N. 331 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 dicembre 2014
Ordinanza del 16 dicembre 2014 del Tribunale di Firenze nel procedimento civile promosso da G.A.L.A. di Massimo Lari Sas contro Banca Sai Spa Capogruppo Bancario Banca Sai . Procedimento civile - Condanna aggiuntiva della parte soccombente al pagamento di somma equitativa per abuso del processo - Previsione a favore della controparte vittoriosa, anziche' a favore dell'erario. - Codice di procedura civile, art. 96, comma terzo.(GU n.1 del 7-1-2016 )
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE (Terza Sezione Civile) Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Roberto Monteverde, sciogliendo la riserva assunta all'odierna udienza del 16 dicembre 2014 ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 389/2011 promossa da: G.A.L.A. di Massimo Lari SAS (C.F. 05366230489), con il patrocinio dell'avv. Melozzi Benedetta, elettivamente domiciliato in Piazza Tanucci 25 - 50134 Firenze presso il difensore avv. Melozzi Benedetta, attore opponente; Contro Banca SAI SPA Capogruppo Bancario BANCASAI (C.F. 04966500011), con il patrocinio dell'avv. De Fabritiis Cesare, elettivamente domiciliato in Viale Spartaco Lavagnini 20 - 50129 Firenze presso il difensore avv. De Fabritiis Cesare, convenuto opposto. Premesso Con atti di citazione in opposizione del medesimo contenuto, notificati l'11 gennaio 2011 e il 12 gennaio 2011 al decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo n. 5367 del 2010, con formule esecutiva apposta in data 18 novembre 2010, emesso dal Tribunale di Firenze il 12 ottobre 2010, la GALA di Massimo Lari e C s.a.s., conveniva in giudizio la Banca SAI S.P.A. per sentire accogliere le seguenti conclusioni: «Voglia l'Ill.mo Tribunale adito ogni contraria istanza ed eccezione disattesa: in via preliminare: sospendere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto notificato il 3 dicembre 2010, concorrendo gravi motivi; nel merito: accertare e dichiarare la mancanza del requisito della certezza del credito e l'illegittimita' della capitalizzazione degli interessi maturati nonche' la nullita' e/o illegittimita' e/o inefficacia del titolo esecutivo e del precetto per omessa valida notifica al debitore e, conseguentemente, di ogni eventuale ulteriore atto esecutivo per i motivi di cui in narrativa. Con vittoria di spese, diritti ed onorari». Si costituiva la Banca SAI S.P.A. contestando tutte le domande formulate dall'opponente. Come rilevato dall'opposta, la sintetica formulazione dell'odierna opposizione rivela un indubbio carattere dilatorio, non essendo stata contestata in alcun modo l'esistenza del credito azionato dall'opposta in sede monitoria. Deve preliminarmente rilevarsi che parte opponente, solo nelle conclusioni prese nell'atto di opposizione lamenti «la nullita', illegittimita', inefficacia del titolo esecutivo e del precetto per omessa valida notifica al debitore» senza riferire tuttavia alcunche', ne' in fatto ne' in diritto nella narrativa dell'atto. Si tratta dunque di affermazione priva di pregio sostanziale in quanto non minimamente motivata e peraltro infondata nel merito. Con riferimento all'asserita illegittima applicazione degli interessi passivi, l'opponente non motiva in alcun modo l'affermazione. Risulta per contro che gli interessi richiesti con il decreto ingiuntivo opposto siano tutti documentalmente provati e certificati ai sensi dell'art. 50 T.U. D.Lgs. 1° settembre 1993 n. 385 (Docc. da 1 a 5 fascicolo monitorio). In ogni caso nell'allegato A del mutuo chirografario oggetto di causa, viene statuito all'art. 8 che: «la risoluzione del contratto comportera' la decadenza del beneficio del termine e quindi l'immediata restituzione della somma mutuata e di quant'altro eventualmente dovuto, con applicazione degli interessi di mora nella misura prevista all'articolo quattro...» (Doc. 5 fascicolo monitorio). Circa l'asserita illegittima capitalizzazione degli interessi maturati, l'opponente lamenta che tale circostanza parrebbe emergere dal conteggio risultante dagli atti di quanto asseritamente dovuto alla Banca SAI S.P.A., senza tuttavia indicare minimamente dove e come desumere l'applicazione di una capitalizzazione illegittima. L'eccezione oltre che meramente esplorativa e pertanto inammissibile, deve ritenersi chiaramente dilatoria, posto che dall'esame dei documenti risulta che l'art. 4 dell'allegato A espressamente preveda: «... su detti interessi non e' consentita una capitalizzazione periodica...», mentre all'art. 10: «... l'importo relativo a tale credito non e' consentita una capitalizzazione periodica degli interessi» (Doc. 5 fascicolo monitorio). Emerge pertanto dalla documentazione prodotta che le parti pattuirono un finanziamento a tasso variabile che prevedeva un ammortamento mediante rate costituite, in quota parte, da una componente di interessi decrescente; variabilita' del tasso che comporta necessariamente il mutare del saggio applicato in relazione all'andamento del parametro di riferimento, nel caso di specie Euribor. D'altra parte nei prestiti con rimborso graduale del capitale si registra un fenomeno, per cosi' dire; di segno inverso rispetto a quanto si verifica in regime di capitalizzazione nei mutui con rimborso graduale del prestito, come quello in esame, ciascuna rata paga, oltre all'interesse del periodo, anche una quota del debito in linea capitale, con conseguente riduzione del capitale che fruttifica nel periodo successivo. Le quote interessi di ciascuna rata sono sempre decrescenti perche' calcolate su un capitale che viene progressivamente abbattuto in concomitanza del pagamento delle rate che appunto contengono anche una quota capitale. Piu' frequentemente avviene l'abbattimento tanto piu' vantaggio ne trae il mutuatario. Pertanto, una volta che sia stabilito il numero complessivo delle rate destinate a rimborsare il prestito, non appare configurabile neppure teoricamente, ed in questa sede non e' stata rappresentata, la possibilita' che il mutuatario trovi nel piano allegato al contratto sorprese o variazioni a suo danno. Un simile sistema di ammortamento, largamente diffuso, rende davvero difficilmente comprensibile come possa qualificarsi illegittimo il conteggio degli interessi e la loro capitalizzazione, la cui prova sarebbe in ogni caso spettata alla parte opponente la quale, lungi dal fornirla, non l'ha neppure dedotta. L'opposizione deve essere rigettata, risultando infine manifestamente infondata e caratterizzata da asserzioni non fondate su motivi che ne possano indiziarne un qualche ragionevole fondamento, non emendate o integrate in sede di memorie ex art. 183 c.p.c., ne' in ordine alle ragioni dell'opposizione che definiscono il tema del giudizio, ne' con riferimento agli elementi di prova. L'opposizione, dunque, siccome alligata et (non) probata, risulta all'evidenza del tutto ingiustificata ed inconsistente. Lo scopo dilatorio della parte opponente, sia oggettivo per gli effetti indubbiamente raggiunti, che soggettivo per la malafede o colpa grave nell'introdurre una controversia non basata su alcun elemento che potesse fondarne l'accoglimento, risulta del pari manifesto, consistendo nel conseguente indubbio e indebito vantaggio derivante dal ritardare il pagamento dovuto per il lungo tempo occorrente alla definizione del giudizio, per effetto dell'intasamento dei ruoli del contenzioso giudiziario che l'opposizione ha essa stessa incrementato e, in quota parte, determinato. Detto comportamento si ritiene ben possa essere sanzionato d'ufficio con la misura prevista dall'art. 96 comma 3° c.p.c., mediante la condanna aggiuntiva in un importo equitativamente determinato. Momento determinante la questione di costituzionalita'. La causa e' giunta in fase di decisione e questo Giudice deve pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., provvedendo al rigetto dell'opposizione con la conferma del decreto ingiuntivo opposto ed alla liquidazione delle spese del giudizio in favore della parte opposta interamente vittoriosa. Pronunciando sulle spese ai sensi dell'art. 91, deve altresi' provvedere d'ufficio, secondo i motivi che sostengono la decisione, a condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata ai sensi dell'art. 96 comma 3 c.p.c., disposizione della cui legittimita' costituzionale questo Giudice dubita, nella parte in cui prevede la condanna al pagamento a favore della controparte anziche' a favore dell'Erario, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, per i seguenti Motivi La questione e' rilevante. L'infondatezza dell'opposizione e, per converso, la fondatezza della pretesa agita con ricorso monitorio dalla parte opposta, e' accertata e affermata con chiarezza e ad essa avrebbero dovuto seguire correlative statuizioni, conseguendone la concentrazione del giudizio di responsabilita' per cosiddetta «lite temeraria» in capo alla sola parte opponente. L'art. 96 comma 3 c.p.c. interviene su un rapporto processuale pendente, instaurato successivamente all'entrata in vigore della disposizione. Si ritiene pertanto che essa dovra' essere necessariamente applicata, secondo i motivi che sostengono la decisione. La questione non e' manifestamente infondata. Con una recente pronuncia, la Corte regolatrice si e' espressa in ordine alla natura della misura prevista dall'art. 96, comma 3 c.p.c., affermando che «La condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del terzo comma dell'art. 96 cod proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, ha natura sanzionatoria e officiosa, sicche' essa presuppone la malafede o colpa grave della parte soccombente, ma non corrisponde a un diritto di azione della parte vittoriosa» (Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 3003 dell'11 febbraio 2014). L'arresto ora richiamato, maturato dall'esame dello ius superveniens nella specifica materia, sembra modificare il tradizionale orientamento della giurisprudenza relativo alla possibilita' di riconoscere natura di danno punitivo alle misure previste dall'ordinamento, orientamento secondo il quale «rimane estranea al sistema l'idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed e' indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta E' quindi incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto dei danni punitivi» (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1183 del 19 gennaio 2007; Sez. 2, Sentenza n. 15814 del 12 giugno 2008; Sez. 3, Sentenza n. 25820 del 10 dicembre 2009). Con riguardo al primo comma della disposizione in esame, e' stato per contro ribadito che «In forza dei principi relativi al c.d "danno conseguenza" affermato dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass., S.U. 11.11.2008, n. 26972- 5), il pregiudizio subito dalla parte deve essere provato, sia pure anche mediante presunzioni, e non puo' piu' essere individuato in re ipsa (c.d. danno evento) nella mera violazione dell'interesse leso, in quanto il danno, quale componente dell'illecito, e' una conseguenza meramente eventuale dell'evento lesivo, potendo anche configurarsi illeciti non produttivi di danni» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27 febbraio 2013; v. anche Cass. sez. II Civile. 11.4.2013, n. 8913). Pertanto, deve ritenersi che «Il citato art. 96 c.p.c., comma 1, richiede la domanda della parte e la prova del danno, liquidabile anche d'ufficio ma solo ove il danno risulti comunque, provato», mentre «L'art. 96 c.p.c., comma 3, prescinde, invece, dalla domanda della parte, puo' essere anche riconosciuto d'ufficio dal giudice che puo', altresi', condannare la parte soccombente al pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27 febbraio 2013). Secondo la ricostruzione che il «diritto vivente» fa della disposizione di cui all'art. 96 comma 3 c.p.c., la condanna della parte soccombente al pagamento in favore della controparte di una somma equitativamente determinata, ben puo' dunque eventualmente prescindere dalla domanda della parte e dalla prova del danno, come invece preteso dal comma 1 della disposizione in quanto, appunto, il terzo comma dell'art. 96 c.p.c. configura una condanna di natura sanzionatoria e officiosa. La possibilita' di una condanna di natura sanzionatoria e officiosa che prescinda dalla ricorrenza per la parte vittoriosa di un danno in concreto subito a seguito della condotta processuale del soccombente, e' del resto confermato dal rilevo per cui «Non vi e' alternativita' ma cumulabilita' tra il primo e terzo comma dell'art. 96 c.p.c., potendo, astrattamente, il giudice pronunciare, sussistendone le rispettive condizioni, la condanna, in forza di entrambe le disposizioni di legge, applicate cumulativamente, cosi' come desumibile dalla locuzione "altresi'", di cui al comma 3, essendo la condanna per responsabilita' aggravata ai sensi dell'art. 96 c.p.c., commi 1 e 3, ancorati a presupposti parzialmente differenti» (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27 febbraio 2013), dove appare difficilmente confutabile che se le due condanne possono coesistere possano anche, al contrario, essere comminate singolarmente, nella ricorrenza dei rispettivi presupposti. Se dunque la condanna di cui al primo comma dell'art. 96 c.p.c. risarcisce la parte vittoriosa dall'illecita condotta processuale del soccombente produttiva di un danno che deve essere azionato e provato, la sanzione officiosa di cui al terzo comma deve essere necessariamente comminabile anche in assenza di un danno realizzatosi in concreto in pregiudizio della parte vittoriosa, cosicche' dovra' necessariamente esserle riconosciuta una natura diversa da quella risarcitoria, che il remittente ritiene di poter individuare, anche alla luce del contesto in cui agisce la norma, delle voci dottrinali e della sua applicazione maggioritaria nei Tribunali, in una natura punitiva. La natura della condanna di cui al terzo comma della disposizione, infatti, deve ritenersi presidiare una funzione e un interesse ulteriore ed eterogeneo rispetto a quello gia' presidiato e pienamente soddisfatto dal primo comma, mediante il risarcimento del danno ingiustamente subito. Il principio della ragionevole durata di un giusto processo, introdotto nell'art. 111 Cost., di cui l'art. 96, 3° comma c.p.c. costituisce espressione ed una fra le molteplici attuazioni, introduce nell'ambito del processo civile un criterio di necessario contemperamento fra il costituzionale diritto d'azione sancito dall'art. 24 della Costituzione e l'altrettanto costituzionale diritto alla ragionevole durata del giusto processo, inesorabilmente rinviante ad un principio di realta', costituita specificamente nell'enorme massa formata dai milioni di giudizi pendenti, che impediscono la ragionevole durata di ciascuno di essi in una situazione, fra l'altro, in cui ogni organismo internazionale che se ne sia occupato ha dovuto registrare che la Magistratura italiana e' comparativamente ai vertici fra le piu' produttive al mondo. Non sembra facilmente contestabile che promuovere azioni (o resistervi con difese) manifestamente emulative, vada a costituire una massa di giudizi del tutto evitabili, addirittura indebiti se riguardati nell'ottica del giusto processo e della sua ragionevole durata, che costituiscono a loro volta un potente fattore di rallentamento delle altre controversie non altrettanto banalmente caratterizzate. E' dunque ragionevole e del tutto costituzionalmente legittimo che lo Stato, nel doveroso contemperamento delle due disposizioni costituzionali rammentate, ben possa, e di fatto abbia, approntato strumenti di reazione processuale all'irragionevole ricorso alla giurisdizione, all'abuso della giurisdizione, con la pluralita' di scopo di sanzionare in via endoprocedimentale il singolo abuso e di prevenirlo per il futuro. In tal senso, la ratio della nuova disposizione di cui all'art. 96, 3° comma c.p.c. deve dunque essere individuata nello scoraggiare l'abuso del processo o comportamenti strumentali alla funzionalita' del servizio giustizia, cio' che pur presupponendo una pronuncia che accerti il requisito della malafede o della colpa grave, esclude la necessita' di un danno arrecato alla controparte. La circostanza che si prescinda da una richiesta di parte, che la condanna possa essere comminata d'ufficio senza soggiacere a limite nella determinazione dell'importo e senza necessita' di preventiva instaurazione del contraddittorio ex art. 101 c.p.c., essendo posterius e non prius logico della decisione di merito, appaiono nell'insieme elementi tali da giustificare tale ricostruzione e, finalmente, assegnare alla disposizione in esame la funzione di presidiare il processo civile dal possibile abuso processuale, di soddisfare l'interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione civile, al giusto processo di cui parla l'art. 111 della Costituzione. L'art. 96, 3° comma c.p.c. introduce cioe' una fattispecie a carattere sanzionatorio che prende le distanze dalla struttura tipica dell'illecito civile, emancipandola dall'alveo della responsabilita' civile, nella specie della responsabilita' aggravata di cui ai primi due commi dell'art. 96, per confluire in quello delle c.d. condanne afflittive, e con la quale il giudice puo' (e, invero, deve) responsabilizzare la parte ad un ricorso alla giurisdizione sano e funzionale, scoraggiando il contenzioso fine a se' stesso che, aggravando il ruolo o carico dei magistrati e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione, mosse da ragioni serie e, spesso, impellenti o urgenti necessita', nonche' agli interessi pubblici primari dello Stato Comunita' che la giurisdizione rappresenta. Un giusto processo di ragionevole durata e' un bene comune e prezioso, nel quale e con il quale si manifesta, al massimo livello istituzionale, lo Stato Comunita'. Un bene sancito dalla Costituzione e dai trattati internazionali cui l'Italia e' legata per la condivisione che ha voluto esprimere dei diritti fondamentali dell'uomo, un bene quindi addirittura di «carattere universale ... che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunita' politica, ma in quanto esseri umani» (Corte costituzionale Sentenza n. 105 del 2001). Se, mediante lo strumento della sanzione officiosa dell'abuso processuale, tale e di tale rango e' l'interesse presidiato dall'art. 96 comma 3, senza che dottrina e giurisprudenza maggioritarie ne dubitino, allora non si vede perche' la medesima disposizione di legge preveda la Condanna ad una somma, equitativamente determinata della parte soccombente a favore della controparte vittoriosa anziche' all'Erario, dal momento che la parte privata risulta gia' munita di adeguata protezione per il risarcimento del danno che la condotta abusiva del contraddittore abbia ad essa arrecato, cui corrisponde uno specifico diritto di azione. Dal riconoscimento che il «diritto vivente» fa della natura esclusivamente sanzionatoria e officiosa della misura di cui al terzo comma dell'art. 96 c.p.c., deriva che non sembra intestabile alla sfera discrezionale del legislatore, fra le soluzioni costituzionalmente compatibili, quella di considerare consustanziale alla lesione dell'interesse pubblico la lesione di quello privato, cosi' da prevedere irragionevolmente in favore di quest'ultimo la condanna alla somma equitativamente determinata dal giudice, perche' tale plurioffensivita', in concreto, potrebbe non essere e, se lo fosse, la parte danneggiata godrebbe della ricordata azione ex art. 96 comma 1 c.p.c.. Ne' un diverso titolo indennitario, distinto da quello risarcitorio che sarebbe, nell'ipotesi considerata, privo di causa in assenza di danno, potrebbe giustificare detta soluzione, dal momento che le situazioni giuridiche che possono dar causa a tale genere di emolumento sono state ricondotte dalla giurisprudenza, anche costituzionale, alle distinte ipotesi del diritto ad un equo indennizzo, discendente direttamente da precetti costituzionali, qualora si tratti di danno non derivante da fatto illecito, che sia conseguenza dell'adempimento di un obbligo legale (per es. artt. 32 comma 2, 42 comma 3 Costituzione) e del diritto, ove ne sussistano i presupposti a norma dell'art. 2 e dell'art. 38 Cost., a misure di sostegno assistenziale, disponibili dal legislatore nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri assistenziali (Argomenti tratti da Corte Cost. n. 118 del 1996 e n. 226 del 2000; Cass. Sez. III, 31 maggio 2005, n. 11609), dove non e' possibile reperire alcuno fra tali presupposti nella previsione di condanna alla somma equitativamente determinata dal giudice in favore della parte processuale. Proprio il diritto d'azione per i danni processuali subiti risulta in definitiva idoneo ad esaurire l'interesse privato al loro satisfattivo ristoro, cosicche' ogni altro pagamento appare realizzare nient'altro che un immeritata ed ingiusta locupletazione di un ulteriore emolumento privo di ragionevole titolo. Che il diritto di azione sia posto a base del risarcimento del danno processuale non sembra dubitabile, dal momento che la verificazione di un pregiudizio alla parte processuale non puo' dirsi effetto automatico della condotta abusiva o emulativa della controparte, ben potendo concepirsi condotte che ledano in se' gli interessi presidiati dal giusto processo senza arrecare danni all'avversario processuale e, d'altra parte, il danno stesso non puo' essere individuato in re ipsa nella mera violazione dell'interesse leso, potendo anche configurarsi illeciti non produttivi di danni (Cass., S.U. 11.11.2008, n. 26972- 5; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4925 del 27/02/2013; Cass.. sez. Civile. 11.4.2013, n. 8913). Sta di fatto che l'azione della parte vittoriosa che rivendichi il ristoro del pregiudizio subito dalla condotta processuale dell'avversario ben puo' ritenersi esaurire l'interesse e la protezione del privato il quale, se invece se ne astiene perche' l'abuso processuale non si rivolse ne' riflesse nella sua sfera, ovvero perche' riconosciuto non produttivo di danni o, al limite, per mera rinuncia, non potra' nemmeno dirsi versare in una situazione giustiziabile. La difesa degli interessi privati e' affidata ad un numero cosi' elevato di professionisti da non avere possibilita' di comparazione con nessun altro Paese confrontabile all'Italia, mentre l'interesse pubblico alla ragionevole durata di un giusto processo, inevitabilmente insidiato da tale sovrastante grandezza, e' presidiato nel processo civile dall'art. 111 della Costituzione e da alcune sue attuazioni, quali gli artt. 348-bis e 360-bis c.p.c. e, per quanto interessa, dall'art. 96 comma 3 c.p.c.. Le innovazioni normative introdotte a partire dalla riforma dell'art. 111 della Costituzione appaiono tali da sovvertire obiettivamente il preesistente quadro, introducendo nel processo, dentro il processo, un nuovo interesse nominato e rilevante dello Stato, nella sua inscindibile articolazione in Comunita', Apparato e Ordinamento, a garantire a tutti i consociati un processo di ragionevole durata, equo e giusto. Ed e' proprio il meccanismo della sanzione officiosa, la cui natura punitiva e afflittiva non appare ignorabile, che convince dell'estraneita' della parte processuale all'interesse tutelato dal terzo comma dell'art. 96 c.p.c., sicche' risulta irragionevole che del versamento della sanzione pecuniaria disposta dal giudice si avvantaggi la parte processuale. L'offensivita' della condotta di abuso processuale contemplata dal terzo comma dell'art. 96 c.p.c., e' rivolta alla giurisdizione, e' offesa alla giurisdizione. Se tale condotta riveli attitudine plurioffensiva, nella direzione sia della lesione dell'interesse pubblico ad un giusto processo che della lesione dell'interesse privato, potra' ritenersi quella cumulabilita' tra il primo e terzo comma dell'art. 96 c.p.c. rammentata da Cass. n. 4925 del 27 febbraio 2013 ma, al contrario, se la condotta processuale non rivelasse in concreto tali caratteristiche, potrebbero ben darsi condanne selettive ai sensi dei soli primo o terzo comma dell'art. 96 c.p.c., come di fatto e finora avvenuto nella casistica processuale. Ma la punizione, che il remittente ritiene insita nella sanzione ex art. 96 comma 3 c.p.c., non puo' costituire un immeritato vantaggio di un soggetto, che goda del riconoscimento di specifica azione a tutela dell'interesse a lui riferibile, del tutto estraneo all'interesse pubblico violato dalla condotta di abuso processuale perche' cio' sarebbe intrinsecamente irragionevole. La condanna di natura sanzionatoria e officiosa prevista dall'art. 96 comma 3 c.p.c. per l'offesa arrecata alla giurisdizione, che deve manifestare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo, in attuazione di un interesse di rango costituzionale intestato allo Stato, nella sua rammentata articolazione, e ragionevole che sia disposta in favore di quest'ultimo e, per esso, all'Erario, mentre la condanna di natura risarcitoria prevista dall'art. 96 comma 1 c.p.c, che richiede la domanda della parte e la prova del danno, e ragionevole che rimanga ancorata agli attuali presupposti. Per quanto finora esposto risultano validi motivi per dubitare della costituzionalita' della norma in esame, sotto il profilo dell'intrinseca ragionevolezza ed arbitrarieta' nella modulazione dell'istituto processuale da parte del legislatore, nella parte in cui prevede che «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» anziche' a favore dell'Erario, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. Ad opinione del remittente, alla luce del «diritto vivente» richiamato, formatosi successivamente all'Ordinanza della Corte costituzionale n. 0138 del 2012, l'insuperabile dicotomia fra esigenze di ragionevole tutela sia dell'interesse privato che dell'interesse pubblico costituzionalmente qualificato, fra condanna di natura risarcitoria e condanna di natura sanzionatoria, fra diritto di azione della parte vittoriosa e natura officiosa della sanzione, contemplati rispettivamente nel primo e terzo comma dell'art. 96 c.p.c., rendono la chiesta pronuncia additiva pressoche' «a rime obbligate» e costituzionalmente vincolata, senza che possa manifestarsi a tale riguardo una sfera di discrezionalita' legislativa connotata da pluralita' di soluzioni costituzionalmente compatibili. Si tratta infatti esclusivamente di stabilire se sia o meno ragionevole - come si ritiene - che della condanna derivante dalla lesione dell'interesse dello Stato al giusto processo, che danneggia tutti, si avvantaggi lo stesso Stato e la comunita' nazionale che Esso rappresenta e garantisce con la giurisdizione; per converso se sia o meno irragionevole - come si ritiene - che della condanna per la lesione di tale interesse si avvantaggi mi privato non titolare dello specifico interesse aggredito e del bene comune che ne forma l'oggetto, che ha a sua volta a disposizione validi strumenti di reazione all'abuso della controparte processuale che diriga l'offesa anche nei suoi confronti. Ne', sembra al remittente, puo' dirsi che la soluzione auspicata possa determinare una soluzione del tutto eccentrica rispetto al sistema processuale civile in essere, deviando dal principio che vuole, in detta disciplina, coinvolte esclusivamente le parti del processo, anche nel caso della condanna d'ufficio alla pena pecuniaria, aprendo ad una sorta di sanzione «amministrativa» per il pregiudizio recato ad un interesse pubblico. Sanzioni di natura pubblicistica sono infatti gia' note al sistema processuale civile e non costituirebbero un assoluta ed inedita novita', avulsa dal sistema. Puo' in effetti rammentarsi il sistema di sanzioni pecuniarie pubblicistiche previste dagli artt. 220 e 226 c.p.c. per i casi, di chiara natura emulativa, del disconoscimento di scrittura privata successivamente accertata come di mano della parte che l'ha negata e di proposizione di querela di falso decisa col rigetto della querela. Del tutto analogamente a quanto espressamente indicato dall'art. 96 comma 3 c.p.c., «Nell'ipotesi di proposizione dell'istanza di verificazione di una scrittura privata disconosciuta in via incidentale, la pronunzia su di essa non puo' non avvenire nel contesto della sentenza che definisce la causa principale, mentre la irrogazione di una pena pecuniaria a carico della parte che abbia infondatamente disconosciuto il documento costituisce una mera facolta' del giudice, tenuto solo a giustificarne l'Esercizio" (Sez. 1, Sentenza n. 4651 del 10/08/1979). Al riguardo e' stato inoltre affermato che con la formula «il collegio, con la sentenza che rigetta la querela di falso ... condanna inoltre la parte querelante a una pena pecuniaria» impiegata dall'art. 226 c.p.c., deve ritenersi che «... l'obiettivo della norma e' piuttosto preventivo che punitivo, compendiandosi nell'interesse a responsabilizzare fortemente chi possa determinarsi a querela di falso, onde evitare al massimo l'abuso di quello strumento di protezione, che investe atti a fede privilegiata. Sappia, pertanto, chi voglia querelare che se la domanda verra' rigettata, non importa con quale ragionamento sulle prove, egli sara' condannato a pena pecuniaria. L'avvertenza e' tradizionale, nel nostro ordinamento, tanto vero che l'abrogato codice di procedura civile, all'art. 314, ancor piu' severamente - e con pesanti risvolti acquiliani collegati all'esito processuale anzi che la condotta tipizzata - ammoniva che «la parte che ha proposto la querela, se sia soccombente, e' condannata al risarcimento dei danni verso l'altra parte e in una multa estensibile a lire cinquecento". Oggi, scomparso nella formula specifica quel risvolto, per altro allocabile - piu' armonicamente - negli elementi della generica responsabilita' aggravata (art. 96 cod. proc. civ.), resta tuttavia l'ancoraggio della pena pecuniaria al fatto della soccombenza specifica, nella quale si traduce il rigetto della querela di falso» (Sez. 3, Sentenza n. 11347 del 1992). Dunque non responsabilita' extracontrattuale, bensi' sanzione pecuniaria con funzione, se non punitiva, certamente special-preventiva, di natura prettamente pubblicistica. Piu' specificamente e con evidente intento deflattivo ed ancoraggio all'interesse dello Stato alla ragionevole durata del giusto processo, puo' rammentarsi la misura prevista dall'art. 13 del D.P.R. n. 115 del 2002, «Testo unico in materia di spese di giustizia», che al comma 1-quater, inserito dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, prevede: «Quando l'impugnazione, anche incidentale, e' respinta integralmente o e' dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta e' tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice da' atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso», dove prevedendosi il pagamento aggiuntivo, determinante il raddoppio della somma gia' versata a titolo di contributo unificato, per il solo fatto obiettivo del rigetto dell'impugnazione, evidentemente fondato su una presunzione iuris et de iure della sua inadeguatezza o insufficienza, non sembra rinvenibile altra qualificazione se non quella sanzionatoria di chiara natura pubblicistica.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 e ss. della Costituzione, 23 legge 11 marzo 1953 n. 87; Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 96 comma 3 del Codice di procedura civile per contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui dispone: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, puo' altresi' condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata», anziche' a favore dell'Erario; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso; Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Firenze, 16 dicembre 2014 Il Giudice: Monteverde