N. 211 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 luglio 2016

Ordinanza del 21 luglio 2016 del Tribunale  amministrativo  regionale
per il Lazio sul ricorso proposto da Ionta  Franco  contro  Ministero
della giustizia, Ministero dell'economia e delle finanze e Presidenza
del Consiglio dei ministri.. 
 
Impiego pubblico - Disposizioni in materia di trattamenti economici -
  Applicazione del meccanismo del tetto massimo degli  emolumenti  ai
  magistrati ordinari. 
- Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per  la
  crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei  conti  pubblici),
  convertito, con modificazioni, dalla legge  22  dicembre  2011,  n.
  214, art. 23-ter; decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66  (Misure
  urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale),  convertito,
  con modificazioni, dalla legge 23 giugno  2014,  n.  89,  art.  13,
  comma 1. 
(GU n.43 del 26-10-2016 )
 
         IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO 
                           (Sezione Prima) 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale  6647  del  2015,  integrato  da  motivi  aggiunti,
proposto da: Franco Ionta,  rappresentato  e  difeso  dagli  avvocati
Federico Tedeschini codice fiscale TDSFRC48A24H501P, Gianmaria Covino
codice fiscale  CVNGMR80S12H501O,  con  domicilio  eletto  presso  lo
studio legale Tedeschini in Roma, largo Messico, 7; 
    Contro Ministero della giustizia, in persona del  Ministro  p.t.,
Ministero dell'economia e delle  finanze,  in  persona  del  Ministro
p.t.,  Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri,  in   persona   del
Presidente   in   carica,   rappresentati   e   difesi   per    legge
dall'Avvocatura generale  dello  Stato,  presso  i  cui  uffici  sono
domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
    Per l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione: 
        a) del provvedimento - di data e tenore sconosciuto - con  il
quale e' stata disposta la riduzione del trattamento economico  annuo
del Dott. Franco Ionta ai sensi dell'art. 23-ter del decreto-legge n.
201/2011, convertito in legge n. 214/2011; 
        b) del provvedimento - di data e tenore sconosciuto - con  il
quale e' stata interrotta  la  corresponsione  in  favore  del  Dott.
Franco  Ionta  dell'assegno  personale  pensionabile  relativo   alla
speciale indennita' prevista dall'art. 5, comma  3,  della  legge  1°
aprile 1981, n. 121, in applicazione dell'art.  3,  comma  57,  della
legge 24 dicembre 1993, n. 537; 
        c) di  ogni  altro  atto  presupposto,  connesso  e  comunque
consequenziale, ancorche' di data e tenore  sconosciuto,  che  incida
sfavorevolmente  sulla  posizione  giuridica   del   ricorrente,   in
particolare: 
          c.1) del decreto del Presidente del Consiglio dei  ministri
del 23 marzo 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16  aprile
2012 n. 89, avente ad  oggetto  il  limite  massimo  retributivo  per
emolumenti  o  retribuzioni  nell'ambito  di   rapporti   di   lavoro
dipendente o autonomo con le pubbliche amministrazioni statali; 
          c.2) ove occorra, delle circolari n. 8/2012 e n. 3/2014 del
Dipartimento  della  funzione  pubblica  presso  la  Presidenza   del
Consiglio dei ministri; 
          c.3) ove occorra, di tutti i successivi  aggiornamenti  del
tetto ai trattamenti retributivi ex art. 23-ter del decreto-legge  n.
201/2011, convertito in legge n. 214/2011; 
        e per l'accertamento: 
          del diritto  del  ricorrente  a  percepire  il  trattamento
economico annuo nella sua interezza o - in via  subordinata  -  nella
misura  ritenuta  dovuta,  spettantegli   in   virtu'   del   proprio
inquadramento nell'organico  della  Magistratura  ordinaria  e  delle
funzioni dallo stesso svolte, senza le riduzioni operate  in  pretesa
applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre  2011,  n.
201, convertito in legge n. 214/2011, dell'art. 1,  commi  458,  459,
471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13,  comma
1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito  in  legge  n.
89/2014; 
        con la conseguente condanna: 
          dell'Amministrazione  resistente  al  versamento   e   alla
restituzione delle somme, nelle  more  indebitamente  trattenute  e/o
recuperate,   nonche'   al   versamento   dei   relativi   contributi
previdenziali e degli  accantonamenti  per  il  trattamento  di  fine
servizio,   oltre   interessi   e   rivalutazione   monetaria    sino
all'effettivo soddisfo; 
          nonche' per la declaratoria di non  manifesta  infondatezza
della questione di legittimita' costituzionale dell'art.  23-ter  del
decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201,  convertito  in  legge  n.
214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459, 471  e  473,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13, comma 1,  del  decreto-legge  24
aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 89/2014 per contrasto  con
gli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104,  108  e  117  della
Costituzione, anche  in  riferimento  all'art.  6  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali,  sotto  i  profili  sotto  enunciati,  con  conseguente
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 
        nonche' per l'annullamento del seguente  atto  impugnato  con
motivi aggiunti: 
          del provvedimento del 1° ottobre  2014  di  cui  alla  nota
prot. n. 48952 del 2 ottobre 2014, comunicato con nota prot. n. 66288
del 4 giugno 2015, con il quale e' stata disposta  l'interruzione,  a
decorrere dal 1° febbraio  2014,  della  corresponsione  dell'assegno
pensionabile ai sensi dell'art. 3, comma 57, della legge 24  dicembre
1993, n. 537; 
    Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; 
    Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
difese; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio  del  Ministero  della
giustizia, del  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze  e  della
Presidenza del Consiglio dei ministri; 
    Relatore nell'udienza  pubblica  del  giorno  8  giugno  2016  la
dott.ssa Rosa Perna e uditi per le parti i difensori come specificato
nel verbale; 
 
            Considerato e ritenuto in fatto ed in diritto 
 
    1 - Che il dott.  Franco  Ionta,  odierno  esponente,  magistrato
ordinario alla settima valutazione di professionalita' attualmente in
servizio  come  Procuratore  Aggiunto  della  Repubblica  presso   il
Tribunale di Roma, rappresenta di aver diritto a percepire, oltre  al
trattamento economico annuale spettante ai magistrati  ordinari  alla
suddetta valutazione di  professionalita'  e  all'indennita'  di  cui
all'art. 3, comma 1, della legge 19 febbraio 1981, n.  27,  anche  la
speciale indennita' pensionabile di cui all'art. 5,  comma  3,  della
legge 1° aprile 1981, n. 121, quest'ultima in  ragione  dell'incarico
di Capo del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria ricoperto
dal ricorrente dal 4 agosto 2008 al 16 febbraio 2012. 
    Che con il ricorso in epigrafe viene impugnato  il  provvedimento
con il quale e' stata disposta la riduzione del trattamento economico
annuo ai  sensi  dell'art.  23-ter  del  decreto-legge  n.  201/2011,
convertito in legge n. 214/2011,  nonche'  il  provvedimento  con  il
quale e' stata interrotta la corresponsione in  favore  del  medesimo
esponente dell'assegno personale pensionabile relativo alla  speciale
indennita' prevista dall'art. 5, comma 3, della legge 1° aprile 1981,
n. 121, in  applicazione  dell'art.  3,  comma  57,  della  legge  24
dicembre 1993,  n.  537;  unitamente  ad  ogni  altro  atto  annesso,
connesso, presupposto o consequenziale. 
    Il  ricorrente  chiede  inoltre  l'accertamento  del  diritto   a
percepire, nella loro interezza, o  -  in  via  subordinata  -  nella
misura ritenuta dovuta, il trattamento economico  annuo  spettantegli
in virtu' del proprio inquadramento nell'organico della  Magistratura
ordinaria e delle funzioni dallo stesso svolte,  senza  le  riduzioni
operate in pretesa applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge  6
dicembre 2011, n. 201, convertito in legge n. 214/2011, dell'art.  1,
commi 458, 459, 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013,  n.  147,  e
dell'art. 13, comma 1, del  decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66,
convertito  in  legge  n.  89/2014,  con  la   conseguente   condanna
dell'Amministrazione al versamento ed alla restituzione  delle  somme
nelle more indebitamente trattenute. 
    2 - Che il contenzioso in esame, avuto riguardo al  primo  motivo
di  gravame,  concerne  in  primo  luogo   la   vicenda   applicativa
conseguente  all'adozione  dell'art.  23-ter  del   decreto-legge   6
dicembre 2011, n. 201, convertito, con  modificazioni,  in  legge  22
dicembre 2011, n.  214,  il  quale  stabilisce,  al  comma  1,  primo
periodo, che, «con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri,
previo  parere  delle  competenti  Commissioni  parlamentari,   entro
novanta giorni dalla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione  del  presente  decreto,  e'  definito   il   trattamento
economico annuo onnicomprensivo di chiunque  riceva  a  carico  delle
finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell'ambito  di  rapporti
di  lavoro  dipendente  o  autonomo  con  pubbliche   amministrazioni
statali, di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo
2001, n. 165, e successive modificazioni, ivi incluso il personale in
regime di diritto pubblico di cui all'art.  3  del  medesimo  decreto
legislativo, e successive modificazioni,  stabilendo  come  parametro
massimo di riferimento il trattamento economico del primo  presidente
della Corte di cassazione»; 
    3 - Che, in attuazione della citata disposizione,  il  Presidente
del Consiglio dei ministri ha adottato il decreto 23 marzo  2012,  in
questa sede impugnato, il  quale,  all'art.  3,  stabilisce  che,  «a
decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto, il trattamento
retributivo percepito annualmente, comprese le indennita' e  le  voci
accessorie nonche' le eventuali remunerazioni per incarichi ulteriori
o consulenze conferiti da amministrazioni pubbliche diverse da quella
di appartenenza [...] non  puo'  superare  il  trattamento  economico
annuale complessivo spettante per la carica al primo Presidente della
Corte di cassazione, pari nell'anno 2011 a euro  293.658,95.  Qualora
superiore, si riduce al predetto limite». 
    L'art. 1, commi 471 e 473, della legge 27 dicembre 2013, n.  147,
ha poi statuito quanto segue: 
        comma 471: «A decorrere dal 1° gennaio 2014  le  disposizioni
di cui all'art. 23-ter del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n.  214,
in materia di trattamenti economici, si applicano a chiunque riceva a
carico delle finanze pubbliche  retribuzioni  o  emolumenti  comunque
denominati in ragione di rapporti di lavoro  subordinato  o  autonomo
intercorrenti con le autorita' amministrative indipendenti,  con  gli
enti pubblici economici e con le  pubbliche  amministrazioni  di  cui
all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e
successive  modificazioni,  ivi  incluso  il  personale  di   diritto
pubblico di cui all'art. 3 del medesimo decreto legislativo»; 
        comma 473: «Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui
ai commi 471 e  472  sono  computate  in  modo  cumulativo  le  somme
comunque erogate all'interessato a carico di uno o piu'  organismi  o
amministrazioni, ovvero di societa'  partecipate  in  via  diretta  o
indiretta dalle predette amministrazioni». 
    Da ultimo l'art. 13 del decreto-legge n. 66 del 2014, convertito,
con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, ha  ridotto  il
tetto massimo fissato dal decreto del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 23 marzo 2012, prevedendo che "a  decorrere  dal  1°  maggio
2014 il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della
Corte di cassazione previsto  dagli  articoli  23-bis  e  23-ter  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni,
dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e  successive  modificazioni  e
integrazioni,  e'  fissato  in  euro  240.000  annui  al  lordo   dei
contributi previdenziali ed assistenziali e  degli  oneri  fiscali  a
carico del dipendente". 
    4 - Che il contenzioso in esame, avuto riguardo al secondo motivo
di gravame  e  all'atto  di  motivi  aggiunti,  riguarda  la  vicenda
applicativa - contestuale seppure indipendente  rispetto  alla  prima
questione - conseguente all'adozione dell'art. 1, commi  458  e  459,
della legge 27 dicembre 2013, n. 147 che hanno statuito quanto segue: 
        comma 458: «L'art. 202 del testo unico di cui al decreto  del
Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l'art. 3,  commi
57 e 58, della legge 24 dicembre 1993,  n.  537,  sono  abrogati.  Ai
pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che
siano cessati dal ruolo o dall'incarico,  e'  sempre  corrisposto  un
trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianita'»; 
        comma  459:  «Le  amministrazioni  interessate   adeguano   i
trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima  mensilita'
successiva alla data di entrata in vigore della  presente  legge,  in
attuazione di quanto disposto dal comma  458,  secondo  periodo,  del
presente articolo e dall'art. 8, comma  5,  della  legge  19  ottobre
1999,  n.  370,  come  modificato  dall'art.  5,  comma  10-ter,  del
decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 7 agosto 2012, n. 135». 
    5  -  Che  il  ricorrente  afferma  l'illegittimita'  degli  atti
impugnati deducendo i motivi di ricorso di seguito sintetizzati: 
        5.1  -  Illegittimita'   derivata   per   incostituzionalita'
dell'art.  23-ter  del  decreto-legge  6  dicembre  2011,   n.   201,
convertito in legge n. 214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459,  471  e
473, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13, comma 1, del
decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge  n.  89/2014
per violazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97,  100,  101,  104,
108 e 117 della Costituzione, anche in riferimento all'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali: 
          5.1.1 -  L'introduzione,  ad  opera  dell'art.  23-ter  del
decreto-legge  n.  201/2011,  di  un  prelievo   obbligatorio   sulle
retribuzioni (avente natura  di  «prelievo  tributario»),  in  quanto
limitato alla sola categoria dei dipendenti pubblici,  sostanzierebbe
una violazione degli articoli 3 e 53 della  Costituzione,  alla  luce
dell'orientamento espresso dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 223 dell'11 ottobre 2012, che ha ritenuto che l'imposizione di  un
prelievo obbligatorio,  con  finalita'  di  concorso  alle  pubbliche
spese, ad un'unica  categoria  di  soggetti,  a  parita'  di  reddito
lavorativo violi il principio «della parita' di prelievo a parita' di
presupposto d'imposta economicamente  rilevante»;  a  giudizio  della
Corte, infatti, le disposizioni del decreto-legge  n.  78/2010  -  il
quale,  analogamente  al  prelievo  disposto  dall'art.   23-ter   in
contestazione, prevedeva che a decorrere dal  primo  gennaio  2011  e
sino al 31 dicembre 2013 «i  trattamenti  economici  complessivi  dei
singoli dipendenti, anche di  qualifica  dirigenziale,  previsti  dai
rispettivi  ordinamenti,  delle  amministrazioni   pubbliche,   siano
ridotti del 5% per la parte eccedente  il  predetto  importo  fino  a
150.000 euro, nonche' del 10% per la parte eccedente 150.000 euro»  -
si pongono in evidente contrasto con gli articoli 3, 36  e  53  della
Costituzione, in quanto «l'introduzione di una imposta speciale,  sia
pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi  di
lavoro dei dipendenti delle pubbliche  amministrazioni  inserite  nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione  viola  il
principio  della  parita'  di  prelievo  a  parita'  di   presupposto
d'imposta economicamente rilevante». 
    Nel caso di specie, l'art. 23-ter citato presenterebbe i medesimi
elementi dell'imposta tributaria che sono stati ravvisati dalla Corte
costituzionale nella sentenza richiamata, in quanto, in  particolare,
tale disposizione prevederebbe una decurtazione patrimoniale a carico
dei soli dipendenti pubblici interessati e di natura definitiva,  non
essendo  previsto  un  termine  di  durata  del   prelievo   ne'   la
restituzione ai soggetti passivi delle somme prelevate. 
    Inoltre, la disposizione non  modificherebbe  in  alcun  modo  il
rapporto sinallagmatico di lavoro che  intercorre  tra  i  dipendenti
pubblici e lo Stato, i quali -  stando  all'attuale  indirizzo  della
Corte  costituzionale  (Corte  costituzionale  n.  223/2012)  -   non
potrebbero ridurre la loro prestazione lavorativa in proporzione alla
diminuita retribuzione. 
    Infine, l'art. 23-ter, con lo stabilire che le risorse rivenienti
dall'applicazione delle misure di  cui  al  medesimo  articolo  siano
annualmente versate al fondo per l'ammortamento dei titoli di  Stato,
cosi' manifestandone la destinazione  a  favore  dell'Erario  -  come
confermato anche dalla  circolare  del  Dipartimento  della  Funzione
Pubblica n. 8/2012 a termini della quale il prelievo de quo  serve  a
raggiungere  gli  "obiettivi  generali  della  finanza   pubblica   -
evidenzierebbe il carattere tributario della misura di  cui  all'art.
23-ter del decreto-legge n. 201/2011, imposta in spregio ai  principi
di cui agli articoli 3, 36 e 53 della Costituzione. 
          5.1.2 - Secondo altro profilo di censura, tale decurtazione
della remunerazione si porrebbe in contrasto con gli articoli  3,  4,
36 e 38 della Costituzione, nonche' con i principi di  ragionevolezza
e di irretroattivita' dei trattamenti in pejus, in quanto verrebbe  a
incidere «a posteriori» illegittimamente sulle retribuzioni  e  sulle
indennita' gia' maturate dai pubblici dipendenti, costituenti  oramai
diritti quesiti, compromettendo  altresi'  il  legittimo  affidamento
dell'odierno esponente, e tanto,  in  violazione  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali e, quindi, dell'art. 117 della Costituzione. 
    Cio'  comporterebbe  una   decurtazione   sia   del   trattamento
retributivo che di  quello  di  fine  servizio  e  pensionistico  dei
dipendenti pubblici coinvolti, derivante dall'accumulo  del  montante
contributivo, e risulterebbe irragionevole,  oltrepassando  i  limiti
previsti dalla giurisprudenza della Corte costituzionale la quale, in
tema di interventi legislativi idonei ad incidere su diritti  quesiti
quali quello alla retribuzione e  al  trattamento  pensionistico,  di
cui, rispettivamente, agli articoli 36 e 38  della  Costituzione,  ha
affermato il principio per cui «nel nostro sistema costituzionale non
e' affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali
vengano a modificare  in  senso  sfavorevole  per  i  beneficiari  la
disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di  questi  sia
costituito da diritti soggettivi perfetti (salvo, ovviamente, in caso
di norme retroattive, il limite imposto in materia  penale  dall'art.
25, secondo comma, della Costituzione). Unica  condizione  essenziale
e'  che  tali  disposizioni  non   trasmodino   in   un   regolamento
irrazionale,  frustrando,  con  riguardo  a  situazioni   sostanziali
fondate sulle leggi precedenti,  l'affidamento  dei  cittadini  nella
sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale  dello
stato di diritto» (in tal  senso,  sentenza  n.  264/2005;  in  senso
conforme, sentenze n. 236 e n. 206 del 2009). 
    Anche la Corte di  Giustizia  UE  ha  piu'  volte  chiarito  che,
sebbene i  principi  della  certezza  del  diritto  e  del  legittimo
affidamento siano di derivazione comunitaria, cionondimeno  essi  non
impediscono ai legislatori nazionali di intervenire  sulla  normativa
vigente per introdurvi modifiche che comportino  un  riassetto  delle
condizioni economiche proprie dei rapporti di  durata,  tra  l'altro,
precisando che spetta al giudice nazionale stabilire se le  modifiche
introdotte siano effettivamente non irrazionali e  prevedibili  (cfr.
Corte di Giustizia CE, 10 settembre 2009, causa C-201/08,  Plantanol,
punti 46 e segg.; id., 11 maggio 2006, causa C-384/04, Federation  of
Technological Industries, punto 34). 
    Tuttavia,  l'art.  23-ter  del  decreto-legge  n.  201/2011   non
rispetterebbe le condizioni indicate dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale affinche' l'intervento  modificativo  del  legislatore
possa ritenersi razionale, in quanto detta  disposizione  inciderebbe
in termini  peggiorativi  su  un  diritto  soggettivo  perfetto,  non
costituirebbe una misura graduale e progressiva ma  un  taglio  della
retribuzione improvviso e arbitrario, e  non  avrebbe  una  finalita'
perequativa  o  armonizzatrice  dei  trattamenti  economici  toccati,
applicandosi unicamente ai dipendenti pubblici. 
    In merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza  della
suddetta questione  di  legittimita',  soggiunge  il  ricorrente  che
questa Sezione - seppur con riferimento ai magistrati contabili -  si
sarebbe gia' espressa in senso positivo  (cfr.  ordinanze  nn.  5715,
5716, 5718, 5721, 5723, 5725, 5727 del 17 aprile  2015  e  nn.  5833,
5835, 5836 e 5839 del 21 aprile 2015). 
          5.1.3 - Sotto un  terzo  profilo,  la  citata  decurtazione
della remunerazione determinerebbe, oltre alla violazione del diritto
al lavoro e dell'obbligo di retribuzione proporzionata alla  qualita'
e alla quantita' del lavoro svolto ai sensi degli  articoli  4  e  36
della Costituzione, anche un vulnus ai  principi  di  indipendenza  e
autonomia dei magistrati previsti dagli articoli 100, 101, 104 e  108
della Costituzione. 
    Anche in merito a tale censura le recenti ordinanze del TAR Lazio
avrebbero prospettato analoghi dubbi e pertanto il ricorrente  chiede
al Collegio  di  sollevare  la  medesima  questione  di  legittimita'
costituzionale anche nel caso in esame. 
    2)  Violazione  e  falsa  applicazione   dell'art.   23-ter   del
decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201,  convertito  in  legge  n.
214/2011, dell'art. 1, commi 458, 459, 471  e  473,  della  legge  27
dicembre 2013, n. 147, dell'art. 13, comma 1,  del  decreto-legge  24
aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 89/2014. 
    Violazione e falsa  applicazione  dell'art.  3  del  decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri del 23 marzo  2012,  pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del 16 aprile 2012 n. 89. Violazione e falsa
applicazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100, 101, 104,  108
e 117 della Costituzione,  anche  in  riferimento  all'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali. Eccesso di potere per difetto dei presupposti,
travisamento  dei  fatti,  inosservanza   di   circolari,   manifesta
ingiustizia,  carenza,   illogicita'   e   contraddittorieta'   della
motivazione. 
    Ribadita l'incostituzionalita' dell'art. 23-ter del decreto-legge
n. 201/2011 sotto i vari profili sopra esposti, in seconda battuta il
ricorrente   contesta   l'erronea   soppressione   delle   indennita'
retributive  di  sua  spettanza,  operata  in  pretesa  applicazione,
oltretutto retroattiva, dell'art. 1, commi 458 e 459, della legge  27
dicembre 2013 n. 147. 
    Tali disposizioni non sarebbero applicabili al  caso  di  specie,
giacche' farebbero esclusivo riferimento agli impiegati civili  dello
Stato, mentre  i  magistrati,  pur  rientrando  nella  categoria  dei
dipendenti pubblici intesa in senso lato, non svolgerebbero  funzioni
assimilabili in tutto a qualsiasi impiegato dello stato. 
    Erroneamente, dunque, il  Dicastero  intimato  avrebbe  applicato
l'art. 1, commi 458 e 459, cit., all'odierno esponente, equiparandone
la posizione a quella degli impiegati civili  rientrati  in  ruolo  e
giungendo ad eliminare l'erogazione in suo favore dell'indennita'  di
cui all'art. 5, comma 3, della legge n.  121/1981,  quale  indennita'
speciale di Capo della Polizia Penitenziaria. 
    6 - Che l'Amministrazione intimata si e' costituita  in  giudizio
per difendere la piena legittimita' e doverosita' del proprio operato
a termini di  legge,  legge  le  cui  disposizioni  vengono  altresi'
argomentatamente ritenute scevre dai  dedotti  vizi  di  legittimita'
costituzionale. 
    7. - Che con atto di motivi aggiunti,  il  ricorrente  ha  quindi
impugnato il provvedimento del 1° ottobre 2014, con il quale e' stata
interrotta la corresponsione in  suo  favore  dell'assegno  personale
pensionabile relativo alla speciale indennita' prevista dall'art.  5,
comma  3,  della  legge  1°  aprile  1981,  n.  121,  riproponendo  e
specificando le censure svolte con il secondo motivo di ricorso. 
    8 - Che alla camera di  consiglio  convocata  per  l'esame  della
domanda cautelare, con ordinanza n. 4261/2015 dell'8 ottobre 2015, e'
stata rigettata la domanda  incidentale  di  sospensione  degli  atti
impugnati; che in sede di appello cautelare il  Consiglio  di  Stato,
con ordinanza n. 308 del 29  gennaio  2016,  ritenute  favorevolmente
apprezzabili le esigenze dell'appellante,  ha  accolto  l'appello  ai
fini della fissazione dell'udienza di merito  e,  per  l'effetto,  ha
ordinato la trasmissione dell'ordinanza medesima a  questo  Tribunale
per  la  sollecita  fissazione  dell'udienza  di  merito,  ai   sensi
dell'art. 55, comma 10, del cod. proc. amm.,  nella  quale  avrebbero
potuto compiutamente delibarsi le  questioni  di  incostituzionalita'
prospettate che, ad un sommario esame, al  giudice  di  seconde  cure
apparivano rilevanti e non manifestamente infondate.  
    9 - Che all'esito dell'udienza pubblica  dell'8  giugno  2016  il
ricorso e' stato quindi introitato dal Collegio per la decisione. 
    10 - Che, ai fini della  decisione  delle  complesse  e  delicate
questioni evocate dall'odierno esponente, vanno  tenute  distinte  le
due vicende portate all'attenzione del Collegio: la  prima,  relativa
all'applicazione dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre  2011,
n. 201, convertito nella legge n. 214/2011, e del successivo art.  13
del  decreto-legge  24  aprile   2014,   n.   66,   convertito,   con
modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89 - norme  che  hanno,
rispettivamente, introdotto e ulteriormente ridotto  il  nuovo  tetto
economico agli emolumenti a carico delle finanze pubbliche -  la  cui
stessa  legittimita'  costituzionale  viene  posta  in   dubbio   dal
ricorrente; la seconda vicenda, legata all'applicazione dell'art.  1,
commi 458 e 459, della legge 27 dicembre 2013  n.  147,  disposizione
che    viene    sostanzialmente    contestata    sul    solo    piano
dell'applicabilita' al caso concreto e non anche della legittimita'. 
    11 - Che le  suddette  questioni  riguardano  entrambe  l'odierno
esponente in modo diretto e personale, andando ugualmente ad incidere
- in  pejus  -  sul  suo  trattamento  retributivo  ma  che  tuttavia
discendono da disposizioni normative logicamente indipendenti e  sono
quindi suscettibili di essere trattate in modo disgiunto e  autonomo,
di tal che nessuna delle due assume carattere di  pregiudizialita'  o
di  complementarita'  rispetto  all'altra,  mentre  solo   la   prima
questione,  evocando  dubbi  di  legittimita'  costituzionale   delle
disposizioni censurate,  puo'  formare  oggetto  di  scrutinio  nella
presente sede; e che pertanto il Collegio rinvia  ad  altra  sede  la
delibazione della seconda questione, per la  decisione  della  quale,
avendo ravvisato la necessita' di maggiori  ragguagli  in  ordine  al
titolo  dell'originaria  attribuzione  al  dott.  Ionta  dell'assegno
personale  pensionabile  e  non  riassorbibile   e   alle   modalita'
applicative  del  lamentato  taglio  dell'indennita'  suddetta,   con
ordinanza n. 7958 del 2016 ha posto a  carico  delle  amministrazioni
intimate l'esecuzione di incombenti istruttori. 
    12 - Che il Collegio deve dunque esaminare le  plurime  questioni
di  possibile  illegittimita'  costituzionale,  rispettivamente,  dei
ripetuti art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011 e 13, comma 1, del
decreto-legge n. 66/2014  -  sollevate  dal  ricorrente  ma  altresi'
deducibili d'ufficio e in tal senso integrate anche dal  decidente  -
per la possibile violazione degli articoli 3, 4, 36, 38, 53, 97, 100,
101, 104, 108 e 117 della Costituzione, anche in riferimento all'art.
6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo
e delle liberta' fondamentali. 
    13 - Che la rilevanza delle indicate  questioni  di  legittimita'
costituzionale per la decisione del giudizio a quo non appare  dubbia
alla  luce  dell'esposizione  dei  fatti  di  causa,  atteso  che   i
provvedimenti impugnati  con  il  primo  motivo  di  ricorso  trovano
un'indefettibile  base  normativa  nei   citati   art.   23-ter   del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n.  201,  convertito  nella  legge  n.
214/2011, e 13, comma 1, del decreto-legge 24  aprile  2014,  n.  66,
convertito nella legge n. 89/2014, di  modo  che  il  loro  eventuale
annullamento   per   illegittimita'   costituzionale    comporterebbe
l'illegittimita'  derivata  di  quegli  atti,  con   il   conseguente
accoglimento, in parte qua, del ricorso. 
    14 - Che ben piu' complesso e' il  vaglio  della  «non  manifesta
infondatezza» dei numerosi profili di  illegittimita'  costituzionale
sopra indicati, riservato al giudice a quo. 
    Non fondata appare,  in  primo  luogo,  la  censura  riferita  al
possibile   profilo   di   illegittimita'   dell'art.   23-ter    del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n.  201,  convertito  nella  legge  n.
214/2011 e dell'art. 13, comma 1, del decreto-legge 24  aprile  2014,
n.  66,  convertito  nella  legge  n.  89/2014,  per  violazione  del
principio della tutela dell'affidamento, di cui  agli  articoli  3  e
117, comma 1, della Costituzione e 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali;
come gia'  nelle  precitate  ordinanze  della  Sezione,  il  Collegio
osserva che la stessa giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia  ha
espressamente  chiarito  che   questo   principio   e'   fondamentale
nell'ordinamento  europeo  (fra  le  altre,  la  sentenza  CGUE,   14
settembre 2006, cause riunite C-181/04 e C-183/04, ha sancito che  «i
principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza  del
diritto fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario;  pertanto
devono essere rispettati dalle istituzioni comunitarie ma anche dagli
Stati membri nell'esercizio dei poteri loro conferiti dalle direttive
comunitarie»), mentre sul piano interno la  migliore  dottrina  e  la
giurisprudenza gli annettono una valenza costituzionale alla  stregua
dei principi di legalita' (art.  1  Cost.),  e  di  riconoscimento  e
garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2) in condizioni  di
eguaglianza davanti alla legge (articoli 3 e 97). 
    Al  riguardo,  riconosciuta  la  piena  operativita'  nel  nostro
ordinamento del principio di tutela della certezza  giuridica  e  del
legittimo affidamento, il Collegio  tuttavia  osserva  che  il  nuovo
tetto  economico  in  esame   -   introdotto   dall'art.   23-ter   e
ulteriormente ridotto dall'art. 13, comma 1, citt.  -  risponde  agli
obiettivi    d'interesse    pubblico    generale    lasciati     alla
discrezionalita' dei  singoli  Stati  quanto  al  contenimento,  alla
trasparenza ed alla congruita' della spesa pubblica, nel  quadro  dei
doveri di solidarieta' sociale di cui all'art. 2 della Costituzione e
dei principi di buon andamento dell'amministrazione di  cui  all'art.
97 Cost., mentre la Corte costituzionale ha piu' volte chiarito  che,
salvi i limiti in materia penale derivanti  dall'art.  25,  comma  2,
Cost.,  non  e'  in  linea  di  principio  precluso  al   legislatore
intervenire per mutare la disciplina dei rapporti di durata in corso,
anche con disposizioni che modificano in senso sfavorevole situazioni
soggettive perfette, purche' nel limite del rispetto del principio di
eguaglianza ex art. 3  Cost.  e  del  principio  di  affidamento  dei
cittadini nella sicurezza giuridica, che non appaiono  violati  nella
fattispecie  in  esame  (in  senso  conforme,  Corte  costituzionale,
sentenze n. 92 del 2013, n. 166 del 2012, n. 525 del 2000, n. 211 del
1997, n. 409 del 1995). 
    La  questione  in  esame  si  rivela  pertanto,  a  giudizio  del
Collegio, non fondata. 
    15 - Che ugualmente non fondata - salvo quanto si dira' al numero
successivo - e', per consolidata opinione del Collegio, la  possibile
questione di legittimita' per violazione degli articoli 3 e 53  Cost.
riferita all'effetto delle disposizioni  in  esame  di  trattenimento
forzoso di  una  parte  (ampia)  della  remunerazione  dell'attivita'
lavorativa,  che  corrisponderebbe  all'imposizione  di  un  prelievo
fiscale speciale, ovvero di un prelievo di natura tributaria  perche'
imposto a fini di finanza pubblica e incidente in beni materiali  dei
percossi, ma discriminatorio in quanto gravante solo  sui  dipendenti
pubblici, lasciando indenne  la  posizione  di  coloro  che  prestino
servizio alle dipendenze di un datore di lavoro privato o  esercitino
attivita' libero-professionale. 
    Infatti, considera il Collegio  che  le  descritte  finalita'  di
contenimento, trasparenza e razionalizzazione  della  spesa  pubblica
determinano, non  irragionevolmente,  una  progressiva  decurtazione,
disciplinata  ex   lege,   dei   possibili   ulteriori   redditi   al
raggiungimento del tetto prefissato, indifferenziatamente applicata a
tutti i compensi comunque posti  a  carico  della  finanza  pubblica,
senza che cio' possa generare, proprio  per  la  sua  trasversalita',
indebite disparita' di trattamento, divenendo quindi  non  rilevante,
ai fini del giudizio a quo,  la  sua  invocata  qualificazione  quale
imposizione fiscale, che sembra comunque doversi escludere, in quanto
la legge, in estrema sintesi, pone un «tetto» a regime all'erogazione
a chiunque di somme a titolo retributivo (e  pensionistico)  poste  a
carico della finanza pubblica, anziche' imporre un  prelievo  forzoso
sulle  somme  percepite  dal  singolo  interessato  oltre  il   tetto
prefissato. 
    16 - Che a conclusioni piu' articolate - peraltro gia' sviluppate
da questo Tribunale nelle ripetute ordinanze nn.  5715,  5716,  5718,
5721, 5723, 5725, 5727 del 17 aprile 2015 e nn. 5833,  5835,  5836  e
5839 del 21 aprile 2015 nonche', piu' di recente, nelle ordinanze nn.
4153/2016  e  4250/2016  -  si  presta  la  questione  di   possibile
illegittimita' dell'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n.
201, convertito nella legge n. 214/2011, e dell'art. 13, comma 1, del
decreto-legge 24 aprile  2014,  n.  66,  convertito  nella  legge  n.
89/2014, per violazione degli articoli 3, 4, 36 e  38  nonche'  dagli
articoli 100, 101,  104  e  108  della  Costituzione,  in  quanto  il
meccanismo  del  tetto  massimo  degli  emolumenti  comporta  che  la
remunerazione dell'esercizio della  funzione  di  giudice  ordinario,
nella specie il servizio come Procuratore aggiunto della  Repubblica,
risulti fortemente ridotta con una  corrispondente  decurtazione  del
trattamento di fine servizio e pensionistico, si' da determinare  una
violazione del diritto al lavoro e ad una retribuzione «proporzionata
alla  quantita'  e  qualita'»  del  lavoro  prestato  oltre  che   un
indebolimento delle garanzie  di  indipendenza  nell'esercizio  delle
funzioni giurisdizionali. 
    17 -  Che  in  tal  modo  la  scelta  dello  Stato,  mediante  le
disposizioni di legge  in  esame,  di  avvalersi  del  pieno  apporto
professionale del ricorrente (nulla la  norma  dicendo  al  riguardo,
salve le sue eventuali dimissioni per evitare, in applicazione  delle
citate norme, di  prestare  attivita'  lavorativa  non  adeguatamente
retribuita) anziche' disciplinare normativamente l'ipotesi  in  esame
(ad esempio, prevedendo una opzione  per  funzioni  piu'  limitate  e
retribuite in minor misura, oppure del tutto onorarie e  gratuite)  e
al  tempo  stesso  di  «di  auto-esonerarsi»  in  parte   dalla   sua
retribuzione (non ponendo alcuna deroga al  tetto  a  tale  riguardo,
malgrado l'elevatissimo standard professionale raggiunto  in  ragione
della delicatezza e dell'impegno delle funzioni da svolgere),  appare
costituzionalmente  irragionevole,  con  la   conseguente   possibile
violazione dell'art. 36, primo comma, della Costituzione,  quanto  al
diritto ad una retribuzione proporzionata alla  quantita'  (oltreche'
alla qualita') del  lavoro,  nonche',  indirettamente,  dell'art.  38
della  Costituzione,  in   quanto   la   drastica   riduzione   della
retribuzione - e quindi della relativa contribuzione - precludono  la
conseguente   implementazione   della    tutela    assistenziale    e
previdenziale garantita dall'ordinamento. 
    18 - Che a giudizio del Collegio sembra potersi parimenti dedurre
la violazione dagli articoli 100, 101, 104 e  108  Cost.,  quanto  al
possibile  vulnus  allo  status  di  indipendenza  ed  autonomia  dei
magistrati,  protetto  dalle  predette  disposizioni  costituzionali.
Infatti, la Corte costituzionale, nel decidere questioni  concernenti
norme  aventi  ad   oggetto   la   retribuzione   e   la   disciplina
dell'adeguamento  retributivo  dei  magistrati,  ha   affermato   che
l'indipendenza  degli  organi  giurisdizionali  si   realizza   anche
mediante l'«apprestamento di garanzie circa lo status dei  componenti
concernenti,  fra  l'altro,  la  progressione  in  carriera   ed   il
trattamento economico (cosi', fra le altre, sentenza n. 1  del  1978)
che, in un assetto costituzionale dei poteri dello Stato che vede  la
magistratura  come  ordine  autonomo  ed  indipendente,  non  possono
esaurirsi in un mero rapporto di lavoro, in cui il  contraente-datore
di lavoro possa  al  contempo  essere  parte  e  regolatore  di  tale
rapporto» (Corte costituzionale, sentenza n. 223 del 2012). 
    19 - Che l'accertata rilevanza e non manifesta infondatezza della
predetta questione incidentale  di  legittimita'  costituzionale  dei
citati articoli 23-ter del decreto-legge 6  dicembre  2011,  n.  201,
convertito nella legge n. 214/2011, e 13, comma 1, del  decreto-legge
24 aprile 2014, n. 66, convertito nella legge n. 89/2014, nei termini
sopra evidenziati, determina la necessita' di rimettere gli  atti  di
causa alla Corte costituzionale sospendendo il presente giudizio fino
alla sua decisione, per la parte relativa  alla  vicenda  applicativa
conseguente all'adozione delle disposizioni predette. 
 
                                P.Q.M. 
 
    Il Tribunale  amministrativo  regionale  per  il  Lazio  (Sezione
Prima) non definitivamente pronunciando  sul  ricorso  n.  6647/2015,
come in epigrafe  proposto,  visti  gli  articoli  1  della  legge  9
febbraio 1948 n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953 n.  87,  riservata
ogni altra pronuncia nel merito e sulle spese, dichiara  rilevante  e
non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale, meglio evidenziata in premessa, degli articoli 23-ter
del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella legge  n.
214/2011 e 13, comma 1, del decreto-legge  24  aprile  2014,  n.  66,
convertito nella legge n. 89/2014, in relazione agli articoli  3,  4,
36, 38, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione. 
    Dispone la sospensione parziale del presente  giudizio  e  ordina
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Ordina che, a cura della Segreteria della  Sezione,  la  presente
ordinanza sia notificata alle parti costituite e  al  Presidente  del
Consiglio dei ministri, nonche' comunicata ai Presidenti della Camera
dei Deputati e del Senato della Repubblica. 
    Riserva al definitivo ogni statuizione  in  rito,  nel  merito  e
sulle spese. 
    Cosi' deciso in Roma nella  camera  di  consiglio  del  giorno  8
giugno 2016 con l'intervento dei magistrati: 
        Carmine Volpe, Presidente; 
        Raffaello Sestini, consigliere; 
        Rosa Perna, consigliere, estensore. 
 
                        Il Presidente: Volpe 
 
 
                                                   L'estensore: Perna