imputato era stato assolto con sentenza  passata
in giudicato, poteva essere preso di  nuovo  in  esame  ai  fini  del
delitto di lesioni colpose se il secondo  giudizio  fosse  pervenuto,
quanto al fatto contravvenzionale, alle stesse conclusioni del  primo
e non si ponesse quindi in rapporto di  incompatibilita'  logica  con
esso; cosi' anche Cass. 25141/2009, in cui si legge:  «come  gia'  in
altre occasioni chiarito da  questa  Corte,  la  preclusione  di  cui
all'art. 649 cod. proc. pen. - «ne bis in idem»  -  non  puo'  essere
invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia gia' intervenuta
una pronuncia irrevocabile, configuri un'ipotesi di «concorso formale
di reati», in quanto la fattispecie puo' essere riesaminata sotto  il
profilo di una diversa violazione di  legge  derivante  dallo  stesso
fatto, con l'unico, ragionevole, limite che il secondo  giudizio  non
si ponga in una situazione di incompatibilita' logica con  il  primo:
cio' che potrebbe verificarsi allorche' nel primo giudizio sia  stata
dichiarata l'insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso
da parte dell'imputato (ex plurimis Sez. 4, n.  25305  del  2  aprile
2004 Rv. 228924). La ragione e'  evidente  e  risiede  proprio  nella
necessita'  di  evitare  pronunce  contrastanti  che  si  pongano  in
rapporto di  insuperabile  contrasto  sulla  attribuzione  del  fatto
contestato»). 
    La concreta applicazione dell'art. 649  c.p.p.  e'  rimasta,  nei
decenni, sostanzialmente immutata: al di la' di recenti  formulazioni
che all'apparenza  interpretano  la  nozione  di  «stesso  fatto»  in
ossequio ai canoni ermeneutici  elaborati  dalla  Corte  europea,  la
Corte di cassazione e', in realta', saldamente ancorata a valutazioni
che  non  apprezzano  afflitto,  in  via  prioritaria,  l'accadimento
storico. 
    Cosi', ad esempio, nel tentativo di perimetrare  il  concetto  di
«stesso tatto giudicato», con la pronuncia n. 34655/2005 ric. Donati,
la Corte di cassazione a Sezioni  unite,  investita  della  questione
relativa alla possibilita' di applicare il divieto di bis in idem nel
caso in cui la prima pronuncia non fosse ancora divenuta  definitiva,
ha preliminarmente accennato ai criteri di delimitazione del concetto
di idem, affermando in linea di principio  il  primato  del  criterio
storico-naturalistico,  ma  in  sostanza  mettendo  a  confronto  gli
«elementi costitutivi» dei reati, secondo la  classica  tripartizione
di «condotta-evento-nesso  di  causa»,  in  riferimento  alle  stesse
condizioni di tempo,  di  luogo  e  di  persona,  e  cio'  ha  fatto,
peraltro,  in  relazione  a   una   fattispecie   ove,   all'evidenza
inequivocabilmente, l'idem factum era anche  l'idem  legale,  essendo
contestata la medesima disposizione incriminatrice (art.  648  c.p.),
nella forma concorsuale, nel primo  processo  e  monosoggettiva,  nel
secondo processo. 
    Con la coeva pronuncia n. 10180/2005, la IV Sezione  della  Corte
di  cassazione  dimostrava  di  condividere  la  (nuova)   concezione
storico-naturalistica di «medesimo fatto», salvo ricadere, al momento
di decidere la  fattispecie  concreta,  nel  recupero  dei  risalenti
concetti legati alla «struttura del reato»: «... la  preclusione  cui
all'art. 649 c.p.p. non puo' essere invocata in  caso  si.  configuri
un'ipotesi di concorso formale di reati, quanto la  fattispecie  puo'
essere riesaminata sotto il profilo  di  una  diversa  violazione  di
legge derivante dallo stesso finto con il solo limite che nel diverso
giudizio non sia stata dichiarata  l'insussistenza  del  fatto  o  la
mancata commissione di esso da parte dell'imputato. 
    Invero, poiche' all'unicita' di un determinato fatto storico puo'
far riscontro una pluralita' di eventi giuridici (come  si  verifica,
appunto, nell'ipotesi di concorso formale  di  reati),  il  giudicato
formatosi  con  riguardo  ad  uno  di  tali  eventi   non   impedisce
l'esercizio dell'azione penale  in  relazione  ad  un  altro  (inteso
sempre in  senso  giuridico)  pur  scaturito  da  un'unica  condotta,
considerato che il «fatto» di cui all'art. 649, primo comma,  c.p.p.,
si  identifica  nell'elemento  materiale  del  reato  costituito   da
condotta, nesso causale ed evento non puo' dirsi violato il principio
del ne bis in idem qualora soggetto venga sottoposto a nuovo processo
perche' il nuovo procedimento per il reato in concorso formale ha per
oggetto  non  il  medesimo  fatto,  ma  quella  parte  di  fatto  non
contemplato dalla prima norma incriminatrice applicata, rappresentata
dal diverso evento» (...). 
    In definitiva, il principio del ne bis in idem di cui  al  citato
art. 649 c.p.p. impedisce al giudice di procedere  contro  la  stessa
persona per il medesimo fatto su cui si e' formato il  giudicato,  ma
non di prendere in esame lo stesso fatto storico e  di  valutarlo  in
riferimento a diverso reato che sia (come si  da'  nel  caso  qui  in
esame) compatibile con quello gia' giudicato), potendo e  dovendo  la
vicenda  criminosa  essere  valutata  alla  luce  di  tutte  le   sue
implicazioni penalistiche col possibile riesame  in  direzione  delle
ipotesi delittuose rimaste estranee al giudizio precedente». 
    Analogo  percorso  si  puo'  agevolmente  notare  nelle   recenti
pronunce della II Sezione della Suprema  Corte,  n.  18376/2013  imp.
Cuffaro e n.  52645/2014  imp.  Montalbano:  con  esse  la  Corte  ha
affermato che la preclusione sancita dall'art. 649 c.p.p. opera  solo
in caso di «corrispondenza biunivoca» fra gli  «elementi  costitutivi
dei  reati»  descritti  nelle  rispettive  contestazioni,  che  vanno
valutate anche con riferimento alle circostanze di tempo, di luogo  e
di persona. 
    In particolare, con la sentenza n. 18376/13 la Suprema  Corte  ha
affermato che: «fatto» giudicato va considerato  non  solo  sotto  il
profilo della sua materialita' storica ma anche con riferimento  alla
ritenuta «qualificazione giuridica» conferitagli nel giudizio, con la
conseguenza che anche quest'ultima e' oggetto  di  «giudicato»;  tale
considerazione e'  il  necessario  corollario  derivante  dall'ultima
parte dell'art. 649 c.p., comma 1, ove e' prevista la preclusione del
«ne bis in idem» quando il medesimo fatto sia oggetto di  un  secondo
giudizio per un «diverso» titolo. 
    L'ovvia conclusione alla quale si perviene che la preclusione  ex
art. 649  c.p.p.,  ricorre  ogni  qualvolta  il  «fatto»  oggetto  di
contestazione  sostanziale  (comprensivo  di   tutti   gli   elementi
strutturali del reato: condotta evento, nesso causale, circostanze di
tempo e di luogo), nei  due  diversi  procedimenti  penali,  promossi
contro la stessa persona, presenta caratteri di  identita'  nei  suoi
elementi costitutivi, si'  che,  indipendentemente  dal  nomen  iuris
attribuito,  i  contenuti  delle  due  diverse   contestazioni   sono
pienamente sovrapponibili». 
    Richiamando i propri numerosi  precedenti,  con  la  sentenza  n.
50310/2014 la Suprema Corte ha espressamente affermato che:  «...  la
preclusione del "ne bis in idem" non  opera  ove  tra  i  fatti  gia'
irrevocabilmente  giudicati  e  quelli  ancora   da   giudicare   sia
configurabile un'ipotesi di "concorso formale di reati",  potendo  in
tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di
una diversa violazione di legge, e tuttavia facendo  salva  l'ipotesi
in cui nel primo giudizio sia stata  dichiarata  l'insussistenza  del
fatto o la mancata commissione di esso da parte  dell'imputato  (Sez.
3, n. 25141 del 15 aprile  2009,  Ferrarelli,  Rv.  243908),  facendo
cioe' salvo il caso in cui vi sia una inconciliabilita' logica tra il
fatto gia' giudicato e quello da giudicare sul rilievo  che  l'evento
giuridico considerato successivamente sia  incompatibile  con  quanto
deciso in seguito al  procedimento  vertente  sul  reato  formalmente
concorrente con quello poi preso in esame (Sez.  1,  n.  7262  dell'8
aprile 1999, Carta, Rv. 213709)». 
    Anche  la  successiva  pronuncia   n.   52645/2014   ha   escluso
l'applicazione dell'art. 649 c.p.p. nelle ipotesi di concorso formale
di reati, nei seguenti termini: 
        «Per affrontare adeguatamente la questione  proposta  occorre
soffermarsi sulla nozione di "medesimo fatto" contenuta nell'art. 649
cod.  proc.  pen.  e  nelle  fonti  internazionali  citate,  concetto
delimitante l'ambito entro il quale opera il divieto  di  un  secondo
giudizio. Tradizionalmente, anche sotto la vigenza del vecchio codice
di   rito   del   1930,   si   era   affermato   che   il   principio
dell'inammissibilita'  di  un   secondo   giudizio   doveva   trovare
applicazione esclusivamente nel caso in  cui  l'identita'  del  fatto
concernesse l'intera materialita' del reato nei  suoi  tre  elementi,
della condotta, dell'evento e del nesso  di  causalita'  (sez.  2  n.
13447 del 27/4/1989, Rv. 182236); il principio e' stato costantemente
riaffermato successivamente all'entrata  in  vigore  del  codice  del
1988, ribadendosi che la preclusione del ne bis in idem sussiste solo
se si verte in ordine ad un unico fatto il quale dia origine  ad  una
pluralita' di procedimenti penali e che, per verificare se  il  fatto
in esame sia il medesimo, nei diversi procedimenti, occorre accertare
se vi sia coincidenza degli elementi costitutivi  del  fatto  stesso,
identificabili nella condotta dell'evento e nel nesso  di  causalita'
(...). 
    Certo il divieto di un secondo giudizio di cui all'art. 649  cod.
proc. pen. si riferisce al fatto storico, considerato da un punto  di
vista fattuale e giuridico, sul quale si e' formato  il  giudicato  e
non al fatto come  e'  stato  giuridicamente  configurato  nel  primo
giudizio nei suoi elementi non essenziali (...). 
    La giurisprudenza, quindi, e' pervenuta ad una concezione storico
naturalistica dell'idem factum, in base  alla  quale  la  preclusione
prevista dall'art. 649 cod. proc. pen. opera nella  sola  ipotesi  in
cui vi sia, nelle imputazioni formulate nei due  diversi  processi  a
carico  della  stessa  persona,  corrispondenza  biunivoca  fra   gli
elementi   costitutivi   dei   reati   descritti   nelle   rispettive
contestazioni, da considerarsi anche con riferimento alle circostanze
di tempo, di luogo e di persona (sez. 5 n. 28548 del 1° luglio  2010,
Rv. 247895). 
    (...) 
    Piuttosto nel caso di specie siano  in  presenza  di  un'evidente
ipotesi di concorso di reati (...). 
    Del resto  questa  Corte  ha  avuto  modo  di  precisare  che  la
preclusione  di  cui  all'art.  649  cod.proc.pen.  non  puo'  essere
invocata qualora il fatto, in relazione al quale sia gia' intervenuta
una sentenza irrevocabile configuri un'ipotesi di concorso formale di
reati, in quanto la condotta, gia'  definitivamente  valutata  in  un
precedente giudizio penale, puo' essere riconsiderata  come  elemento
di fatto ed inquadrata, con valutazione diversa ed anche alternativa,
in una piu' ampia fattispecie incriminatrice (sez. 3 n. 25141 del  15
aprile 2009, Rv. 243908; sez. 6 n.  1157  del  9  ottobre  2007,  Rv.
238442). 
    (...) 
    In conclusione sul punto,  ribadendo  quanto  gia'  affermato  da
questa Corte (sez. 2 n. 51127 del 28 novembre 2013, Rv. 258222;  sez.
1 n. 12943 del 29 gennaio 2014, Rv. 260133), il principio del ne  bis
in idem impedisce al giudice di procedere contro  la  stessa  persona
per il medesimo fatto su cui si e' formato il giudicato,  ma  non  di
prendere in esame la stessa condotta gia'  definitivamente  valutata,
in riferimento ad una piu' ampia fattispecie incriminatrice». 
    La   sovrapposizione   del   criterio   astratto   sul   criterio
storico-naturalistico  e'  apprezzabile  anche  nella  pronuncia   n.
52215/2014, con la quale la V Sezione della Corte  di  Cassazione  ha
sancito che due processi hanno ad un oggetto il «medesimo fatto»; 
    «allorche' vi sia una coincidenza  dell'intera  materialita'  del
reato nei suoi tre elementi: condotta evento, nesso causale (C.  Sez.
2, 18.1.2005, Rv. 230791; C. Sez. 3, n. 11603 dell'11 novembre  1993,
Rv 196068. Nel  vigore  del  vecchio  codice:  Cass.,  n.  11561  del
7/5/1982, Rv. 156448). Specificatamente, e'  stato  rilevato  che  la
locuzione «medesimo fatto» va intesa come  coincidenza  di  tutte  le
componenti  della  fattispecie  concreta  onde  tale  espressione  fa
riferimento alla «identita' storico-naturalistica del reato, in tutti
i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta,  nell'evento
e nel rapporto di causalita' in riferimento alle stesse condizioni di
tempo, di luogo e di persona» (C.S.U., 28 giugno  2005,  Rv.  231799;
(Sez. 5, 1.7.2010, Rv 247895; (Sez. 2, n. 26251 del 27  maggio  2010;
C. Sez. 5, 11.12.2008, Rv. 243330)». 
    Nonostante il richiamo ai  criteri  ermeneutici  elaborati  dalla
Corte europea, nell'ordinamento italiano l'applicazione dell'art. 649
c.p.p.  e',  in  realta',  costantemente  guidata  da   criteri   che
analizzano il fatto storico alla  luce  della  fattispecie  astratta,
cioe' proiettando  sull'episodio  storico  le  categorie  del  «fatto
giuridico»,   scomposto   nei   suoi   «elementi   costitutivi»;   di
conseguenza, la norma applicata e' confliggente con la norma  che  la
Corte europea ha elaborato in relazione  all'art.  4  Prot.  7  della
CEDU, che adotta in via esclusiva il criterio storico-naturalistico e
che ormai ha assunto i  connotati  del  «diritto  consolidato»  (cfr.
sentenza Corte Cost. 49/2015). 
    4) In sede europea, infatti, a  partire  dalla  nota  pronunciata
della Grande Camera nella causa Serguei  Zolotukhine  c.  Russia,  n.
14939/03 del 10 febbraio 2009, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
ha reiteratamente affermato che la preclusione prevista  dall'art.  4
Prot. 7 CEDU scatta allorche' il  secondo  processo  sia  fondato  su
«fatti identici» o «fatti sostanzialmente uguali» rispetto  a  quelli
che  gia'  furono  oggetto  del  processo  conclusioni  con  condanna
divenuta definitiva. 
    Con la suindicata pronuncia  la  Corte  ha  dato  atto  di  avere
assunto,  in  passato,  approcci  diversi,   ponendo   l'enfasi   ora
sull'identita' dei fatti, ora sull'esistenza di  elementi  essenziali
comuni a differenti reati e, ritenendo  che  la  diversita'  di  tali
approcci generi un'insicurezza giuridica incompatibile con il diritto
fondamentale sancito dall'art.  4  Prot.  7,  ha  ritenuto  opportuno
fornire una chiara definizione di cosa  debba  intendersi  per  «same
offence» ai fini della Convenzione. 
    La Corte europea ha statuito: 
        1) «... L'art. 4 del Protocollo n. 7 debba essere inteso come
divieto di perseguire e giudicare una persona per  un  secondo  reato
quando  all'origine  di  questo  vi  siano  fatti  identici  o  fatti
«sostanzialmente» uguali a quelli all'origine del primo reato. Questa
garanzia entra in gioco in caso di avvio di un nuovo  procedimento  e
di avvenuto passaggio  in  giudicato  della  precedente  sentenza  di
assoluzione o condanna...»; 
        2) «... l'art. 4 del Protocollo n. 7 racchiude  tre  garanzie
diverse  e  dispone  che  nessuno  i.  puo'  essere  perseguito,  ii.
giudicato o iii. punito due volte per gli stessi fatti...». 
    [traduzione in bollettino n. 116/2009  della  corte  europea  dei
diritti dell'uomo]. 
    Dall'opzione ermeneutica adottata con  suindicata  pronuncia,  la
Corte europea non si e' piu' discosta. 
    Nella sentenza  Grande  Stevens  c.  Italia  del  4  marzo  2014,
pronunciata  con  riferimento  alla  materia  tributaria,  la   Corte
europea, nuovamente richiamato la precedente pronuncia  della  Grande
Camera, Serguei Zolotoukhine c. Russia, ha ulteriormente precisato  i
confini dell'ambito di applicazione del principio  sancendo  che,  ai
fini dell'accertamento della sussistenza del  bis  in  idem,  non  si
tratta  di  verificare  se  vi  sia  coincidenza  tra  gli  «elementi
costitutivi degli illeciti», ma se vi  sia  sovrapponibilita'  tra  i
fatti  oggetto,  rispettivamente,  della  prima   e   della   seconda
contestazione, perche' riconducibili alla «medesima condotta». 
    Il caso  sottoposto  all'esame  della  Corte  era  originato  del
ricorso proposto da  Grande  Stevens  e  altri,  che  lamentavano  la
violazione, tra l'altro, del principio del ne bis  in  idem,  essendo
stati sottoposti, per il medesimo fatto, a  procedimento  e  sanzione
amministrativa  da  parte  della  CONSOB   (art.   187-ter,   decreto
legislativo n. 58 del 1998)  e,  successivamente,  a  procedimento  e
sanzione  penale  (art.  185  punto  1,  stesso  decreto);   le   due
disposizioni avevano ad oggetto la stessa condotta (la «diffusione di
informazioni  false»)  e  perseguivano  lo  stesso   scopo   (evitare
manipolazioni del mercato), ma differivano quanto alla situazione  di
pericolo che si presumeva fosse stata generata da tale condotta:  per
l'art. 187-ter del decreto legislativo citato, e'  sufficiente  avere
fornito indicazioni false  o  fuorvianti  in  merito  agli  strumenti
finanziari, mentre l'art. 185 del medesimo decreto richiede che  tali
informazioni siano tali da provocare una  sensibile  alterazione  del
prezzo degli strumenti in questione. 
    Dopo aver spiegato i motivi per cui  la  sanzione  amministrativa
dovesse  ritenersi,  in  realta',  sanzione  penale,  con   specifico
riferimento ai criteri di individuazione di una situazione di «bis in
idem», la Corte ha affermato a chiare lettere: 
        «... dai principi enunciati nella causa Sergueï  Zolotoukhine
sopra citata risulta che la questione da definire non  e'  quella  di
stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti  previsti  dagli
articoli 187-ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998
siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai  ricorrenti  dinanzi
alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali  fossero  riconducibili  alla
stessa condotta. 
    225.  Dinanzi  alla  CONSOB,   i   ricorrenti   erano   accusati,
sostanzialmente, di aver menzionato  nei  comunicati  stampa  del  24
agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di  equity  swap
con la Merrill Lynch International  Ltd  mentre  tale  progetto  gia'
esisteva  e  si  trovava  in  una  fase  di  realizzazione   avanzata
(paragrafi  20  e  21  supra).  Successivamente,  essi   sono   stati
condannati per tale fatto dalla CONSOB e  dalla  corte  d'appello  di
Torino (paragrafi 27 e 35 supra). 
    226. Dinanzi  ai  giudici  penali,  gli  interessati  sono  stati
accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati,  che  la  Exor
non aveva ne' avviato ne' messo a punto iniziative con riguardo  alla
scadenza  del  contratto  di  finanziamento,  mentre  l'accordo   che
modificava  l'equity  swap  era  gia'  stato  esaminato  e  concluso,
informazione che sarebbe stata tenuta nascosta allo scopo di  evitare
un probabile crollo  del  prezzo  delle  azioni  FIAT  (paragrafo  40
supra). 
    227. Secondo la Corte, si  tratta  chiaramente  di  una  unica  e
stessa condotta da parte  delle  stesse  persone  alla  stessa  data.
Peraltro la stessa corte d'appello di Torino, nelle sentenze  del  23
gennaio 2008, ha ammesso che gli articoli 187-ter e 185 punto  1  del
decreto legislativo n. 58 del  1998  avevano  ad  oggetto  la  stessa
condotta, ossia la diffusione di  false  informazioni  (paragrafo  34
supra). Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un  secondo
«illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la
prima condanna definitiva. 
    228. Questa constatazione e' sufficiente per concludere che vi e'
stata violazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7». 
    La  Corte  europea,  superata  la  questione  della  natura  solo
apparentemente amministrativa del primo processo, ha  riaffermato  la
necessita' di ancorare il giudizio sul bis in idem alla verifica  «in
concreto» e non al confronto tra fattispecie «in estratto». 
    Nella causa Lucky Dev c. Svezia  conclusa  con  sentenza  del  27
novembre 2014, la Corte  europea,  risolto  il  problema  preliminare
relativo alla natura sostanziale penale della sanzione amministrativa
comminata alla ricorrente per evasione  dell'IVA,  ha  affrontato  la
questione relativa alla  violazione  dell'art.  4  Prot.  7  CEDU  e,
richiamato la precedente pronuncia della Grande  Camera  nella  causa
Sergy Zolotukhin c. Russia, ha affermato che il credito discretivo da
applicare ai fini del vaglio del rispetto del principio del ne bis in
idem e'  la  «sostanziale  identita'  dei  fatti  contestati»,  avuto
riguardo alla «inestricabilita'  nel  tempo  e  nello  spazio»  delle
«concrete  circostanze»  che  coinvolgono   il   medesimo   imputato,
sottoposto a secondo procedimento penale (paragrafo  58),  quando  il
primo e' gia' concluso con pronuncia irrevocabile (paragrafo 56): 
    «52. ... It considered that  an  approach  which  emphasised  the
legal  characterisation  of  the  offences  in   question   was   too
restrictive on the rights of the individual  and  risked  undermining
the guarantee enshrined in that provision. Accordingly, it  took  the
view that Article 4 of  Protocol  No.  7  had  to  be  understood  as
prohibiting the prosecution or trial of a second "offence" in so  far
as it arises from identical facts or facts  which  are  substantially
the same. The Court's inquiry should therefore focus on  those  facts
which constitute a set of concrete  factual  circumstances  involving
the same defendant and which are inextricably linked together in time
and space, the existence of which must be demonstrated  in  order  to
secure a conviction or institute criminal proceedings». 
    Il principio elaborato dalla Grande Camera e' nuovamente posto  a
fondamento della decisione della  causa  Rinas  c.  Finlandia;  nella
sentenza del 27 gennaio 2015, la Corte europea,  dopo  aver  ribadito
che presupposto indefettibile di una situazione riconducibile al c.d.
bis in idem e' l'irrevocabilita' della pronuncia che ha  concluso  il
primo processo penale (paragrafi 50-51), non essendo in se' vietati i
«procedimenti  paralleli»  -  purche'  alla  definitiva   conclusione
dell'uno faccia seguito il venir meno dell'altro - (paragrafo 52), la
Corte riafferma: 
        «44. (...) In the Zolotukhin case the Court thus  found  that
an approach which emphasised the legal characterisation  of  the  two
offences was too restrictive on the individual. If the Court  limited
itself to finding that a person was prosecuted for offences having  a
different legal classification, it risked undermining  the  guarantee
enshrined in Article 4 of Protocol No. 7  rather  than  rendering  it
practical and effective as required by the  Convention.  Accordingly,
the Court look the view that Article 4 of Protocol No. 7  had  to  be
understood as prohibiting  the  prosecution  or  trial  of  a  second
"offence" in so far as it arose from identical facts or  facts  vhich
were substantially the same. It was therefore importunt to  focus  on
those facts which constituted a set of concrete factual circumnstaces
involvin the same defendant and inextricably linked together in  time
and space, the existence of which had to be demonstrated in order  to
secure a conviction or institute criminal proceedings". 
    Le medesime affermazioni si leggono, letterali, al  paragrafo  33
della sentenza  del  17/2/2015,  pronunciata  nella  causa  Boman  c.
Finlandia; al paragrafo 52 della sentenza del 20/5/2014, pronunciata:
nella causa Glantz c. Finlandia; al paragrafo 41 della  sentenza  del
20/5/2014, pronunciata nella causa Ilakka c. Finlandia; al  paragrafo
42 della sentenza del 20/5/2014, pronunciata nella causa  Nykanen  c.
Finlandia; al paragrafo 49 della sentenza del 20/5/2014,  pronunciata
nella causa Pirttimaki c. Finlandia. 
    Non si registrano pronunce difformi. 
    Infine, nella recente sentenza  23/6/2015  pronunciata  in  causa
Butnaru et Bejan-Piser c. Romania, la Corte ha  ripercorso  i  propri
pronunciamenti in materia di bis in idem, per riaffermare  con  forza
il principio enunciato dalla Grande Camera,  ulteriormente  chiarendo
che l'efficacia interdittiva dell'art. 4 prot. 7 si  estende  sino  a
precludere, a monte, l'instaurazione di un secondo processo  e,  solo
come conseguenza ulteriore, la pronuncia di una seconda sentenza. 
    I ricorrenti lamentavano di essere stati giudicati due volte  per
i medesimi fatti: la prima, per percosse e lesioni, la  seconda,  per
rapina; la Corte ha concluso per la violazione dell'art.  4  prot.  7
CEDU in quanto la seconda contestazione era originata dalla  medesima
condotta  che  aveva  originato  la  prima  e  la  condotta  violenta
integrava tanto l'intero substrato fattuale della  prima  imputazione
quanto una componente essenziale della seconda (paragrafo 42). 
    In particolare, la Corte ha riaffermato i seguenti principi: 
    una persona non  puo'  essere  processata  due  volte  per  fatti
identici o che sono sostanzialmente i medesimi (paragrafo 31); 
    l'art. 4 prot. 7 costituisce una garanzia non solo a  non  essere
"condannati" due volte, ma anche a non essere "processati" due  volte
(paragrafi 33 e 45); 
    per valutare se vi sia bis in idem, non si  deve  avere  riguardo
agli elementi costitutivi delle fattispecie oggetto di  addebito,  ma
occorre valutare gli  accadimenti,  cioe'  l'insieme  di  circostanze
fattuali  inscindibilmente  legate  tra  di  loro,  cosi'  come  esse
appaiono circostanziate, nello spazio e nel tempo, la  cui  esistenza
deve  essere  dimostrata  al  fine  di   pervenire   alla   decisione
(paragraffi 34), originate dal medesimo comportamento (paragrafo 36); 
    se  fatti  sono  "essenzialmente  i  medesimi",  e'   irrilevante
l'eventualita' che i due procedimenti abbiano  ad  oggetto  "elementi
parzialmente differenti" (paragrafo 38); 
    l'art. 4  prot.  7  non  preclude  la  celebrazione  di  processi
"paralleli", ma vieta di procedere con secondo processo penale quando
il primo sia concluso con pronuncia definitiva (paragrafo 47). 
    Quanto  sinteticamente  esposto  attesta   che   e'   consolidato
l'orientamento con il quale, a partire dalla pronuncia  della  Grande
Camera Zolotukhin c. Russia, la Corte europea ha definito i  contorni
dell'ambito applicativo del principio del  ne  bis  in  idem  sancito
dall'art. 4 prot. 7 CEDU. 
    I criteri, elaborati dalla Corte in settori dell'ordinamento  ove
e' previsto il c.d. doppio binario sanzionatorio, non paiono  potersi
limitare ai soli casi di cumulo di sanzioni amministrative e sanzioni
penali perche', una volta "riqualificata" la natura della sanzione  e
del procedimento  che  l'ha  originata,  trovandosi  di  fronte  alla
duplicazione di procedimenti e relative  sanzioni  penali,  la  Corte
europea  ha  affrontato  l'ulteriore  -  principale  -  aspetto,   di
carattere generale, del criterio da utilizzare per stabilire cosa  si
debba intendere per "idem", ancorandolo al nucleo fattuale  del  caso
giudicato. 
    In  tal  modo,  l'ambito  di   applicazione   dello   sbarramento
costituito dal divieto di doppio processo e', nella  CEDU,  ben  piu'
ampio  rispetto  a  quello  riservato  al  medesimo  nell'ordinamento
italiano e deve trovare applicazione, a  maggior  ragione,  in  casi,
come quello in esame, in cui i procedimenti siano, sin  dall'origine,
qualificati come "penali". 
    L'art. 649 c.p.p., dunque, si pone  in  contrasto  con  l'art.  4
prot. 7 della CEDU come interpretato dalla  Corte  di  Strasburgo,  e
conseguentemente con l'art. 117 comma 1 Cost.,  nella  parte  in  cui
limita l'applicazione del principio del ne bis in idem  all'esistenza
del medesimo "fatto giuridico" nei suoi elementi costitutivi, sebbene
diversamente  qualificato,  invece  che  all'esistenza  del  medesimo
"Patto storico" cosi  come  delineato  dalla  Corte  europea  con  un
orientamento consolidato di cui, pertanto, il giudice nazionale  deve
tenere conto, nei limiti in cui non  contrasti  con  la  Costituzione
(cfr. sentenza Corte Cost. 49/2015). 
    Tale contrasto non sussiste. 
    Invero, non solo non si rilevano profili di incompatibilita'  tra
l'applicazione dell'art. 4 prot. 7 CEDU e  la  Costituzione  italiana
ma, addirittura, la nozione di bis  in  idem  elaborata  dalla  Corte
europea garantisce piena attuazione alla ratio  del  principio  della
"ragionevole durata del processo", enunciato dall'art. 111, comma  2,
ultimo periodo, Cost. 
    L'indicata disposizione, infatti, nel  fornire  un  indirizzo  al
legislatore processuale,  collega  in  modo  esplicito  il  carattere
"giusto" del processo alla sua "definizione in tempi ragionevoli"  e,
dunque, fonda il diritto dell'indagato/imputato a non mantenere  tali
qualifiche,  per  il  medesimo  fatto  illecito,   oltre   il   tempo
"ragionevolmente" necessario a definire il processo. 
    Letteralmente la norma costituzionale si  riferisce  alla  durata
del singolo processo. 
    Tuttavia, la ratio che la sottende non puo' non comprendere anche
l'affermazione del diritto a non indossare, senza limiti di tempo, la
veste di "processato", sebbene per effetto  di  successivi  processi,
ciascuno - eventualmente - di "ragionevole durata", celebrati per  il
medesimo fatto. 
    La preclusione posta a che un soggetto possa  subire  un  secondo
processo per il medesimo fatto storico e',  in  ultima  analisi,  una
forma di garanzia contro  la  possibilita'  che  vi  sia  un  "eterno
giudicabile", sottoposto a diversi e successivi processi in relazione
a tutte e ciascuna delle diverse prospettive  da  cui  si  guardi  il
medesimo episodio storico. 
    L'applicazione  dell'art.  4  prot.   7   CEDU,   nell'assicurare
all'autore dei fatti che, una volta  processato,  non  dovra'  temere
nuovi processi per il medesimo fatto storico, si pone come baluardo a
che il ruolo di  "imputato"  possa  protrarsi  oltre  la  ragionevole
durata del (primo) processo, dimostrandosi conforme al dettato e alla
ratio dell'art. 111, comma 2, seconda parte, Cost. 
    5) Emerge quindi l'evidente  contrasto  tra  il  diritto  vivente
interno, da un lato, e i  parametri,  costituzionale  e  comunitario,
dall'altro. 
    Questo giudice ritiene che il contrasto non  sia  superabile  per
via interpretativa e, in particolare, che  non  si  possano  adottare
interpretazioni alternative dell'art. 649 c.p.p. compatibili  con  la
CEDU. 
    E' noto che il giudice deve percorrere la strada della  questione
di  costituzionalita'  solo  dopo  aver  verificato,  vanamente,   la
possibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto
dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia  con
la Costituzione: "Quando, infatti, il dubbio di compatibilita' con  i
principi   costituzionali   cada   su   una   norma   ricavata    per
interpretazione da un testo di legge e' indispensabile che il giudice
a quo prospetti  a  questa  Corte  l'impossibilita'  di  una  lettura
adeguata ai detti principi; oppure che  lamenti  l'esistenza  di  una
costante lettura della disposizione  denunziata  in  senso  contrario
alla Costituzione (cosiddetta norma vivente) (...)  Solo  allorquando
il giudice ritenga - come si e' rilevato - che  nella  giurisprudenza
si sia consolidata una reiterata, prevalente e costante lettura della
disposizione, e' consentito richiedere l'intervento di  questa  Corte
affinche' controlli la compatibilita' dell'indirizzo consolidato  con
i principi costituzionali" (sentenza Corte Cost. n. 456 del 1989). 
    Ancora  di  recente  e  con  specifico   riferimento   all'ambito
comunitario, la Corte costituzionale ha  rammentato  che  compete  al
giudice nazionale assegnare alla disposizione interna un  significato
quanto piu' aderente alla dimensione ermeneutica che la Corte euronea
adotta in modo costante e  consolidato;  cio',  pero',  alla  duplice
condizione  che  l'interpretazione  conforme  alla   CEDU   non   sia
incompatibile con la Costituzione e che  non  si  riveli  «del  tutto
eccentrica»  rispetto  alla  lettera  della  legge   (cfr.   sentenza
49/2015). 
    La Suprema Corte, legando il concetto di «fatto» ad  elementi  di
natura  strettamente  giuridica  («condotta-evento-nesso  di  causa»)
compie  un'operazione  ermeneutica  che,  pur   se   non   incentrata
esclusivamente  sul  confronto  tra  fattispecie  astratte,   finisce
inevitabilmente per sovrapporre al fatto-storico  i  concetti  propri
della descrizione del «tipo» legale. 
    E laddove, come nel caso di  specie,  il  testo  legislativo  sia
«ingessato» entro un diritto  vivente  di  dubbia  costituzionalita',
dovra' essere preferita la strada della proposizione della  questione
di legittimita' della  norma  vivente  piuttosto  che  la  strada  di
un'isolata -eccentrica- interpretazione adeguatrice, suscettibile  di
un ben prevedibile «capovolgimento» nei gradi di giudizio successivi. 
    6) A fronte di quanto detto, in  via  interpretativa  l'art.  649
c.p.p.  non  consente  di  ritenere  sussistenti  i  presupposti  del
principio del ne bis in idem in casi, come quello in esame, ove: 
        a) il fatto materiale contestato  nell'odierno  processo  e',
sotto il profilo storico-naturalistico, indubbiamente il medesimo  di
quello gia' oggetto della sentenza divenuta irrevocabile, in quanto: 
    sono identiche le cariche rivestite dall'imputato  in  seno  alle
societa' del gruppo Eternit; 
    sono identici  gli  stabilimenti  interessati  dalla  lavorazione
dell'amianto; 
    sono identici i profili di responsabilita' gestionale all'interno
degli stabilimenti; 
    sono sovrapponibili le condotte omissive addebitate all'imputato:
il contenuto della condotta omissiva in allora ascritta a Schmidheiny
ex art. 437 c.p. e' confluita nell'attuale contestazione sub  lettera
G), numeri 1) e 2); il contenuto della condotta  omissiva  in  allora
ascritta a Schmidheiny ex art. 434 c.p. e' confluita, con riferimento
all'attivita'  produttiva  interna  agli  stabilimenti,  nell'attuale
contestazione sub lettera G), numeri da 1) a 4); con riferimento alle
aree  esterne  agli  stabilimenti,  nell'attuale  contestazione   sub
lettera G), numero 5); con riferimento alle  abitazioni  private  dei
lavoratori, nell'attuale contestazione sub lettera G), numero 6); 
    186 delle attuali 258 vittime figuravano gia' nel primo  processo
come   soggetti   deceduti   in   conseguenza    del    comportamento
dell'imputato; 
    le sentenze pronunciate nei tre gradi di giudizio nel  proc.  pen
RG NR 24265/04 contengono  passaggi  argomentativi  e  valutativi  di
aspetti della condotta che sono confluiti nelle  odierne  imputazioni
(cfr. es. pag. 579 sentenza Corte d'Appello e lettere A), B), C),  D)
dell'odierno capo d'imputazione), sicche' vi sarebbe coincidenza  tra
il fatto giudicato con sentenza definitiva e  la  res  judicanda  non
solo  ponendosi   nella   visuale   della   «contestazione   formale»
dell'accusa ma anche nella diversa  prospettiva  della  «progressione
della vicenda processuale» (Cass. 52645/14; Cass. 18376/13); 
    l'esame  che  fu  operato  in  seno  al  primo  processo   copri'
indubbiamente  anche  la  verifica   (con   esito   positivo)   della
sussistenza  del  nesso  di  causa  tra  la  condotta   omissiva   di
Schmidheiny e i decessi di operai  addetti  agli  stabilimenti  e  di
cittadini delle aree limitrofe: prova ne e' il fatto  che  in  quella
sede fu ammessa la costituzione di parte  civile  dei  parenti  delle
vittime e fu liquidato in loro favore il risarcimento dei danni; 
        b) e, tuttavia, il vaglio  della  vicenda  criminosa  secondo
«tutte le sue implicazioni penalistiche», col possibile  «riesame  in
direzione delle  ipotesi  delittuose  rimaste  estranee  al  giudizio
precedente» (cfr. Giurisprudenza citata al paragrafo 3), impedisce di
ritenere esaurito, con la conclusione del  primo  processo,  siffatto
tipo di valutazione: tra i due gruppi di disposizioni penali (oggi  e
in allora) contestate  vi  sono,  infatti,  indubbie  differenze  che
riguardano il «tipo legale» e, precisamente: 
    la «struttura» del reato: nel proc. pen. RG  NR  24265/04,  erano
contestati a Schimidheiny due reati «di pericolo»; nel  processo  ora
pendente, sono contestati all'imputato reati «di evento»; 
    per conseguenza, il  differente  «ruolo»  del  -medesimo-  evento
morte all'interno della fattispecie: evento  aggravatore,  quanto  ai
reati previsti dagli artt. 434 e 437  c.p.,  il  cui  realizzarsi  e'
meramente eventuale; elemento costitutivo della  fattispecie  tipica,
quanto al delitto previsto dall'art. 575 c.p.: 
    i beni giuridici tutelati: incolumita' pubblica quanto ai delitti
previsti dagli artt. 434 e 437 c.p.; vita quanto al delitto  previsto
dall'art. 575 c.p. 
    Per quanto da ultimo evidenziato ed alla luce di quanto esaminato
al paragrafo 3, l'art. 649 c.p.p. non consente  di  ritenere  che  il
processo oggi pendente abbia ad oggetto  i  «medesimi  fatti»  per  i
quali Schmidheiny e' gia' stato processato, sia  con  riferimento  ai
decessi gia' ricompresi nel precedente procedimento  sia,  a  maggior
ragione, per quelli in allora non presi  in  considerazione,  secondo
una valutazione  irriducibilmente  difforme  da  quella  operata  dal
Giudice comunitario. 
    7) La questione  che  si  sottopone  la  vaglio  della  Corte  e'
rilevante nel processo pendente a carico di Schmidheiny,  atteso  che
l'accoglimento della questione determinerebbe  un  ampliamento  della
portata dell'art. 649 c.p.p. tale da ricomprendere anche  fattispecie
in cui si e' certamente in presenza dell'idem factum ma non dell'idem
legale, qual e' quella oggetto del processo pendente avanti a  questo
giudice; il che costituirebbe il presupposto per la  declaratoria  di
una sentenza ex art. 425 c.p.p.,  come  richiesto  dai  difensori  di
Schmidheiny, eventualmente parziale e, cioe', limitata  agli  omicidi
le cui vittime gia'  figuravano  nel  primo  processo  quali  persone
decedute. 
    8) La questione e' altresi' non manifestamente infondata. 
    E' evidente il contrasto che si e' formato tra i due ordinamenti,
nazionale ed europeo, il primo dei quali tuttora fortemente  ancorato
a criteri che non apprezzano in via esclusiva il fatto storico e che,
pertanto, e' dissonante con l'orientamento  consolidato  della  Corte
europea  che,  invece,  affronta  la  valutazione  del  bis  in  idem
utilizzando in via esclusiva il criterio del raffronto  tra  i  fatti
storico-naturalistici oggetto dei due processi. 
    Il contrasto non puo' essere sanato in via interpretativa. 
    Infatti,  alla  Corte  di  Cassazione  e'  affidata  la  funzione
nomofilattica  con  il  connesso   compito   di   fornire   indirizzi
interpretativi «uniformi», proprio al fine di garantire,  nei  limiti
del possibile, l'unita' dell'ordinamento, attraverso  l'uniformazione
della giurisprudenza. 
    Sull'art. 649 c.p.p. l'interpretazione  della  Suprema  Corte  e'
consolidata tanto da assumere valenza di significato obiettivo  della
disposizione, si' da concretizzare la nozione di «diritto vivente». 
    Pertanto, il giudice nazionale che se ne discostasse per accedere
all'interpretazione, convenzionalmente orientata, affermatasi  avanti
alla Corte europea, finirebbe per assegnare alla disposizione interna
un significato «del tutto eccentrico» rispetto alla sua lettera  e  a
come essa «vive» nell'ordinamento,  compiendo  un'operazione  che  la
stessa Corte costituzionale ha censurato (cfr. sentenza n. 49/2015). 
    D'altra parte, per il tramite dell'art. 117 Cost., le norme della
CEDU si collocano, nella gerarchia delle fonti, tra la Costituzione e
la legge ordinaria, come fonti convenzionali interposte, integratrici
del parametro costituzionale: con le sentenze n. 348 e 349  del  2007
la Corte costituzionale ha precisato che le disposizioni della  CEDU,
nell'interpretazione che ad esse attribuisce la  Corte  europea,  non
sono direttamente applicabili negli Stati contraenti ma integrano uno
degli  obblighi  internazionali  cui   si   riferisce   il   precetto
costituzionale;  pertanto,  il  ritenuto  contrasto  tra   la   norma
nazionale e la norma della CEDU,  che  non  sia  risolvibile  in  via
ermeneutica,  non  puo'  essere   risolto   dal   giudice   nazionale
disapplicando la norma interna, ma deve essere fatto oggetto  di  una
questione di legittimita' costituzionale. 
    Da  qui,  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
costituzionalita'. 
    Va, infine, segnalato che la violazione del  divieto  di  bis  in
idem  da  parte  del   giudice   nazionale,   espone   lo   Stato   a
responsabilita' in ambito comunitario nei confronti dell'imputato che
abbia  subito  due  procedimenti  penali,  in  violazione  di   detto
principio (cfr. causa Grande Stevens c. Italia). 
 
                                P.Q.M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. legge 11 marzo 1953 n. 87, 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata,  la  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 649 c.p.p., nella  parte  in
cui  limita  l'applicazione  del  principio  del  ne  bis   in   idem
all'esistenza del  medesimo  «finto  giuridico»,  nei  suoi  elementi
costitutivi,   sebbene   diversamente   qualificato,    invece    che
all'esistenza del medesimo «fatto storico» cosi come delineato  dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo, per violazione dell'art. 117  c.
1 Cost. in relazione all'art. 4 Prot. 7 CEDU; 
    Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
    Sospende  il  presente  giudizio  fino  all'esito  del   giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale; 
    Manda  alla  Cancelleria  per  l'immediata  notificazione   della
presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri,  nonche'
per la sua comunicazione ai presidenti della Camera  dei  deputati  e
del Senato della Repubblica. 
        Torino, 24 luglio 2015 
 
                        Il Giudice: Bompieri