N. 177 ORDINANZA 1 giugno - 14 luglio 2016

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Abuso d'ufficio  -  Inclusione,  secondo  il  "diritto
  vivente", dei principi di  buon  andamento  e  imparzialita'  della
  pubblica amministrazione tra le violazioni di legge  rilevanti  per
  la configurabilita' del reato. 
- Codice penale, art. 323. 
-   
(GU n.29 del 20-7-2016 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,  Giuliano
  AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  323  del
codice penale, promosso dal Giudice per le indagini  preliminari  del
Tribunale ordinario di Enna nel procedimento penale a carico di V.C.,
con ordinanza del 23 luglio 2015, iscritta al  n.  333  del  registro
ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2016. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 1°  giugno  2016  il  Giudice
relatore Franco Modugno. 
    Ritenuto che, con ordinanza emessa il 23 luglio 2015, il  Giudice
per le indagini  preliminari  del  Tribunale  ordinario  di  Enna  ha
sollevato, in relazione agli artt. 25, secondo  comma,  e  97,  primo
comma, della Costituzione, questione di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 323 del codice penale; 
    che  la  questione  e'  stata  sollevata  all'esito  dell'udienza
camerale  fissata  per  l'opposizione  della  persona   offesa   alla
richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, il quale
aveva indagato, per il reato di  abuso  d'ufficio,  il  direttore  di
un'unita' operativa ospedaliera, denunciato da  un  dirigente  medico
per «plurime e reiterate  vessazioni»  e,  in  particolare,  per  «la
violazione della disciplina dei  contratti  collettivi  nazionali  in
tema di ferie,  turni,  ordini  di  servizio,  carichi  ed  orari  di
lavoro»; 
    che il pubblico  ministero,  pur  non  disconoscendo  l'esistenza
delle condotte  denunciate,  aveva  tuttavia  avanzato  richiesta  di
archiviazione, ponendo in evidenza l'irrilevanza della violazione  di
norme contenute nei contratti  collettivi  nazionali  ai  fini  della
configurabilita' del reato previsto dall'art. 323 cod. pen.; 
    che, nell'opposizione proposta, la persona offesa aveva  rilevato
come, secondo la costante giurisprudenza di legittimita', il reato di
abuso di  ufficio  -  e,  in  particolare,  il  presupposto  in  esso
contemplato inerente alla «violazione di norme di  legge»  -  potesse
essere  integrato  anche  dalla  sola  inosservanza   del   principio
costituzionale di imparzialita' della pubblica  amministrazione,  con
la conseguenza  che  anche  la  reiterata  violazione  dei  contratti
collettivi nazionali in danno di un pubblico dipendente  ben  avrebbe
potuto perfezionare la violazione di norma di legge, «ossia dell'art.
97 Cost.»; 
    che  il  rimettente  -  rilevando  che   la   giurisprudenza   di
legittimita' ha da  tempo  adottato  un'interpretazione  assai  ampia
della nozione di «violazione di norme di legge» -  assume  costituire
«diritto vivente» il  fatto  che  il  requisito  in  questione  possa
consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 Cost., la cui «parte
immediatamente  precettiva»  impone  ad  ogni  pubblico  funzionario,
nell'esercizio delle funzioni, di non usare  il  potere  conferitogli
dalla legge per compiere favoritismi e  procurare  ingiusti  vantaggi
ovvero per realizzare intenzionali vessazioni  o  discriminazioni,  e
che, pertanto, assume rilevanza la  violazione  «non  solo  di  norme
giuridiche contenute in  leggi  e  regolamenti  ma  anche  di  quelle
previste in atti amministrativi, circolari,  contratti  collettivi  e
addirittura discendenti da prassi amministrative»; 
    che, nondimeno, l'inclusione dei principi di imparzialita' e buon
andamento tra le violazioni di legge rilevanti per integrare  l'abuso
di ufficio risulterebbe -  come  rilevato  anche  dalla  dottrina  ed
affermato dalla giurisprudenza costituzionale (e' citata la  sentenza
n.  447  del  1998)  -  foriera  di  vaghezza  ed  elasticita'  della
fattispecie incriminatrice, cosi' sovvertendo, secondo il rimettente,
le stesse finalita' della riforma di tale precetto introdotte con  la
«novella del 1997»; 
    che, in  forza  di  tali  premesse,  il  giudice  a  quo  ritiene
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale; 
    che, quanto al primo presupposto, il rimettente reputa,  ai  fini
dell'accoglimento o del rigetto dell'opposizione  alla  richiesta  di
archiviazione, di «rilevanza  dirimente»  l'inclusione  dell'art.  97
Cost. - e, dunque, dei principi di imparzialita' e buon  andamento  -
nel novero delle norme la cui violazione e' idonea  ad  integrare  la
fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen.; 
    che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva
che la criticata ermeneutica dell'art.  323  cod.  pen.  si  pone  in
contrasto con l'art. 25 Cost., «sotto  il  profilo  della  necessaria
determinatezza   delle   fattispecie   penali»   e,   inoltre,    che
l'insufficiente    determinazione    della    predetta    fattispecie
incriminatrice «puo' comportare il rischio  di  interferenze  tra  la
giurisdizione  e  l'amministrazione»,  violando  cosi'  gli   «stessi
principi contemplati dall'art. 97 Cost.»; 
    che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo, anche  con  successiva  memoria  depositata  il  10
maggio 2016, che la questione sia dichiarata inammissibile; 
    che la difesa statale osserva come l'ordinanza di rimessione,  di
la' da un generico riferimento alla originaria querela della  persona
offesa, difetti di  puntuale  descrizione  della  condotta  materiale
contestata all'indagato, con evidenti ricadute  circa  il  vaglio  di
rilevanza della questione; 
    che  inoltre,  secondo  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  il
rimettente  non  chiarisce  ne'  le  ragioni  per  le   quali   nella
«violazione di norme di legge» di cui all'art. 323 cod. pen. dovrebbe
sussumersi anche la violazione delle norme  contenute  nei  contratti
collettivi nazionali, ne' quelle per le quali  egli  non  ritenga  di
potersi  discostare  da  un   tale   orientamento   giurisprudenziale
tutt'altro che consolidato - e che anzi trova significative  smentite
presso  la  stessa  giurisprudenza  di  legittimita'   -,   adottando
un'interpretazione  conforme  ai  parametri  costituzionali   evocati
nell'ordinanza di rimessione; 
    che la questione di legittimita'  costituzionale,  a  parere  del
Presidente   del   Consiglio   dei   ministri,    sarebbe    comunque
manifestamente infondata; 
    che, infatti, quanto alla dedotta violazione dell'art. 25  Cost.,
la difesa interveniente rileva che il vizio di  indeterminatezza  ben
potrebbe   escludersi,   nella   specie,   assumendo   il    criterio
interpretativo «tipologico», talvolta utilizzato dalla giurisprudenza
costituzionale,  in  forza  del  quale  deve  considerarsi   comunque
determinata quella fattispecie  idonea  ad  esprimere,  attraverso  i
normali strumenti interpretativi,  un  «tipo  criminoso»,  espressivo
cioe' di un «omogeneo contenuto  di  disvalore,  corrispondente  alla
previsione sanzionatoria determinata» (vengono citate, in  proposito,
le sentenze n. 247 del 1989 e n. 35 del 1991); 
    che tale ultima considerazione - conclude  l'Avvocatura  generale
dello  Stato  -  vale  ad  escludere  anche  il  lamentato  vizio  di
violazione dell'art. 97 Cost., posto che la necessita' di individuare
un interesse del tutto collidente con  quello  pubblico  -  interesse
alla cui realizzazione deve essere  unicamente  rivolta  la  condotta
dell'agente - costituisce «sufficiente argine ad  indebite  ingerenze
della     giurisdizione     nelle      discrezionali      valutazioni
dell'amministrazione». 
    Considerato che  il  Giudice  per  le  indagini  preliminari  del
Tribunale ordinario di Enna, con l'ordinanza in epigrafe, dubita - in
riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 97, primo  comma  (recte:
secondo   comma),   della   Costituzione   -    della    legittimita'
costituzionale dell'art. 323 del codice penale nella  parte  in  cui,
secondo  il  «diritto  vivente»,  includerebbe  nel  requisito  della
«violazione di norme di  legge»,  necessario  per  la  configurazione
della fattispecie incriminatrice  dell'abuso  di  ufficio,  anche  la
violazione  dell'art.  97  Cost.   e,   dunque,   dei   principi   di
imparzialita' e buon  andamento  della  pubblica  amministrazione  e,
persino, quella di norme previste nei contratti collettivi di  lavoro
o in atti amministrativi, circolari  ed  addirittura  discendenti  da
prassi amministrative; 
    che,  nondimeno,  la  fattispecie   oggetto   della   delibazione
giudiziale   e'   descritta   in   modo   del   tutto   insufficiente
nell'ordinanza di rimessione, non chiarendosi se la condotta  per  la
quale  e'  ipotizzabile  l'abuso  di  ufficio  sia  consistita  nella
«violazione della disciplina dei contratti  collettivi  nazionali  in
tema di ferie, turni, ordini di servizio, carichi ed orari di lavoro»
ovvero in diverse «plurime e reiterate vessazioni», tali da integrare
autonoma violazione dei principi di imparzialita'  e  buon  andamento
della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost.; 
    che tale carente descrizione della fattispecie  non  consente  di
verificare sotto quale specifico profilo  la  disposizione  censurata
debba essere applicata per definire il giudizio principale; 
    che, nondimeno,  qualora,  per  la  delibazione  dell'ipotesi  di
reato, venisse in  rilievo  la  violazione  di  norme  del  contratto
collettivo di lavoro, si  rivelerebbe  errata  la  ricostruzione  del
«diritto  vivente»  prospettata  dal  rimettente,  considerando  che,
secondo la prevalente giurisprudenza di legittimita',  la  violazione
da parte del pubblico ufficiale delle norme  collettive  contrattuali
applicabili ai rapporti di pubblico  impiego  non  realizza  uno  dei
presupposti necessari per la configurabilita' del reato di  abuso  di
ufficio (Corte  di  cassazione,  sezione  sesta  penale,  sentenze  3
novembre 2005-13 aprile 2006, n. 13511 e 25 settembre 2008-5 febbraio
2009, n. 5026); 
    che se,  invece,  la  violazione  di  legge  fosse  ritenuta  dal
rimettente  in  relazione  alle  «plurime  e  reiterate   vessazioni»
denunciate dalla persona offesa - e, dunque, in condotte direttamente
lesive del principio di imparzialita' sancito dall'art.  97  Cost.  -
non risulterebbero illustrate le ragioni per le quali il  rimettente,
a   fronte   di   un   contrasto   diacronico    di    giurisprudenza
sull'interpretazione della nozione di «violazione di norme di  legge»
(esemplificato  da  Corte  di  cassazione,  sezione  seconda  penale,
sentenza 27 ottobre-20 novembre  2015,  n.  46096  e,  sezione  sesta
penale, sentenza 18 febbraio-25 marzo 2009, n. 13097), non ritenga di
praticare un'interpretazione conforme a Costituzione e reputi  invece
operante il vincolo dell'asserito «diritto vivente»  nella  specifica
sede processuale in cui e' chiamato a  pronunciare  ed  in  relazione
alla richiesta di archiviazione al suo esame; 
    che,  inoltre,  la  carente  descrizione  della  fattispecie   si
riverbera sull'indeterminatezza e ambiguita' del  petitum  formulato,
in alcun modo specificato rispetto alla  species  facti  oggetto  del
giudizio  principale  e   neppure   reso   chiaro   dal   dispositivo
dell'ordinanza di rimessione, ove il giudice a quo si limita  a  dare
conto della rilevanza e non manifesta infondatezza  della  «questione
di costituzionalita' dell'art. 323 c.p.»; 
    che,  pertanto,  sussistendo  plurimi   profili   ostativi   allo
scrutinio della questione proposta,  essa  si  palesa  manifestamente
inammissibile. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti  alla
Corte costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  della   questione   di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  323   del   codice   penale,
sollevata, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 97, secondo
comma, della Costituzione, dal Giudice per  le  indagini  preliminari
del  Tribunale  ordinario  di  Enna,  con  l'ordinanza  indicata   in
epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 1° giugno 2016. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
                   Carmelinda MORANO, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2016. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Carmelinda MORANO