N. 109 SENTENZA 9 marzo - 20 maggio 2016

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Stupefacenti e  sostanze  psicotrope  -  Coltivazione  di  piante  di
  cannabis - Trattamento sanzionatorio. 
- D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi  in  materia
  di   disciplina   degli   stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,
  prevenzione,  cura  e  riabilitazione   dei   relativi   stati   di
  tossicodipendenza), art. 75. 
-   
(GU n.21 del 25-5-2016 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici  :Giuseppe  FRIGO,  Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,   Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  75  del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e  riabilitazione  dei  relativi  stati  di  tossicodipendenza),
promossi dalla Corte d'appello di Brescia con ordinanze del 10  marzo
e dell'11 giugno 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 98 e  200  del
registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta  Ufficiale  della
Repubblica nn. 22 e 41, prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio  del  9  marzo  2016  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 10 marzo 2015 (r.o. n.  98  del  2015),  la
Corte d'appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3,
13, secondo comma, 25,  secondo  comma,  e  27,  terzo  comma,  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  75
del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella
parte in cui - secondo un consolidato indirizzo della  giurisprudenza
di legittimita' - non include  tra  le  condotte  punibili  con  sole
sanzioni amministrative, ove finalizzate  in  via  esclusiva  all'uso
personale della  sostanza  stupefacente,  anche  la  coltivazione  di
piante di cannabis. 
    La Corte rimettente premette  di  essere  investita  dell'appello
proposto  dai  difensori  dell'imputato  avverso  la   sentenza   del
Tribunale ordinario di Brescia che aveva dichiarato il loro assistito
colpevole del delitto di cui all'art. 73, commi 1,  1-bis  e  5,  del
d.P.R. n. 309 del 1990, per aver coltivato nel garage  della  propria
abitazione otto piante di canapa indiana, due delle quali in avanzato
stato di  maturazione,  e  per  aver  illecitamente  detenuto,  nella
propria camera da letto, grammi 25 di marijuana. 
    I difensori avevano censurato, in particolare, il  fatto  che  il
Tribunale fosse pervenuto ad un giudizio  di  responsabilita'  penale
pur in mancanza della prova della  destinazione  allo  spaccio  della
marijuana e dello stupefacente ricavabile dalle  piantine  di  canapa
indiana: prova che - vertendo su un elemento costitutivo del  delitto
contestato - sarebbe spettato alla pubblica accusa fornire. A  fronte
di cio', avevano chiesto  che  l'imputato  fosse  assolto  dal  reato
ascrittogli anche in relazione alla condotta di  coltivazione,  sulla
base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 75
del d.P.R. n. 309 del 1990, che faccia rientrare tra le  condotte  di
chi «comunque detiene» lo stupefacente anche quella  di  coltivazione
per ricavare droga destinata esclusivamente al consumo personale.  In
subordine,   avevano   riproposto   l'eccezione   di   illegittimita'
costituzionale della citata  disposizione  gia'  formulata  in  primo
grado e ritenuta irrilevante dal Tribunale, sul presupposto che fosse
provata la destinazione allo spaccio del prodotto della coltivazione. 
    Al riguardo, la Corte rimettente osserva  che,  contrariamente  a
quanto  ritenuto  dal  primo  giudice,   ne'   la   quantita'   dello
stupefacente rinvenuto presso l'imputato - quello  pronto  all'uso  e
quello ricavabile dalle  piantine  una  volta  giunte  a  maturazione
(quantita' non rilevante sia per valore economico che in relazione al
numero di dosi ottenibili) - ne' alcun altro elemento consentirebbero
di ritenere raggiunta la  prova  che  lo  stupefacente  stesso  fosse
destinato, in tutto o in parte, ad essere ceduto a terzi. 
    L'imputato  dovrebbe  essere,   pertanto,   assolto   dal   reato
contestatogli  con  riguardo  alla  detenzione  dei  25   grammi   di
marijuana,  la  quale   risulterebbe   penalmente   irrilevante   per
l'espresso  disposto  dell'art.  75  del  d.P.R.  n.  309  del  1990.
Altrettanto non potrebbe dirsi, invece,  per  la  coltivazione  delle
otto piantine di cannabis. L'interpretazione adeguatrice  prospettata
dalla difesa, intesa a far refluire anche  la  coltivazione  per  uso
personale tra le condotte  sanzionate  in  via  amministrativa  dalla
norma  censurata,  resterebbe,  infatti,  esclusa  alla  luce  di  un
orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di  legittimita'.
Quest'ultima,  per  oltre  un  decennio,  e'  stata  «sostanzialmente
granitica»   nell'affermare   l'impraticabilita'   di   una    simile
interpretazione.  Dopo  un  tentativo,  operato   da   un   indirizzo
minoritario, di limitare  la  nozione  di  «coltivazione»  alla  sola
attivita'  gestita  con  caratteri  di  imprenditorialita',   facendo
rientrare  la  cosiddetta  coltivazione  "domestica"   nel   generico
concetto di detenzione di cui all'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990,
sono intervenute le sezioni unite della Corte di  cassazione  con  la
sentenza 24 aprile-10 luglio 2008, n. 28605, ribadendo  il  principio
per  cui  «costituisce  condotta   penalmente   rilevante   qualsiasi
attivita' non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali  sono
estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per  la
destinazione del prodotto ad uso personale»: principio al quale si e'
attenuta la giurisprudenza di legittimita' successiva. 
    Cio' renderebbe, peraltro, rilevante la questione di legittimita'
costituzionale prospettata in via subordinata dalla difesa: questione
che  la  Corte  rimettente  ritiene,  altresi',  non   manifestamente
infondata  in  rapporto  ai  parametri   dell'eguaglianza   e   della
necessaria offensivita' del reato, nei termini di seguito indicati. 
    Preliminarmente, il giudice a quo  si  dichiara  consapevole  del
fatto che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 360  del  1995,
ha gia' dichiarato non fondata analoga questione.  Reputa,  tuttavia,
che la soluzione meriti di essere  rivista  alla  luce  non  soltanto
dell'evoluzione  giurisprudenziale  nell'individuazione  della  ratio
della disciplina penale degli stupefacenti, ma anche della  normativa
sovranazionale sopravvenuta. 
    Osserva, in questa ottica, la Corte rimettente che l'art. 75  del
d.P.R. n. 309 del 1990 configura come mero illecito amministrativo il
fatto di  chi,  «per  farne  uso  personale,  illecitamente  importa,
esporta, acquista, riceve  a  qualsiasi  titolo  o  comunque  detiene
sostanze stupefacenti o psicotrope». La legge considererebbe, dunque,
penalmente irrilevante la condotta di chi detiene lo  stupefacente  a
fini di consumo personale, quale che sia il  comportamento  pregresso
che ha originato tale detenzione («comunque detiene»).  Rientrerebbe,
pertanto, tra i semplici illeciti amministrativi anche la detenzione,
a detto fine, di sostanza stupefacente ricavata da  piante  coltivate
dallo stesso detentore. 
    Di contro, in base all'«unica interpretazione  legittimata  dalla
giurisprudenza di legittimita'», allorche' il soggetto  sia  sorpreso
quando ha ancora in corso la  coltivazione  la  sua  condotta  assume
rilevanza penale. 
    Tale disciplina violerebbe il principio di  eguaglianza  (art.  3
Cost.), assoggettando a trattamenti diversi comportamenti identici, o
almeno  del  tutto  assimilabili.  La  denunciata  sperequazione  non
potrebbe essere giustificata  con  il  rilievo  che  la  condotta  di
detenzione - a differenza di quella di coltivazione - e'  collegabile
immediatamente e direttamente al successivo uso personale,  finalita'
che sola giustifica  l'applicazione  del  regime  sanzionatorio  meno
rigoroso previsto dall'art.  75  del  d.P.R.  n.  309  del  1990.  La
maggiore  «distanza»  della   condotta   di   coltivazione   rispetto
all'utilizzo  finale  dello  stupefacente   potrebbe   rendere   piu'
difficoltoso, in punto di fatto, l'accertamento  della  finalita'  di
consumo personale, ma risulterebbe inidonea ad imprimere  un  maggior
disvalore alla condotta, una volta  che  detta  finalita'  sia  stata
comunque accertata. 
    La  norma  censurata  violerebbe,  altresi',  in  parte  qua,  il
principio di necessaria  offensivita'  del  reato,  ricavabile  dalla
disposizione combinata degli artt. 13,  secondo  comma,  25,  secondo
comma, e 27, terzo comma, Cost. 
    Ancor piu' dopo la modifica del quadro  normativo  conseguita  al
referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993,  la  salute  individuale
rimarrebbe,  infatti,  estranea  agli  obiettivi  di   tutela   della
disciplina dettata dagli artt. 73 e 75 del d.P.R. n.  309  del  1990.
Come chiarito dalle sezioni unite della Corte di  cassazione  con  la
sentenza   24   giugno-21   settembre   1998,    n.    9973,    scopo
dell'incriminazione di cui al citato art. 73 e' piuttosto «quello  di
combattere il mercato della droga, [...] che  mette  in  pericolo  la
salute pubblica, la sicurezza e l'ordine pubblico, nonche' il normale
sviluppo delle giovani generazioni». 
    In questa prospettiva, la  coltivazione  di  piante  di  cannabis
finalizzata al consumo  personale,  proprio  perche'  non  prodromica
all'immissione della droga  sul  mercato,  risulterebbe  radicalmente
inidonea a ledere i beni giuridici protetti e, dunque, inoffensiva. 
    Che la protezione della  salute  o  dell'incolumita'  individuale
dell'agente da comportamenti autolesivi  sia  estranea  non  solo  al
sistema normativo in esame,  ma  all'intero  ordinamento  penale,  lo
dimostrerebbe, d'altronde, il fatto che non solo altri  comportamenti
notoriamente nocivi per la salute di chi li pone in essere (quali  il
tabagismo e l'abuso di sostanze alcooliche), ma persino la piu' grave
delle condotte autolesive, e cioe' il tentativo di suicidio,  restino
privi di rilevanza penale. 
    L'evidenziata  ratio  delle  norme  incriminatrici  in  tema   di
stupefacenti risulterebbe confermata, inoltre, dalla decisione quadro
25 ottobre 2004, n.  2004/757/GAI  (Decisione  quadro  del  Consiglio
riguardante la fissazione di  norme  minime  relative  agli  elementi
costitutivi dei reati e  alle  sanzioni  applicabili  in  materia  di
traffico illecito di stupefacenti), il cui art. 2, dopo aver elencato
le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri
sono tenuti ad assoggettare a sanzione penale, esclude  espressamente
dal  campo  di  applicazione  della  decisione  stessa  le   condotte
precedentemente descritte - compresa  quella  di  coltivazione  -  se
tenute dai loro autori soltanto ai fini del consumo  personale  della
sostanza, quale definito dalle legislazioni nazionali. 
    1.1.- E' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile. 
    Secondo la difesa dello Stato, il giudice a quo avrebbe richiesto
alla  Corte  un  intervento  che  non  solo  non  potrebbe  ritenersi
costituzionalmente obbligato, ma che finirebbe, anzi, per tradursi in
una sorta di  riscrittura  della  norma  censurata,  inserendovi  una
fattispecie attualmente non  prevista:  operazione  che,  in  materia
penale e, piu' in generale, sanzionatoria,  risulterebbe  preclusa  a
fronte del rigorosissimo principio di legalita' che la regge. 
    1.2.- Con successiva memoria, la difesa dello Stato  ha  ribadito
l'eccezione di inammissibilita', chiedendo, in via  subordinata,  che
la questione sia dichiarata non fondata  nel  solco  di  quanto  gia'
deciso dalla Corte con la sentenza n. 360 del 1995. 
    Ha rilevato, altresi', come  non  risulti  probante,  a  sostegno
delle tesi del giudice a quo, la decisione quadro n. 2004/757/GAI, la
quale - nell'escludere dal suo  campo  di  applicazione  le  condotte
finalizzate al consumo personale della sostanza stupefacente da parte
del loro autore, compresa quella di coltivazione - affida,  tuttavia,
la definizione di tali condotte agli ordinamenti nazionali, lasciando
quindi al legislatore del singolo Stato membro ampia discrezionalita'
al riguardo. 
    2.- La Corte d'appello di Brescia ha sollevato identica questione
con successiva ordinanza dell'11 giugno 2015 (r.o. n. 200 del  2015),
emessa nell'ambito del giudizio di appello avverso altra sentenza del
Tribunale ordinario  di  Brescia,  che  aveva  dichiarato  l'imputato
colpevole dei reati  di  «illecita  detenzione  di  sette  piante  di
marijuana» e di porto ingiustificato di un coltello a serramanico. 
    Nell'occasione,  il  difensore  appellante  aveva  lamentato  che
l'imputato fosse stato ritenuto responsabile del primo dei due reati,
in violazione del principio di offensivita',  nonostante  il  mancato
accertamento della percentuale di principio attivo  ricavabile  dalle
piantine e in assenza di ogni prova circa  la  destinazione  a  terzi
della  sostanza.  A  quest'ultimo  riguardo,  aveva   sostenuto   che
l'indirizzo giurisprudenziale che  attribuisce  rilievo  penale  alla
coltivazione a prescindere dall'individuazione del destinatario dello
stupefacente  contrasterebbe  con  il   principio   di   eguaglianza,
sottoponendo detta condotta  ad  un  trattamento  ingiustificatamente
deteriore rispetto a quella di colui che,  pur  avendo  coltivato  le
piante, abbia gia' raccolto il prodotto. 
    Anche in questo caso, secondo la Corte  bresciana,  non  potrebbe
ritenersi,  in  effetti,  raggiunta  la  prova  che  lo  stupefacente
derivato dalla lavorazione delle foglie  fosse  destinato,  sia  pure
solo in parte, alla cessione a terzi. 
    Sarebbe,  di  conseguenza,  pure  nel  frangente   rilevante   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 75 del  d.P.R.  n.
309 del 1990, nella parte in  cui  non  include  la  coltivazione  di
piante  di  cannabis,  finalizzata  in  via  esclusiva   al   consumo
personale, tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative:
questione la  cui  non  manifesta  infondatezza  viene  motivata  con
considerazioni identiche a quelle svolte nell'ordinanza  r.o.  n.  98
del 2015. 
    2.1.- E' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    L'interveniente osserva  che  la  Corte  costituzionale,  con  la
sentenza n.  360  del  1995,  ha  gia'  rigettato  una  questione  di
legittimita' costituzionale analoga, rilevando come  la  condotta  di
detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale non sia affatto
comparabile a quella di coltivazione, ancorche' parimenti finalizzata
al  consumo  personale.  La   prima,   infatti,   e'   una   condotta
immediatamente  antecedente  al  consumo,  rispetto  alla  quale   si
giustifica la scelta legislativa di non ricorrere  alla  piu'  severa
sanzione penale: connotazione che non si riscontra, invece,  rispetto
alla condotta di coltivazione. 
    La stessa  destinazione  all'uso  personale  si  presta,  d'altro
canto, ad essere apprezzata in termini  diversi  nelle  due  ipotesi.
Nella  detenzione,  infatti,  essendo  il  quantitativo  di  sostanza
stupefacente certo e  determinato,  e'  possibile,  alla  luce  delle
circostanze oggettive e soggettive, un giudizio prognostico circa  la
destinazione della sostanza. Nel caso della coltivazione, invece,  la
quantita' di  prodotto  estraibile  dalle  piante  coltivate  non  e'
apprezzabile con sufficiente grado di certezza, sicche' la  correlata
valutazione  in  ordine  alla  destinazione  della  sostanza  ad  uso
personale, anziche' di spaccio, risulta maggiormente ipotetica e meno
affidabile. 
    Se cio' vale ad escludere la denunciata violazione del  principio
di  eguaglianza,  parimenti  insussistente  risulterebbe   l'asserito
contrasto con il principio di offensivita'. 
    Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, infatti, non
e' incompatibile con detto principio la configurazione  di  reati  di
pericolo presunto, salva la sindacabilita' della ragionevolezza della
valutazione  legislativa,  operata  in   via   astratta,   circa   la
pericolosita' delle condotte cui si attribuisce rilevanza penale. 
    Nel caso della  coltivazione,  la  pericolosita'  astratta  della
condotta incriminata sarebbe, peraltro,  innegabile,  stante  la  sua
idoneita'  ad  accrescere  indiscriminatamente  i   quantitativi   di
stupefacente disponibili e ad  aumentare  le  occasioni  di  spaccio,
attentando, cosi', al bene giuridico protetto. La  circostanza,  poi,
che la specifica condotta sottoposta all'esame del giudice a quo  non
presenti nemmeno in  grado  minimo  il  requisito  dell'offensivita',
lungi dal poter fondare la questione di costituzionalita'  sollevata,
implicherebbe soltanto un giudizio  di  merito  devoluto  al  giudice
comune. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte d'appello di Brescia, con due ordinanze  di  analogo
tenore, dubita della legittimita'  costituzionale  dell'art.  75  del
d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia  di
disciplina degli stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,
cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella
parte in cui - secondo un consolidato indirizzo della  giurisprudenza
di legittimita' - non include  tra  le  condotte  punibili  con  sole
sanzioni amministrative, ove finalizzate  in  via  esclusiva  all'uso
personale della  sostanza  stupefacente,  anche  la  coltivazione  di
piante di cannabis. 
    Ad avviso  della  Corte  rimettente,  risulterebbe  in  tal  modo
violato il principio di  eguaglianza  (art.  3  della  Costituzione),
sotto il profilo della ingiustificata disparita' di  trattamento  fra
chi detiene per  uso  personale  sostanza  stupefacente  ricavata  da
piante da  lui  stesso  precedentemente  coltivate  -  assoggettabile
soltanto a  sanzioni  amministrative,  in  forza  della  disposizione
denunciata - e chi e' sorpreso mentre  ha  in  corso  l'attivita'  di
coltivazione, finalizzata sempre al consumo personale:  condotta  che
assume, invece, rilevanza penale. 
    La  norma  censurata  violerebbe,  altresi',  in  parte  qua,  il
principio di necessaria  offensivita'  del  reato,  desumibile  dalla
disposizione combinata degli artt. 13,  secondo  comma,  25,  secondo
comma, e 27, terzo comma, Cost. In quanto non diretta  ad  alimentare
il mercato della droga, la coltivazione di piante di cannabis per uso
personale risulterebbe, infatti, inidonea a ledere i  beni  giuridici
protetti dalla norma incriminatrice di cui all'art. 73 del d.P.R.  n.
309  del  1990,  costituiti  -  alla  luce  delle  indicazioni  della
giurisprudenza di legittimita' - non gia'  dalla  salute  individuale
dell'agente, ma dalla salute pubblica, dalla sicurezza e  dall'ordine
pubblico, nonche' dal «normale sviluppo delle giovani generazioni». 
    2.-  Le  due  ordinanze  di  rimessione  sollevano  la   medesima
questione, sicche'  i  relativi  giudizi  vanno  riuniti  per  essere
definiti con unica decisione. 
    3.- L'eccezione  di  inammissibilita'  formulata  dall'Avvocatura
generale  dello  Stato  con   riguardo   alla   questione   sollevata
dall'ordinanza r.o. n. 98 del  2015  -  ma  riferibile  evidentemente
anche all'omologa questione proposta dalla seconda ordinanza - non e'
fondata. 
    Secondo la difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile
in quanto volta ad aggiungere una ulteriore fattispecie  nella  norma
sanzionatoria amministrativa censurata: operazione che, oltre  a  non
apparire  costituzionalmente  obbligata,  si  scontrerebbe   con   il
«rigorosissimo» principio di legalita' che regge la materia penale e,
amplius, sanzionatoria. 
    Per  costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,  tuttavia,   il
principio di riserva di legge enunciato dall'art. 25, secondo  comma,
Cost. - impedendo alla Corte  stessa  «di  creare  nuove  fattispecie
criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti», oltre
che «di incidere in  peius  sulla  risposta  punitiva  o  su  aspetti
comunque inerenti alla punibilita'» (per tutte, sentenza n.  394  del
2006) - preclude, in materia penale, unicamente le sentenze  additive
in malam partem (ex plurimis, sentenza n. 57 del 2009;  ordinanze  n.
285 del 2012 e n. 437 del 2006). Nessun  ostacolo  -  al  di  la'  di
quello  generale,  legato  all'esigenza  che   l'intervento   risulti
costituzionalmente vincolato nei contenuti, cosi'  da  non  implicare
scelte discrezionali spettanti in  via  esclusiva  al  legislatore  -
incontrano invece le sentenze additive in bonam partem, quale  quella
invocata dall'odierno rimettente, intesa a  trasformare  in  illecito
amministrativo  una  condotta  che,  secondo  il  "diritto  vivente",
configurerebbe il delitto di cui all'art. 73 del d.P.R.  n.  309  del
1990. 
    La pronuncia richiesta non comporterebbe, d'altra  parte,  alcuna
opzione discrezionale fra piu' possibili alternative. Se  le  censure
del giudice a quo  fossero  fondate,  questa  Corte  si  limiterebbe,
infatti, ad estendere alla fattispecie considerata (coltivazione  per
uso personale)  il  trattamento  stabilito  dal  legislatore  per  il
tertium comparationis (detenzione per uso personale). 
    Questa Corte, del resto, e' gia' stata  reiteratamente  investita
in passato di questioni analoghe all'attuale, e le  ha  costantemente
scrutinate nel merito (sentenza n. 360 del 1995, ordinanze n.  414  e
n. 150 del 1996). 
    4.- Nel merito, la questione non e' fondata. 
    La disposizione in  esame  rappresenta  il  momento  saliente  di
emersione della strategia - cui si ispira la  normativa  italiana  in
materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire  dalla  legge
22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli  stupefacenti  e  sostanze
psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza) - volta a differenziare, sul piano del trattamento
sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del
produttore e del trafficante. L'idea di fondo del legislatore e'  che
l'intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei  confronti
dei  secondi,  dovendosi  scorgere,  di  norma,  nella   figura   del
tossicodipendente   o   del   tossicofilo   una   manifestazione   di
disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso,  con  interventi
di tipo terapeutico e riabilitativo. 
    In questa prospettiva  -  esclusa  la  rilevanza  dell'assunzione
dello stupefacente in se' - il  legislatore  ha  ritenuto  di  dover,
altresi', sottrarre talune condotte ad essa propedeutiche alla  sfera
applicativa delle norme incriminatrici di settore, facendole  oggetto
di distinta considerazione normativa, variamente articolata nel corso
del tempo. La relativa  disciplina  riflette  chiaramente,  peraltro,
anche la preoccupazione di evitare che la  strategia  considerata  si
traduca in un fattore agevolativo della diffusione della droga tra la
popolazione:  fenomeno  che  -  in  assonanza  con   le   indicazioni
provenienti dalla normativa sovranazionale - e'  ritenuto  meritevole
di fermo  contrasto  a  salvaguardia  tanto  della  salute  pubblica,
«sempre piu' compromessa da tale diffusione», quanto della  sicurezza
e dell'ordine pubblico, «negativamente  incisi  vuoi  dalle  pulsioni
criminogene indotte dalla tossicodipendenza [...] vuoi dal prosperare
intorno a tale fenomeno della criminalita' organizzata [...], nonche'
a fini di tutela delle giovani  generazioni»  (sentenza  n.  333  del
1991). Di qui, dunque,  la  previsione  di  condizioni  e  limiti  di
operativita' del regime differenziato. 
    Questo fa perno, in concreto, su un dato inerente  all'intenzione
dell'agente:  la  finalita'  di  «uso  personale»   della   sostanza.
Configurata in origine come causa di non punibilita' correlata ad  un
limite  quantitativo  non  definito  (la  «modica  quantita'»   dello
stupefacente oggetto della condotta: art. 80 della legge n.  685  del
1975), detta finalita' e' stata  successivamente  trasformata  -  con
soluzione di maggior rigore - in elemento  che  "degrada"  l'illecito
penale  in  illecito  amministrativo,  nel  rispetto  di  un   limite
quantitativo piu' stringente (la «dose media giornaliera» determinata
dall'autorita' amministrativa: art. 75 del d.P.R. n.  309  nel  1990,
nel testo originario); limite venuto poi a  cadere  per  effetto  del
referendum abrogativo del 18-19 aprile 1993. La  perdurante  presenza
di un apparato sanzionatorio amministrativo, composto da un ventaglio
di misure non pecuniarie  di  significativo  spessore  (a  cominciare
dalla sospensione della patente di guida degli autoveicoli), attesta,
peraltro,  come  anche  all'attivita'  di  assunzione   di   sostanze
stupefacenti vengano annessi connotati di disvalore (sentenza n.  296
del 1996):  cio',  pur  tenendo  conto  della  possibilita',  offerta
all'autore dell'illecito, di evitare  l'applicazione  delle  sanzioni
sottoponendosi, con esito positivo, ad  un  programma  terapeutico  e
socio-riabilitativo (art. 75, comma 11, del d.P.R. n. 309 del 1990). 
    Sotto il profilo che  qui  piu'  interessa,  una  costante  della
disciplina in discorso  e'  rappresentata  dalla  "selettivita'"  del
trattamento piu' benevolo connesso alla finalita' di  uso  personale,
il quale - nella logica dianzi indicata - risulta circoscritto ad una
parte soltanto delle numerose  condotte  relative  agli  stupefacenti
suscettive di assumere rilevanza penale. Ne restano escluse, infatti,
non solo le condotte che implicano il  trasferimento  della  droga  a
terzi  (o  propedeutiche  ad   esso),   e   percio'   strutturalmente
incompatibili con il consumo  della  sostanza  da  parte  dell'agente
(vendita, commercio,  cessione  e  via  dicendo),  ma  anche  plurime
condotte cosiddette "neutre", compatibili, cioe', tanto con  il  fine
di uso personale che con quello di cessione a terzi.  Il  trattamento
piu' favorevole era, in effetti,  inizialmente  riservato  alle  sole
condotte di acquisto e di detenzione (art. 80 della legge n. 689  del
1975), per essere poi  progressivamente  esteso  anche  a  quelle  di
importazione  (art.  75  del  d.P.R.  n.  309  del  1990,  nel  testo
originario), esportazione e ricezione a qualsiasi titolo (art. 75 del
d.P.R.  n.  309  del  1990,  come  sostituito  dall'art.  4-ter   del
decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante «Misure  urgenti  per
garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le  prossime  Olimpiadi
invernali,    nonche'    la    funzionalita'     dell'Amministrazione
dell'interno.   Disposizioni   per   favorire    il    recupero    di
tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi  in
materia di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,
prevenzione,  cura   e   riabilitazione   dei   relativi   stati   di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della  Repubblica
9 ottobre 1990, n. 309», convertito, con modificazioni,  dalla  legge
21 febbraio 2006, n. 49). 
    Nel   testo   attualmente   vigente   -   frutto   dell'ulteriore
novellazione operata dall'art. 1, comma 24-quater, del  decreto-legge
20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia  di  disciplina
degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope,  prevenzione,  cura   e
riabilitazione dei relativi stati di  tossicodipendenza,  di  cui  al
decreto del Presidente della  Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309,
nonche' di impiego di  medicinali),  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 16 maggio 2014, n. 79  -  la  norma  censurata  configura
quindi come illecito amministrativo (anziche'  penale)  il  fatto  di
chi,  «per  farne  uso  personale,  illecitamente  importa,  esporta,
acquista, riceve a  qualsiasi  titolo  o  comunque  detiene  sostanze
stupefacenti o psicotrope». 
    Tra le condotte ammesse a fruire del trattamento di minor  rigore
non risulta, dunque, inclusa - ne' mai lo e' stata - la  coltivazione
non autorizzata di  piante  dalle  quali  possono  estrarsi  sostanze
stupefacenti (quale la cannabis): attivita' che figura, per converso,
in testa all'elenco dei comportamenti penalmente repressi dalla norma
chiave del sistema - l'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 - e la  cui
equiparazione quoad poenam alla fabbricazione illecita della droga e'
ribadita, altresi', dall'art. 28, comma 1, del medesimo decreto. 
    5.- A piu' riprese, e' stata prospettata, peraltro, la  tesi  che
le condotte "neutre" non  menzionate  dal  legislatore  -  prima  fra
tutte, la coltivazione - potessero essere  "recuperate"  all'area  di
irrilevanza penale connessa alla finalita' di uso personale facendole
rientrare, tramite una lettura estensiva, nel concetto generico e "di
chiusura" di «detenzione» dello stupefacente («comunque detiene»). 
    Respinta dalla giurisprudenza di legittimita'  nel  vigore  della
legge n. 685 del 1975, detta ipotesi  interpretativa  ha  trovato  un
certo seguito in rapporto alla previsione dell'art. 75 del d.P.R.  n.
309 del 1990, all'indomani della consultazione referendaria del 1993.
Nella seconda meta' degli anni '90, la giurisprudenza di legittimita'
e'  tornata,  peraltro,  ad  attestarsi  saldamente  sulla  soluzione
negativa. 
    Un tentativo di "rivitalizzare" l'esegesi in  discorso  e'  stato
operato, a distanza di un decennio, da alcune  sentenze  della  sesta
sezione penale della Corte di cassazione, facendo  leva  sull'assunto
che  la  nozione  penalmente  rilevante  di  «coltivazione»   dovesse
ritenersi   evocativa   della    sola    coltivazione    «in    senso
tecnico-agrario», o «imprenditoriale»:  con  la  conseguenza  che  la
coltivazione cosiddetta "domestica" (effettuata, cioe', tramite messa
a dimora delle piante in vasi presso l'abitazione  dell'agente,  come
nei casi oggetto dei  giudizi  a  quibus)  sarebbe  ricaduta  tra  le
fattispecie di «detenzione», sanzionate in via  amministrativa  dalla
norma denunciata, ove finalizzate al consumo  personale  (per  tutte,
Corte di cassazione, sezione sesta,  sentenza  18  gennaio-10  maggio
2007, n. 17983). 
    Tale ricostruzione  non  ha  trovato,  tuttavia,  l'avallo  delle
sezioni unite, le quali, con due sentenze "gemelle" del  2008,  hanno
confermato la validita' dell'indirizzo  tradizionale.  Rilevato  come
l'ipotizzata esegesi restrittiva della nozione  penalmente  rilevante
di «coltivazione» non trovi conforto -  come  si  sosteneva  -  nella
disciplina delle  autorizzazioni  all'esercizio  di  tale  attivita',
recata dagli artt. 26 e seguenti del  d.P.R.  n.  309  del  1990,  il
supremo organo della nomofilachia ha ribadito il  principio  per  cui
«costituisce condotta penalmente rilevante  qualsiasi  attivita'  non
autorizzata di coltivazione di piante  dalle  quali  sono  estraibili
sostanze  stupefacenti,  anche   quando   sia   realizzata   per   la
destinazione del prodotto ad uso  personale»  (Corte  di  cassazione,
sezioni unite, sentenze 24 aprile-10  luglio  2008,  n.  28605  e  n.
28606). 
    La giurisprudenza di legittimita' successiva si e'  uniformata  a
tale indicazione: onde non appare  contestabile  che  il  presupposto
interpretativo che fonda l'odierno quesito di costituzionalita' debba
effettivamente qualificarsi, allo stato, come "diritto vivente". 
    6.- In parallelo  all'accennata  vicenda  interpretativa,  questa
Corte e' stata reiteratamente chiamata, dal canto suo,  a  verificare
se  il  trattamento  diversificato  delle  condotte  "neutre"  -   e,
segnatamente, la mancata  previsione  dell'irrilevanza  penale  della
coltivazione finalizzata all'"autoconsumo" - fosse fonte  di  vulnera
costituzionali. 
    La risposta e' stata, peraltro, negativa. 
    Nel vigore  della  legge  n.  685  del  1975,  la  Corte  ha,  in
particolare,   escluso   che   il   mancato   assoggettamento   della
coltivazione alla medesima disciplina stabilita per la detenzione  di
modiche quantita' di stupefacente per uso personale potesse ritenersi
contrastante con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza  (art.
3 Cost.). Cio', in quanto la condotta in  discussione  presentava  un
piu' accentuato  disvalore  rispetto  alla  seconda,  trattandosi  di
«comportamento idoneo ad accrescere il quantitativo  di  stupefacenti
presenti sul territorio nazionale», e maggiormente  pericoloso  anche
dell'importazione, «non essendo valutabile a priori  il  quantitativo
di droga potenzialmente  ricavabile»  (ordinanza  n.  231  del  1982,
confermata dalle ordinanze n. 136 del 1987, n. 308 del 1985, n. 260 e
n. 258 del 1984, n. 189 e n. 91 del 1983). 
    Ad analoga conclusione la Corte e'  pervenuta  in  rapporto  alla
disposizione  dell'art.  75  del  d.P.R.  n.  309  del  1990,   quale
risultante all'esito del referendum abrogativo, censurata nella parte
in cui non omologava, sotto l'aspetto  considerato,  la  coltivazione
alle fattispecie della detenzione, dell'acquisto e dell'importazione.
Al riguardo, si e' rilevato come la condotta in questione non  fosse,
in realta', comparabile con quelle addotte come tertia comparationis.
La detenzione, l'acquisto e l'importazione di  sostanze  stupefacenti
per  uso  personale  si  collegavano,   infatti,   immediatamente   e
direttamente all'uso stesso, e  cio'  rendeva  non  irragionevole  un
atteggiamento meno rigoroso nei confronti di chi aveva  gia'  operato
una scelta che - ancorche' valutata sempre in termini di illiceita' -
l'ordinamento non intendeva contrastare con lo strumento piu'  rigido
della  sanzione  penale.  La   coltivazione   si   collocava   invece
all'esterno dell'«area contigua al consumo»: il che giustificava  «un
possibile  atteggiamento  di   maggior   rigore,   rientrando   nella
discrezionalita' del legislatore anche la  scelta  di  non  agevolare
comportamenti   propedeutici   all'approvvigionamento   di   sostanze
stupefacenti per uso personale».  La  piu'  accentuata  pericolosita'
della condotta di coltivazione derivava, peraltro - oltre  che  dalla
minore affidabilita' della prognosi  circa  la  destinazione  all'uso
personale,  conseguente   all'impossibilita'   di   determinare   con
sufficiente certezza la quantita' di sostanza stupefacente ricavabile
dalle piante coltivate - anche dal fatto che, come gia' rilevato  nel
precedente contesto normativo, «l'attivita' produttiva  e'  destinata
ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi
ha una maggiore potenzialita' diffusiva delle  sostanze  stupefacenti
estraibili» (sentenza n. 360 del  1995,  confermata,  in  parte  qua,
dalla sentenza n. 296 del 1996 e dalle ordinanze n. 414 e n. 150  del
1996). 
    Pronunciando su questione concernente la norma incriminatrice  di
cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, questa Corte ha  escluso,
altresi',  che  la  sottoposizione   a   pena   della   coltivazione,
indipendentemente dalla destinazione del prodotto, collidesse con  il
principio di necessaria  offensivita'  del  reato.  Si  e',  infatti,
osservato  che  la  fattispecie  criminosa  considerata,  nella   sua
configurazione astratta, poggiava su una presunzione di pericolo  non
irragionevole, inerendo a condotta «idonea ad attentare al bene della
salute dei singoli per il  solo  fatto  di  arricchire  la  provvista
esistente di materia prima e quindi  di  creare  potenzialmente  piu'
occasioni di spaccio di droga»: e cio'  tanto  piu'  a  fronte  della
rilevata attitudine dell'attivita' produttiva ad incrementare in modo
indefinito i quantitativi coltivabili. Quanto, poi,  all'offensivita'
della singola  condotta  in  concreto  accertata,  la  sua  eventuale
carenza  non  radicava  alcuna  questione  di  costituzionalita',  ma
implicava  «soltanto  un  giudizio  di  merito  devoluto  al  giudice
ordinario», all'esito del quale la punibilita' poteva essere  esclusa
(sentenza n. 360 del 1995). 
    7.- Con le odierne ordinanze di rimessione, la Corte d'appello di
Brescia torna a denunciare, sulla scorta di argomenti in buona  parte
nuovi, la violazione di entrambi gli anzidetti parametri. 
    La violazione dell'art. 3 Cost. viene dedotta  sotto  un  profilo
particolare  e  specifico:  quello,   cioe',   della   ingiustificata
disparita' di trattamento fra chi detiene per uso personale  sostanza
stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate
- condotta inquadrabile nella formula  «comunque  detiene»,  presente
nella norma censurata, e dunque sanzionata (in assunto) solo  in  via
amministrativa - e chi e' invece sorpreso mentre ha ancora  in  corso
l'attivita' di coltivazione, finalizzata  sempre  all'uso  personale,
trovandosi con cio' esposto - secondo il  "diritto  vivente"  -  alle
sanzioni penali previste dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990.  La
rilevanza, amministrativa o penale, dell'illecito finirebbe, in altre
parole, per dipendere - irrazionalmente - dal momento della scoperta:
il coltivatore per  proprio  consumo  andrebbe  incontro  a  semplici
sanzioni  amministrative   se   ha   gia'   raccolto   il   prodotto;
risponderebbe penalmente se non lo ha ancora fatto. 
    Come gia' rilevato, tuttavia, dalle sezioni unite della Corte  di
cassazione nelle citate sentenze del  2008,  in  replica  ad  analogo
argomento, la censura poggia su una premessa inesatta: ossia, che  la
detenzione per uso personale dello stupefacente "autoprodotto"  renda
non punibile la condotta di  coltivazione,  rimanendo  il  precedente
illecito penale "assorbito" dal successivo illecito amministrativo. 
    In realta', tale assorbimento non si verifica affatto: a rimanere
"assorbito",  semmai,  e'  l'illecito  amministrativo,  dato  che  la
disponibilita' del prodotto della coltivazione non rappresenta  altro
che l'ultima fase della coltivazione stessa, ossia la "raccolta"  del
coltivato (o puo' essere, comunque, considerata un  post  factum  non
punibile, in quanto  ordinario  sviluppo  della  condotta  penalmente
rilevante). 
    In questa prospettiva, la disparita'  di  trattamento  denunciata
non  sussiste:  il  detentore  a  fini  di  consumo  personale  dello
stupefacente  "raccolto"  e  il  coltivatore  "in  atto"   rispondono
entrambi penalmente. 
    8.- Considerazioni un poco  piu'  articolate  merita  la  seconda
doglianza, afferente al  principio  di  necessaria  offensivita'  del
reato. 
    8.1.- Al riguardo,  giova  preliminarmente  ricordare  come,  per
costante giurisprudenza di questa Corte, il principio in parola operi
su  due  piani  distinti.  Da  un  lato,  come  precetto  rivolto  al
legislatore, il quale e' tenuto a limitare la  repressione  penale  a
fatti  che,  nella  loro  configurazione  astratta,   presentino   un
contenuto offensivo  di  beni  o  interessi  ritenuti  meritevoli  di
protezione (cosiddetta offensivita' "in astratto"). Dall'altro,  come
criterio interpretativo-applicativo per il giudice comune, il  quale,
nella  verifica  della  riconducibilita'  della  singola  fattispecie
concreta al paradigma punitivo astratto, dovra' evitare che  ricadano
in quest'ultimo comportamenti privi di  qualsiasi  attitudine  lesiva
(cosiddetta offensivita' "in concreto") (sentenze n. 225 del 2008, n.
265 del 2005, n. 519 e n. 263 del 2000). 
    Quanto al  primo  versante,  il  principio  di  offensivita'  "in
astratto"   non   implica   che   l'unico   modulo   di    intervento
costituzionalmente legittimo sia quello del reato di danno.  Rientra,
infatti, nella discrezionalita' del legislatore l'opzione  per  forme
di tutela anticipata, le quali  colpiscano  l'aggressione  ai  valori
protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonche',
correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosita' alla
quale riconnettere la risposta punitiva (sentenza n. 225  del  2008):
prospettiva nella quale non e' precluso, in linea  di  principio,  il
ricorso al modello del reato di pericolo presunto  (sentenze  n.  133
del 1992, n. 333 del 1991 e n. 62 del 1986). 
    In tale ipotesi, tuttavia, affinche' il  principio  in  questione
possa  ritenersi   rispettato,   occorrera'   «che   la   valutazione
legislativa  di  pericolosita'  del  fatto  incriminato  non  risulti
irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque  accidit»
(sentenza n. 225 del 2008; analogamente, sentenza n. 333 del 1991). 
    8.2.- Come gia' ricordato, questa Corte, con la sentenza  n.  360
del 1995, ha ritenuto  che  l'incriminazione  della  coltivazione  di
piante da cui si  estraggono  sostanze  stupefacenti,  a  prescindere
dalla destinazione del prodotto,  rispetti  la  suddetta  condizione,
poggiando  su  una  non  irragionevole  valutazione  prognostica   di
attentato al bene giuridico protetto. 
    Ad avviso del giudice a quo, tale conclusione - formulata ponendo
come termine di riferimento del giudizio di  pericolosita'  il  «bene
della salute dei singoli» - meriterebbe di essere rivista  alla  luce
di  due  (asseriti)   elementi   di   novita':   l'evoluzione   della
giurisprudenza di legittimita'  in  ordine  alla  ratio  delle  norme
incriminatrici di settore e la normativa sovranazionale sopravvenuta. 
    Dalla prima emergerebbe come la  salute  individuale  dell'autore
del fatto resti, in realta', estranea agli  obiettivi  di  protezione
penale: e cio' in conformita' all'indirizzo generale dell'ordinamento
di non annettere  rilevanza  penale  ai  comportamenti  «autolesivi»,
compreso  quello  estremo  (il  tentato  suicidio).  Secondo   quanto
puntualizzato dalle sezioni unite della Corte di  cassazione  con  la
sentenza 24 giugno-21 settembre 1998,  n.  9973  (ampiamente  ripresa
dalla   giurisprudenza    di    legittimita'    successiva),    scopo
dell'incriminazione delle condotte previste dall'art. 73  del  d.P.R.
n. 309 del 1990 e', infatti, «quello di combattere il  mercato  della
droga,  espellendolo  dal   circuito   nazionale   poiche',   proprio
attraverso  la  cessione   al   consumatore   viene   realizzata   la
circolazione della droga e viene alimentato il mercato  di  essa  che
mette in  pericolo  la  salute  pubblica,  la  sicurezza  e  l'ordine
pubblico nonche' il normale sviluppo delle giovani generazioni». 
    In questa prospettiva, la coltivazione per uso personale, proprio
in quanto non finalizzata all'immissione della droga sul mercato,  si
rivelerebbe, peraltro, priva di qualsiasi  potenzialita'  lesiva  dei
beni giuridici protetti: con la conseguenza  che  la  presunzione  di
pericolosita' sottesa alla sua incriminazione risulterebbe del  tutto
irrazionale. 
    L'assunto troverebbe conferma nella decisione quadro  25  ottobre
2004, n. 2004/757/GAI (Decisione quadro del Consiglio riguardante  la
fissazione di norme minime relative  agli  elementi  costitutivi  dei
reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito  di
stupefacenti), la quale - dopo aver enumerato le condotte connesse al
traffico di stupefacenti che gli  Stati  membri  dell'Unione  europea
sono chiamati a configurare come reati (tra cui anche la coltivazione
della cannabis: art. 2, paragrafo 1)  -  esclude  dal  proprio  campo
applicativo le condotte  (coltivazione  compresa)  «tenute  dai  loro
autori soltanto ai fini del [...] consumo  personale  quale  definito
dalle rispettive legislazioni nazionali» (art. 2, paragrafo 2). 
    8.3.- La tesi del giudice a quo non puo' essere seguita. 
    Al riguardo, e' opportuno osservare, anzitutto, come la decisione
delle sezioni unite richiamata dal rimettente non introduca effettivi
elementi di novita' rispetto al panorama avuto di mira dalla sentenza
n.  360  del  1995.  Essa  riprende,  infatti  -  dichiaratamente   -
affermazioni formulate da questa stessa Corte gia' al principio degli
anni '90 (in particolare, con la gia'  citata  sentenza  n.  333  del
1991, nonche' con la sentenza n.  133  del  1992),  sulla  scorta  di
pronunce ancora anteriori (sentenze n. 1044  del  1988,  n.  243  del
1987, n. 31 del 1983 e n. 9 del 1972). 
    Neppure e' accreditabile come novita' significativa, ai  presenti
fini, la decisione quadro n. 2004/757/GAI, la quale reca solo  «norme
minime» in 
    tema di repressione  penale  delle  condotte  aventi  ad  oggetto
sostanze stupefacenti. Essa non obbliga gli Stati membri a  prevedere
come reato la coltivazione per uso personale,  ma  neppure  impedisce
loro  di  farlo.  Nel  quarto  "considerando"   si   afferma,   anzi,
espressamente  che  «l'esclusione  di  talune  condotte  relative  al
consumo personale dal campo di applicazione della presente  decisione
quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in  cui
gli Stati membri dovrebbero trattare questi  altri  casi  nella  loro
legislazione nazionale». 
    8.4.- Al di la' di cio', se si raffronta l'elenco delle  condotte
incriminate dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 con quello  delle
condotte sanzionate attualmente  solo  in  via  amministrativa  dalla
norma denunciata, ove sorrette dalla finalita' di uso  personale,  si
apprezza immediatamente il criterio che ha presieduto alla  selezione
delle seconde. 
    Il legislatore ha negato, cioe', rilievo alla predetta  finalita'
-  oltre  che  in  rapporto  alle  condotte  con   essa   logicamente
incompatibili,  perche'  implicanti  la  "circolazione"  della  droga
(«vende, offre o mette in  vendita,  cede,  distribuisce,  commercia,
trasporta, procura ad altri, invia, passa  o  spedisce  in  transito,
consegna  per  qualunque  scopo»)  -  anche  rispetto  alle  condotte
"neutre" che  hanno  la  capacita'  di  accrescere  la  quantita'  di
stupefacente   esistente    e    circolante,    agevolandone    cosi'
indirettamente la diffusione («coltiva,  produce,  fabbrica,  estrae,
raffina»). 
    Proprio questo, in effetti, e'  il  tratto  saliente  che,  nella
visione del legislatore, vale a diversificare la coltivazione -  come
pure la produzione, 
    la fabbricazione, l'estrazione e la raffinazione  della  droga  -
dalla  semplice  detenzione  (e  dalle  altre  condotte  "neutre"   a
carattere  "non  produttivo"),  conferendo  ad  essa   una   maggiore
pericolosita', che giustifica la sancita irrilevanza della  finalita'
di consumo personale. 
    In proposito, si e' peraltro osservato come, a  differenza  delle
altre condotte "produttive", la coltivazione non richieda neppure  la
disponibilita' di "materie prime" soggette  a  rigido  controllo,  ma
normalmente solo dei semi (la cui detenzione, alla stregua  del  piu'
recente indirizzo della giurisprudenza di legittimita', non e' di per
se' punibile,  salvo  che  i  semi  contengano  un  principio  attivo
stupefacente e siano detenuti a fini di cessione: al riguardo,  Corte
di cassazione, sezione sesta, 19 giugno-8 ottobre 2013, n. 41607). 
    Inoltre -  come  ampiamente  rimarcato  dalla  giurisprudenza  di
legittimita' - la coltivazione presenta l'ulteriore  peculiarita'  di
dare luogo ad un processo produttivo in grado di "autoalimentarsi"  e
di espandersi, potenzialmente senza alcun limite predefinito, tramite
la riproduzione dei vegetali. 
    Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di  nuove
disponibilita' di droga, quantitativamente non predeterminate,  rende
non irragionevole la valutazione legislativa di  pericolosita'  della
condotta considerata per la salute pubblica - la quale non e' che  la
risultante della sommatoria della  salute  dei  singoli  individui  -
oltre  che  per  la  sicurezza  pubblica  e  per  l'ordine  pubblico,
quantomeno in rapporto all'attentato ad essi recato  «dalle  pulsioni
criminogene indotte dalla tossicodipendenza»  (sentenza  n.  333  del
1991). 
    Al riguardo, giova ribadire quanto gia' rimarcato nella  sentenza
n. 360 del 1995: e, cioe', che  la  strategia  d'intervento  volta  a
riservare, per le ragioni precedentemente  indicate,  un  trattamento
meno  rigoroso  al  consumatore  dello  stupefacente   -   lasciando,
peraltro, ferma la qualificazione delle  sue  scelte  in  termini  di
illiceita' - non esclude che il legislatore, nell'ottica di prevenire
i deleteri effetti connessi alla diffusione dell'abitudine al consumo
delle  droghe,  resti  libero  di  non  agevolare  (e,  amplius,   di
contrastare)  i  comportamenti  propedeutici   all'approvvigionamento
dello stupefacente per uso personale. Allo stesso modo in  cui  detta
strategia non rende illegittima la sottoposizione a pena del  cedente
"al minuto" che fornisce la sostanza al tossicofilo, malgrado cio' si
risolva  in  un   evidente   ostacolo   all'approvvigionamento   (con
particolare riguardo al cedente a titolo gratuito,  sentenza  n.  296
del 1996), essa non impedisce neppure al legislatore  di  considerare
penalmente rilevante, ex se,  l'attivita'  intesa  a  produrre  nuova
droga. 
    8.5.- Va ribadita,  peraltro,  al  tempo  stesso,  anche  l'altra
affermazione della sentenza n. 360 del 1995: ossia  la  spettanza  al
giudice comune del  compito  di  allineare  la  figura  criminosa  in
questione al canone  dell'offensivita'  "in  concreto",  nel  momento
interpretativo ed applicativo. 
    Si tratta, del resto, di una indicazione  ampiamente  recepita  -
nei suoi termini generali -  dalla  giurisprudenza  di  legittimita',
secondo la quale compete al giudice verificare se la singola condotta
di  coltivazione  non  autorizzata,  contestata  all'agente,  risulti
assolutamente inidonea  a  porre  a  repentaglio  il  bene  giuridico
protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso
la punibilita' (Corte  di  cassazione,  sezioni  unite,  sentenze  24
aprile-10 luglio 2008, n.  28605  e  n.  28606).  Risultato,  questo,
conseguibile sia - secondo l'impostazione della sentenza n.  360  del
1995 - facendo leva sulla figura del reato impossibile (art.  49  del
codice  penale);  sia  -  secondo  altra  prospettiva  -  tramite  il
riconoscimento del difetto di tipicita' del comportamento oggetto  di
giudizio. 
    9.- Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione va
dichiarata, dunque, non fondata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.  309  (Testo  unico  delle
leggi  in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e   sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati  di
tossicodipendenza), sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3,  13,
secondo  comma,  25,  secondo  comma,  e  27,  terzo   comma,   della
Costituzione, dalla Corte  d'appello  di  Brescia  con  le  ordinanze
indicate in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2016. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2016. 
 
                           Il Cancelliere 
                        F.to: Roberto MILANA