N. 78 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 novembre 2015

Ordinanza  del 5 novembre 2015 del Tribunale amministrativo regionale
per  la  Campania  sul  ricorso  proposto  da  Manna  Tommaso  contro
Ministero della difesa. 
 
Militari - Codice dell'ordinamento  militare  -  Perdita  del  grado,
  senza giudizio disciplinare, del militare condannato  con  sentenza
  definitiva non  condizionalmente  sospesa,  per  reato  militare  o
  delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione
  o della interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
- Decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66  (Codice  dell'ordinamento
  militare), artt. 866, comma 1, 867, comma 3, e 923, comma 1. 
(GU n.16 del 20-4-2016 )
 
        IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA CAMPANIA 
                           (Sezione Sesta) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  1830  del  2015,  proposto  da   Tommaso   Manna,
rappresentato e dall'avv. Francesco Castiello  e  dall'avv.  Raffello
Capunzo ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo
difensore in Napoli, alla via Tommaso Caravita n. 10; 
    Contro Ministero della difesa, in persona del Ministro in carica,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale  dello  Stato  di
Napoli, presso i cui uffici - alla via A. Diaz n. 11 - e'  ope  legis
domiciliato; 
    Per l'annullamento: 
        del provvedimento del  Ministero  della  Difesa  -  Direzione
Generale PERSOMIL - Direttore III  Divisione  del  6  novembre  2014,
prot. n. 451/1/2014, notificato in data 24.11.2014, con il  quale  e'
stata disposta, nei confronti del ricorrente, la misura della perdita
del grado per rimozione; 
        nonche'  degli  atti  connessi,  ivi   incluso   il   decreto
dirigenziale del direttore generale  PERSOMIL  24.6.2014,  richiamato
nelle premesse del provvedimento suindicato. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto l'atto di costituzione  in  giudizio  del  Ministero  della
Difesa; 
    Relatore nell'udienza pubblica del  giorno  21  ottobre  2015  il
dott.  Umberto  Maiello  e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
    1. Con il gravame in epigrafe, proposto in riassunzione a seguito
della  declaratoria  di  incompetenza   pronunciata   dal   tribunale
amministrativo regionale del Lazio, Sezione Prima bis, con  decisione
n. 3785 del 5.3.2015, il ricorrente, gia' Maresciallo  dell'Arma  dei
Carabinieri, impugna il provvedimento indicato in epigrafe a  seguito
e per effetto del quale e' stata applicata, nei  suoi  confronti,  la
misura della perdita del grado per rimozione. 
    Tale sanzione ha fatto seguito alla  definizione,  con  condanna,
del procedimento penale promosso nei suoi confronti  per  i  seguenti
addebiti «... in qualita' di pubblico  ufficiale,  nello  svolgimento
delle funzioni, perche' in servizio  di  pattuglia  nell'espletamento
del controllo alla circolazione stradale, in violazione dell'art. 172
comma  1  e  10  del  codice  della  strada   -   che   prevede   una
contravvenzione per il conducente di autoveicolo che non  indossa  la
cintura  di  sicurezza  -  intenzionalmente  procurava  un  vantaggio
patrimoniale a ..Omissis.., consistito nella mancata  elevazione  del
verbale di contravvenzione al  codice  della  strada  atteso  che  la
stessa non indossava la cintura di sicurezza. In Castello di Cisterna
l'11.5.2008». 
    All'esito del giudizio di prime cure il G.U.P. di Nola,  in  sede
di rito abbreviato, con sentenza n. 7/09 del  15.1.2009,  condannava,
il ricorrente per i reati a lui ascritti  (articoli  110,  323  c.p.)
ritenendo  al  contempo  configurabile  l'ipotesi  attenuata  di  cui
all'art. 323-bis codice penale e, per l'effetto, applicava  nei  suoi
confronti la pena finale di mesi 2 e gg 20 di reclusione, nonche', ai
sensi  degli  articoli  28,  31  e   37   c.p.,   quella   accessoria
dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici  per  la  durata  di
mesi 2 e gg. 20, disponendo la  sospensione  della  pena  inflitta  a
termine e condizioni di legge. 
    In sede di gravame, la Corte d'Appello di Napoli, con sentenza n.
1354  del  14.5.2012,  riformando  la  decisione  di   primo   grado,
sostituiva la pena detentiva di mesi due e giorni  20  di  reclusione
con la corrispondente pena pecuniaria di € 3.040,00 di  multa.  Tanto
per la «...modestia del fatto e l'incensuratezza dell'appellante». Il
giudice d'appello, inoltre, revocava il beneficio  della  sospensione
condizionale della pena (..come da richiesta  difensiva  accompagnata
dal  parere  favorevole  del  P.G.)  e  confermava,  per  il   resto,
l'impugnata sentenza. 
    Tale  statuizione  giurisdizionale,  una  volta  respinto   dalla
Suprema Corte di Cassazione il relativo ricorso, acquisiva,  in  data
27.5.2014, l'incontrovertibilita' propria del giudicato. 
    Di qui, dunque, ed a decorrere proprio dal 27.5.2014,  la  misura
amministrativa  applicata  con  il  provvedimento   oggi   impugnato,
consistente nella perdita del grado  ai  sensi  degli  articoli  866,
comma primo, e 867, comma terzo, del decreto legislativo  n.  66/2010
(di seguito  anche  C.O.M.)  nonche'  nell'iscrizione  d'ufficio  del
ricorrente nel ruolo dei militari di  truppa  dell'Esercito  Italiano
senza alcun grado, ai sensi dell'art. 861 comma quarto del richiamato
testo normativo, e nella definitiva cessazione del rapporto  ex  art.
923 C.O.M. 
    1.1. Il suddetto provvedimento, assunto nella forma  del  decreto
ministeriale, ed  adottato  dal  direttore  della  III  divisione  in
ragione di espressa delega, rilasciata  in  base  al  disposto  degli
articoli 16 e 17 del d.lgs. n. 165/2001, e' stato attratto nel  fuoco
della  contestazione  attorea  in  ragione  dei  seguenti  motivi  di
gravame: 
        a)  incompetenza  dell'organo  che  ha  adottato  l'atto  non
essendo, a dire del ricorrente, delegabili i poteri qui in rilievo in
ragione del disposto di cui all'art.  867  comma  1  del  c.o.m.  che
affida la relativa statuizione ad un «decreto ministeriale». La norma
citata, in ragione del suo valore semantico,  consentirebbe  soltanto
per gli appuntati ed i carabinieri che la rimozione dal  grado  venga
assunta   tramite   «determinazione   ministeriale».    Secondo    la
prospettazione attorea, in considerazione del  grado  di  Maresciallo
rivestito dal ricorrente, l'adozione del provvedimento  destitutorio,
nelle forme  del  decreto  ministeriale,  avrebbe  dovuto  intendersi
riservata al Direttore Generale PERSOMIL; 
        2) illegittimita' costituzionale dell'art.  866  comma  primo
del c.o.m. nella parte in cui prevede l'automatica applicazione della
misura della perdita del grado per contrasto con gli articoli 3,  97,
52 e 117 della Costituzione. Segnatamente, verrebbero  in  rilievo  i
seguiti profili di contrasto: 
          sub artt. 3 e 97 della Costituzione  in  quanto  verrebbero
trattate in modo uguale situazioni diseguali (chi ha subito  condanna
all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e chi ha subito  quella
temporanea) con conseguente violazione dei principi di  imparzialita'
ed equita' che costituiscono valori immanenti che trovano  fondamento
nell'art. 3 della cost. e nel principio di ragionevolezza; 
          sub art. 52 della Costituzione nella parte in  cui  prevede
che  l'ordinamento  delle  forze  armate  si  informa  allo   spirito
democratico  della  repubblica,  con  necessita'  di   salvaguardare,
dunque, anche in tale ambito, le  garanzie  difensive.  L'ordinamento
militare non sarebbe separato  da  quello  militare  con  conseguente
applicazione dei medesimi principi  e  delle  medesime  garanzie  (C.
Cost. n.  287  del  23.7.1987  -  Corte  costituzionale  n.  126  del
29.4.1985 - Corte costituzionale 19.3.1993 n. 103) con la conseguenza
che il cittadino - militare non puo' essere privato del diritto  alla
valutazione, caso per caso, della  congruita'  dei  sacrifici  a  lui
imposti  in  relazione  alle  finalita'  di  interesse  pubblico   da
perseguire; 
          sub   art.   117   per   violazione   del   principio    di
proporzionalita' sanzionatoria, oggi  consacrato  anche  nell'art.  5
della convenzione europea del 26.5.1997 ratificata con legge  n.  300
del 29.9.2000. Peraltro, verrebbe compresso il principio  di  equita'
ex art. 41 della carta dei diritti fondamentali  dell'Unione  Europea
codificato dal trattato di Lisbona. 
    Resiste in giudizio l'Amministrazione intimata  che  ha  concluso
per il rigetto del ricorso, anche in ragione del fatto che  la  Corte
costituzionale, pronunciandosi su casi di analogo contenuto,  avrebbe
gia'   respinto,   anche   di   recente,   analoghe   questioni    di
costituzionalita'. 
    Con ordinanza n. 965 del 14.5.2015  il  Collegio,  pronunciandosi
sulla domanda cautelare spiegata dal ricorrente, ha fissato, ai sensi
dell'art. 55 comma 10 del c.p.a., l'udienza  di  discussione  per  la
trattazione di merito del ricorso in epigrafe. 
    All'odierna udienza il ricorso veniva trattenuto in decisione. 
    2.  Il  giudizio  va  sospeso  e  gli  atti  rimessi  alla  Corte
costituzionale per lo scrutinio di costituzionalita'  degli  articoli
866, comma 1, 867, comma 3 e 923 comma 1 del decreto  legislativo  n.
66/2010. 
    Ed, invero, il Collegio ritiene rilevante  e  non  manifestamente
infondata,  in  relazione  articoli  3,  97,  24,  4   e   35   della
Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale, anzitutto,
dell'art. 866 comma primo del c.o.m. nella parte in cui  prevede  che
«La perdita  del  grado,  senza  giudizio  disciplinare,  consegue  a
condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare
o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione
o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle
pene accessorie di cui all'art. 19, comma  1,  numeri  2)  e  6)  del
codice penale». 
    Parimenti il suddetto  scrutinio  s'impone  anche  rispetto  alle
ulteriori  disposizioni   sopra   richiamate   siccome   alla   prima
strettamente collegate nell'ambito di un'unica complessa  fattispecie
normativa e, dunque, concorrenti a delineare, secondo una  vincolante
sequenza scandita da rigidi automatismi, il risultato di recidere  il
rapporto del militare con l'Amministrazione di appartenenza senza  la
mediazione costitutiva di un procedimento amministrativo che consenta
di apprezzare, nel rispetto delle garanzie difensive,  la  congruita'
di siffatta misura punitiva in relazione alle finalita' di  interesse
pubblico da perseguire. 
    Ed, invero, il sindacato in  argomento  s'impone  rispetto  anche
alla previsione di cui al comma 3  dell'art.  867  del  C.O.M.  nella
parte in cui prevede (in riferimento alle casistica cui va ricondotta
la fattispecie qui in esame) che «Se la perdita del grado consegue  a
condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in  giudicato  della
sentenza». 
    Allo stesso modo, va attratto nel fuoco  del  medesimo  sindacato
l'art. 923 del C.O.M., rubricato «Cause che determinano la cessazione
del rapporto di impiego» ed inserito nella sezione  V  riferita  alla
«Cessazione dal servizio permanente», nella parte in cui, al comma I,
annovera tra le cause suddette anche la perdita del grado (lettera i)
ancorche'  pronunciata  in  assenza   di   un   previo   procedimento
amministrativo. 
    3. Sotto il profilo  della  rilevanza,  vale  premettere  che,  a
giudizio del Collegio, non  hanno  pregio  le  osservazioni  censoree
articolate dal ricorrente ed incentrate  sulla  pretesa  incompetenza
dell'organo che ha adottato l'atto impugnato. 
    Nel costrutto giuridico attoreo non sarebbero delegabili i poteri
qui in rilievo in ragione del disposto di cui all'art.  867  comma  1
del  c.o.m.  che  affida  la  relativa  statuizione  ad  un  «decreto
ministeriale»,  consentendo  soltanto  per   gli   appuntati   ed   i
carabinieri  che  la  rimozione  dal  grado  venga  assunta   tramite
«determinazione ministeriale».  Di  talche',  in  considerazione  del
grado  di  Maresciallo  rivestito  dal  ricorrente,  l'adozione   del
provvedimento destitutorio, nelle  forme  del  decreto  ministeriale,
avrebbe dovuto intendersi riservato al Direttore Generale PERSOMIL. 
    3.1. Vale,  anzitutto,  premettere,  in  ossequio  ad  autorevole
giurisprudenza (cfr. CdS n. 2480 del 14.5.2014), che  la  competenza,
anche in subiecta materia, si radica in capo  all'organo  burocratico
apicale dell'Amministrazione della difesa. 
    La mera previsione legislativa sulla  necessita'  di  un  decreto
ministeriale, come nel caso in esame dove e' l'art.  867  del  codice
dell'ordinamento militare a disporre che i provvedimenti  di  perdita
del grado siano assunti in tal modo, non  e',  infatti,  da  sola  in
grado di radicarne la competenza in capo alla persona  del  Ministro,
atteso che, come esito del riparto  di  attribuzioni  tra  organi  di
direzione politica e  organi  di  gestione  amministrativa  (come  si
evince dai contenuti del decreto legislativo n. 29  del  1993,  dalla
legge n. 59 del 1997, dalla legge n. 127 del 1997, dalla legge n. 191
del 1998 e, infine, dal decreto legislativo  n.  165  del  2001),  e'
unicamente il contenuto dell'atto da emanare a determinare il livello
di competenza necessario per la sua adozione. 
    Si  e',  infatti,  evidenziato  che  il  Ministro  della   difesa
nell'economia complessiva della disciplina normativa compendiata  nel
codice  dell'ordinamento  militare  e'  assegnatario   di   una   sua
attribuzione propria, rinvenibile  nei  casi  in  cui  puo'  ordinare
direttamente l'inchiesta formale oppure discostarsi dalle  risultanze
della commissione di disciplina (articoli 1378 e  1389  dello  stesso
codice dell'ordinamento  militare).  Ne  discende  che,  nelle  altre
fattispecie, riprendendo vigore il principio generale e ordinario  di
riparto tra politica e  amministrazione,  e'  compito  del  dirigente
preposto alla struttura burocratica l'emanazione dell'atto conclusivo
del procedimento per cui e' responsabile. 
    Di poi, occorre soggiungere  che  non  puo'  essere  revocata  in
dubbio, contrariamente a quanto dedotto, la  piena  legittimazione  a
provvedere del Direttore della 3^  Divisione,  cui  mettono  capo  le
«attivita' connesse con i procedimenti penali e disciplinari a carico
del personale militare» (cfr., sul punto, il decreto ministeriale del
16 gennaio 2013, in atti). 
    Tanto in ragione della delega conferita  dal  direttore  generale
per il personale militare, in qualita'  di  dirigente  generale,  con
decreto dirigenziale del 24.6.2014 (art. 8), richiamato nel preambolo
dell'atto   gravato   ed   allegato   alla    produzione    difensiva
dell'Amministrazione resistente. 
    Il suindicato provvedimento  si  dispiega,  invero,  in  perfetta
coerenza con i principi mutuabili dal d.lgs. n. 165/2001 - sul  punto
non derogati dal codice dell'ordinamento militare -  e  da  ritenersi
pienamente applicabili in subiecta materia per le ragioni di  seguito
esposte. 
    Non ignora il Collegio che, a mente del comma 1 dell'art. 3), del
d.lgs. n. 165/2001, il regime giuridico del  rapporto  di  lavoro  di
talune  categorie  di  pubblici  dipendenti  (tra  cui   quella   cui
appartiene il ricorrente) e'  stato  sottratto  al  processo  cd.  di
privatizzazione;  cio'  nondimeno   siffatta   deroga,   circoscritta
giustappunto al (solo) regime del rapporto di impiego, non esclude la
precettivita' anche in siffatti  ambiti  ordinamentali  dei  principi
generali ed organizzativi che, trascendendo il  singolo  rapporto  di
lavoro,  involgono  l'assetto  piu'  prettamente   organizzativo   di
qualsivoglia pubblico ufficio,  quali  ad  esempio  il  principio  di
separazione tra l'attivita' di indirizzo  politico  amministrativo  e
quella di  gestione,  ovvero  la  trama  dei  principi  generali  che
definiscono le attribuzioni dirigenziali e le relative  modalita'  di
ripartizione,  fatte  salve  le  specifiche   deroghe   espressamente
previste. 
    Il suddetto approdo ermeneutico trova, d'altro  canto,  indiretta
conferma  nella  previsione  di  apposite  disposizioni   derogatorie
espressamente introdotte nel corpo dei singoli articoli del d.lgs. n.
165/2001 che altrimenti non avrebbero senso ove dovesse valere  anche
in siffatti  ambiti  la  generale  clausola  di  riserva  di  cui  al
mentovato comma 1 dell'art. 3). 
    Vengono ad esempio in rilievo il  disposto  di  cui  all'art.  15
comma 1 del d.lgs. n. 165/2001 che, in tema  di  articolazione  della
dirigenza  nelle  due  fasce  dei  ruoli  di  cui  all'art.  23,   fa
espressamente  salve  le  particolari  disposizioni  concernenti   le
carriere diplomatica e prefettizia  e  le  carriere  delle  Forze  di
polizia e delle Forze armate ovvero l'art. 19 comma 12  del  medesimo
testo normativo in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali. 
    Deve dunque sostenersi che, anche nel settore  pubblicistico  qui
in rilievo, resti applicabile il disposto di cui all'art. 16 comma 1)
la cui disciplina e', d'altro canto,  riferita  a  tutti  gli  uffici
dirigenziali  generali  «comunque  denominati».   Le   norme   citate
prevedono espressamente che i dirigenti generali «adottano gli atti e
i provvedimenti amministrativi (...) rientranti nella competenza  dei
propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti» (art. 16  comma  1
lettera d) e, in maniera corrispondente, che  i  dirigenti  «svolgono
tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti  degli  uffici
dirigenziali generali» (art. 17 comma 1 lettera c) (cfr. in tal senso
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n.  02732
del 21/05/2013; Il Tribunale Amministrativo Regionale per  il  Lazio,
Sezione Seconda n. 7556 del 24/07/2013; cfr. tribunale amministrativo
regionale Napoli, VI Sezione, 25 gennaio 2011 n. 415). 
    4. Ribadita, dunque, la legittimita' formale dell'atto  impugnato
siccome emesso  da  organo  all'uopo  legittimato  alla  stregua  del
corrispondente ordinamento di  settore,  non  residua  dubbio  alcuno
sulla rilevanza della questione di costituzionalita'. 
    E', invero, noto che il precetto di cui all'art. 866 del c.o.m.),
in combinato disposto con le altre sopra  richiamate  previsioni  del
medesimo codice, vale a  dire  l'art.  867  comma  3  e  l'art.  923,
introduca una fattispecie di automatica e obbligatoria cessazione del
rapporto i cui  effetti  definitivamente  interdittivi  sono  legati,
sotto il profilo genetico, da un rapporto vincolato ed automatico con
gli sviluppi del processo penale (id est  condanna),  senza  che  sul
loro  maturare  possano  in  alcun   modo   interferire   valutazioni
discrezionali dell'Amministrazione di appartenenza nell'ambito  (come
avviene di norma) di  un  apposito  procedimento  amministrativo,  da
ritenersi viceversa indispensabile siccome forma indefettibile  della
funzione amministrativa. 
    In altri termini, il provvedimento impugnato si pone come  misura
rigorosamente  attuativa  di  norme   vincolanti   che   rendono   la
statuizione amministrativa atto dovuto ed a contenuto vincolato. 
    Ed, invero, a tal riguardo, si rivela eloquente la piana  lettura
dell'art. 866 del C.O.M. a mente del quale: 
    1. La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue  a
condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare
o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione
o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle
pene accessorie di cui all'art. 19, comma  1,  numeri  2)  e  6)  del
codice penale. 
    2.  I  casi  in  base  ai  quali  la  condanna  penale   comporti
l'applicazione della rimozione o della  interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici sono contemplati, rispettivamente, dalla legge penale
militare e dalla legge penale comune. 
    Circa i meccanismi  operativi  che  governano  l'applicazione  di
siffatta misura significativa e' la previsione  di  cui  al  comma  3
dell'art. 867 del C.O.M. nella parte in cui prevede  (in  riferimento
alle casistica cui va ricondotta la fattispecie qui in esame) che  Se
la perdita del grado consegue a condanna penale,  la  stessa  decorre
dal passaggio in giudicato della sentenza. 
    Quanto agli effetti, e' utile, anzitutto, richiamare il  disposto
dell'art. 861 del C.O.M., comma IV, secondo cui per gli  appartenenti
ai ruoli dell'Arma dei carabinieri, la  perdita  del  grado,  se  non
consegue  all'iscrizione  in  altro  ruolo,   comporta   l'iscrizione
d'ufficio nel ruolo dei militari di  truppa  dell'Esercito  italiano,
senza alcun grado. 
    Occorre, infine, considerare che il disposto  dell'art.  923  del
C.O.M., rubricato «Cause che determinano la cessazione  del  rapporto
di impiego» ed inserito nella sezione V riferita alla «Cessazione dal
servizio permanente», annovera tra le cause suddette anche la perdita
del grado (lettera i) e prevede, al comma 3, che il provvedimento  di
cessazione dal servizio sia adottato  con  decreto  ministeriale,  ma
anche, al comma 5, che il militare cessi dal servizio, nel momento in
cui nei suoi riguardi si verifichi una delle cause di cessazione, tra
cui, appunto, la perdita di grado. 
    E', dunque, di tutta evidenza come, a seguito e per effetto della
definitivita' della condanna del ricorrente alla pena  (non  sospesa,
si badi bene, su richiesta dello stesso imputato e non perche' non ne
ricorressero  i  presupposti  applicativi)  della  interdizione   dai
pubblici uffici per la durata di  mesi  2  e  gg  20  di  reclusione,
l'Amministrazione - senza la mediazione costitutiva  di  una  propria
autonoma  determinazione  -  e'   stata   tenuta   ad   adottare   il
provvedimento qui impugnato  recante  la  misura  della  perdita  del
grado, cui ha fatto seguito, sempre  ope  legis,  la  cessazione  del
servizio permanente nell'arma dei carabinieri e del relativo rapporto
di impiego, e la conseguente iscrizione nel  ruolo  dei  militari  di
truppa dell'Esercito italiano, senza alcun grado. 
    E   d'altro   canto,   attraverso   una   piana   lettura   delle
argomentazioni  compendiate  nello  stesso  preambolo   del   decreto
ministeriale,    si    coglie,    con    immediatezza,    il    senso
dell'ineluttabilita'  che  regge  la  spedizione  della   misura   in
argomento. 
    Inoltre, la stessa amministrazione convenuta  ha  sostanzialmente
confermato,  riproponendola  nella  propria  memoria  difensiva,   la
suddetta ricostruzione  rimarcando  giustappunto  anche  gli  effetti
automaticamente espulsivi, sopra evidenziati, rinvenienti dal  citato
art. 923. 
    In ragione di quanto fin  qui  evidenziato  -  e  non  residuando
ulteriori motivi di doglianza - si rivela dunque dirimente,  ai  fini
dello scrutinio della domanda attorea, il vaglio di costituzionalita'
della disciplina sopra richiamata, atteso che solo caducazione  della
suddetta normativa consentirebbe a questo  Giudice  di  annullare  il
provvedimento impugnato. 
    5.  Quanto  al  profilo  della  non  manifesta  infondatezza,  il
Collegio non ignora che, proprio di recente, la norma de qua (id  est
art. 866 C.O.M.) abbia superato il vaglio della Corte  costituzionale
(cfr. sentenza 18 - 20 novembre 2013, n. 276). 
    Pur  tuttavia,  mette  conto  evidenziare   che   la   richiamata
pronuncia,  con  cui   il   Giudice   delle   leggi   ha   dichiarato
inammissibile,  per  insufficiente  determinazione  dei  termini  del
giudizio  e  carenza  di   motivazione,   un'analoga   questione   di
legittimita' costituzionale sollevata  dal  tribunale  amministrativo
regionale Lazio, esaurisce i  suoi  effetti  su  un  piano  meramente
formale che involge la  sola  attitudine  strutturale  della  singola
ordinanza di rimessione emessa  dal  giudice  a  quo  ad  incardinare
ritualmente il giudizio di costituzionalita'. 
    Nella  specie,  il  Giudice  delle  leggi  ha   evidenziato   che
l'ordinanza del giudice  capitolino  non  conteneva  alcuni  elementi
essenziali  per  effettuare  la  comparazione  tra  la   disposizione
impugnata e il principio generale  applicabile  al  pubblico  impiego
(ricavabile dall'art. 9 della legge n. 19 del 1990), richiamato  come
tertium comparationis.  Il  giudice  a  quo,  inoltre,  avrebbe  solo
genericamente  richiamato  l'orientamento  sfavorevole  della   Corte
costituzionale a  quelle  disposizioni  che  comportano  l'automatica
cessazione del rapporto di pubblico impiego  a  seguito  di  condanna
penale, senza tener  conto  della  recente  evoluzione  normativa  in
materia di reati contro la pubblica  amministrazione,  caratterizzata
da una maggiore severita'.  Privo  di  motivazione,  infine,  sarebbe
rimasto anche il richiamo - pur formalmente contenuto  nell'ordinanza
di remissione - ai parametri di cui agli articoli 4 e 35, Cost. 
    5.1. Ed e' proprio nel solco  delle  coordinate  tracciate  dalla
Corte che il Collegio ritiene indispensabile un  nuovo  scrutinio  di
costituzionalita' esteso, questa volta,  alle  aberranti  conseguenze
cui condurrebbero la predicata rigidita'  delle  norme  suindicate  e
l'incondizionata automaticita'  della  misura  da  esse  prevista  in
presenza del solo dato formale di una  condanna  penale  non  sospesa
alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici
e senza che assuma rilievo  alcuno  la  vicenda  sottostante  la  cui
puntuale disamina - avuto riguardo al  caso  di  specie  -  verrebbe,
invece, a svuotare di contenuto la sua effettiva ragion d'essere. 
    Nel relativo percorso  argomentativo  il  Collegio  e'  agevolato
dalla  gia'  intervenuta  riproposizione,  proprio  di  recente,  del
medesimo  incidente  di  costituzionalita'  ad  opera  del  tribunale
amministrativo regionale  Lombardia  (cfr.  sentenza  non  definitiva
01476/2015 del 26.6.2015), del cui ampio impianto motivazionale si e'
tenuto conto nel confezionare il presente provvedimento. 
    6. Tanto premesso ritiene il Collegio  che  le  norme  suindicate
contrastino, anzitutto, con l'art. 3  della  Costituzione  a  cagione
della  patente  irragionevolezza  del  complessivo  regime  giuridico
delineato dal legislatore, come sopra ricostruito. 
    Com'e'  noto,  l'esercizio  della  discrezionalita'   legislativa
incontra i limiti invalicabili segnati dai precetti costituzionali e,
per essere in armonia con l'art. 3 Cost., occorre che sia conforme  a
criteri di intrinseca ragionevolezza. 
    Di contro, e  come  di  seguito  meglio  evidenziato,  l'impianto
normativo qui in discussione, per il fatto di riferirsi a fattispecie
eterogenee tra le quali non sempre e' possibile individuare un comune
denominatore, si rivela manifestamente inadeguato a neutralizzare gli
elementi di specificita' desumibili dalle particolarita' del  singolo
fatto in addebito e dagli altri parametri, soggettivi  ed  oggettivi,
che,  viceversa,  dovrebbero  formare  oggetto   di   una   ponderata
valutazione   dell'Amministrazione   onde   consentirle   di    poter
apprezzare, in concreto, l'effettiva sussistenza delle condizioni che
giustificano, per esigenze di interesse  pubblico,  l'espulsione  dal
proprio ordinamento di settore di un militare  condannato  alla  pena
accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici. 
    D'altro canto, come evidenziato in prosieguo proprio muovendo  da
una  disamina  della  fattispecie  qui  in   rilievo,   l'automatismo
sanzionatorio  previsto  dalle  norme  censurate   nemmeno   potrebbe
giustificarsi   ritenendo   che   -   nell'evenienze   cui    conduce
l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai
pubblici  uffici  -  esso  si  fondi,  sempre  e  comunque,  su   una
presunzione assoluta di  piu'  accentuata  riprovevolezza  ovvero  di
particolari indegnita' morali incompatibili  con  lo  svolgimento  di
pubbliche funzioni. 
    E cio' pone la disciplina in  esame  in  rapporto  di  insanabile
contrasto  con  il  principio  piu'  volte  affermato   dalla   Corte
costituzionale in virtu' del quale «le presunzioni  assolute,  specie
quando limitano un diritto fondamentale  della  persona,  violano  il
principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe'  se
non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula    dell'id    quod    plerumque     accidit»,     sussistendo
l'irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in  cui
sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base  della  presunzione  stessa»  (cfr.  ex
multis sentenze n. 185 del 2015; n. 232 e n. 213 del 2013; n.  231  e
n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010). 
    Ed e' proprio, dunque, nel raffronto con i  richiamati  principi,
espressione del cd. diritto costituzionale vivente, che le norme  qui
in rilievo si pongono in aperta e plateale distonia. 
    6.1.  Si  e'  gia'  sopra  evidenziato   attraverso   la   fedele
rappresentazione del contenuto precettivo delle singole  disposizioni
normative  qui  evocate  come  di  dubbia  costituzionalita'  che  la
sequenza degli effetti delineata dal  legislatore,  per  effetto  del
meccanismo di rinvio all'uopo congegnato (articoli 866, comma 1, 867,
comma 3 e 923 del decreto legislativo n. 66/2010), sia dominata da un
rigido automatismo che conduce  in  modo  vincolante  ad  una  misura
espulsiva pronunciata dall'autorita'  amministrativa  in  assenza  di
qualsivoglia apprezzamento della sottostante vicenda  nella  naturale
sede procedimentale. 
    A cagione della divisata rigidita'  del  costrutto  normativo  di
riferimento, l'Amministrazione intimata e' stata, dunque, chiamata ad
operare,  con  inusitata  severita',   in   un   ambito   rigidamente
condizionato, quanto alle premesse, dalla pronuncia di  una  sentenza
del giudice penale, senza pero' poterne apprezzare nemmeno i relativi
contenuti di accertamento. 
    Nelle  evenienze  sopra  descritte  l'Amministrazione  non  puo',
infatti, che riferirsi al  dato  formale  della  sola  esistenza  del
suddetto   provvedimento   giurisdizionale   di   condanna    recante
l'applicazione della interdizione, ancorche' temporanea, dai pubblici
uffici. 
    A ben vedere, non  solo  resta  preclusa  all'Amministrazione  la
possibilita'  di  un  autonomo  apprezzamento  dei  fatti  sottesi  a
siffatta  pronuncia,  ma  assume  una  valenza  neutra,  ai  fini  in
questione, lo stesso contenuto di accertamento in cui si compendia il
decisum  di  riferimento,  essendo  irrilevante,  nell'economia   del
giudizio di cui all'art. 866 del C.O.M., qualsivoglia  aspetto  della
vicenda penale per come ricostruita dallo stesso giudice penale. 
    6.2. Un tale approdo non puo' essere ritenuto compatibile con  la
disciplina costituzionale e  la  premessa  da  cui  occorre  prendere
abbrivio inevitabilmente e' data dai principi ripetutamente affermati
dalla Corte costituzionale nello scrutinio di costituzionalita' delle
norme che  hanno  statuito  l'incompatibilita'  costituzionale  della
sanzione della destituzione dal rapporto di impiego senza  il  previo
filtro del procedimento disciplinare. 
    E' ben chiaro al Collegio il diverso ambito in cui ci si muove in
questa  sede  (mediazione  costitutiva  nel   processo   destitutorio
congegnato dal legislatore della  pena  accessoria  dell'interdizione
temporanea dai pubblici uffici); cio' nondimeno  il  doveroso  sforzo
ermeneutico di cui si  e'  fatto  carico  la  Sezione  e'  quello  di
verificare  la  concreta  sussistenza   di   effettivi   profili   di
sostanziale disomogenita' nelle situazioni in raffronto  (quella  qui
in rilievo e quella della destituzione automatica dal  servizio)  si'
da appurare la tenuta costituzionale di una cosi' radicale diversita'
di trattamento. 
    Orbene, nella  concreta  declinazione  applicativa  dei  principi
regolatori su cui riposa  la  Carta  costituzionale  (e  segnatamente
dell'art. 3 cost.) si e', infatti, sovente affermato che,  nel  campo
della potesta' disciplinare, come nell'area punitiva penale, sussiste
l'esigenza della esclusione di sanzioni rigide, cioe' della "adozione
di  criteri  normativi  idonei  alla  commisurazione   delle   misure
sanzionatorie conseguenti alla irrevocabile condanna penale", e  cio'
"quale esigenza - ex art. 3 della Costituzione - di  adeguatezza  tra
illecito e irroganda sanzione (C. Cost. sentenza n. 270 del 1986). 
    Tale affermazione ha poi condotto ai postulati su cui  riposa  la
celeberrima sentenza n. 971 del 1988 che porto' alla dichiarazione di
illegittimita' costituzionale dell'art. 85, lett.a), del decreto  del
Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 -  nella  parte  in
cui non prevedeva, in luogo  del  provvedimento  di  destituzione  di
diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare  -
a mente dei quali «l'indispensabile  gradualita'  sanzionatoria,  ivi
compresa  la  misura  massima  destitutoria,  importa  ...   che   le
valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede  di
valutazione: il procedimento disciplinare, in  difetto  di  che  ogni
relativa  norma  risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,   e
conseguentemente irrazionale ex art. 3 della Costituzione». 
    Tali principi sono  stati  poi  ribaditi  in  ulteriori  pronunce
(sentt. nn. 40 e 158 del 1990, 16, 104 del 1991, 197  del  1993,  363
del 1996), nelle quali si e' ulteriormente evidenziato che il profilo
essenziale di contrasto con l'art. 3  della  Costituzione  consisteva
nell'automatismo della massima sanzione disciplinare, prevista, senza
alcuna distinzione, per una molteplicita' di possibili comportamenti. 
    In  seguito,  l'art.  9  della  legge  7  febbraio  1990,  n.  19
(Modifiche in tema di  circostanze,  sospensione  condizionale  della
pena   e   destituzione   dei   pubblici   dipendenti)   -   peraltro
successivamente conformato dalla legge 27 marzo 2001,  n.  97  (Norme
sul rapporto tra procedimento penale e procedimento  disciplinare  ed
effetti  del  giudicato   penale   nei   confronti   dei   dipendenti
dell'amministrazioni pubbliche), e dal decreto legislativo 27 ottobre
2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in  materia
di ottimizzazione  della  produttivita'  del  lavoro  pubblico  e  di
efficienza  e  trasparenza  delle  pubbliche  amministrazioni)  -  ha
espunto dall'ordinamento la  destituzione  di  diritto  del  pubblico
dipendente a seguito di condanna  penale,  abrogando  ogni  contraria
disposizione. 
    Dal  coacervo  dei  principi  mutuabili  dalla   ricca   e   viva
giurisprudenza  costituzionale  sopra  richiamata  e'  possibile  far
discendere i seguenti corollari che,  viepiu'  in  subiecta  materia,
fissano i limiti interni del canone di ragionevolezza di una norma: 
        disfavore per sanzioni rigide che potenzialmente impediscono,
in  apice,  di  apprezzare,  nella  sede  naturale  del  procedimento
amministrativo, la necessaria adeguatezza tra illecito  ed  irroganda
sanzione; 
        i meccanismi sottesi ad ogni forma  di  astratto  automatismo
rischiano di uniformare nel trattamento  sanzionatorio  comportamenti
dissimibili   con   conseguente   violazione   del    principio    di
proporzionalita'   della   sanzione,   precipitato   tecnico    della
razionalita' che domina il principio di uguaglianza. 
    6.3. Tanto premesso,  a  giudizio  del  Collegio,  non  ricorrono
ostacoli di ordine strutturale e funzionale per estendere i  medesimi
principi sopra richiamati alle disposizioni in commento  nella  parte
in cui, in riferimento ai casi di applicazione della pena  accessoria
della interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici,  delineano  il
medesimo  meccanismo  operativo  siccome   segnato   da   un   rigido
automatismo cui si riconnette il travaso in ambito amministrativo  di
effetti espulsivi direttamente discendenti da sanzioni penali. 
    L'elemento  di  pretesa  specialita'  nella  fattispecie  qui  in
rilievo dovrebbe consistere nel fatto che tale effetto espulsivo trae
alimento  dall'applicazione  di   una   pena   accessoria   di   tipo
interdittivo (ancorche' temporaneo). 
    Orbene, e' necessario fin d'ora premettere che  non  sussiste  un
rapporto di ontologica alterita' tra  la  pena  principale  e  quella
accessoria, ravvisandosi piuttosto una situazione di omologia tra  le
suddette sanzioni. 
    La  stessa  Corte  costituzionale  ha  evidenziato  che  la  pena
accessoria, anche a prescindere  dalla  denominazione  normativa,  e'
vera e propria pena criminale, anche se a  carattere  interdittivo  e
come tale considerata dai lavori  preparatori  (V,  1,  p.  64):  non
esiste, pertanto, altro criterio di distinzione della pena accessoria
dalla pena principale  se  non  appunto  quello  della  sua  astratta
«complementarita'» (cfr. Corte costituzionale n. 490 del 1989). 
    La chiara percezione dell'esatto rapporto tra  le  due  sanzioni,
pena principale e pena accessoria, cosi' come una serena disamina dei
rapporti di implicazione che si pongono tra  la  pena  accessoria  di
interdizione temporanea e il rapporto di impiego, dovrebbero  indurre
a ridimensionare la pretesa differenza delle situazioni  di  partenza
ed  a  riconoscere,  piuttosto,  la   sostanziale   identita'   delle
problematiche evocate dalla previsione in  ambito  amministrativo  di
effetti destitutori quali automatiche conseguenze di una pronuncia di
condanna da parte del giudice penale. 
    E infatti  -  come  si  cerchera'  in  seguito  di  dimostrare  -
l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione temporanea dai
pubblici uffici,  quantomeno  nelle  ipotesi  com'e'  quella  qui  in
rilievo, in cui riflette una durata  particolarmente  contenuta,  non
evoca  di  per  se  stessa,  e  con  la  automaticita'  imposta   dal
legislatore, impedimenti di  ordine  strutturale  e  funzionale  alla
prosecuzione del rapporto di impiego. 
    6.4. Cio' nondimeno, l'opzione ermeneutica suggerita dal Collegio
va doverosamente verificata passando in  rassegna  l'orientamento  di
segno contrario fin qui espresso (sulla questione della non manifesta
infondatezza della questione di costituzionalita' in argomento) dalla
giurisprudenza amministrativa e di legittimita'. 
    A  tal  riguardo,  occorre  anzitutto  premettere   che   secondo
autorevole giurisprudenza la misura de  qua  (perdita  del  grado  ed
effetti consequenziali) non  rappresenta  un  effetto  penale  o  una
sanzione accessoria alla condanna, bensi'  un  effetto  indiretto  di
natura amministrativa, giustificato dalla «fisiologica impossibilita'
di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell'irrogazione  di  una
sanzione di carattere interdittivo». 
    In   questo   quadro,   l'irrogazione   della   pena   accessoria
dell'interdizione dai pubblici uffici e' presa in considerazione come
mero presupposto oggettivo cui e' ricollegato l'effetto ex lege della
perdita del grado e della cessazione dal servizio (cfr. CdS,  Sezione
VI, n. 389 del 27/01/2014). 
    Occorre  poi  soggiungere  che,  muovendo  da  tale  assunto,  il
principio del  divieto  di  automatismi  sanzionatori  a  seguito  di
condanna penale (v. soprattutto Corte costituzionale 971/1988 e legge
n. 19 del 1990) e' stato ritenuto  non  applicabile  nell'ipotesi  di
pene accessorie. 
    In tal senso  si  e'  ripetutamente  espressa  la  giurisprudenza
amministrativa affermando che l'applicabilita'  della  disciplina  di
cui alla legge n. 19 del 1990, articoli 9 e 10  -  che  prevedono  il
previo   procedimento   disciplinare   in   ogni   caso,   escludendo
l'applicabilita' di sanzioni espulsive dal pubblico  impiego  in  via
automatica - non e' possibile nei casi in cui la perdita dell'impiego
consegua come effetto automatico di una  sanzione  penale  accessoria
(v. fra le altre Cons. Stato sez. 4 13-2-1995 n. 81, Cons. Stato sez.
5 23-4-1998 n. 468, Cons. Stato  sez.  6  28-9-2001  n.  5163,  Cons.
Stato, Cons. Stato sez. 4 9-12-2002  n.  6669,  Cons.  Stato  sez.  5
21-6-2007 n. 3324; Consiglio di Stato, VI Sezione, 27 gennaio 2014 n.
389, Sez. IV nn. 2480 del 14.5.2014; Consiglio di Stato, sez. IV,  30
giugno  2010  n.  4166;   Lazio,   Sezione   Prima   Bis,   n.   2469
dell'11/02/2015, n. 5754 del 20/04/2015). 
    Si e', infatti, ritenuto che l'art. 9 della legge n. 19 del  1990
non ha abrogato  ogni  disposizione  di  legge  contrastante  con  il
divieto  dell'automatica  destituzione,   ed   il   suo   ambito   di
operativita' deve essere ristretto alla sola destituzione di  diritto
per  effetto  della  mera  condanna  penale.  Per  la  giurisprudenza
amministrativa  non  e',  infatti,  possibile  omologare  le  diverse
situazioni qui in discorso, ponendo in ombra  la  chiara  distinzione
fra la destituzione  automatica  quale  sanzione  disciplinare  e  la
destituzione automatica quale  conseguenza  di  una  pena  accessoria
(cosi' da ultimo Consiglio  di  Stato  Sezione  Quarta  n.  2480  del
14/05/2014). 
    Anche l'orientamento della Suprema Corte e' allineato ai suddetti
postulati avendo il giudice di legittimita' piu' volte affermato  che
"la legge n. 19 del 1990, art. 9  ai  sensi  del  quale  il  pubblico
dipendente non  puo'  essere  destituito  di  diritto  a  seguito  di
condanna penale, deve intendersi riferito alla destituzione  adottata
quale conseguenza disciplinare della condanna, che necessita, in ogni
caso  l'esperimento  del  procedimento  previsto  per  l'adozione  di
sanzioni di carattere disciplinare, e non anche a quella  conseguente
all'applicazione di  misure  accessorie  di  carattere  interdittivo,
rispetto alle quali la cessazione del rapporto  costituisce  solo  un
effetto indiretto, per la fisiologica impossibilita' di  prosecuzione
del rapporto (cfr. sentenza del 9-7-2009 n. 16153; Cassazione  civile
sez. lav. n. 3698 del 17/02/2010). 
    Occorre,  infine,  soggiungere  che   della   distinzione   sopra
richiamata tra le fattispecie in raffronto  vi  e',  infine,  traccia
pure nella giurisprudenza costituzionale (cfr.  Corte  costituzionale
n. 197 del 1993; ordinanze n. 201 e n. 137 del 1994, n. 363 del 1996;
n. 383 del 1997; 286 del 1999; n. 276 del 2013). 
    Cio' nondimeno, una piana lettura delle richiamate  pronunce  del
Giudice delle leggi sembra indurre a ritenere che finora gli  effetti
dello scrutinio svolto  dalla  Consulta  si  esauriscano  nella  sola
esatta perimetrazione dell'ambito di diretto riferimento dei principi
affermati nella nota sentenza n. 971/1988, poi recepiti  nella  legge
n. 19 del 1990, indubbiamente non pronunciati con specifico  riguardo
alle pene accessorie. 
    In altri termini, assodato che l'affermato principio del  divieto
di automatismi sanzionatori a  seguito  di  condanna  penale  risulta
espressamente pronunciato in riferimento esclusivo al solo piano  dei
rapporti tra procedimento penale e sanzioni disciplinari non e'  dato
rinvenire nelle richiamate pronunce una diretta ed esaustiva indagine
sui medesimi meccanismi distorsivi cui possono  condurre  fattispecie
normative, come quelle qui in rilievo, rispetto alle quali  l'effetto
espulsivo  dipenda   dall'applicazione   di   una   pena   accessoria
interdittiva temporanea emessa in relazione ad un fatto lieve  e  per
una durata obiettivamente contenuta. 
    Ed, infatti, in nessuna delle pronunce  suindicate  la  Corte  ha
approfondito ex professo i rapporti di  implicazione  delle  sanzioni
amministrative  destitutorie  (ovvero  degli  effetti  amministrativi
destitutori) rispetto  alle  pene  accessorie  di  tipo  interdittivo
temporaneo pronunciate in sede penale. La Consulta ha,  infatti,  fin
qui evidenziato come non possano essere estese a tale ambito,  e  con
la pretesa automaticita', i principi di cui alla  sentenza  971/1988,
ma  non  ha  direttamente  e  recisamente  escluso,  per  effetto  di
un'approfondita disamina del corrispondente ambito ordinamentale,  la
replicabilita' dei medesimi principi anche  rispetto  a  fattispecie,
quale quella qui in rilievo,  dove  l'effetto  destitutorio  e'  solo
mediato da una  pena  accessoria  di  tipo  interdittivo  ad  effetto
temporaneo, peraltro particolarmente contenuto  nella  sua  durata  e
riferito ad una vicenda giudicata, nello stesso ambito penale, di non
particolare gravita'. 
    Ed, infatti, se la soluzione puo' ritenersi agevole nel  caso  in
cui alla condanna in sede penale consegua l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici (disciplinata dall'art. 622 del  C.O.M.),  tanto  non
puo' dirsi nei casi in cui la misura interdittiva sia solo temporanea
ed  oltretutto  pronunciata  (come  di  seguito  meglio  evidenziato)
rispetto  a  fatti  non  espressivi  di  un  significativo  disvalore
sociale. 
    Con la sentenza  n.  286  del  1999  la  Corte  ha  efficacemente
giustificato l'effetto destitutorio in commento evidenziando come  la
risoluzione del rapporto d'impiego costituiva, nello  specifico  caso
esaminato,  soltanto  un  effetto  indiretto  della  pena  accessoria
comminata in perpetuo. 
    Al di fuori, pero', del  perimetro  operativo  di  misure,  quale
quella dell'interdizione  perpetua  dai  pubblici,  che  generano  un
impedimento strutturale alla prosecuzione del  rapporto,  non  sembra
possa  ritenersi  predicabile  -  per  mancanza  di  omogeneita'  dei
presupposti - un'estensione  dei  medesimi  effetti  anche  ai  casi,
obiettivamente diversi,  in  cui  la  misura  interdittiva  sia  solo
temporanea. 
    Peraltro,  nemmeno  puo'   essere   sottaciuto   che   la   Corte
costituzionale,  nella  sentenza  n.  363  del  1996,  ebbe  gia'   a
dichiarare l'incostituzionalita' dell' art. 12 della legge 18 ottobre
1961, n. 1168, lettera f), e dell'art.  34,  n.  7,  della  legge  18
ottobre  1961,   n.   1168   (Norme   sullo   stato   giuridico   dei
vice-brigadieri e dei militari di truppa dell'Arma dei  Carabinieri),
nella parte in  cui  non  prevedono  l'instaurarsi  del  procedimento
disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per  perdita
del grado, conseguente alla pena accessoria della  rimozione,  misura
accessoria interdittiva a carattere permanente. 
    Ed, infatti, nella richiamata pronuncia la Corte si e' diffusa ad
esaminare proprio la rigida e consequenziale scansione degli  effetti
che, in via automatica, conseguivano,  alla  stregua  del  richiamato
combinato disposto, ad una pronuncia di condanna in sede penale. 
    Orbene, nella pronuncia citata e' proprio il  rigido  automatismo
sotteso alla  sequenza  degli  effetti  giuridici  sullo  status  del
militare, ancorche' mediato dall'applicazione di pene accessorie  (in
quel caso della rimozione), che e' stato fatto oggetto di censura per
violazione   dell'art.   3   della   Costituzione,   con    riguardo,
innanzitutto, al canone della razionalita' normativa  (sent.  n.  971
del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenza n. 415 del 1991,  sentenza
n. 104 del 1991, sentenza n. 134 del 1992, sentenza n. 126 del 1995). 
    E'  pur  vero  che  con  la  medesima  pronuncia  la  Corte,  nel
dichiarare infondata la censura mossa all'art. 33 del  codice  penale
militare di pace, ebbe a ribadire  che  «la  nuova  disciplina  sulla
destituzione dei pubblici dipendenti, di cui all' art. 9 della  legge
n. 19 del 1990, e' estranea all'applicazione delle  pene  accessorie,
anche di carattere interdittivo (ord. n. 201 del 1994 e ordinanza  n.
137 del 1994, e sentenza n. 197 del 1993, di cui v., in  particolare,
il  n.  4  del  Considerato  in  diritto)»  cio'  nondimeno  non   e'
evidentemente possibile inferire da tale assunto, e  con  la  pretesa
automaticita', che ogni misura (amministrativa) espulsiva rinveniente
dall'applicazione di una pena accessoria (viepiu' se di  interdizione
temporanea) sia per definizione, sempre e comunque, compatibile con i
principi costituzionali sopra passati in  rassegna  e  che  governano
l'ordinamento di settore. 
    Deve, piuttosto, ritenersi che la pronuncia della Corte, in parte
qua, esaurisca  i  suoi  effetti  -  come  sopra  gia'  anticipato  -
nell'evidenziare  come  nel  fuoco  dello   specifico   giudizio   di
incostituzionalita' in  quella  sede  svolto  sia  caduto,  non  gia'
sull'applicazione delle pene  accessorie  (cosi'  come,  nelle  altre
fattispecie, non cadeva sulla pena principale comminata  dal  giudice
penale), bensi' sugli effetti amministrativi  concernenti  lo  status
del militare, vale a dire  sul  quel  coacervo  di  disposizioni  che
fungono da raccordo tra statuizioni pronunciate  dal  giudice  penale
(pena principale e/o pene accessorie) e conseguenti misure  espulsive
applicate  in  ambito  amministrativo,   censurandosi   ogni   rigido
automatismo. 
    Un diverso approdo ermeneutico  troverebbe  una  recisa  smentita
proprio  nella  prima  parte  della  pronuncia  in  commento  che  si
riferisce giustappunto al  caso  di  misure  espulsive  che  traggono
diretto ed esclusivo alimento proprio dall'applicazione al condannato
di pene accessorie secondo lo  schema  effettuale  sopra  ricostruito
(condanna  penale,  rimozione,  perdita  del  grado,  cessazione  dal
servizio). 
    E'  stato,  a  tal  riguardo,  efficacemente  evidenziato   (cfr.
tribunale amministrativo regionale Lombardia sentenza non  definitiva
n. 01476/2015 del 26.6.2015) che  l'unica  differenza  rispetto  alla
questione  all'epoca  sottoposta  a  codesta  Corte  consista   nella
circostanza che la pena accessoria che aveva dato luogo alla  perdita
del grado  fosse  quella  della  rimozione  e  non  dell'interdizione
temporanea dai pubblici uffici. 
    Il Collegio - condividendo sul  punto  le  lucide  argomentazioni
compendiate nel richiamato provvedimento  di  remissione  alla  Corte
della questione  di  costituzionalita'  -  non  ritiene  peraltro  di
ravvisare una differenza di rilievo tra le due ipotesi  (rimozione  e
interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici),   tale   cioe'   da
giustificare una diversa applicabilita' dei principi  espressi  dalla
Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996. 
    Si tratta, infatti, in entrambe le ipotesi,  di  sanzioni  penali
(di cui una accessoria alla condanna per un reato  militare,  l'altra
accessoria alla condanna per  un  reato  comune)  che  comportano  la
perdita del  grado  e  la  conseguente  cessazione  dal  rapporto  di
impiego, ai sensi dell'art. 923 del decreto  legislativo  n.  66/2010
(norma che riproduce, di fatto, l'art. 34, numero 7  della  legge  n.
1168/1961, gia' dichiarato incostituzionale  dalla  sentenza  n.  363
sopra citata). 
    Comune e' anche il presupposto generale applicativo,  ovvero  una
condanna in via definitiva alla reclusione (comune  o  militare)  per
durata non inferiore a tre anni (nel caso in esame di durata pari  ad
appena due mesi e 20 gg. poi convertita nella sola pena pecuniaria). 
    Peraltro,  la  sanzione  penale  accessoria  della  rimozione  e'
perpetua, mentre l'interdizione temporanea e', per  definizione,  non
definitiva (nella specie di durata pari a due mesi e 20 gg.). 
    In entrambi i casi, ha  efficacemente  argomentato  il  tribunale
amministrativo regionale Lombardia, la sanzione della destituzione di
diritto (dovendosi considerare tale ogni mutamento dello  status  del
lavoratore  implicante  la  fine  traumatica  del  suo  rapporto   di
impiego), comminata in  ossequio  all'automatismo  applicativo  della
legge di cui e' posta in dubbio la costituzionalita', colpisce, senza
alcuna distinzione,  la  molteplicita'  dei  comportamenti  possibili
nell'area dello stesso illecito penale, con offesa del «principio  di
proporzione», che e' alla base  della  razionalita'  che  domina  «il
principio di eguaglianza», e che postula l'adeguatezza della sanzione
al caso concreto. Adeguatezza che non puo' essere  raggiunta  se  non
attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto
nella  commissione  dell'illecito  amministrativo,  che  soltanto  il
procedimento disciplinare consente. 
    7. In definitiva ritiene il Collegio che una piana lettura  della
giurisprudenza  formatasi  in  subiecta   materia   non   offra   una
spiegazione  plausibile  della   preferenza   accordata   all'opzione
esegetica   incline   (ad   escludere   i   prospettati   dubbi    di
costituzionalita' della normativa qui in rilievo ed) a preservare, in
ogni  caso,  l'intangibilita'  degli  effetti  espulsivi  rinvenienti
dall'applicazione  di  pene  accessorie  interdittive,  ancorche'  di
durata temporanea. 
    Manca, invero, nei richiamati  decisa  la  chiara  esplicitazione
delle  specifiche  ragioni  che,  in  considerazione  della  presunta
specialita'  degli  effetti  rinvenienti  da   pene   accessorie   di
interdizione temporanea, consentirebbero di  rendere  giustificato  e
dovuto quello stesso effetto  destitutorio  che,  viceversa,  non  e'
consentito dall'ordinamento ove consegua direttamente  alla  condanna
alla pena principale. 
    7.1. Ed, invero, lo stesso generico riferimento alla «fisiologica
impossibilita' di prosecuzione del rapporto», sovente ribadita  nelle
suddette pronunce, sembra  evocare  l'impedimento  oggettivo  proprio
delle misure interdittive ad  effetto  permanente  (come  ad  esempio
l'interdizione perpetua dai pubblici uffici), laddove,  nel  caso  di
misure ad effetto solo temporaneo (id est interdizione temporanea dai
pubblici  uffici),  non  sembra  appropriato  riproporre  la   teoria
dell'impedimento   strutturale   permanente,   venendo   in   rilievo
un'impossibilita' solo temporanea di dare esecuzione al  rapporto  di
lavoro, destinato dunque a riespandersi al  cessare  dello  stato  di
quiescenza indotto dalla esecuzione della pena accessoria. 
    E' evidente come -  non  sussistendo  in  siffatte  evenienze  un
ostacolo  di  ordine  strutturale  che  renda  di  per   se'   stesso
impossibile  la  continuazione  del   rapporto   di   lavoro   -   si
affievolisca, rispetto alle misure interdittive temporanee, anche  la
perentorieta' della premessa dogmatica da cui  muovono  i  richiamati
decisa inclini a riconoscere ad ogni misura accessoria  interdittiva,
sempre e comunque, ed indipendentemente dal relativo regime temporale
(misura perpetua ovvero misura temporanea),  la  natura  di  un  mero
«effetto  indiretto  di  natura  amministrativa,  giustificato  dalla
fisiologica  impossibilita'   di   prosecuzione   del   rapporto   in
conseguenza   dell'irrogazione   di   una   sanzione   di   carattere
interdittivo». 
    Lo scollamento, viceversa, che si pone tra l'applicazione di  una
misura interdittiva di natura temporanea e le  concrete  possibilita'
(dopo un periodo di sospensione del  rapporto  dovuta  all'esecuzione
della suddetta misura) di una ripresa del rapporto sembrano piuttosto
lasciar propendere per una qualificazione  dell'effetto  destitutorio
in termini di vera e propria sanzione aggiuntiva, non ponendosi  esso
come  una  soluzione   necessitata   dall'applicazione   della   pena
accessoria siccome destinato a proiettare i suoi effettui  ben  oltre
la naturale scadenza di quest'ultima. 
    7.2.  Ne'  sembra  che,  in  presenza   della   pena   accessoria
interdittiva  qui  in  rilievo,  la  cessazione  del  rapporto  possa
giustificarsi sotto  diverso  profilo,  ad  esempio  nel  venir  meno
dell'interesse del datore di lavoro alla prestazione (in una  lettura
civilistica del rapporto qui nemmeno evocata) ovvero  in  ragione  di
una particolare  forma  di  indegnita'  morale  allo  svolgimento  di
pubbliche funzioni che impedirebbe, in apice, la continuazione  della
collaborazione professionale. 
    E', infatti, evidente, quanto  a  tale  ultima  opzione,  che  la
tenuta  costituzionale  di  una  tale  lettura  normativa  resterebbe
subordinata all'implicita premessa che le sanzioni irrogate in ambito
penale (principale ed accessorie) siano effettiva espressione  di  un
chiaro e significativo disvalore sociale, evenienza da escludersi nel
caso in esame per le ragioni di seguito esposte. 
    A tal riguardo, mette conto evidenziare che, a mente dell'art. 31
del codice penale (ed in disparte le ipotesi generali di cui all'art.
29 del c.p., qui non in rilievo), ogni condanna per delitti  commessi
con l'abuso dei poteri [tra cui anche per il delitto di cui  all'art.
323 c.p.], o con la violazione dei doveri  inerenti  a  una  pubblica
funzione, o ad un pubblico servizio, o a taluno degli uffici indicati
nel n. 3 dell'art. 28, ovvero con l'abuso di una  professione,  arte,
industria, o di un commercio o mestiere,  o  con  la  violazione  dei
doveri  a  essi  inerenti,  importa  l'interdizione  temporanea   dai
pubblici uffici o dalla professione, arte, industria o dal  commercio
o mestiere. 
    Occorre, altresi', tener  presente  che  nell'originario  tessuto
normativo del codice penale risulta, poi, introdotto (dall'art. 5, 2°
comma, legge 27.3.2001, n. 97) l'art. 32-quinquies,  rubricato  «casi
nei quali alla condanna consegue l'estinzione del rapporto di  lavoro
o di impiego»,  a  mente  del  quale  «Salvo  quanto  previsto  dagli
articoli 29 e 31, la  condanna  alla  reclusione  per  un  tempo  non
inferiore a due anni per i delitti di cui agli  articoli  314,  primo
comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 importa
altresi' l'estinzione  del  rapporto  di  lavoro  o  di  impiego  nei
confronti del dipendente di amministrazioni od enti  pubblici  ovvero
di enti a prevalente partecipazione pubblica». 
    Da una lettura sistemica delle richiamate disposizioni si  evince
che l'estinzione del rapporto di lavoro o di  impiego  nei  confronti
del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di  enti  a
prevalente  partecipazione  pubblica  non  consegue   automaticamente
all'applicazione della pena accessoria  dell'interdizione  temporanea
dai pubblici uffici ma costituisce ex se una pena accessoria ex  art.
19 comma 5-bis del codice penale e trova pero' applicazione, a  norma
dell'art.  32-quinquies  del  c.p.,  nella  sua   attuale   versione,
esclusivamente in presenza di determinate (e piu' gravi)  fattispecie
di reato (commesse con abuso  dei  poteri  o  violazione  dei  doveri
d'ufficio o di servizio), vale a dire  per  i  delitti  di  cui  agli
articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater,  primo
comma, e 320, e sempreche', in concreto, il giudice  penale  pronunci
una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni. 
    In altri termini, in base alla disciplina  comune,  la  recisione
del   rapporto   di   impiego   alle   dipendenze   della    pubblica
amministrazione resta riservata, come sopra anticipato, a fattispecie
di reato particolarmente gravi  e  sempreche'  la  condanna  comporti
l'applicazione di una pena superiore ad una determinata soglia. Solo,
dunque, in presenza della duplice condizione di un limite  minimo  di
pena detentiva (due anni) e di un elenco tassativo di reati, e dunque
di una ben definita soglia di gravita' del  fatto  reato,  condizioni
non  riscontrabili  nella  fattispecie  in  argomento,  l'ordinamento
ritiene non necessario, per i dipendenti civili dell'Amministrazione,
lo svolgimento di un procedimento disciplinare per la cessazione  del
rapporto di lavoro. 
    Orbene, anche in ragione di quanto appena evidenziato, ritiene il
Collegio che la divisata norma di raccordo  (art.  866  c.o.m.),  nel
ricollegare tale effetto, e  per  i  soli  militari,  a  qualsivoglia
condanna alla pena dell'interdizione temporanea dei  pubblici  uffici
non sospesa, privi - in modo  del  tutto  irragionevole  -  l'effetto
espulsivo  di  un  reale  aggancio  ad  un  oggettivo   e   tangibile
collegamento con fatti ed azioni che esprimano  in  via  immediata  e
diretta la mancanza dei  necessari  requisiti  di  moralita'  per  lo
svolgimento di pubbliche funzioni e/o servizi. 
    E cio' in ragione dell'abnorme latitudine  che  in  tal  modo  si
assegna al campo delle possibili  fattispecie  di  reato,  non  tutte
necessariamente gravi, ricadenti nell'alveo di naturale  applicazione
dell'art. 31 codice penale (ovvero dell'art.  29  c.p.,  qui  non  in
rilievo) e per cui puo' intervenire l'applicazione della interdizione
temporanea dai pubblici uffici. 
    La chiara riprova di quanto appena asserito  si  ricava,  d'altro
canto, plasticamente da una serena disamina del caso concreto. 
    7.3. Ai fini di una piu' agevole comprensione del problema non e'
superfluo rammentare che, nel caso in esame, la misura della  perdita
del grado e'  stata  disposta  in  conseguenza  di  una  sentenza  di
condanna  pronunciata  per  un  reato  non  contraddistinto   da   un
particolare allarme sociale e, oltretutto, commesso  da  un  soggetto
incensurato di cui,  nell'appropriata  sede  amministrativa,  non  e'
stato possibile in alcun modo approfondire il vissuto professionale. 
    Ed, invero, gia' in primo grado il G.I.P. di  Nola  ha  ritenuto,
rispetto all'originaria imputazione, elevata per i reati di cui  agli
articoli 110, 323 c.p., di poter configurare l'ipotesi  attenuata  di
cui all'art. 323-bis codice penale. 
    Inoltre, il Giudice d'appello,  nel  riformare  la  decisione  di
primo grado, ha ulteriormente rivisto al ribasso  la  gia'  contenuta
pena inflitta in prime cure sostituendo la pena detentiva di mesi due
e giorni 20 di reclusione con la corrispondente pena pecuniaria di  €
3.040,00 di multa. 
    Tanto  per  la  «...modestia   del   fatto   e   l'incensuratezza
dell'appellante». E' pur vero che il giudice d'appello  (che  per  il
resto confermava l'impugnata sentenza) ha poi revocato  il  beneficio
della sospensione condizionale della pena ma tanto ha fatto (non gia'
per l'insussistenza dei presupposti per la concessione  del  suddetto
beneficio bensi') solo per dare seguito alla ... richiesta  difensiva
accompagnata dal parere favorevole del polizia giudiziaria 
    Quanto appena evidenziato  non  puo'  non  refluire,  come  prova
logica, sulla irragionevolezza dell'attuale assetto  regolatorio  che
impone all'Amministrazione la  spedizione  di  una  misure  espulsiva
sulla scorta del ( solo) dato formale della pronuncia di una sentenza
di condanna alla pena  accessoria  dell'interdizione  temporanea  dai
pubblici uffici, indipendentemente  dal  tipo  di  reato,  dalla  sua
gravita', dalla pena inflitta e dalla  valenza  meramente  temporanea
della suddetta sanzione  accessoria  oltre  che  della  sua  concreta
durata, circostanze  che  consentirebbero  di  graduare  la  risposta
dell'ordinamento ma che non e' stato possibile apprezzare in concreto
per il rigido automatismo che cadenza gli effetti  normativi  qui  in
discussione. 
    Come  gia'  sopra  anticipato,   la   congruita'   della   misura
obbligatoria della perdita del grado e degli effetti  destitutori  ad
essa connessi potrebbe  astrattamente  dirsi  assistita  da  coerenza
logica ed intrinseca ragionevolezza fintantoche' la pronuncia penale,
di  cui  la  stessa  pena  accessoria  e'   inevitabilmente   diretta
espressione, valga a reggere un  effettivo  giudizio  di  sostanziale
disvalore di cui occorre apprezzare in via immediata ed obiettiva  le
dirette implicazioni sullo status del pubblico dipendente. 
    Solo in tale evenienza potrebbe forse giustificarsi -  in  deroga
al divieto di rigidi  automatismi  -  una  previsione  normativa  che
faccia dipendere dall'applicazione della sanzione  penale  accessoria
qui in rilievo negative ed automatiche conseguenze  anche  sul  piano
amministrativo. 
    Cio' in quanto, in siffatte evenienze, la pronuncia  penale  puo'
esprimere, di per se',  un  fattore  di  oggettivo  rischio  rispetto
all'esigenza di tutela del buon andamento dell'azione  amministrativa
ovvero alla credibilita' dell'Amministrazione verso il pubblico. 
    Alle condizioni suddette, la pronuncia di condanna,  e  con  essa
l'applicazione della interdizione  temporanea  dai  pubblici  uffici,
potrebbe, in altri termini, essere in grado di assicurare una  valida
giustificazione assiologia alla norma in  commento,  nella  parte  in
cui, sul  piano  amministrativo,  fa  dipendere  da  essa  l'adozione
(automatica) di misure espulsive. 
    Viceversa,  tale  rapporto  di   congruita'   e   di   intrinseca
ragionevolezza, cosi' come il connesso valore della  proporzionalita'
tra misura ed esigenze da tutelare,  e'  destinato  ad  alterarsi  in
misura patologica nell'ipotesi in cui, a  cagione  della  particolare
tenuita' del fatto, certificata dallo stesso giudice  penale,  quella
pronuncia non costituisce piu', al  di  la'  degli  aspetti  formali,
espressione attuale di un giudizio di  accertamento  di  un'oggettiva
incompatibilita' ovvero di indegnita' alla svolgimento  di  pubbliche
funzioni o servizi. 
    Nel  caso  in  esame  la  perdita  del  grado  e  la  conseguente
cessazione del ricorrente  dal  servizio  e  dall'impiego,  per  come
congegnate dall'art. 866 del C.O.M. e dalle norme ad  esso  collegate
(art. 867 comma 3° e 923 comma 1°), traggono alimento da una condanna
all'interdizione  temporanea  dai  pubblici   uffici   applicata   in
relazione  ad  un  episodio  giudicato  non  grave  e  per  un  tempo
ridottissimo,  finendo  cosi'  con  il   rimanere   irragionevolmente
disancorate dai connotati concreti della situazione  storica  in  cui
sono collocata. 
    In  siffatte  evenienze  la  norma  smarrisce  il  suo  substrato
sostanziale e finisce per giustificare il suo automatismo applicativo
in base  al  solo  astratto  presupposto,  meramente  formale,  della
pronuncia di una decisione di condanna alla  detta  pena  accessoria,
indipendentemente dall'accertamento della sua idoneita',  strutturale
e funzionale, ad esprimere un reale disvalore (sulla condotta e sulla
persona del militare) tale da giustificare l'emersione  di  effettive
esigenze protettive. 
    7.4. Senza contare poi, sotto diverso profilo, che  l'evidenziata
abnorme latitudine  della  complessa  fattispecie  normativa  qui  in
rilievo lascia agevolmente ipotizzare, ed  accertare,  -  come  sopra
ampiamente provato - l'esistenza di situazioni non riconducibili alle
massime di esperienza poste a base  della  presunzione  assoluta  che
fonda l'automatismo. 
    E', dunque, evidente,  sotto  tale  distinto  profilo,  la  piena
predicabilita' nel giudizio in argomento del principio -  gia'  sopra
richiamato - in virtu' del quale  «le  presunzioni  assolute,  specie
quando limitano un diritto fondamentale  della  persona,  violano  il
principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe'  se
non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula    dell'id    quod    plerumque     accidit»,     sussistendo
l'irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in  cui
sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base  della  presunzione  stessa»  (cfr.  ex
multis sentenze n. 185 del 2015; n. 232 e n. 213 del 2013; n.  231  e
n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010). 
    Il  mantenimento  dell'obbligo  di   produzione   degli   effetti
interdittivi, pur nella descritta evenienza, viene  in  definitiva  a
porsi in chiara ed aperta distonia con i principi di ragionevolezza e
proporzionalita' di cui all'art. 3 della Costituzione. 
    8. Occorre ancora soggiungere che  la  disciplina  normativa  qui
censurata contrasta anche con il  principio  di  uguaglianza  di  cui
all'art. 3 della Carta costituzionale; e cio' sotto diversi profili. 
    8.1. Anzitutto, in  quanto  finisce  con  l'equiparare,  ai  fini
dell'automatica cessazione  del  rapporto,  situazioni  nient'affatto
omogenee, il cui diverso peso specifico nel giudizio di bilanciamento
che  regge  la  coerenza  della  misura  e'  di  evidenza  intuitiva:
l'ordinamento gradua la durata della pena accessoria interdittiva  in
stretta proporzione alla gravita' e  tipologia  dei  fatti  reato  in
addebito, di talche' e' possibile distinguere, quanto  a  presupposti
ed  effetti  (cfr.  articoli  28  e  29  c.p.),  la  pena  accessoria
dell'interdizione  perpetua  dai  pubblici  uffici  dall'interdizione
temporanea  dai  pubblici  uffici  e,  all'interno  di  tale   ultima
fattispecie, l'ipotesi della condanna alla reclusione  per  un  tempo
non inferiore a tre anni, per la quale  l'interdizione  dai  pubblici
uffici viene applicata per la durata di anni  cinque,  dalle  ipotesi
residuali, ivi incluse quelle di cui all'art. 31 c.p., per  le  quali
la durata corrisponde a quella della pena principale (art. 37 c.p.). 
    Il corollario  che  se  ne  ricava  e'  che  non  sono  tra  loro
comparabili sul piano del trattamento  le  posizioni  di  coloro  che
hanno riportato una condanna alla interdizione perpetua dai  pubblici
uffici e quelle di chi, invece, resta soggetto, com'e' nel  caso  qui
in rilievo, solo ad  una  misura  interdittiva  di  tipo  temporaneo,
peraltro di durata obiettivamente limitata (2  mesi  e  20  gg).  E',
infatti,  di  tutta  evidenza  che  solo  nella  prima  evenienza  si
riscontrano addebiti che, per la loro gravita', evocano di  per  se',
in ragione di  presunzioni  non  suscettive  di  smentite  sul  piano
logico,  gravi  e  radicali  fratture  nel  rapporto  fiduciario  tra
Amministrazione e  propri  dipendenti.  Ed  e'  solo  nelle  suddette
evenienze  che  la  pena  accessoria  comminata  dal  giudice  penale
costituisce (proprio a  cagione  della  sua  permanenza)  un  fattore
strutturale ostativo alla ripresa del rapporto d'impiego. 
    Di  contro  la  fattispecie  normativa  data  dalla  combinazione
dispositiva delle norme contenute agli  articoli  866  comma  1,  867
comma 3 e 923 comma 1 del C.O.M. finisce  per  azzerare  la  profonda
diversita'  delle  situazioni  poste  in  raffronto  e,  dunque,  per
omologare  negli  effetti,  in  modo  del  tutto  ingiustificato,  la
situazione   del   militare   condannato   alla    pena    accessoria
dell'interdizione temporanea dai pubblici  uffici  (ed  ancorche'  di
durata  contenuta)  a  quella  del  militare  condannato  alla   pena
accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici. 
    8.2. Allo stesso modo il particolare rigore che connota il regime
normativo passato in rassegna non sembra  nemmeno  giustificabile  in
ragione  solo  del  peculiare  status  di  militare,  di  talche'  un
ulteriore profilo di  violazione  del  principio  di  uguaglianza  si
apprezza nella disparita' di trattamento  con  gli  altri  dipendenti
della Pubblica Amministrazione. 
    Come gia' sopra anticipato, in base alla  disciplina  comune  (id
est. ex art. 32-quinquies del c.p., nella sua  attuale  versione)  la
recisione del rapporto di  impiego  alle  dipendenze  della  pubblica
amministrazione resta riservata, salvi i casi di condanna  alla  pena
accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici (cfr. anche
622 C.O.M., art. 8 comma 1 lettera  b)  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 737/1981 e 55-quater del d.lgs.  n.  165/2001)  a
fattispecie di reato particolarmente gravi e sempreche'  la  condanna
comporti l'applicazione di una  pena  superiore  ad  una  determinata
soglia. Solo, dunque, in presenza  della  duplice  condizione  di  un
limite minimo di pena detentiva (due anni) e di un  elenco  tassativo
di reati, e dunque di una ben definita soglia di gravita'  del  fatto
reato, condizioni non riscontrabili nella fattispecie  in  argomento,
l'ordinamento  ritiene  non  necessario,  per  i  dipendenti   civili
dell'Amministrazione, lo svolgimento di un procedimento  disciplinare
per la cessazione del rapporto di lavoro. 
    Il Collegio non ignora che lo stato giuridico  dei  militari  sia
regolato da una normativa peculiare ispirata da particolare rigore  a
presidio degli interessi pubblici che qualificano il pubblico impiego
militare  rispetto  a  quello  civile,  cio'  nondimeno   il   regime
differenziato sopra descritto si rivela qui del tutto  ingiustificato
siccome avulso da  un'effettiva  esigenza  di  protezione  di  valori
strettamente connessi al suddetto status di militare. 
    Occorre,  anzitutto,  chiarire  che  non  e'  in  discussione  la
predicabilita' di una misura espulsiva  (che  resterebbe  in  potenza
applicabile   e   commisurabile   ai   particolari   valori   sottesi
all'ordinamento militare) ma  solo  il  metodo  per  applicarla,  dal
momento che la disciplina di settore, per effetto  degli  automatismi
che la connotano, elimina, in  radice,  la  stessa  esistenza  di  un
procedimento delibativo  in  sede  amministrativa  e,  con  esso,  le
garanzie difensive dell'incolpato  che  ad  esso  ontologicamente  si
correlano. 
    Di contro,  non  puo'  essere  sottaciuto  che  l'art.  52  della
Costituzione, espressamente prevedendo che l'ordinamento delle  forze
armate si informa allo spirito democratico della repubblica, assicura
la piena salvaguardia, anche  in  subiecta  materia,  delle  garanzie
difensive. A tal riguardo la Corte ha gia'  da  tempo  rimarcato  «la
generale tendenza al maggiore possibile avvicinamento dei diritti del
cittadino militare a quelli del cittadino che tale non e'»  (sentenza
Corte costituzionale n. 490 del 1989),  di  talche',  in  assenza  di
eccezionali   ragioni    derogatorie    suscettive    di    obiettivo
apprezzamento, il militare non puo' essere privato del  diritto  alla
valutazione, caso per caso, della  congruita'  dei  sacrifici  a  lui
imposti  in  relazione  alle  finalita'  di  interesse  pubblico   da
perseguire. 
    Ed e' proprio muovendo da tale assunto che il Giudice delle leggi
ebbe a dichiarare l'inammissibilita' della questione di  legittimita'
costituzionale (ord. n. 403 del 1992 e, in precedenza,  ordinanza  n.
113 del 1991 e ordinanza n. 130 del 1990) dell'art. 70 della legge n.
113 del 1954, dettato per gli ufficiali dell'Esercito, della Marina e
dell'Aeronautica. 
    Tale principio risulta ribadito nella sentenza n. 363  del  1996,
gia' citata rispetto al regime delle pene accessorie, e con la  quale
la Consulta, nel dichiarare l'incostituzionalita' dell' art. 12 della
legge 18 ottobre 1961, n. 1168, lettera f), e  dell'art.  34,  n.  7,
della legge 18 ottobre 1961, n. 1168 (Norme sullo stato giuridico dei
vice-brigadieri e dei militari di truppa dell'Arma dei  Carabinieri),
nella parte in  cui  non  prevedono  l'instaurarsi  del  procedimento
disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per  perdita
del grado, conseguente alla pena accessoria della rimozione,  ebbe  a
rilevare che il «trattamento deteriore  riservato  agli  appartenenti
all'Arma dei Carabinieri non trova valida ragione giustificatrice nel
loro "status" militare: questa Corte  ha  rilevato  come  la  mancata
previsione del procedimento disciplinare, nel vulnerare  le  garanzie
procedurali poste a presidio della difesa, finisca per ledere il buon
andamento  dell'Amministrazione  militare  sotto  il  profilo   della
migliore utilizzazione delle risorse professionali, oltre che  l'art.
3 della Costituzione (sent. n. 126 del 1995)». 
    La lamentata disparita' di trattamento e'  poi  viepiu'  evidente
nel caso di  specie  ove  l'attivita'  concretamente  esercitata  dal
ricorrente - e per cui il predetto e' stato condannato -  afferiva  a
servizi di polizia stradale ex art. 12  del  decreto  legislativo  n.
285/1992 (cd. codice della strada) che non evidenziano  un  nesso  di
necessaria interdipendenza con lo status di militare. 
    In altri termini,  l'episodio  concreto  afferisce  ad  attivita'
riconducibili alle attribuzioni tipiche dei  cd.  organi  di  polizia
stradale, attivita' condivise dai militari dell'arma dei  carabinieri
con altri dipendenti pubblici, non titolari dello status di militare,
e rispetto ai quali - ove in ipotesi responsabili dei medesimi  fatti
qui in rilievo - non troverebbe applicazione il medesimo  automatismo
sanzionatorio cui e' rimasto soggetto il ricorrente. 
    9.  La  divisata  intrinseca  irragionevolezza  della  disciplina
suindicata assume ancor piu' rilievo, ai fini del  presente  giudizio
di costituzionalita', ove si  tenga  conto  che,  per  effetto  delle
possibili  distorsioni  applicative  che  consente,  vale  anche   ad
alterare quel  ragionevole  punto  di  equilibrio  con  altri  valori
parimenti assistiti da una pregnante tutela in ambito costituzionale. 
    Ed, invero, l'attitudine dei richiamati precetti a  disciplinare,
nei medesimi termini, anche ipotesi come quella qui  in  rilievo,  in
cui non puo' non cogliersi la particolarmente contenuta  offensivita'
giuridica dei fatti in addebito, si traduce in  un  irragionevole  ed
ingiustificato sbilanciamento del  suddetto  punto  di  equilibrio  a
danno degli  altri  valori  protetti  in  funzione  della  tutela  di
esigenze pubblicistiche che la presupposta  vicenda  penalistica  non
lascia emergere. 
    La proiezione della norma primaria ben oltre  i  divisati  limiti
costituzionali  di   tenuta   (che   impingono   nei   valori   della
ragionevolezza  e  della  proporzionalita')  fa  riemergere,  dunque,
privandolo di una sufficiente  giustificazione,  il  contrasto  della
disposizione  con  diritti  costituzionalmente  garantiti,   la   cui
compressione non puo' piu' ritenersi tollerata dal sistema. 
    9.1. Cosi'  viene  ad  essere  irrimediabilmente  compromesso  il
diritto di cui all'art. 24, secondo  comma,  della  Costituzione,  in
quanto viene tolta in radice all'interessato la possibilita'  di  far
valere le  proprie  ragioni  avverso  l'applicazione  di  una  misura
(perdita  del  grado  e  cessazione  dal  servizio)   particolarmente
invasiva. 
    Appare, invero, di  tutta  evidenza  il  fatto  che  al  divisato
automatismo sanzionatorio si contrapponga l'elisione di  qualsivoglia
possibilita' di specifica difesa sia in ambito procedimentale che  in
ambito processuale. 
    Ne' e' possibile logicamente sostenere che siffatta difesa  venga
ad essere nelle fattispecie  qui  in  rilievo  anticipata  alla  sede
penale. 
    Sul punto e' agevole ribattere che  gli  aspetti  afferenti  alle
possibili ricadute rinvenienti dalla condanna penale sul rapporto  di
impiego e di servizio si collocano al  di  fuori  del  perimetro  del
processo penale (ed in tal senso  e'  sufficiente  fare  rinvio  alle
stesse lucide argomentazioni contenute  nella  sentenza  della  Corte
costituzionale n. 363 del 1996). 
    D'altro canto, nemmeno puo' essere  sottaciuto  che  lo  sviluppo
della  linea  difensiva  dell'imputato   e'   ispirato   da   logiche
strettamente connesse al  tipo  di  processo  (penale)  cui  in  quel
momento risulta sottoposto e che  non  abbracciano,  per  ragioni  di
evidenza intuitiva, anche le implicazioni future ed  ulteriori  -  in
quel momento nemmeno contestate - che potrebbero prospettarsi  in  un
successivo momento ed a valle della  chiusura  della  vicenda  penale
(forse e' proprio in ragione di cio' che si spiega  la  rinuncia  del
ricorrente al beneficio della sospensione condizionale della pena  di
cui da' atto il giudice d'appello,  beneficio  che  avrebbe  impedito
l'applicazione della misura della perdita  di  grado  e  gli  effetti
destitutori oggi in discussione). 
    9.2. Del pari e' di tutta  evidenza  l'incidenza  pregiudizievole
che, secondo i meccanismi operativi previsti dalla norma in commento,
la  (ingiustificata)  misura  in  argomento  esplica  sul  pieno   ed
effettivo esercizio del diritto al lavoro con conseguente  collisione
del descritto costrutto normativo con i principi di cui agli articoli
4 e 35 della Costituzione. 
    Essa,  infatti,  si  risolve  nella   preclusione   all'esercizio
dell'unica attivita' che, a cagione della  sua  marcata  connotazione
specialistica, consentirebbe al ricorrente di mantenersi  nell'orbita
del  lavoro  pubblico  impedendogli  di  fatto,  anche   in   ragione
dell'eta', oltre che della grave  crisi  congiunturale  in  atto,  la
stessa concreta possibilita' di una nuova collocazione del mondo  del
lavoro. 
    9.3.   inoltre,   e'   di   tutta   evidenza   come   l'auspicato
riconoscimento di una fase procedimentale contraddistinta dalla piena
esplicazione delle garanzie procedimentali a  presidio  della  difesa
dell'interessato  gioverebbe  anche  allo  stesso  proficuo  sviluppo
dell'azione   amministrativa   e,   dunque,   al    buon    andamento
dell'amministrazione  militare  sotto  il  profilo   della   migliore
utilizzazione delle risorse professionali. Di qui, la  lesione  anche
del canone di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art.  97
della Costituzione. E', infatti, certo che le responsabilita' ad oggi
accertate in capo al ricorrente involgono un fatto giudicato in  sede
penale come di trascurabile contenuto offensivo. 
    Cio' nondimeno, l'Amministrazione - a cagione  della  piu'  volte
censurata rigidita' degli automatismi normativi - e'  stata  privata,
in apice, della possibilita' di valutare  la  coerenza  della  misura
espulsiva rispetto alle finalita' di interesse  pubblico  perseguite.
Alcuna autonoma e mirata valutazione e', infatti, consentito svolgere
sul  dipendente  in  ragione  del   suo   vissuto   professionale   e
sull'utilita' di una prosecuzione del suo rapporto di  collaborazione
rispetto alla missione istituzionale di cura dell'interesse  pubblico
affidata all'Amministrazione militare. 
    Viceversa, un assetto normativo ragionevole,  che  sia  realmente
espressione di un equilibrato  bilanciamento  dei  valori  in  campo,
dovrebbe rimettere, nelle  evenienze  sopra  descritte,  alla  stessa
Amministrazione la possibilita' di compiere prudenti apprezzamenti  e
prevedere, come  momento  finale,  una  pronuncia  sullo  status  del
dipendente militare a seguito della valutazione  della  sua  condotta
nell'ambito di un appropriato procedimento  conoscitivo  subordinando
ad esso il recupero del dipendente all'amministrazione ovvero la  sua
definitiva espulsione. 
    Di contro, le disposizioni in commento non  consentono  una  tale
opzione ermeneutica. 
    Deve ritenersi, dunque, inevitabile la soluzione di  affidare  al
Giudice delle leggi la cognizione dei divisati meccanismi  distorsivi
che, sul piano operativo, infirmano la costituzionalita' delle  norme
in esame. 
    Il giudizio va, dunque, sospeso e gli  atti  rimessi  alla  Corte
costituzionale. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Il Tribunale Amministrativo Regionale  della  Campania,  sede  di
Napoli, Sezione Sesta, visto l'art. 23 della legge 11.3.1953  n.  87,
dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale del  combinato  disposto  degli  articoli
866, comma 1, 867, comma 3 e 923 comma 1 del decreto  legislativo  n.
66/2010  in  riferimento  agli  articoli  3,  97,  24,  4,  35  della
Costituzione. 
    Sospende il giudizio e dispone che gli atti siano trasmessi  alla
Corte costituzionale. 
    Ordina che, a cura della Segreteria, la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti ed al Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
nonche' comunicata ai presidenti della  Camera  dei  deputati  e  del
Senato della Repubblica. 
    Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore  statuizione  in
rito, in merito e in ordine alle spese. 
    Ordina che la  presente  ordinanza  sia  eseguita  dall'autorita'
amministrativa. 
 
    Cosi' deciso in Napoli nella camera di consiglio  del  giorno  21
ottobre 2015 con l'intervento dei magistrati: 
 
    Bruno Lelli, Presidente; 
    Umberto Maiello, consigliere, estensore; 
        Anna Corrado, primo referendario. 
 
                        Il Presidente: Lelli 
 
 
                                                 L'estensore: Maiello