N. 106 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2016
Ordinanza del 6 aprile 2016 del Tribunale di Padova nel procedimento penale a carico di Floriani Gigliola.. Reati e pene - Esclusione della punibilita' per particolare tenuita' del fatto - Previsione del requisito della "non abitualita' del comportamento" - Criteri di determinazione della pena ai fini dell'applicazione dell'istituto - Inapplicabilita' della disciplina sul giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'art. 69 cod. pen. - Mancata previsione della possibilita' di considerare la circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 4, cod. pen., e le altre circostanze attenuanti. - Legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), art. 1, comma 1, lett. m); codice penale, art. 131-bis, commi 1, 3 e 4, quest'ultimo, in particolare, ultimo capoverso, introdotto dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilita' per particolare tenuita' del fatto, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67).(GU n.22 del 1-6-2016 )
TRIBUNALE DI PADOVA Sezione penale Ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, art. 134 Costituzione e 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n. 87. La presente ordinanza annulla e sostituisce la precedente di questo Tribunale datata 30 marzo 2016 a seguito di rettifica errori materiali. Il Giudice dott. Claudio Elampini, chiamato a decidere per competenza in ordine al procedimento penale iscritto al n. 12/13978 R.G.N.R. e n. 15/302 R.G. Mon. a carico di Floriani Gigliola nata a Castelfranco Veneto (Treviso) il 30 luglio 1966 imputata del reato di cui agli articoli 624 e 625, n. 5 e n. 7 del codice penale, decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal difensore di fiducia avv. Giovanni Gentilini del Foro di Padova, espone quanto segue. L'odierna imputata veniva citata a giudizio per il reato di cui agli articoli 624 e 625, n. 5 e n. 7 del codice penale, per aver agito con altre due donne non identificate ed essersi impossessata, al fine di trarne profitto per se o per altri, di uno spolverino del valore di € 45,00 sottraendolo del negozio «Incontro Moda» in San Dono di Massanzago, ove era detenuto, agendo con destrezza ed infilando il capo sottratto nella borsa mentre le altre due complici distraevano la titolare del negozio, con l'aggravante di aver commesso il fatto in tre persone e su cose esposte per necessita' alla pubblica fede. Con recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale. Dall'istruttoria effettuata emerge come il fatto di reato contestato possa ritenersi nell'ambito di un giudizio prognostico integrato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo cosi' come le aggravanti contestate. In base alla giurisprudenza di merito di codesto Tribunale consolidatasi nel tempo, la figura delittuosa contestata, in relazione al valore del bene sottratto, integrerebbe, se non contestate le aggravanti ad effetto speciale, i requisiti, sotto il profilo della lieve entita', dell'istituto di cui all'art. 131-bis del codice penale. La causa di non punibilita' non potrebbe essere nel caso di specie comunque applicata, allo stato attuale dell'interpretazione giuridica, poiche' dovrebbe riconoscersi nei precedenti penali dell'imputata una sorta di abitualita' che esclude la concretizzazione dei requisiti previsti dalla norma. Inoltre, l'esclusione del bilanciamento delle aggravanti con le attenuanti rilevabili e riconoscibili, quali certamente nel caso di specie quella di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale, comporta il superamento dei limiti edittali stabiliti dall'art. 131-bis del codice penale per la sua applicazione. Tale contesto di fatto comporta un'effettiva distonia normativa a fronte di fatti di minima offensivita' la cui unica differenza e' data dallo stato soggettivo del reo. Sul punto la difesa ha ritenuto di svolgere istanza al fine di valutare il promovimento di un incidente di costituzionalita' volto a sanare tale discrasia. Il Tribunale, valutate le osservazioni svolte dal legale, osserva quanto segue. 1) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, lettera m), legge 28 aprile 2014, n. 67 (Delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie) per contrasto con gli articoli 3, 25.2 e 27.3 della Costituzione nella parte in cui e' scritto «e la non abitualita' del comportamento» e, per effetto derivato, dell'art. 131-bis del codice penale, comma 1, con riferimento alle parole «e il comportamento risulta abituale», e comma 3 (nella sua interezza). Violazione dell'art. 3 Cost. Con l'approvazione della legge n. 67/2014, il Parlamento della Repubblica ha conferito delega al Governo, tra le altre, di «lettera m) escludere la punibilita' di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuita' dell'offesa e la non abitualita' del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale». Dall'esame testuale della norma delegante emerge come il legislatore, fermi restando altri requisiti che allo stato non vengono in rilievo, abbia inteso costruire l'istituto di nuovo conio attorno ad un duplice, paritetico presupposto: l'oggettiva modestia del danno inflitto e la non abitualita' del comportamento dell'autore del reato. Secondo la difesa dell'imputata l'introduzione di una clausola di non punibilita' di natura valoriale ontologicamente ancorata al mediocre valore del danno da reato, non puo' subire limitazioni applicative di natura squisitamente autoriale. Come emerso chiaramente dalla lettura della norma, il legislatore non ha inteso esprimere disegni abrogativi o depenalizzanti, ne', per altro verso, adottare un istituto volto ad apprezzare la lieve offesa patrimoniale in termini obiettivi e lineari. Trattasi di un circostanza di non punibilita', che esclude l'applicabilita' della pena, ma non impedisce l'esistenza del reato e non esclude l'antigiuridicita' penale del fatto. E tuttavia, la riconduzione del modello normativo alle forme di una clausola di esclusione di punibilita', non appare compatibile con la coeva presenza di profili soggettivi premiali, in grado di aprire ad un sindacato di meritevolezza subiettiva, di per se' stesso disparitario. Il legislatore non si e' limitato a devolvere al Giudice una valutazione sulla reale incidenza del danno inflitto, cosi' consentendo l'affermarsi di un giudizio tendenzialmente destinato ad uniformarsi, nel diritto vivente, in favore dell'applicazione della norma in termini obiettivi ed eguali nei confronti di tutti i consociati, ma ha introdotto un elemento immateriale, da profilarsi di volta in volta, di valenza paritetica al requisito patrimoniale, idoneo ad ingenerare disparita' applicative che non trovano adeguata copertura nella ragionevolezza. E' agevole osservare come, esemplificando, la sottrazione di un qualsiasi bene vile (a prescindere qui ed ora da eventuali circostanze aggravanti) trovi sensibilita' punitiva diversa a seconda del tipo di autore, si' che, a parita' di particolare tenuita' del danno inflitto in esito ad eguale condotta, egualmente circostanziata (o non circostanziata), l'ordinamento rinuncia a punire solo l'autore ritenuto meritevole, in base a giudizio del tutto sganciato dall'esame del fatto, inteso in senso giuridico quale sequenza di condotta-nesso-evento. E l'esempio formulato non sembra sfuggire al modulo concorsuale, ben potendosi dare l'impunita' di uno solo tra altri correi, sulla sola scorta di una qualifica soggettiva che, persino a parita' di contributo causale, finisce con il porlo in una condizione di irragionevole privilegio. Il modello stesso di causa di esclusione della pena, inteso quale situazione esterna al fatto umano e che non esclude il reato, ma in presenza della quale il legislatore ritiene non si debba applicare la sanzione penale per ragioni di mera opportunita', non puo' presentarsi nella geometria variabile (e quindi discriminante) secondo la quale e' stato costruito l'istituto di nuova concezione. E' nota la ricorrenza nell'ordinamento penale di' cause di esclusione della punibilita' di rango essenzialmente soggettivo (si pensi all'art. 384.1 del codice penale, ovvero 649.1 del codice penale) e tuttavia la disparita' di trattamento trova ragionevole giustificazione nella sussistenza del vincolo familiare che segna i rapporti tra autore del fatto e destinatario dei suoi effetti dannosi (Corte costituzionale sentenza n. 223/2015), e dunque alla luce di un ben individuato contemperamento di interessi, costituzionalmente apprezzabile. Anche in tali casi, tuttavia, la punibilita' e' comunque esclusa in favore di chiunque si trovi in una condizione di qualificata ed oggettiva vicinanza alla persona offesa: a dire, in sintesi, che la clausola di impunita' si muove su un terreno comunque oggettivo, predefinito, e d'interesse per chiunque si trovi nella richiesta condizione. Di contro, all'art. 1, lettera m) della legge delega, la compresenza di un requisito di natura oggettiva (insensibile per definizione al soggetto agente) ed uno di natura soggettiva (genericamente individuato nell'assenza di un comportamento abituale) propone un modello di clausola abdicativa della punibilita' che non scorre attorno ad un perno rigido e predefinito, applicabile alla totalita' dei cittadini, ma solo ad una parte di essi, nei confronti dei quali lo Stato dimostra disinteresse repressivo. La partizione mista dei requisiti di operativita' del nuovo istituto ha l'effetto di porlo in rotta di collisione con il canone di eguaglianza, laddove alla generica e neutra valutazione patrimoniale viene affiancata una specifica e ben marcata analisi soggettiva, incoerente con l'altra condizione, irragionevole nella diversita' di trattamento che ingenera, ingiustificata con riferimento allo stesso scopo perseguito dalla riforma. In altri termini, detto della insindacabile discrezionalita' del legislatore nel modulare un criterio moderatore della punibilita' ancorato alla qualita' concreta dell'offesa arrecata, cio' che non puo' ammettersi costituzionalmente e' la coessenzialita' di un requisito autoriale, poiche' l'esclusione di taluni soggetti dal novero dei destinatari della norma ripropone un sistema imperniato sul tipo d'autore. Converra' richiamare sul punto quanto recentemente ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 251/2012, resa in merito all'illegittimita' del divieto di bilanciamento tra (la oggi abrogata circostanza di cui all')art. 73.5, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 e art. 99.4 del codice penale. «Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell'art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 rispecchiano, d'altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell'offensivita' e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente piu' mite assicurato al fatto di "lieve entita'", la cui configurabilita' e' riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di "minima offensivita' penale" (Cassazione pen., S.U., 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata e' disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l'individuazione della pena concreta verso un'abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato.». Nelle parole della Consulta emerge chiara la cifra di illegittimita' di una norma che, a causa della preponderanza di elementi di natura soggettiva (recidiva) - estranei ex se al «fatto» - finivano per soperchiare, «disconoscendola» la effettiva portata della norma mitigatrice. Ed ancora e piu' chiaramente: «la recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosita', ed e' da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensivita' e' chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se cosi' non fosse, la rilevanza dell'offensivita' della fattispecie base potrebbe risultare "neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita'» (Corte costituzionale, sentenza citata). Mutuando l'insegnamento del Giudice delle leggi emerge come gli effetti dell'attuale disciplina, derivanti dall'ossequio (in parte qua) alla legge delega siano ancora piu' distorsivi e stranianti rispetto al canone costituzionale di riferimento. Provvedendo all'elisione del divieto di prevalenza dell'(allora) circostanza diminuente della speciale tenuita' del fatto sulla contestata recidiva, la Consulta ha censurato la preponderanza della componente autoriale dell'illecito laddove ostativa alla piena espansione del principio di offensivita', non consentendo disparita' di trattamento di tipo soggettivo a fronte di fatti scarsamente offensivi. La legge delega richiamata propone uno sbilancio assai piu' marcato. Da un lato, il legislatore non ha inteso introdurre una mitigazione della sanzione, ma una deroga alla punibilita', ovvero una vera e propria rinuncia alla persecuzione in giudizio, in deroga allo stesso art. 112 Cost. Dall'altro, ha posto l'assenza di comportamento abituale in capo al reo sullo stesso piano della presenza di un'offesa particolarmente tenue, in posizione di assoluta e necessaria parita' (la suddetta «coessenzialita'»), laddove la presenza di contegni abitudinari ha effetto interdittivo (in nessun modo bilanciatile) sulla valorizzazione di un'offesa modesta e, in ultima analisi, sulla ridetta piena espansione del principio oggettivo di offensivita'. Assai piu' gravemente dell'illegittimo modello censurato con la sentenza n. 251/2012, «limitato» al mero giudizio di bilanciamento tra circostanze, la legge delega ripresenta le medesime alterazioni gia' esaminate in precedenza, prive di alcuna ragionevole copertura, consegnandosi alle medesime censure in relazione al superiore e piu' grave tema della punibilita', momento presupposto ed assai piu' pregnante delle fattispecie sin qui vagliate dalla Consulta, avuto riferimento alla natura dei diritti primari in gioco. La previsione di co-essenziale comportamento inabituale implica quale conseguenza l'automatica disapplicazione della causa di punibilita' ogniqualvolta il reo non sia nuovo al delitto. Si tratta, come pare, di una soluzione necessitata dalla chiarezza del testo di legge che, intorno ai trascorsi giudiziari dell'autore ha costituito una presunzione assoluta secondo la quale il peculiare status soggettivo dell'autore spiega effetti di maggior gravita' sul piano oggettivo, rendendo offensivo e perseguibile cio' che altrimenti non assurgerebbe a giustificare la sanzione penale. In merito pare opportuno ricordare cio' che afferma la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 185/2015 in relazione alle presunzioni introdotte per via legislativa: «(...) Secondo la giurisprudenza costituzionale, "le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit". In particolare, "l'irragionevolezza della presunzione assoluta si puo' cogliere tutte le volte in cui sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa" (ex multis, sentenze n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010)» [Corte costituzionale, ibidem]. Nel caso di specie, la presunzione in questione, che discende dalla ritenuta maggior pericolosita' del reo, avrebbe l'effetto automatico di conferire maggior disvalore al fatto, rendendolo piu' aggressivo per il solo fatto che proviene da soggetto consueto al delitto, e cosi' idoneo ad arrecare maggior danno al patrimonio dell'offeso. La presunzione riportata appare alquanto priva di logica. Una condotta naturalisticamente obliterabile sul piano penale per il mediocre danno che crea diventerebbe il suo contrario, sol perche' agita da soggetto abituale. Sul punto la Corte fondamentale ha ribadito che «(...) Un dato del genere infatti non esiste, posto che per le ragioni indicate ben possono ipotizzarsi accadimenti reali contrari alla generalizzazione presunta» [Corte costituzionale, ibidem]. Sul sindacato di ragionevolezza. Il giudizio che si puo' devolvere alla Consulta, qui puramente incentrato sulla compatibilita' con il principio di uguaglianza, sembra articolabile in duplice filare. Da un lato, denunziando la norma per la sua illegittimita' intrinseca: si scrutina la disposizione in punto di ragionevolezza intesa quale «imperativo di giustizia», secondo quella particolare tipologia di giudizio anche denominata controllo di ragionevolezza intrinseca, che puo' darsi ogni qualvolta e' assente o puramente rafforzativo l'utilizzo di un tertium comparationis. La norma di specie, per la natura intima del vizio che propone, sembra censurabile senza l'ausilio di alcuna norma di confronto, poiche' essa e' direttamente confliggente con i valori e i principi alla base del dettato costituzionale. Dall'altro lato, poi, la disposizione qui in esame puo' utilmente essere scrutinata secondo altra declinazione del lemma della ragionevolezza. Si va dicendo del saggio che la Consulta puo' essere chiamata a portare in punto di razionalita' vista come «non contraddittorieta' interna del sistema giuridico» (G. Zagrebelsky, su tre aspetti della ragionevolezza, in AA.VV. Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1994, pag. 182). A tale categoria sarebbero ascrivibili anzitutto i casi di incompatibilita' tra norme, ma anche di «irriducibilita' di regole a principi ispiratori», di «incongruita' dei mezzi rispetto ai fini», di «ingiustificatezza dell'eccezione rispetto alla regola» (ancora, in tale senso, G. Zagrebelsky, op. cit.). Tale specifica valutazione, componibile attorno al lemma della razionalita', trae fondamento dall'idea, assiomatica, circa la natura razionale e non contraddittoria dell'ordinamento, di modo che il compito dell'interprete-giudice costituzionale e' semplicemente quello di espungere dall'ordinamento i rari casi di contraddizione che ciononostante si presentino. E dunque, in predicato di giustificare la non manifesta infondatezza della questione proprio sul terreno della irragionevolezza, occorre svolgere qualche riflessione sull'esegesi del concetto di «comportamento abituale» che, tramite l'esercizio della delega con il decreto legislativo n. 28/2015, ed il pedissequo sostato giurisprudenziale, si e' oramai affermata con forza di diritto vivente. E cio' anche al segnato scopo di individuare un utile tertium comparationis cui ancorare ogni valutazione in punto di disparita' di trattamento. Sul punto, il legislatore delegato ha inteso esercitare la delega mediante l'approvazione di una norma espressamente interpretativa (ed in tal senso descrittiva) del ridetto «comportamento abituale», declinandolo in ogni accezione ritenuta ostativa all'operativita' della causa d'impunita'. Il contenuto dell'art. 131-bis, comma 3 del codice penale si segnala ictu oculi per l'eterogeneita' dei termini di cui e' composto, alcuni obbedienti a rigore sistematico ed evocativi di istituti codificati (delinquente abituale, professionale, per tendenza), altri generici, «quali l'aver commesso piu' reati della stessa indole», ovvero reati che «abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate». Cio' che pare evidente e' il principio secondo cui l'esclusione della punibilita' opera con riferimento a situazioni sottratte a qualsiasi concreto elemento tassativo, abbandonando l'abdicazione della punibilita' ad un sindacato i cui, contorni sono sostanzialmente indefiniti, e cosi' irriconoscibili nella stessa grammatica del codice di merito. Ne pare buona testimonianza la variegata produzione giurisprudenziale che, sul punto, si e' andata registrando. Ha correttamente osservato la dottrina come «la formula letterale della commissione "di piu' reati della stessa indole" non fa esplicito riferimento alla recidiva» (Amato, Guida al diritto, n. 1/2016). Ne viene come, in un senso astratto anche il recidivo possa beneficiare dell'istituto, ma anche, in altro e piu' concreto senso, il non recidivo possa rimanerne escluso (in tal senso, sull'applicabilita' al recidivo semplice, Cassazione, sezione III, n. 29897/2015, Gau e sezione III, n. 44353/2015, Gambino). E' invece certamente ostativa la condizione di recidivo reiterato e specifico, giudiziariamente ravvisata, secondo il principio logico per il quale il piu' comprende il meno, e dunque la ricorrenza di condizioni legittimanti la recidiva sarebbe assorbente delle generiche condizioni descritte dalla norma neointrodotta (in tal senso, Cassazione sezione III, n. 40350/2015, Savia, sezione V, n. 33304/2015 e sezione VI, n. 45073/2015, Barrara). E' parimenti ritenuta ostativa anche la situazione di colui, in difetto di contestazione di recidiva specifica e reiterata (per difetto di passaggio in giudicato dei relativi accertamenti) abbia comunque commesso «piu' reati della stessa indole», addirittura nell'ambito del medesimo procedimento ove si discuta dell'applicazione della causa di non punibilita' (cosi', Cassazione sezione III, n. 29897/2015, Gau, sezione III, n. 44353/2015, Gambino), con il risultato secondo cui la contestazione simultanea di piu' reati connessi tra loro e della medesima indole legittima l'esclusione della causa di non punibilita', indipendentemente dall'incensuratezza formale e sostanziale dell'imputato (Cassazione sezione III n. 38366/2015, Perlongo). Medesima sorte hanno sinora seguito ipotesi di contestazioni di piu' reati avvinti dal nesso della continuazione (Cassazione sezione III n. 27135/2015, Corrieri, sezione III, n. 44353, Gambino, sezione III, n. 44336, Perlino). Nessuna possibile applicazione, in alcuna forma, e' poi riconosciuta ai reati cosiddetti abituali, in relazione ai quali non puo' darsi applicazione alla novella, a prescindere da qualsivoglia entita' del danno inflitto ovvero di connotazione della fattispecie ovvero, ancora, di profilo soggettivo dell'imputato. Ne' maggior fortuna hanno sinora avuto imputati raggiunti da contestazioni di condotte «plurime e reiterate» anche disgiunte dal nesso della continuazione (Cassazione, sezione I, n. 34770/2015, Corvino). La genericita' della trama lessicale della legge delega ha consentito l'affermazione di un testo di legge che, di per se' stesso, apre a scenari contraddittori con il contenuto del comma 1 del medesimo art. 131-bis del codice penale. L'ambiguita' dei lemmi utilizzati e la commistione tra istituti codificati e concetti indefiniti, con essenziale equiparazione tra situazioni soggettive diversissime tra loro, espone l'istituto a quella valutazione di irrazionalita' intrinseca di cui sopra. Su piano piu' avanzato, poi, l'esegesi giurisprudenziale che ne e' seguita offre plastica dimostrazione della irragionevolezza anche in chiave comparatistica, avuto riferimento a quanto espressamente statuito dalla Corte costituzionale in tema di recidiva reiterata. Proprio le guarentigie riaffermate in tema di bilanciamento di circostanze a favore di soggetti gravati da precedenti giudizialmente accertati (e quindi in una situazione di chiarezza, rectius di determinatezza, assai piu' certa e marcata di quella relativa agli autori di «comportamenti abituali») impongono di ritenere come le vaghe preclusioni di applicabilita' di una ben piu' rilevante causa di non punibilita' non possano superare il vaglio del sindacato di razionalita'. Muovendo dal ragionamento della Consulta, (ex plurimis, sentenza n. 251/2015) se nessun automatismo discriminante puo' darsi sul terreno di un «mero» bilanciamento tra circostanze in presenza di una condizione di recidiva formalmente dichiarata (con tutte le garanzie che, peraltro, discendono da tale dichiarazione), non si coglie la conformita' costituzionale di una norma che opera con ancor piu' ampie preclusioni sul terreno oggettivo della irrilevante offensivita' del fatto (anche nominalmente declinato come tale, secondo la rubrica legis). E cio' avuto precipuo riferimento al caso di specie, connotato da imputazione aggravata da recidiva reiterata specifica infraquiquennale. Ma la stonatura (a prescindere dal fatto che non rileva nel caso in esame) appare vieppiu' grave con riguardo ai trattamenti disparitari in odio a soggetti che sfuggono persino ad un inquadramento tassativo quale quello di cui agli art. 99 del codice penale (ed anche 103, 105 e 106 del codice penale). Con le parole della dottrina piu' recente si puo' concludere (L'offensivita' europea come criterio di proporzione dell'opzione penale Gaetano Stea) «La giurisprudenza costituzionale ha da tempo precisato che la necessaria lesivita', astrattamente, costituisce un limite all'attivita' del legislatore e, concretamente, determina un onere per il giudice che, nel momento applicativo, deve accertare, in concreto, se il comportamento posto in essere lede effettivamente l'interesse tutelato dalla norma, al fine di impedire una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale. Nella letteratura penalistica e' evidenziato il consolidato orientamento della Consulta per cui il sindacato sulle scelte contenutistiche del legislatore penale e' limitato al relativo esercizio distorto o arbitrario, cosi' da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza. Si sottolinea sempre che la Corte costituzionale, invero, non ha mai utilizzato direttamente il principio di necessaria lesivita' come parametro autonomo per dichiarare l'illegittimita' di una norma penale, ma solo come riflesso (appunto) del criterio della ragionevolezza. Tale criterio si fonda sul principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. ed, in stretta connessione con il criterio di proporzione, esige che la scelta legislativa rispetto al bene e rispetto alla predisposizione di tutela penale sia razionalmente argomentabile e controllabile». Sotto tale punto di vista, e' sufficiente richiamare quanto enunciato dalla Corte delle leggi, nelle sentenze n. 263/2000 e n. 30/2007 e n. 333/1991 in cui i giudici costituzionali, per i reati di pericolo astratto, pur ammessi nel nostro ordinamento, hanno affermato che «e' riservata al legislatore l'individuazione (...) delle condotte alle quali collegare una presunzione assoluta di pericolo (...), purche' non sia irrazionale o arbitraria, cio' che si verifica allorquando non sia ricollegabile al'id quod plerumque accidit». Proprio intorno all'assenza di una regola massimale, (sentenza n. 251/2012) che invece dovrebbe offrire la copertura costituzionale e ricondurre a ragionevolezza la disparita' del singolo caso, dimora l'illegittimita' denunciata; non rinvenendosi alcuna ragione di tipo notorio o esperienziale secondo la quale un fatto lesivo cui l'ordinamento penale guarda con dichiarato, oggettivo disinteresse dovrebbe, di contro, legittimare un processo ed una pena (di nuovo il principio di proporzionalita') sol perche' commesso da un tipo d'autore. Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. Sussiste altresi' la violazione dell'art. 25, secondo comma, Cost., che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconosce rilievo fondamentale all'azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosita' sociale; la costituzionalizzazione del principio di offensivita' implica la necessita' di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosita' dell'agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo. L'attuale composizione mista della norma delegante, costitutiva di uno statuto differenziale in grado di discriminare l'accessibilita' all'istituto, determina un contrasto tra la disciplina censurata e l'art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto (e solo quello) alla base della responsabilita' penale (sentenza n. 249 del 2010) e della superiore volonta' politica di accertarne la sussistenza, con esclusione di qualsivoglia componente soggettiva di rango premiale, riposante sulla maggiore o minore consuetudine al crimine. Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. Viene infine in rilievo attraverso l'art. 27, comma 3, Cost., il principio di proporzionalita' della pena (nelle sue due funzioni retributiva e rieducativa), poiche' appare evidente che la punizione che discende da un fatto oggettivamente privo di offensivita' apprezzabile espone il condannato ad una pena sproporzionata ex se alla gravita' del reato commesso. E cio', da un lato non puo' correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalita' violata, dall'altro non potra' mai essere sentita dal condannato come sanzione rieducatrice. Si va dicendo del principio di proporzionalita', di crescente importanza alla luce della espressa sua previsione nell'art. 49, comma 3 della Carta di Nizza, secondo cui le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (2000/C 364/01). La stessa Corte costituzionale ha recentemente rimarcato la centralita' del principio di ragionevolezza, proprio avuto riguardo alla sua compressione in sfavore dei soggetti attinti da contestazione di recidiva reiterata: «(...) E' fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalita' della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come e' stato gia' rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, "una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attivita' commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell'applicazione delle circostanze" (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all'attenuante dell'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di "lieve entita'".». L'incidenza della regola preclusiva sancita dall'art. 69, quarto comma del codice penale sulla diversita' delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell'art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012)» [Corte costituzionale, sentenza n. 251/2012]. Traslando la forza dell'enunciato (reso con riguardo al bilanciamento) al superiore tema della punibilita', si dubita dell'ammissibilita' dell'attuale discrimine. Sulla rilevanza della questione ai fini del decidere. E' qui denunciata la carenza di conformita' alla Carta della legge delega. E' del tutto evidente che la questione posta assorbe, in via derivata, la legge delegata in ogni sua specifica articolazione, con riferimento al primo e al terzo comma dell'art. 131-bis del codice penale. Dalla disamina del contenuto degli atti e' dato ricavarsi la sussistenza di una condotta la cui offensivita' attenuata (cosi' battezzabile per giurisprudenza consolidata di codesto ufficio) legittimerebbe l'applicazione della causa di non punibilita' di cui all'art. 131-bis del codice penale. E tuttavia la coeva accertata ricorrenza di un comportamento abituale in capo all'imputata (in fattispecie formalmente inqudrato nella contestazione di una recidiva specifica infraquinquennale) impedisce la fruizione dell'istituto, esponendo la prevenuta a giudizio di responsabilita' e pedissequa sanzione. Del resto non ci si trova al cospetto di una disposizione cosidetta polisensa, idonea a legittimare interpretazioni adeguatici al dettato costituzionale: in tal senso, la pregressa disamina del diritto vivente appare ostacolo insuperabile per qualsiasi esegesi si proponesse di aggirare la fondata contestazione dell'aggravante di specie. Difficilmente appare evocabile la soluzione indicata dalla stessa Consulta in punto di disapplicazione dell'aggravante: fatto richiamo ai comuni criteri interpretativi utilizzati sul punto, appare difficilmente negabile il nesso che «unisce» i precedenti (specifici, plurimi e ravvicinati) alla regiudicanda, si' che il Tribunale non sembra nelle condizioni di diritto per poter percorrere tale discessus. Anche a darsi l'ipotesi di una disapplicazione della recidiva, comunque la genericita' della norma delegante e l'ampia articolazione di quella delegata, non consentirebbero di superare la natura ostativa che la natura comunque «abituale» il contegno dell'imputata manterrebbe a fini applicativi. Per quanto di ragione, ed al fine di evitare di sottoporre a pena detentiva un soggetto autore di una condotta di pressoche' nulla offensivita', si rende dunque necessario rivedere l'apparato normativo che rende allo stato inapplicabile la causa di esclusione della punibilita', attraverso l'intervento ablativo o comunque additivo della Corte costituzionale. Sul giudizio di non manifesta infondatezza. L'ordinamento riconosce al Giudice il potere-dovere di compiere una delibazione preliminare della sospetta incostituzionalita' della norma. Si tratta di un filtro minimale, utilizzando il quale il rimettente deve, o puo', limitarsi a non escludere il dubbio di incostituzionalita', lasciando tuttavia ogni piu' approfondito esame della questione alla Consulta, e dunque anche quella della non manifesta infondatezza del devoluto. E' notorio come - nel diverso tema dell'interpretazione delle norme - la stessa giurisprudenza dei primi giudici abbia ribadito come il giudice a quo, prima di rimettere gli atti, debba compiere lo sforzo di ricercare un'interpretazione della norma costituzionalmente orientata, conforme ed adeguatrice (ex plurimis, cfr. ordinanze n. 491/1987 e n. 177/2000) e debba astenersi dal prospettare interpretazioni perplesse o, a fortiori, del tutto erronee. Per le ragioni sopra esposte, la norma qui denunciata non consente di aprire a letture costituzionalmente o convenzionalmente conformi, venendone la necessita' dello scrutinio incidentale. 2) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 131-bis, comma 4 del codice penale, come introdotto dal decreto legislativo n. 28/2015 del 16 marzo 2015, per contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in relazione all'eccesso della delega contenuta alla lettera m) dell'art. 1 della legge 28 aprile 2014, n. 67. La difesa dell'imputata si duole, con istanza di rango subordinato alla precedente, della violazione del contenuto della delega, con precipuo riguardo a quanto previsto dall'art. 131-bis del codice penale, comma 4, in tema di criteri di determinazione della pena ai sensi del comma 1 del medesimo articolo. In merito ai limiti edittali di applicazione del nuovo istituto, il Parlamento ha delegato il Governo ad assumere a parametro sensibile le condotte sanzionate, per quanto qui interessa, «con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni». Non sono stati enunciati criteri di computo della pena ai fini de quo, ne' sono state fornite indicazioni di rango interpretativo. Nell'esercizio della delega, il Governo ha creato un peculiare criterio che, preso nel suo insieme, non trova alcun modello corrispettivo nel sistema penale sostanziale e processuale, di cui non risulta di immediata evidenza la legittimazione originaria discendente dal testo della legge delega. Sotto tale, primissimo punto di vista, ci si occupa qui della violazione dell'art. 76 Cost. In effetti, la legge delega n. 67/2014 non aveva conferito alcun potere al Governo di introdurre limitazioni nell'individuazione della forchetta edittale di riferimento, con cio' non potendosi che intendere che il limite sanzionatorio assunto a riferimento ben poteva essere individuato non solo facendo ricorso agli ordinari canoni di cui agli articoli 4 e 278 codice di procedura penale, ma alle norme che regolano in via ordinaria il giudizio di bilanciamento tra circostanze, di cui all'art. 69 del codice penale. Il testo del Governo, da un lato mediante l'esplicita previsione di irrilevanza di qualsivoglia circostanza comune, (ivi compresa quella di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale), dall'altro mediante l'inibizione al ricorso del bilanciamento tra circostanze, ha di fatto esercitato la delega al di fuori del perimetro imposto da una piana interpretazione della norma penalistica in stretto favor rei. Il punto appare particolarmente delicato giacche' attiene al rispetto della riserva assoluta di legge prevista dall'art. 25 della Carta fondamentale. Una prima evidenza dell'eccesso denunciato si evince dal raffronto con il contenuto della legge delega stessa, all'art. 1, lettere c) e g), secondo cui: «c) per i delitti per i quali e' prevista la pena della reclusione tra i tre e i cinque anni, secondo quanto disposto dall'art. 278 del codice di procedura penale, prevedere che il giudice, tenuto conto dei criteri indicati dall'art. 133 del codice penale, possa applicare la reclusione domiciliare; (...) g) prevedere che, per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione della reclusione e dell'arresto domiciliare, si applichino, in ogni caso, i criteri di cui all'art. 278 del codice di procedura penale». E' subito chiaro che l'evocazione dell'art. 278 codice di procedura penale, con le regole che esso prevede, ha l'effetto di ancorare qualsiasi riferimento ai limiti edittali della legge delega a quel criterio di individuazione. In altri termini, secondo un canone di razionalita', deve ritenersi che alla prima disposizione utile il legislatore delegato abbia chiarito che i termini edittali si ricavano secondo le norme ordinarie, mediante le garanzie in esse previste. Con riferimento all'omesso richiamo all'art. 278 codice di procedura penale nel corpo della lettera m) della legge delega, non sembra evocabile il principio interpretativo secondo cui ubi lex voluit, dixit. Lo impedisce proprio il canone costituzionale di riferimento (art. 25). In effetti, il silenzio della legge delega osservato alla lettera m) del comma 1 (l'ipotesi che ci riguarda) non puo' che essere interpretato quale rimando al criterio selettivo previsto dalla disciplina processuale (art. 278), gia' evocato alle superiori lettere c) e g) del medesimo comma. Nondimeno, il silenzio previsionale non autorizzava il legislatore delegato a costituire un autonomo criterio di computo con effetti abrogativi delle regole ordinarie (art. 278 codice di procedura penale) e dagli effetti antitetici al contenuto dello stesso comma, alle soprastanti lettere c) e g), con il risultato di esporre la norma ad una antinomia intrinseca che non sembra trovare alcuna giustificazione. Una seconda evidenza del denunziato eccesso risiede nell'assenza della previsione autorizzativa all'introduzione di peculiari criteri di individuazione del limite edittale. Se la disciplina ordinaria in fatto di individuazione della pena e' quella prevista dall'art. 4 (e dall'art. 278, sostanzialmente identico), l'introduzione di deroghe peggiorative non puo' che avvenire per effetto di una legge che un tanto prevede. Attesi i riflessi sostanziali che la norma in esame importa, non e' dubitatile che il tutto risponda al principio di riserva assoluta di legge, e ai principi di tassativita' e determinatezza cui debbono rispondere le norme penali. La peculiare trama introdotta dall'art. 131-bis del codice penale, comma 4, in antitesi alle norme ordinarie, autorizza a valorizzare la recidiva reiterata, la continuazione, ed inibisce il ricorso ad ogni bilanciamento ex art. 69 del codice penale in presenza di circostanze speciali o ad effetto speciale (ivi compresa la citata recidiva reiterata). Una terza evidenza che autorizza a ritenere ci si trovi innanzi ad eccesso di delega e' rappresentata dal «giudizio di necessita'» (Corte costituzionale sentenza n. 56/1965). Ci si deve infatti interrogare se l'evasione della legge delega nei modi e con il contenuto di cui all'art. 131-bis del codice penale si pone in termini di necessario ossequio (ontologicamente o logicamente) al vincolo discendente dalla legge delegante. Sul piano ontologico, e' chiaro che la costituzione di un criterio di individuazione della pena con caratteristiche inedite nel codice di rito e l'esplicita inibizione al giudizio di bilanciamento non costituiscono affatto esercizio necessitato della legge delega, avendo il Parlamento lasciato sul punto una marginalita' ampia, figlia del piano riferimento al limite edittale dei cinque anni. Sul piano logico, poi, vale quanto sopra denunciato: la costituzione di vincoli novativi ed inediti nel computo della pena ed il divieto di bilanciamento tra circostanze confliggono con il contenuto stesso della legge delega - lettere c) e g), e non trovano ragione alcuna di altra forma di legittimazione, ponendosi in termini di ultroneita' e restrittivita' rispetto agli ordinari canoni di individuazione della pena. Vi e' poi da precisare che la legge delega produce effetti che contrastano con il contenuto di norme e principi sovranazionali, segnatamente con l'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali della UE, come sopra richiamato. La valorizzazione della recidiva nel complessivo saggio sulla offensivita' o meno della lesione inflitta e la coeva impraticabilita' di qualsiasi bilanciamento di essa con altre circostanze concorrenti, propone un modello di perseguibilita' del tutto discrezionale, essenzialmente modulato sul profilo soggettivo dell'incolpato che, dunque, estraneo alla causa di non punibilita' e' sottoposto a sanzione penale in difetto del necessario nesso di offensivita'. Tale conflitto con la Carte dei diritti fondamentali, fonte sovraordinata di rango costituzionale e, dunque, immediatamente applicabile pienamente efficace nel diritto interno, espone la legge delegata a vizio di incostituzionalita'. Esattamente come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 53/1993 ovvero, la piu' recente n. 219/2008, secondo cui l'incostituzionalita' (dell'art. 314 codice di procedura penale) e' stata ricondotta anziche' all'art. 76, al mancato rispetto delle norme internazionali ricavabili dalla Convenzione EDU, e dal Patto internazionale per i diritti civili e politici. Al medesimo meccanismo di compenetrazione tra il profilo della violazione di principi e criteri impartiti dalla legge delega e quello del mancato rispetto delle esigenze derivanti dal diritto internazionale, si rifanno le sentenze di incostituzionalita' n. 109/1999 e n. 359/2000. Vi e' un'ultima evidenza. Il risultato prodotto dalla legge delegata e' antinomico alla ratio che ha ispirato la legge delega. In molti casi, l'accertamento della sussistenza del vizio di eccesso di delega passa attraverso una ricognizione compiuta in via interpretativa dalla Corte delle finalita' delle legge delega medesima, all'insegna dell'individuazione del fine ultimo perseguito dal legislatore delegante. La giurisprudenza costituzionale che ha dimostrato di avere fatto impiego di tale criterio e' ben rappresentata dalle sentenze n. 129/1963, n. 56/1965, n. 8 e n. 50/1966, n. 258/1974 e altre. Nel caso di specie e' appena il caso di annotare che la prevista inaccessibilita' al bilanciamento tra circostanze apre a scenari paradossali secondo i quali condotte innocue, e dagli effetti patrimoniali vili continuano ad essere perseguite e sanzionate, assecondando in tal modo scenari incoerenti rispetto allo scopo perseguito, chiaramente ispirato alla deflazione ed al piu' concreto allineamento al principio di offensivita'. La sottrazione di un bene di infimo valore commesso da tre persone riunite (furto monoaggravato) propone gia' una pena astratta che sfugge alla causa di esclusione della punibilita'. Conclusivamente sul punto, a partire dalla sentenza n. 24/1959, la Consulta ha preso ad affermare che «per quanto ampie siano le facolta' delegate al Governo nei singoli casi, con la legge delegata non possono essere dettate norme in contrasto con quelle contenute nella stessa legge di delegazione; ne' si potrebbero mai qualificare norme di attuazione quelle che contrastassero con le norme della legge alla quale dovrebbe essere data attuazione». [Corte costituzionale sentenza citata]. Per tutte le ragioni sopraindicate, il contenuto conferito in sede di esercizio di delega all'art. 131-bis, comma 4 del codice penale pare non rispettoso del contenuto della soprastante lettera m) dell'art. 1, legge n. 67/2014, e cosi' in contrasto con l'art. 76 Cost. Sulla rilevanza della questione ai fini del decidere. Qualora la Corte delle leggi convergesse sulla ricorrenza del vizio dedotto, l'intero comma 4 dell'art. 131-bis cadrebbe per incostituzionalita', aprendo all'esegesi del comma 1 della medesima norma secondo criteri interpretativi analogici. Su tale piano, a fronte del vacuo aperto dalla qui auspicata censura di illegittimita' costituzionale, il Tribunale potrebbe dunque accedere all'impiego dei criteri di individuazione della pena di cui all'art. 278 codice di procedura penale, seguendo quanto gia' previsto all'interno della stessa legge delega, alle diverse lettere c) e g) e, bilanciando la circostanza attenuante comune di cui all'art. 62.4 del codice penale in regime di prevalenza sulle contestate aggravanti, ricondurre la pena edittale al di sotto dei cinque anni di reclusione e cosi' applicare la causa di esclusione della punibilita'. Donde la chiara rilevanza della questione dedotta. 3) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 131-bis, comma 4 del codice penale, ultimo capoverso, come introdotto dal decreto legislativo n. 28/2015 del 16 marzo 2015, per contrasto con gli articoli 3, 25.2 e 27.3 della Costituzione, nonche' nella parte in cui, dopo le parole «non si tiene conto delle circostanze», non e' scritto «fatta eccezione della circostanza attenuante prevista dall'art. 62, n. 4 del codice penale». In via aggiuntiva ed in termini indipendenti, seppur collegati, dai temi sopra affrontati, sembra ineludibile sottoporre a scrutinio incidentale di costituzionalita' il comma 4 dell'art. 131-bis del codice penale, secondo una duplice censura. A) Sul divieto di bilanciamento tra circostanze. Del tutto imprevista dalla legge delega, la disposizione qui dubitata in parte qua prescrive la inapplicabilita' della disciplina di parte generale che regola il giudizio di bilanciamento tra circostanze Tale norma funge da strumento essenziale ai fini della corretta ponderazione degli elementi accessori del reato, assicurando criteri moderatori di stretto favor rei idonei a stemperare effetti altrimenti poco controllabili derivanti dal concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale. L'opzione esercitata in legge delega apre alla violazione di piu' canoni costituzionali. Violazione del parametro di cui all'art. 3 Cost. «Come e' stato sottolineato da questa Corte, il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di "valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono" (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento pero' sono possibili e rientrano nell'ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte "soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio" (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso non possono giungere a determinare un'alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilita' penale; alterazione che, come si vedra', emerge per piu' aspetti nella situazione normativa in questione» [Corte costituzionale, sentenza n. 251/2012]. Proprio in tema di valorizzazione della recidiva qualificata in misura prevalente sul parco delle circostanze disponibili la Corte costituzionale ha iteratamente spiegato interventi demolitivi dell'art. 69, comma 4 del codice penale, gli ultimi dei quali con le note sentenze n. 104/2014 e n. 106/2014. Gli argomenti esposti in quelle pronunce (compiutamente allineati a quelli di cui alla sentenza n. 251/2012) illuminano al meglio la violazione del principio di uguaglianza inveratasi anche nella norma qui dubitata. «La recidiva reiterata "riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosita', ed e' da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensivita' e' chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se cosi' non fosse, la rilevanza dell'offensivita' della fattispecie base potrebbe risultare "neutralizzata" da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosita'» (sentenza n. 251 del 2012)» [Corte costituzionale, sentenza n. 104/2014]. Nella stessa pronuncia, poi, la Corte non manca di evocare la lesione costituzionale qui esplicitamente ricondotta al canone di uguaglianza, proprio avuto riguardo alle irragionevoli alterazioni che si producono in danno dei cittadini gravati da recidiva. «Inoltre (...) la norma censurata da' luogo ad una violazione del principio di uguaglianza, perche' il recidivo reiterato autore di una ricettazione di normale o anche di rilevante gravita', da punire, in presenza delle attenuanti generiche, con il minimo edittale della pena stabilita dall'art. 648, primo comma del codice penale, riceverebbe lo stesso trattamento sanzionatorio - quest'ultimo irragionevolmente severo - spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di "particolare tenuita'" [Corte costituzionale, sentenza n. 104/2014]. Il richiamo alla recidiva qualificata e' centrale ai fini del presente ragionamento: senza mai nominare esplicitamente la figura dell'art. 99 del codice penale in tutta la trama dell'art. 131-bis del codice penale, il legislatore delegato, mediante l'inibizione al giudizio di bilanciamento, ha di fatto escluso i soggetti attinti da recidiva qualificata da qualsiasi possibile fruizione della causa di non punibilita'. Una scelta che, poggiata sul gia' dedotto automatismo, entra necessariamente in conflitto con il canone di eguaglianza. Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. Sussiste altresi' la violazione dell'art. 25.2 Cost., che, con il suo espresso richiamo al «fatto commesso», riconosce rilievo fondamentale all'azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore e non solo in quanto manifestazione sintomatologica di pericolosita' sociale; la costituzionalizzazione del principio di offensivita' implica la necessita' di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosita' dell'agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo. Pericolosita' che, a parita' di offesa, viene gia' in evidenza nelle valutazioni ex art. 133 del codice penale. L'attuale inibizione alla valutazione delle circostanze attenuanti comuni, unito al divieto di bilanciamento tra quelle speciali o ad effetto speciale, elementi costitutivi di uno statuto differenziale in grado di discriminare l'accessibilita' all'istituto, determina un contrasto tra la disciplina censurata e l'art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto (e solo quello) alla base della responsabilita' penale (sentenza n. 249 del 2010) e della superiore volonta' politica di accertarne la sussistenza, con esclusione di qualsivoglia componente soggettiva di rango premiale, riposante sulla maggiore o minore consuetudine al crimine. La Consulta ha recentemente ricordato che «il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di "valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono" (sentenza n. 38 del 1985). Deroghe al bilanciamento pero' sono possibili e rientrano nell'ambito delle scelte del legislatore, che sono sindacabili da questa Corte "soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio" (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso "non possono giungere a determinare un'alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilita' penale" (sentenza n. 251 del 2012)» [Corte costituzionale, sentenza n. 106/2014]. Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. Scrive la Consulta a sostegno della declaratoria di illegittimita' costituzionale di cui alla sentenza n. 251/2012. «E' fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalita' della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come e' stato gia' rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, "una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attivita' commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall'art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell'applicazione delle circostanze" (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all'attenuante dell'art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l'applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di "lieve entita'". L'incidenza della regola preclusiva sancita dall'art. 69, quarto comma del codice penale sulla diversita' delle cornici edittali prefigurate dal primo, e dal quinto comma dell'art. 73 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012). [Corte costituzionale, sentenza citata]. Il legislatore delegato ha destituito di alcun valore la ricorrenza di eventuali circostanze comuni. Ha poi vietato la possibilita' di bilanciare quelle speciale e ad effetto speciale. Tale effetto distorsivo si riverbera sul computo dei limiti edittali ai fini della riconducibilita' o meno del reato sotto l'egida della clausola di non punibilita'. Il risultato e' l'esposizione a punizione penale di condotte dall'impatto sostanzialmente insensibile, con evidente violazione del canone di proporzionalita' di cui all'art. 27.3 Cost. B) Sulla mancata previsione di poter considerare la circostanza attenuante comune di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale. La disposizione qui dubitata porta in se' altri profili di illegittimita'. Violazione del parametro di cui all'art. 3 Cost. L'attuale previsione di irrilevanza delle circostanze attenuanti comuni, se non mitigata nei sensi di cui all'art. 278 codice di procedura penale, espone la norma a risultati applicativi alquanto incoerenti, secondo cui neppure la palese modestia del danno inflitto vale a bilanciare qualsivoglia circostanza antagonista. In effetti, neppure il cosidetto incensurato sfugge alle conseguenze irragionevoli gia' enunciate con riferimento ai recidivi reiterati. Si e' sopra esposto un esempio degli effetti distorti che si possono manifestare a cagione dell'impossibilita' di bilanciare gli elementi accessori del reato (furto di un bene vile, ma monoaggravato dalla circostanza piu' innocua): l'odierno squilibrio normativo rende impossibile discernere tra autore di una condotta connotata da maggiore pericolosita' esecutiva (violenza sulle cose, minorata difesa o altro) e fatti del tutto bagatellari, ma aggravati in termini idonei ad essere bilanciati. Sul punto, la Corte costituzionale, in tema di divieto di prevalenza della circostanza diminuente di cui all'art. 609-bis del codice penale sulla recidiva reiterata, ha osservato che «anche la censura relativa al principio di uguaglianza e' fondata, perche', come ha rilevato la Corte rimettente, fatti anche di minima entita' vengono, per effetto del divieto in questione, ad essere irragionevolmente sanzionati con la stessa pena, prevista dal primo comma dell'art. 609-bis codice panale, per le ipotesi di violenza piu' gravi, vale a dire per condotte che, pur aggredendo il medesimo bene giuridico, sono completamente diverse, sia per le modalita', sia per il danno arrecato alla vittima». [Corte costituzionale, sentenza n. 106/2014]. Quanto si va dicendo, del resto, trova fondamento avuto riguardo al contenuto dell'art. 278 codice di procedura penale, che proprio la circostanza di cui all'art. 62.4 del codice penale elenca in deroga al divieto di valorizzazione delle altre circostanze comuni. La ricorrenza di tale deroga e' funzionale al prospettato ragionamento non solo e non tanto al fine di individuare un tertium comparationis utile a sostenere un giudizio di irragionevole disparita' di trattamento in casi analoghi. Cio' che pare decisivo e' il richiamo interno alla legge delega (alle citate lettere c) e g) all'art. 278 codice di procedura penale) che impone un raffronto tutto interno alla legge stessa. Non appaiono evidenti le ragioni di un trattamento differenziale: per gli scopi di cui alle lettere c) e g) la circostanza attenuante comune di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale e' rilevante e bilanciabile ma non invece per saggiare compiutamente la condotta dell'imputato al fine di escluderne la punibilita'. Nemmeno appare improntato a ragionevolezza differenziare i criteri di individuazione dei limiti edittali per l'applicazione delle misura cautelari di cui all'art. 278 codice di procedura penale, da quelli regolanti la punibilita', in punto di concreto apprezzamento della lesione patrimoniale, ovverossia su terreno del tutto neutro ed oggettivo. C'e' infine un ulteriore profilo di illogicita' che affligge la denunziata carenza normativa, interno al testo dell'art. 13-bis del codice penale al quinto ed ultimo comma Tale comma, prevede che anche a fronte di esplicite previsioni circostanziali relative alla tenuita' del danno, si fa comunque applicazione del contenuto del comma 1. Siddetta disposizione vorrebbe assicurare il diritto ad essere prosciolti con la causa di non punibilita' anche quando il reato commesso potrebbe essere circostanziato con la relativa diminuente, comune o speciale. E tuttavia, per gli effetti ostativi che qui si chiede di rimuovere attraverso l'incidente di costituzionalita', la concedibilita' della circostanza diminuente di cui all'art. 62, n. 4 del codice penale resta priva di alcuna efficacia, con l'effetto di esporre la norma ad una antinomia tutta interna alla sua stessa trama. Violazione del parametro di cui all'art. 25.2 Cost. L'interdizione a valorizzare, in qualsiasi modo, l'elemento circostanziale che piu' di ogni altro riconduce al modesto impatto patrimoniale il danno da reato, espone la norma in parte qua a sicuro conflitto con il canone costituzionale di cui al comma secondo dell'art. 25 della Carta. Violazione del parametro di cui all'art. 27.3 Cost. Analogamente a quanto gia' sostenuto nelle sezioni precedenti, la sproporzione della sanzione che deriva dalla impossibilita' di considerare la diminuente di cui si dice rende palese la violazione anche del principio di proporzionalita' di cui all'art. 27.3 Cost. Sulla complessiva rilevanza della questione ai fini del decidere. Qualora il Tribunale ritenesse di giungere a giudizio di responsabilita' a carico dell'imputata, la sua punibilita' potrebbe essere esclusa mediante un corretto bilanciamento tra circostanza comune di cui all'art. 62, n. 4 e le contestate aggravanti. Ad oggi, l'impossibilita' di considerare l'attenuante della lieve entita' del danno subito e la coeva impossibilita' di bilanciarla con le aggravanti ad affetto speciale contestate in atti espone l'imputata ad una sanzione penale altrimenti ingiustificabile. Donde la rilevanza massima delle questioni proposte. Sulla non manifesta infondatezza della questione proposta. In tal senso ci si riporta a quanto gia' dedotto sopra. Alla luce di quanto sopra, letti ed applicati gli articoli 134 della Costituzione e 23, comma 2, legge 11 marzo 1953, n. 87.
P.Q.M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, lettera m), legge 28 aprile 2014, n. 67 (Delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie) per contrasto con gli articoli 3, 25.2 e 27.3 della Costituzione nella parte in cui e' scritto «e la non abitualita' del comportamento» e, per effetto derivato, dell'art. 131-bis del codice penale, comma 1, con riferimento alle parole «e il comportamento risulta abituale», e comma 3 (nella sua interezza). Nonche' dell'art. 131-bis, comma 4 del codice penale, come introdotto dal decreto legislativo n. 28/2015 del 16 marzo 2015, per contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in relazione all'eccesso della delega contenuta alla lettera m) dell'art. 1 della legge 28 aprile 2014, n. 67. Nonche' dell'art. 131-bis, comma 4 del codice penale, ultimo capoverso, per contrasto con gli articoli 3, 25.2 e 27.3 della Costituzione, nonche' nella parte in cui, dopo le parole «non si tiene conto delle circostanze», non e' scritto «fatta eccezione della circostanza attenuante prevista dall'art. 62, n. 4 del codice penale e delle altre circostanze attenuanti». Dispone la sospensione del presente procedimento e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia comunicata, a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei ministri nonche' ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Dispone che, a cura della cancelleria, l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Padova, 6 aprile 2016 Il Giudice: Elampini