N. 102 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 aprile 2016

Ordinanza dell'11 aprile 2016 della Corte militare d'appello di  Roma
nel procedimento penale militare a carico di T.A.. 
 
Reati militari - Ingiuria - Sanzione penale. 
- Codice penale militare di pace, art. 226. 
(GU n.21 del 25-5-2016 )
 
                    LA CORTE MILITARE DI APPELLO 
                            Prima sezione 
 
    Composta dai signori: 
        1. dott. Francesco Ufilugelli, Presidente; 
        2. dott. Mauro de Luca, giudice; 
        3. dott. Gioacchino Tornatore, giudice estensore; 
        4. T. Col. A.M. Fabio Genovese, giudice; 
        5. T. Col. E.I. Cosimo Lorusso, giudice. 
    Ha pronunciato in camera di consiglio la seguente  ordinanza  nel
procedimento a carico di: 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    T. A., nato il ... a...; residente a ... (...), via ...;  Tenente
E.I. in servizio presso il Rgt. Logistico  ...  in  Bari,  presso  il
quale  ha  eletto  domicilio.  Imputato  del   reato   di   «ingiuria
pluriaggravata» (artt. 47, numeri 2 e 4, e 226 c.p.m.p.). 
 
                               Osserva 
 
    I.  Il  decreto  legislativo  15  gennaio  2016,  n.  7   recante
«Disposizioni in materia di abrogazione di reati  e  introduzione  di
illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'art.  2,  comma
3, della legge 28 aprile 2014, n. 67»  al  Capo  I,  «Abrogazione  di
reati e modifiche al codice penale», con  l'art.  1  «Abrogazione  di
reati», ha proceduto alla abrogazione, tra gli altri,  del  reato  di
«ingiuria», previsto dall'art. 594 codice penale. 
    Con il successivo art. 2, il citato decreto  legislativo  ha  poi
introdotto una serie di modifiche al codice penale e, per quel che ha
rilievo nel presente procedimento, in particolare al comma  1,  lett.
g), ha stabilito che  «all'art  596  c.p.,  concernente  l'esclusione
della prova liberatoria: 
        «1) al comma primo, le parole "dei delitti preveduti dai  due
articoli precedenti" sono sostituite  dalle  seguenti:  "dal  delitto
previsto dall'articolo precedente"; 
        2) al comma quarto, le parole  "applicabili  le  disposizioni
dell'art. 594, primo comma, ovvero dell'art. 595, primo  comma"  sono
sostituite dalle seguenti:  "applicabile  la  disposizione  dell'art.
595, primo comma"»; 
    al comma 1, lett. h), ha disposto che «all'art. 597, comma primo,
le parole  "I  delitti  preveduti  dagli  articoli  594  e  595  sono
punibili"  sono  sostituite  dalle  seguenti:  "Il  delitto  previsto
dall'art. 595 e' punibile"»; 
    al comma 1 lett. i) ha stabilito che «all'art. 599: 1) la rubrica
e' sostituita dalla seguente: "Provocazione."; 2)  i  commi  primo  e
terzo sono abrogati; 
        3) nel secondo comma, le parole «dagli articoli 594  e»  sono
sostituite dalle seguenti: "dall'articolo"». 
    Il Capo II del decreto legislativo 7/2016,  denominato  «Illeciti
sottoposti a sanzioni pecuniarie civili», nel prevedere all'art. 3 la
«Responsabilita'  civile  per  gli  illeciti  sottoposti  a  sanzioni
pecuniarie» ha, poi, disposto che: 
        «l. I  fatti  previsti  dall'articolo  seguente,  se  dolosi,
obbligano oltre che alle restituzioni e  al  risarcimento  del  danno
secondo leggi civili, anche al pagamento  della  sanzione  pecuniaria
civile ivi stabilita. 
        2. Si osserva la disposizione di  cui  all'art.  2947,  primo
comma, del codice civile». 
    Con il successivo art. 4 del decreto si sono, quindi, individuati
gli «Illeciti civili  sottoposti  a  sanzioni  pecuniarie»  e  si  e'
stabilito che: 
        «1. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento  a
euro ottomila: 
          a) chi offende l'onore o il decoro di una persona presente,
ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica  o
telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa; b),
c), d), e), f) omissis; 
        2. Nel caso di cui alla lettera a) del  primo  comma,  se  le
offese sono reciproche, il giudice puo'  non  applicare  la  sanzione
pecuniaria civile ad uno o ad entrambi gli offensori. 
        3. Non e' sanzionabile chi ha commesso il fatto previsto  dal
primo comma, lettera a), del presente  articolo,  nello  stato  d'ira
determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso». 
    Con l'art. 5 il decreto ha,  inoltre,  stabilito  i  «Criteri  di
commisurazione delle sanzioni pecuniarie», mentre nel successivo art.
6 si e' provveduto  a  fissare  i  criteri  temporali  relativi  alla
«Reiterazione dell'illecito». 
    Quanto al procedimento, l'art. 8 del decreto  legislativo  7/2016
ha disposto che le sanzioni  pecuniarie  civili  sono  applicate  dal
giudice competente a conoscere dell'azione di risarcimento del  danno
e che il  giudice  decide  sull'applicazione  della  sanzione  civile
pecuniaria al termine del giudizio, qualora  accolga  la  domanda  di
risarcimento proposta dalla persona offesa; infine,  si  e'  previsto
che anche ai fini dell'irrogazione della sanzione pecuniaria  civile,
si applicano le disposizioni  del  codice  di  procedura  civile,  in
quanto compatibili con le norme del capo II. 
    Modalita' di  pagamento  della  sanzione  e  di  devoluzione  del
provento della stessa a favore della Cassa  delle  ammende,  Registro
informatizzato dei provvedimenti in materia di  sanzioni  pecuniarie,
seguono negli articoli finali (artt. 9-11) del testo del  decreto  in
esame, che si  conclude  con  l'art.  12  che  reca  le  disposizioni
transitorie, in pratica attuative dei principi  vigenti  in  tema  di
successione di leggi penali, specificatamente di  quello  del   favor
rei, in quanto stabilisce che:  «1.  Le  disposizioni  relative  alle
sanzioni pecuniarie civili del presente decreto si applicano anche ai
fatti commessi anteriormente alla data di  entrata  in  vigore  dello
stesso, salvo che il  procedimento  penale  sia  stato  definito  con
sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. 
    2. Se i procedimenti penali per i  reati  abrogati  dal  presente
decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con
sentenza   di   condanna   o   decreto   irrevocabili,   il   giudice
dell'esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il
fatto non e' previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti
conseguenti. Il giudice  dell'esecuzione  provvede  con  l'osservanza
delle disposizioni dell'art. 667, comma 4, del  codice  di  procedura
penale». 
    Seguono,  all'art.  13  del  decreto   legislativo   7/2016,   le
disposizioni finanziarie. 
    II. Dunque, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale  n.  17
del 22 gennaio 2016 del decreto legislativo n. 7 del 2016, e' entrato
in  vigore,  a  decorrere  dal  6  febbraio  2016,  l'intervento   di
depenalizzazione e di abrogazione di reati oggetto della legge delega
n. 67/2014 (art. 2). 
    Sempre in attuazione della legge delega n. 67/2014, inoltre,  con
il successivo decreto legislativo  n.  8/2016  si  e'  completata  la
depenalizzazione con la trasformazione  di  numerose  fattispecie  di
reati minori (per i quali e' prevista la  sola  pena  della  multa  o
dell'ammenda oppure puniti con  pene  detentive,  sole,  congiunte  o
alternative a pene pecuniarie) in illeciti amministrativi. 
    Appare di tutta evidenza - ed e' stato esplicitamente evidenziato
nelle relazioni governative di accompagnamento agli  schemi  dei  due
decreti legislativi in questione  -  che  il  legislatore  ha  inteso
perseguire una scelta politica ben precisa, volta a  deflazionare  il
sistema  penale,  sia  sostanziale  che  processuale  in  omaggio  ai
principi di  frammentarieta',  offensivita'  e  sussidiarieta'  della
sanzione  criminale,  partendo  dal  presupposto  che   seppure   una
penalizzazione generalizzata formalmente corrisponda  a  esigenze  di
maggiore  repressivita',  tuttavia  in  concreto   finisce   con   il
risolversi in un abbassamento del livello di tutela  degli  interessi
coinvolti, dovendosi scontrare con il dato obiettivo che la  macchina
repressiva penale non e' attualmente in grado di sanzionare un numero
elevato di fatti per cui appare doveroso valutare  l'opportunita'  di
rinunciare alla sanzione penale quantomeno per i reati che presentino
un minor grado di offensivita'. 
    Il legislatore, con l'ultimo intervento di  depenalizzazione,  ha
fatto ricorso a  un  duplice  strumento,  da  un  lato  quello  della
trasformazione  di  taluni  reati  in  illecito  amministrativo,  con
conseguente affidamento esclusivo  all'autorita'  amministrativa  del
compito di punire determinate condotte di minore gravita'; dall'altro
lato, quello di abrogare alcune fattispecie  di  reato  previste  dal
codice penale, con contemporanea  sottoposizione  dei  corrispondenti
fatti a «sanzioni pecuniarie civili», che  vanno  ad  aggiungersi  al
risarcimento del danno conseguente alla condotta presa in esame. 
    Questo e' avvenuto, per quanto qui di  specifico  interesse,  con
riferimento al reato comune di ingiuria previsto  dall'art.  594  del
codice  penale,  che  ha,  quindi,  assunto  la  veste  di   illecito
sanzionato solo civilmente, oltre che con il risarcimento del danno -
di natura tipicamente privatistica e che si connota  per  un  profilo
squisitamente  ristoratorio  del  pregiudizio  cagionato  alla  parte
offesa - anche con una sanzione pecuniaria civile, che appare rifarsi
ai punitive damages di matrice anglosassone, in uso  soprattutto  nel
sistema  statunitense  di  common  law,  che  mantiene  una  funzione
principalmente repressiva e afflittiva, e  che  viene  irrogata,  per
specifica scelta del legislatore, del giudice civile e devoluta  alla
cassa delle ammende. A tale ultima sanzione, inoltre, si  applica  il
termine quinquennale di  prescrizione  della  pretesa  relativa  alla
inflizione della sanzione pecuniaria, come expressis verbis  previsto
dall'art. 3, comma 2, del decreto legislativo citato,  che  richiama,
infatti, il primo comma dell'art. 2947 del codice civile. 
    I reati oggetto di abrogazione - e tra questi quello di  ingiuria
di cui all'art. 594 codice penale - vengono, dunque,  trasformati  in
illeciti sottoposti a una sanzione pecuniaria civile, inedita per  il
nostro sistema giuridico, che, come gia' detto, si  connota  per  una
finalita' squisitamente preventiva e repressiva tipica delle sanzioni
di natura punitiva. Tale funzione risulta testimoniata dai principi e
dai criteri direttivi previsti per la  commisurazione  della  entita'
della suddetta sanzione, indicati alla successiva lettera e), ove  si
prevede, infatti, che le  sanzioni  civili  siano  proporzionate  non
all'entita'  del  danno  conseguito  dalla  condotta,  quanto   «alla
gravita'   della   violazione,   alla   reiterazione   dell'illecito,
all'arricchimento  del  soggetto   responsabile,   all'opera   svolta
dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle  sue  conseguenze
nonche'  alla  personalita'  dello  stesso  e  alle  sue   condizioni
economiche». 
    Appare di tutta  evidenza,  quindi,  che  le  novita'  introdotte
dall'intervento normativo in esame determinano una rivalutazione  del
principio  di  offensivita'  da  considerarsi  immanente  nel  nostro
sistema penale, coerentemente con quanto  gia'  operato  dal  decreto
legislativo n. 28 del 16 marzo 2015,  che  ha  introdotto  l'istituto
della particolare tenuita' del fatto come causa di  esclusione  della
punibilita'  e  che,  come   pacificamente   ritenuto   anche   dalla
giurisprudenza della Corte suprema di Cassazione, trova  applicazione
anche con riferimento ai reati militari, trattandosi di una  clausola
di esiguita' che determina una improcedibilita' di natura sostanziale
e processuale nei casi di concreta inoffensivita' di un fatto che pur
astrattamente mantiene la sua rilevanza penale. 
    I due interventi normativi in  questione  sul  piano  teorico  si
distinguono nettamente fra loro, dal momento che la  depenalizzazione
determina, a monte, l'espunzione di determinate condotte dal panorama
delle fattispecie penalmente rilevanti, a prescindere dalle  concrete
modalita' attraverso le  quali  le  stesse  vengono  realizzate;  con
l'istituto della tenuita' del fatto,  invece,  non  sono  considerati
punibili quei reati sanzionati, nel massimo, con la  pena  di  cinque
anni di reclusione o con la pena pecuniaria, solo ove in concreto  si
siano rivelati di scarsa offensivita'. Nel primo caso, quindi, e'  il
legislatore a stabilire a priori  quali  condotte  non  costituiscono
piu' reato; mentre, nella seconda ipotesi, il legislatore affida alla
sensibilita' e alla discrezionalita' del  giudice,  quale  interprete
del  diritto,  il  compito  di  valutare  in  concreto  se  il  fatto
sottoposto al suo esame non meriti di essere sanzionato,  verificando
se, per le concrete modalita' esecutive, per la occasionalita'  dello
stesso, per la tenuita' del pregiudizio  o  del  pericolo  cagionato,
appunto, abbia arrecato  un'offesa  troppo  lieve  per  meritare  una
risposta sanzionatoria penale. Come e' stato osservato, entrambi  gli
istituti  corrispondono  all'esigenza  di  operare   una   scrematura
dell'area penale dai reati cosiddetti bagatellari, con la  differenza
che mentre un intervento di depenalizzazione e di abrogazione mira  a
colpire i cosiddetti reati bagatellari propri, valutati  cioe'  dallo
stesso legislatore come ormai privi di offensivita', la tenuita'  del
fatto ha come obbiettivo, invece, i reati bagatellari impropri, cioe'
quelle condotte che astrattamente  presentano  profili  di  rilevanza
penale e di offensivita', ma che in concreto hanno arrecato un'offesa
esigua, tale da far  venir  meno  l'interesse  statuale  a  una  loro
repressione penale, tramite il meccanismo deflattivo della diversion. 
    III. Come gia' anticipato, il legislatore delegato, con l'art. 1,
lett. c), del decreto legislativo n. 7 del 2016 ha abrogato, tra  gli
altri, anche il reato  comune  di  ingiuria,  in  ossequio  a  quanto
prescritto dall'art. 2, comma 3, lettera, numero 2, della legge n. 67
del 2014, che prescriveva l'abrogazione del delitto di  cui  all'art.
594 del codice penale. 
    La tecnica utilizzata dalle legislatore nell'operare l'intervento
abrogativo,  mediante  richiamo  espresso  e  tassativo  dell'edicola
specifico del codice penale che prevede  la  singola  fattispecie  di
reato sulla quale egli ha inteso intervenire, senza  alcuna  menzione
del relativo nomen iuris, consente di  sgombrare  definitivamente  il
campo -  per  quanto  qui  di  specifico  interesse  -  da  qualsiasi
possibilita' di considerare coinvolta e travolta da  tale  intervento
di depenalizzazione anche la corrispondente fattispecie di  reato  di
ingiuria prevista dal codice penale militare di  pace  all'art.  226.
Non appare, infatti, possibile estendere la depenalizzazione  operata
dal  legislatore  con  la  novella  anche  a  tale  reato   militare,
attraverso   un'attivita'   di   interpretazione   costituzionalmente
orientata, in particolare di applicazione analogica in  bonam  partem
della normativa abrogata, proprio  in  considerazione  del  carattere
tassativo dei delitti specificamente indicati dal decreto legislativo
in esame, dal quale obiettivamente emerge la volonta' del legislatore
di riferirsi alla fattispecie di reato comune  contemplata  dall'art.
594 del codice penale e non anche  all'omologo  e  omonimo  reato  di
ingiuria militare previsto all'art. 226 del codice penale militare di
pace. 
    Del resto, secondo  l'insegnamento  costante  del  Giudice  dello
leggi, «le valutazioni di politica criminale competono esclusivamente
al legislatore»,  mentre  le  «sperequazioni»  normative  tra  figure
omogenee di  reato  determinano  necessariamente  l'intervento  della
Corte Costituzionale solo se assumono aspetti e  dimensioni  tali  da
non  potersi  considerare  come  sorrette   da   alcuna   ragionevole
giustificazione (ex multis, sentenza 25 luglio 1997 n. 272). 
    Peraltro, al giudice di merito non e' richiesto di spingersi fino
alla valutazione della incostituzionalita' della norma da applicarsi,
compito da riservarsi evidentemente al Giudice delle leggi, e neanche
esprimere  un  positivo  e  diffuso  convincimento  nel  senso  della
fondatezza  della  questione  prospettata,  essendo  sufficiente   il
sorgere anche di un mero dubbio sulla costituzionalita'  della  norma
impugnata, in termini di non manifesta  infondatezza.  Ne'  lo  steso
giudice di merito, a fronte di una tale delibazione, potrebbe  optare
per la disapplicazione della norma sospettata di incostituzionalita',
poiche' una tale  soluzione  si  profilerebbe,  per  un  verso,  come
provvedimento  abnorme  in  considerazione  della  gia'   evidenziata
tassativita' della elencazione legislativa, come  gia'  stigmatizzato
dalla Consulta,  secondo  la  quale  i  giudici  devono  limitarsi  a
esercitare  il  loro  potere  di  verificare  quale  legge  si  debba
applicare nel caso concreto e ad interpretare la legge stessa, ma non
possono «espressamente disapplica[re le] leggi  ...,  con  violazione
degli articoli 101, 117 e 134  della  Costituzione»  (sentenza  Corte
Costituzionale n. 285 dell'11-14  giugno  1990);  e  lascerebbe,  per
altro aspetto, irrisolti  anche  i  problemi  connessi  ai  giudicati
pregressi (che per quanto concerne la abrogazione del reato comune di
ingiuria, il legislatore ha espressamente disciplinato  all'art.  12,
comma 2, del decreto legislativo n. 7 del 2016). 
    Nel caso di specie, questa Corte ritiene che il presente giudizio
non  possa  essere   definito   prescindendo   dalla   questione   di
legittimita'  costituzionale   riguardante   l'art.   226   c.p.m.p.,
palesandosi  la  stessa  come  «rilevante»  e   «non   manifestamente
infondate». 
    IV. In ordine al primo aspetto, deve  osservarsi,  infatti,  che,
sulla base  della  descrizione  della  condotta  contenuta  nel  capo
imputazione e di' quanto emerge dal materiale probatorio  documentale
e  testimoniale  acquisito  nel  giudizio  di  primo  grado,   appare
astrattamente corretta e condivisibile  la  qualificazione  giuridica
del  fatto  quale  reato  militare  di  ingiuria  e  il   conseguente
inquadramento dello stesso sotto la fattispecie di cui  all'art.  226
del codice penale militare di pace. In  particolare,  pur  ricorrendo
una diversita' di grado tra il soggetto indicato  come  autore  della
condotta e  la  persona  offesa  attinta  dalla  stessa,  non  appare
sussistente alcuno degli elementi  negativamente  indicati  dall'art.
199 c.p.m.p., con conseguente esclusione  della  applicabilita',  nel
caso in esame, delta fattispecie di reato di ingiuria  ad  inferiore,
inquadrata  dal  legislatore  sotto  i  reati  contro  la  disciplina
militare. In particolare, risulta evidente  che  il  fatto  e'  stato
commesso da un  militare  non  impegnato  nello  svolgimento  di  uno
specifico servizio, ne' alla presenza di piu'  militari  riuniti  per
servizio, ne', evidentemente, a bordo di una nave o di un  aeromobile
militare. E  ancora,  che  lo  stesso  fatto,  per  le  modalita'  di
estrinsecazione  della  condotta  e  per  gli  immediati  antecedenti
causali  e  occasionali  che  hanno  caratterizzato  la  stessa,  non
presenta alcun profilo di connessione con il servizio e la disciplina
militare. 
    Dall'imputazione risulta, infatti, che l'imputato avrebbe rivolto
la  frase  offensiva  nei  confronti  della  caporalmaggiore,  mentre
entrambi si trovavano all'interno dei locali della mensa unificata di
Milano, essendosi trovati a condividere lo stesso tavolo,  unitamente
ad altri militari. Durante la consumazione del pasto l'imputato aveva
intrattenuto due dei  militari  presenti,  raccontando  loro  di  una
ragazza conosciuta qualche sera prima  e  descrivendo,  entrando  nei
particolari, gli accadimenti di quella serata e facendosi anche vanto
delle proprie  capacita'  seduttive  e  amatorie.  A  un  tratto,  il
medesimo imputato si era rivolto alla caporalmaggiore,  fino  a  quel
momento non coinvolta nella conversazione  in  questione  in  quanto,
piuttosto, concentrata a utilizzare il proprio telefono cellulare per
inviare dei messaggi, rivolgendole la frase offensiva  descritta  nel
capo di imputazione. Ne era seguito il repentino allontanamento dalla
sala mensa della  persona  offesa,  evidentemente  sorpresa  e  anche
alterata per l'accaduto. 
    Appare  evidente,  quindi,  che  il  fatto   contestato   risulta
inquadrabile e riconducibile a un contesto squisitamente personale  e
privato che non trova alcun addentellato con questioni  riconducibili
al servizio e alla disciplina militare. Se  cio',  come  gia'  detto,
consente di escludere l'applicabilita' dei reati militari  contro  la
disciplina militare, non priva, tuttavia, il fatto  in  questione  di
una sua rilevanza penale militare, proprio ai sensi dell'art. 226 del
codice penale militare di pace, sotto il  quale,  per  la  inequivoca
formulazione della fattispecie ad opera del legislatore,  sicuramente
possono rientrare anche  condotte  di  natura  ingiuriosa  del  tutto
esulanti dalla sfera del servizio e della disciplina  militare,  alla
sola condizione che siano  tenute  da  un  soggetto  che  rivesta  la
qualita' di  militare,  ai  danni  di  un  appartenente  al  medesimo
consorzio, in cio' potendosi esaurire, in definitiva, la connotazione
di militarita' della  fattispecie  in  esame.  In  tal  senso  depone
l'interpretazione della  norma  univocamente  affermatasi  presso  la
giurisprudenza di legittimita', ove si e' ripetutamente affermato che
«... i fatti di violenza, minaccia e ingiuria commessi  tra  militari
non integrano i reati di cui agli articoli 195 e 196 cod.  pen.  mil.
pace, allorche' risultino collegati  in  modo  del  tutto  estrinseco
all'area degli interessi connessi alla tutela del  servizio  e  della
disciplina,  ponendosi   con   questi   in   rapporto   di   semplice
occasionalita', a nulla rilevando che essi siano  svolti  all'interno
di  una  struttura   militare,   risolvendosi,   diversamente,   tale
circostanza nella indebita valorizzazione di'  una  mera  coincidenza
topografica, in contrasto con la sentenza 17 gennaio 1991 n. 22 della
Corte costituzionale, dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale
dell'art. 199 stesso codice limitatamente alle parole  «o  in  luoghi
militari». (Fattispecie  relativa  a  percosse  e  minacce  commesse,
nell'ufficio di una scuola di fanteria dell'esercito, da un ufficiale
in danno di un fante, a conclusione  di  una  conversazione  privata»
(Cass. Sez. I, n. 41703 dell'8 ottobre 2002); ed ancora che «l'offesa
all'onore di un inferiore (art. 196 cod. pen. mil. pace), rivolta dal
militare appartenente alle Forze armate al di fuori dell'attivita' di
servizio  attivo  e  non  obiettivamente  correlati  all'area   degli
interessi  connessi  alla  tutela  della  disciplina,  rientra  nella
clausola di esclusione del reato di ingiuria ad  inferiore,  prevista
dall'art. 199 cod. pen. mil. pace («cause estranee al servizio e alla
disciplina  militare»).   (Fattispecie   relativa   ad   un   tenente
dell'Esercito  Italiano  che,  in  abiti  civili,  profferiva  parole
ingiuriose nei confronti dei militari della Guardia di Finanza che lo
avevano fermato per contestargli alcune infrazioni  al  Codice  della
strada)» (Cass. Sez. I, n. 19425 del  5  maggio  2008;  e,  in  senso
conforme, Cass. Sez. I, n. 8495 del 28 settembre 2012). 
    Non appare, quindi, possibile  procedere  a  una  interpretazione
della  norma  che  -  avuto  presente  il  nuovo   quadro   normativo
conseguente  all'abrogazione  dell'art.  594  c.p.  -   consenta   di
conformare la fattispecie  dell'ingiuria  militare  al  rispetto  dei
precetti costituzionali, in  particolare  restringendo  il  campo  di
applicazione di tale previsione ai soli fatti che presentino  profili
di attinenza con il servizio e la  disciplina  militare  o,  piu'  in
generale, con interessi militari, e con esclusione, invece, di  tutte
le condotte ingiuriose che, pur essendo intervenute tra soggetti  che
rivestono  lo  status  di  militate,  si   caratterizzano   per   una
connotazione di natura squisitamente personale e  privata.  Solo  una
tale interpretazione adeguatrice, che pero' - si ribadisce -  non  e'
consentita  dal  tenore   letterale   della   norma   incriminatrice,
consentirebbe di eliminare quella disparita' di trattamento giuridico
che, all'indomani dell'abrogazione del reato comune  di  ingiuria  ad
opera del legislatore, si e' venuta a  determinare  -  ad  avviso  di
questo giudice -  tra  i  soggetti  in  armi  e  quelli  estranei  al
consorzio militate. 
    Non appare quindi,  possibile,  nel  caso  in  esame,  accogliere
l'invito a  percorrere  la  strada  dell'interpretazione  conforme  a
Costituzione, in numerose pronunce rivolto dal Giudice delle leggi ai
giudici di merito, affinche' gli stessi, nell'operare la ricognizione
del contenuto  normativo  della  disposizione  da  applicarsi,  siano
costantemente  ispirati  dall'esigenza  di  rispetto   dei   precetti
costituzionali e quindi, ove un'interpretazione  appaia  confliggente
con alcuno di essi, si  risolvano  ad  adottare  letture  alternative
maggiormente  aderenti   al   parametro   costituzionale   altrimenti
vulnerato (vds., al riguardo, Corte Cost., sent. n. 149 dd 1994). 
    In definitiva, come gia' in precedenza si e'  evidenziato,  dallo
stesso capo  di  imputazione  elevato  nei  confronti  dell'imputato,
nonche' dall'esame del complessivo materiale  probatorio,  sulla  cui
base il giudice di prime cure  e'  pervenuto  all'affermazione  della
penale responsabilita' del prevenuto in ordine al reato  di  ingiuria
militare commesso ai danni della graduata, emerge per tabulas che  la
fattispecie denunciata debba essere applicata necessariamente ai fini
della decisione, non trattandosi,  pertanto,  di  una  prospettazione
meramente ipotetica e astratta. 
    La pregiudizialita' necessaria di tale questione di  legittimita'
costituzionale rispetto alla decisione  del  giudizio  a  quo  appare
evidente, investendo il dubbio di conformita' alla  Costituzione  una
disposizione penale che questo Giudice e' chiamato ad  applicare  per
la prosecuzione e/o la definizione del giudizio. 
    Emergendo chiaramente, per quanto sopra descritto,  la  rilevanza
nel caso di specie della questione  di  legittimita'  costituzionale,
alla stessa deve accordarsi,  peraltro,  precedenza,  non  risultando
altre  questioni,  prospettate  nell'atto  di  appello  proposto  dal
difensore dell'imputato o rilevabili ex officio  da  questo  giudice,
che presentino un carattere  di  preordinazione  o  pari  ordinazione
rispetto alla stessa. 
    V. L'intervento abrogativo del delitto di ingiuria comune operato
dal legislatore  ha  indubbiamente  determinato,  quale  ulteriore  e
indiretta conseguenza, l'inquadramento della residua  fattispecie  di
reato militare di ingiuria tra i reati «esclusivamente militari», dal
momento  che  esso  risulta  attualmente   costituito,   secondo   la
definizione fornita dall'art. 37, comma 2 c.p.m.p. «da un  fitto  che
nei suoi elementi materiali costitutivi, non e', in tutto  in  parte,
preveduto come reato dalla legge penale comune». 
    Se e' vero, come e' stato riconosciuto  da  autorevole  dottrina,
che  la  nozione  di  reato  militare   presenta   una   connotazione
squisitamente formale, dovendosi considerare reato militare,  secondo
quanto previsto dall'art. 37, comma 1, c.p.m.p, «qualunque violazione
della legge penale militare», tuttavia, alla luce delle pronunce  del
Giudice delle leggi e di quello di legittimita', non  puo'  revocarsi
in dubbio che «perche' si abbia reato militare occorre che si  tratti
di' un fatto che sia offensivo di un interesse  militare  e  che  sia
previsto dalla  legge  penale  militare»  (Casa.  Pen.,  Sez.  I,  22
settembre 2009, n. 759;  sul  punto  anche  Corte  Costituzionale,  6
luglio 1995, n. 298, che ha definito inammissibile  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  37   c.p.m.p.,   confermando
l'adozione da parte del legislatore di un criterio meramente  formale
per definire la nozione di reato militare). 
    In  conseguenza  della  depenalizzazione  del  reato  comune   di
ingiuria, determinata dall'art. 1, lett. c), del decreto  legislativo
7/2016, l'omologa fattispecie di reato militare, ricomprendendo fatti
potenzialmente  estranei  alla  tutela  degli   interessi   militari,
difettando per il reato in questione una norma equivalente  a  quella
contenuta  nell'art.  199  c.p.m.p.,  introduce  una  disparita'   di
trattamento dei cittadini in armi imputati di ingiuria,  rispetto  ai
soggetti  non  appartenenti  alle  Forze  Armate   che   si   rendano
protagonisti  delle  medesime  condotte  ingiuriose  ma  che,   d'ora
innanzi, saranno soggetti esclusivamente a  una  sanzione  pecuniaria
civile. Tale disparita' di trattamento, che si  palesa  in  contrasto
col principio di ragionevolezza,  risulta  del  tutto  ingiustificata
perche' finisce con il riservare al  militare  soggetto  a  un  reato
esclusivamente  militare  un  trattamento  immotivatamente  ben  piu'
gravatorio rispetto a quello previsto per  gli  estranei  alle  Forze
armate. Tale disparita' non puo' trovare giustificazione  neanche  in
base alla ratio ravvisata dalla Corte costituzionale, la  quale,  nel
pronunciarsi in ordine al  giudizio  di  legittimita'  costituzionale
degli articoli 226 e 229 c.p.m.p., in relazione  all'art.  260  dello
stesso codice, ebbe ad  affermare  che  la  questione  sollevata  non
poteva  ritenersi  in  contrasto  «con   il   principio   informatore
dell'ordinamento delle forze  armate  -  identificato  dall'art.  52,
terzo comma,  della  Costituzione  nello  spirito  democratico  della
Repubblica - trattandosi di scelta  che  mira  ad  adeguare  al  caso
concreto la risposta dell'ordinamento militare», non essendo, secondo
la stessa Corte, neppure «ravvisabile una lesione  del  principio  di
uguaglianza, in quanto la  diversita'  di  trattamento  rilevata  dal
giudice a quo trova giustificazione  nella  peculiare  posizione  del
cittadino inserito  nell'ordinamento  militare  -  caratterizzato  da
specifiche regole  di  natura  cogente  -  rispetto  a  quella  della
generalita' dei cittadini» (Corte Cost., ord. n.  186  del  4  giugno
2001). L'ordinanza in questione e'  stata,  infatti,  successivamente
precisata dalla stessa Consulta,  sostanzialmente  nell'esercizio  di
una attivita'  di  interpretazione  autentica,  allorquando,  con  la
sentenza numero 273 del 19-29 ottobre 2009, con  la  quale  e'  stata
dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 227  del  codice
penale  militare  di  pace  nella  parte   in   cui   non   prevedeva
l'applicabilita' della prova liberatoria prevista dall'art.  596  del
codice penale,  ebbe  modo  di  affermare,  a  giustificazione  della
ravvisata legittimita' dell'esclusione della procedibilita' a querela
della persona  offesa  per  i  delitti  di  ingiuria  e  diffamazione
militare e della loro  esclusiva  subordinazione  alla  richiesta  di
procedimento da parte del comandante di corpo,  che  «...  nei  reati
militari [e'] sempre insita "un'offesa alla disciplina e al servizio,
una lesione quindi di un interesse  eminentemente  pubblico  che  non
tollera subordinazione  all'interesse  privato  caratteristico  della
querela":  presupposto  sulla  base  del  quale  "si   e'   preferito
attribuire al comandante del corpo, con l'istituto  della  richiesta"
una facolta' di scelta tra  l'adozione  di  provvedimenti  di  natura
disciplinare ed il ricorso all'ordinaria azione penale». Il principio
in questione veniva in quella ipotesi, pero',  riferito  dalla  Corte
alla  previsione  di  due  differenti  condizioni  di  procedibilita'
penale, che distinguevano la particolare posizione del cittadino  sub
signis, con  riferimento,  tuttavia,  a  fatti  da  considerarsi,  in
entrambi i casi,  penalmente  rilevanti.  A  seguito,  invece,  della
depenalizzazione del  reato  comune  di  ingiuria,  si  e'  venuta  a
determinare una disparita' di trattamento tra il cittadino in armi  e
quello comune, in base alla quale soltanto il primo viene a  ricevere
un trattamento sanzionatorio di natura penale nei  casi  di  condotte
ingiuriose tenute nei confronti  di  altro  militare  che  presentino
alcuna  connessione  con  interessi  di  natura   militare.   Ne'   a
giustificazione di tale deteriore risposta da parte  dall'ordinamento
giuridico  puo'  farsi  richiamo  a  un  preteso  maggiore  disvalore
caratterizzante la condotta in tali casi, dal  momento  che  la  pena
edittale prevista per il reato militare  di  ingiuria  si  presentava
meno grave (reclusione militare fino a quattro  mesi)  rispetto  alla
sanzione del corrispondente reato comune ormai  abrogato  (reclusione
nel massimo fino a sei mesi, oltre alla multa, fino a  euro  516,00).
Nella stessa  relazione  definitiva  ai  codici  penali  militari,  a
proposito del raffronto delle «gravita'»  delle  due  fattispecie  di
reato in esame, si diceva che «gli articoli 226, 227, 228 del  codice
concernono i reati di ingiuria e di diffamazione. 
    Sono state tenute presenti, nella formulazione degli articoli  le
corrispondenti norme della legge penale comune, stabilendosi peraltro
una diminuzione delle pene giustificata dalle particolari  condizioni
con cui si svolge la convivenza  militare,  per  cui  taluni  episodi
possono considerarsi  come  manifestazioni  di  esuberanza  giovanile
anziche' di pravi sentimenti». 
    In definitiva, appare indiscutibile, in considerazione da  tenore
letterale delle rispettive fattispecie incriminatrici,  e  alla  luce
dei parametri interpretativi al riguardo forniti dalla giurisprudenza
di merito e di legittimita', che il reato militare di ingiuria  abbia
mutuato il nucleo essenziale della condotta che intende  prevedere  e
reprimere, dall'ormai abrogato delitto comune di ingiuria, del  quale
costituiva fino ad oggi una sostanziale duplicazione, sia per  quanto
riguarda il profilo oggettivo, sia per  quello  psicologico  da  dolo
generico richiesto,  salvo  diversificarsene  esclusivamente  per  il
requisito della qualita' di militare dei soggetti  attivo  e  passivo
del reato. Ne derivava la sussistenza di un rapporto  di  specialita'
tra le due fattispecie incriminatrici, del  tutto  analogo  a  quello
affermato dalla  stessa  Corte  costituzionale  con  la  sentenza  n.
273/2009, con riferimento al reato militare di diffamazione  rispetto
a quello comune di cui all'art. 595 codice penale, per  cui  «...  le
due fattispecie poste a raffronto, diffamazione  militare  (art.  227
cod. pen. mil. pace) e diffamazione «comune» (art.  595  cod.  pen.),
presenta[vano] una piena equivalenza sul terreno sia  della  condotta
tipica, sia dell'oggettivita' giuridica del  reato.  La  diffamazione
militare si pone[va] in rapporto di specialita' con il corrispondente
delitto previsto dal codice penale, distinguendosi unicamente per  la
qualita' del soggetto attivo  e  della  persona  offesa,  che  devono
essere entrambi militari, restando invece identica, sotto il  profilo
testuale, la descrizione  della  fattispecie  base  delle  due  norme
incriminatrici, vale a dire l'offesa della altrui  reputazione  nella
comunicazione con piu' persone»  (Corte  Cost.,  sentenza  del  19-29
ottobre 2009, n. 273). 
    Deve, quindi, concludersi, attesa la assoluta equivalenza tra  le
due fattispecie, sia sul piano della condotta tipica  che  su  quello
del bene giuridico oggetto di tutela,  che  l'attuale  disparita'  di
trattamento venutasi a determinare con riferimento alle  condotta  di
ingiuria,  quando  posta  in  essere  da  un  cittadino  comune,  con
conseguente risposta sanzionatoria solo di  natura  civile  da  parte
dell'ordinamento, rispetto a quando commessa da un militare ai  danni
di altro commilitone, con trattamento sanzionatorio penale, privativo
della liberta' personale, appare del tutto  ingiustificata  sotto  il
profilo della ragionevolezza e si pone in insanabile contrasto con il
principio di eguaglianza di tutti i cittadini, proclamato dall'art. 3
della Carta costituzionale, nei casi in  cui  la  condotta  posta  in
essere non presenti alcun  profilo  di  attinenza  con  interessi  di
natura militare, se non per  il  solo  fatto  dell'appartenenza  alle
Forze Armate dei soggetti attivo e passivo della condotta stessa. 
    Come gia'  sopra  evidenziato,  attesa  l'impossibilita'  per  il
giudice di operare  una  distinzione,  nell'ambito  della  previsione
generale di cui all'art. 226 del codice penale militare di pace,  tra
le condotte di  ingiuria  che  presentano  profili  di  attinenza  al
servizio  o  alla  disciplina  militare  o,  piu'  in  generale,   di
connessione con interessi di natura militare, rispetto a condotte che
non presentino una tale colorazione, si palesa, nell'attuale  assetto
normativo, uno stridente trattamento  discriminatorio  tra  i  comuni
cittadini e quelli in armi, essendo  questi  ultimi  attualmente  gli
unici chiamati  a  dover  corrispondere  penalmente  di  condotte  di
valenza  ingiuriosa  poste  in  essere  nei   confronti   di   propri
commilitoni. Tale evidente contrasto appare ingiustificato e induce a
ravvisare un vizio di costituzionalita' della norma  penale  militare
che prevede il delitto di ingiuria, nelle ipotesi in cui la condotta,
come nel caso in esame, non presenti alcun profilo di connessione con
interessi militari, se non per  la  mera  appartenenza  al  consorzio
militare dei protagonisti attivo e passivo  della  vicenda.  In  tali
ipotesi,  infatti,   non   e'   possibile   cogliere   alcun   tratto
differenziale con la fattispecie che la novella ha  inteso  escludere
dall'ambito della rilevanza penale, per affidarla  a  una  tutela  da
svolgersi ed esaurirsi tutta in ambito civilistico. 
    Tale  situazione,  come  gia'  detto,  ricorre   nel   caso   che
costituisce oggetto del  presente  giudizio,  dato  che  la  condotta
ingiuriosa che viene ascritta all'imputato,  secondo  la  descrizione
fornitane dalla  pubblica  accusa,  non  presenta  alcun  profilo  di
connessione  con  interessi  militari,  ne'  di  riconducibilita'  al
servizio o alla disciplina militare, essendo il  protagonista  attivo
della vicenda, e anche gli altri soggetti che  hanno  avuto  modo  di
assistere all'episodio di cui trattasi, tutti liberi dal servizio  al
momento dei fatti e impegnati in attivita' e  discussioni  di  natura
esclusivamente personale e privata; di  talche',  appare  evidente  e
inaccettabile la disparita'  di  trattamento  rispetto  a  un  comune
soggetto al quale venisse  ascritta  la  stessa  condotta  addebitata
all'imputato, in palese contrasto con il principio di uguaglianza tra
cittadini. 
    In conclusione, ai fini della corretta individuazione  del  thema
decidendum da offrirsi alla  valutazione  del  Giudice  delle  leggi,
questa Corte ritiene di dover indicare l'art. 226 del  codice  penale
militare di pace - che, per le ragioni in precedenza  espresse,  deve
trovare applicazione nel presente giudizio - come norma che  si  pone
in contrasto, alla luce  del  criterio  di  ragionevolezza,  con  gli
articoli  3  e  52  della  Carta  costituzionale,  i  quali  sono  da
assumersi, quindi, quali parametro di  costituzionalita';  violazione
determinatasi a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 1, lett. c),
del decreto legislativo n. 7  del  2016  -  costituente,  quindi,  il
tertium comparationis - che ha  disposto  la  abrogazione  del  reato
comune di ingiuria  di  cui  all'art.  594  del  codice  penale,  non
prevedendo,   ingiustificatamente,    analoga    abrogazione    anche
dell'omonimo reato militare di ingiurie,  contemplato  dall'art.  226
c.p.m.p.,  nelle  distinte  ipotesi  come  sopra  delineate   e,   in
particolare, nei casi in cui la condotta ivi descritta  non  presenti
alcun profilo di attinenza con il servizio e/o la disciplina militare
o, piu' in generale, con interessi di  natura  militare.  Si  invoca,
pertanto, la declaratoria di illegittimita' costituzionale  dell'art.
226 c.p.m.p., nella parte in cui se ne prevede l'applicabilita' anche
quando il fatto dalla stessa preveduto  risulta  commesso  per  cause
estranee al servizio e alla  disciplina  militare  o,  comunque,  non
afferenti a interessi delle Forze Armate, che, ad  avviso  di  questo
giudice, avrebbe come risultante un quadro normativo coerente con  la
scelta  operata   dal   legislatore   relativamente   ai   reati   di
insubordinazione  e  abuso  di  autorita',  per  i  quali  e'   stato
effettuato   il   ridimensionamento   dell'ambito   applicativo   con
l'individuazione  delle  specifiche  situazioni  di  fatto  descritte
nell'art. 199 del codice penale militare di pace (fatti avvenuti  per
cause estranee al servizio e alla disciplina, fuori dalla presenza di
militari riuniti per servizio e da  militare  che  non  si  trovi  in
servizio o a bordo di una nave o di  un  aeromobile  militare).  Tale
intervento  consentirebbe,  infatti,  ricorrendo   taluna   di   tali
circostanze  negativamente  indicate,  di  escludere  in  radice   la
rilevanza  penale  delle  condotte  integranti   ingiuria,   anziche'
comportare, come attualmente avviene in base a  quanto  espressamente
previsto dall'art. 199 c.p.m.p., la sola inapplicabilita' delle norme
che contemplano e puniscono la  condotta  ingiuriosa,  sia  in  senso
ascendente che discendente, nell'ambito dei reati di insubordinazione
(artt. 189, comma 2, c.p.m.p.) e di abuso di autorita' (196, comma 2,
c.p.m.p.), inquadrati sotto il  Titolo  III   «Dei  reati  contro  la
disciplina militare», con conseguente riconducibilita'  degli  stessi
nell'alveo della  fattispecie  incriminatrice  di  cui  all'art.  226
c.p.m.p. 
    Conclusivamente, verrebbe ripristinata la piena equiparazione del
trattamento riservato al cittadino in armi che si renda  protagonista
di una condotta ingiuriosa  nei  confronti  di  altro  militare,  per
ragioni  di  natura  esclusivamente  personale  e  privata  che   non
presentino  alcuna  attinenza  con  interessi  di  natura   militare,
rispetto al cittadino comune che tenga un comportamento  analogo  nei
confronti di un altro soggetto. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948,  n.
1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 226 c.p.m.p., per contrasto con
gli artt. 3 e 52 della Costituzione, nella parte in cui  sottopone  a
sanzione penale condotte  del  tutto  estranee  al  servizio  o  alla
disciplina militare o, comunque,  non  afferenti  a  interessi  delle
Forze Armate dello Stato, che, ove poste in essere  da  soggetti  non
appartenenti alle Forze Armate, non sono piu'  previste  dalla  legge
come reato, per effetto del  disposto  dell'art.  1,  lett.  c),  del
decreto legislativo n. 7 del 15 gennaio 2016, che ha abrogato  l'art.
594 c.p.; 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
Costituzionale; 
    Ordina la sospensione del giudizio in corso; 
    Ordina che la presente ordinanza, a cura della  cancelleria,  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e  comunicata  ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
        Roma, 6 aprile 2016 
 
                 Il Presidente: Francesco Ufilugelli 
 
 
                           Il giudice estensore: Gioacchino Tornatore