N. 2 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 agosto 2016

Ordinanza  del  1°  agosto  2016  della  Corte  di   cassazione   nel
procedimento penale a carico di Adami Francesco e altri. 
 
Reati e pene - Frode all'IVA - Prescrizione - Obbligo per il giudice,
  in  applicazione  dell'art.  325  del  Trattato  sul  Funzionamento
  dell'Unione  europea  (TFUE),  come  interpretato  dalla  Corte  di
  giustizia europea,  sentenza  8  settembre  2015,  causa  C-105/14,
  Taricco, di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e 161, secondo
  comma, cod. pen., in  presenza  delle  circostanze  indicate  nella
  sentenza, allorquando ne  derivi  la  sistematica  impunita'  delle
  gravi frodi in materia di IVA, anche se  dalla  disapplicazione,  e
  dal  conseguente  prolungamento  del   termine   di   prescrizione,
  discendano effetti sfavorevoli per l'imputato. 
- Legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di
  Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione europea e il  Trattato
  che istituisce la Comunita' europea e  alcuni  atti  connessi,  con
  atto finale, protocolli e dichiarazioni,  fatto  a  Lisbona  il  13
  dicembre 2007), art. 2. 
(GU n.6 del 8-2-2017 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Terza Sezione penale 
 
    Composta da: 
      Elisabetta Rosi - Presidente; 
      Enrico Manzon; 
      Angelo Matteo Socci; 
      Gastone Andreazza; 
      Alessandro M. Andronio - relatore; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza sui ricorsi proposti da: 
      Adami Francesco, nato a Parma il 15 aprile 1977; 
      Adami Norberto, nato a Noceto il 4 giugno 1960; 
      Bortoletto Igor, nato a Giussano il 25 giugno 1978; 
      Giovannelli Iuri, nato a Milano il 20 dicembre 1982; 
      Magnone Filippo, nato a Milano il 5 maggio 1984; 
      Magnone Matteo Camillo, nato a Milano il 3 aprile 1983; 
      Magnone Paolo, nato a Milano il 27 agosto 1956; 
      Monza Rinaldo Paolo, nato a Busto Arsizio il 25 maggio 1955; 
      Nobili Michael, nato a Sorengo il 16 novembre 1979; 
      Pavanati Leonardo, nato a Pontedera il 2 ottobre 1962; 
      Zanardelli Guido, nato a Brescia il 1° dicembre 1968; 
      Zanardelli Oliviero, nato a Brescia il 3 gennaio 1964; 
    Avverso la sentenza  della  Corte  d'appello  di  Milano  del  16
ottobre 2013; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; 
    Udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro M. Andronio; 
    Udito il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore
generale Stefano Tocci, che ha concluso: per  l'inammissibilita'  dei
ricorsi  proposti  nell'interesse  di  Giovannelli,  Monza,   Nobili,
Pavanati; per il rigetto dei ricorsi Adami Francesco, Adami Norberto,
Magnone Filippo, Magnone Matteo Camillo,  Magnone  Paolo,  Zanardelli
Guido,  Zanardelli  Oliviero;  per  la  trasmissione  degli  atti  al
Tribunale, ai fini della  notificazione  dell'estratto  contumaciale,
per Bortoletto; 
    Uditi i difensori: avv. Ivan Frioni,  in  sostituzione  dell'avv.
Salvatore Pino, per Adami Francesco  e  Adami  Norberto;  avv.  Guido
Angelo Guella, anche in sostituzione dell'avv.  Roberto  Fanari,  per
Magnone  Paolo,  in  sostituzione dell'avv.  Luigi  La   Marca,   per
Bortoletto, dell'avv. Massimo  Bissi,  per  Pavanati;  l'avv.  Pietro
Salinari, per  Giovannelli  e  Nobili;  l'avv.  Angelo  Colucci,  per
Magnone Filippo e, anche in sostituzione  dell'avv.  Renato  Vitetta,
per Magnone Matteo Camillo; l'avv. Massimo Bonvicini, per  Zanardelli
Oliviero e Zanardelli Guido. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
1. - Con sentenza del 22 dicembre 2011, il Tribunale di Milano  ha  -
per quanto qui rileva - condannato gli  imputati  per  una  serie  di
reati tributari ex articoli 5 e 8 del decreto legislativo n.  74  del
2000, commessi nell'ambito di un'associazione a delinquere, diretta -
secondo l'ipotesi accusatoria - da Magnone Paolo, e nella  quale  gli
altri imputati ricoprivano diversi ruoli. 
    Le indagini erano state svolte a partire dal 2007  dalla  Guardia
di Finanza di  Bassano  del  Grappa,  nei  confronti  della  societa'
Sintesi s.n.c., esercente l'attivita'  di  fabbricazione  di  materie
plastiche, con il riscontro dell'emissione di  fatture  di  acquisto,
nei confronti di tale societa', da parte di due societa'  «cartiere»,
la Blancplast S.r.l. e la Nobil Plast S.r.l.  Le  ulteriori  indagini
avevano confermato l'esistenza di altre societa' «cartiere»  operanti
nel settore delle materie plastiche. Molte di tali  societa'  avevano
intrattenuto relazioni commerciali con  la  Axel  Chemical,  societa'
Sammarinese  riconducibile  a  Magnone  Paolo.   Era   cosi'   emersa
l'esistenza di un circuito criminale finalizzato  alla  realizzazione
di frodi fiscali, consistenti in cessioni in nero,  sovrafatturazioni
ed acquisti intracomunitari in regime  di  esenzione  Iva,  consumate
attraverso societa' riferibili ad  una  serie  di  prestanome,  tutti
facenti capo alla persona di Magnone Paolo. 
    La  Corte  d'appello,  con  sentenza  del  16  ottobre  2013,  ha
confermato  le  valutazioni  effettuate  dal  Tribunale  quanto  alla
responsabilita'  penale,  dichiarando  non  doversi   procedere   per
intervenuta  prescrizione  in  ordine  ad  alcuni   dei   reati-scopo
contestati e ha, conseguentemente, rideterminato  in  diminuzione  il
trattamento sanzionatorio per alcuni degli imputati. 
2. - Avverso la  sentenza  hanno  proposto  ricorso  per  cassazione,
tramite il difensore e  con  unico  atto,  Adami  Francesco  e  Adami
Norberto, chiedendone l'annullamento. 
    2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si  deduce  la  nullita'
della sentenza, per incapacita' del giudice  estensore,  sul  rilievo
che  la  stessa,  pronunciata  il  16  ottobre  2013,  sarebbe  stata
depositata il 30 aprile 2015 e sottoscritta, anche  quale  estensore,
dal presidente del collegio, che era uscito  dall'ordine  giudiziario
il 17 ottobre 2014. La difesa contesta l'orientamento di legittimita'
secondo cui le condizioni di capacita' del  giudice,  necessarie,  ai
sensi dell'art. 178 codice  procedura  penale,  per  aversi  un  atto
valido e, quindi, anche una sentenza validamente resa,  attengono  al
momento della decisione e  non  al  momento  dell'eventuale  deposito
della  motivazione  successivo  alla  pronuncia.  Si   sostiene,   in
particolare, che, poiche' l'art. 546 codice procedura penale  prevede
la  motivazione  quale  essenziale  requisito  della   sentenza,   la
deliberazione della motivazione dovrebbe essere adottata dal collegio
giudicante e dovrebbe essere considerata, percio', piena  espressione
dell'esercizio della giurisdizione. Ne consegue che,  trattandosi  di
una  funzione  giurisdizionale,  la  stessa   non   potrebbe   essere
amministrata  da  soggetti  che  non  fanno  piu'  parte  dell'ordine
giudiziario. 
    2.2. - In secondo luogo, si deduce  la  mancanza  di  motivazione
della sentenza impugnata, perche' la stessa sarebbe  inesistente,  in
quanto redatta da un magistrato gia' cessato dalle sue funzioni. 
    2.3. - Con un terzo motivo di doglianza, si deduce la  violazione
dell'art. 546, comma 3, codice procedura penale, sul rilievo  che  la
sentenza sarebbe priva  della  sottoscrizione  del  giudice,  essendo
stata  sottoscritta  da  un  magistrato  ormai   uscito   dall'ordine
giudiziario, sia quale presidente del collegio sia quale estensore. 
    2.4. - Una quarta  censura  e'  riferita  alla  violazione  degli
articoli 523, 602, 548 codice procedura penale, i quali esprimono  la
necessita' dell'immediatezza della decisione, sul rilievo che tra  il
deposito della  motivazione  e  la  discussione  orale  delle  difese
sarebbe decorso un ampio lasso di tempo; lasso di tempo incompatibile
con un'adeguata considerazione delle deduzioni  svolte  dalle  difese
nel corso della discussione davanti al collegio. 
    2.5.  -  Con  un  quinto  motivo  di  doglianza,   si   ribadisce
l'eccezione di incompetenza territoriale gia'  proposta  in  primo  e
secondo  grado.  Si  contesta,  in  particolare,  l'affermazione  del
Tribunale secondo cui la competenza doveva essere  ritenuta  radicata
in Milano perche' in tale luogo aveva sede il  maggior  numero  delle
societa'  ritenute  funzionali   all'operativita'   dell'associazione
criminale  diretta  da  Magnone  Paolo;  cosicche'  doveva   apparire
ragionevole che le strategie del gruppo fossero state pianificate  in
Milano  e  che  in  Milano  si  fosse  concretizzata  la  parte  piu'
significativa   dell'attivita'   delittuosa   dell'associazione.   Si
lamenta, sul punto, che la Guardia di Finanza aveva affermato che  il
fenomeno fraudolento coinvolgeva numerose societa' ubicate in diverse
regioni del Nord Italia, e in particolare a Milano,  e  che  da  tale
accertamento discendeva  la  sostanziale  incertezza  sul  luogo  del
commesso reato; incertezza che  non  avrebbe  potuto  essere  risolta
sulla base di un inesistente principio di prevalenza, non  risultando
dagli   atti   alcun   elemento   specifico   dal   quale    desumere
l'individuazione   del   luogo   di   programmazione   e    ideazione
dell'attivita'  riferibile  all'associazione  criminale.  E  non   si
sarebbe considerato che  i  primi  fatti  erano  stati  accertati  in
Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, e che a tali  fatti  era
stata   attribuita   una   valenza   sintomatica   dell'esistenza   e
dell'operativita' dell'associazione  criminale.  Si  sarebbe  dovuto,
dunque, applicare criterio del luogo di commissione  del  reato-scopo
piu' grave, che avrebbe dovuto essere identificato in quello  di  cui
al capo M, di pari gravita'  rispetto  ad  altre  condotte,  ma  piu'
risalente nei tempo, relativo all'emissione di fatture per operazioni
inesistenti,  posta  in  essere  a  Schio  nell'anno  2001;  con   la
conseguenza  che  avrebbe  dovuto  essere  ritenuto   competente   il
Tribunale di Vicenza.  In  via  subordinata,  avrebbe  dovuto  essere
applicato criterio residuale di  cui  all'art.  9,  comma  3,  codice
procedura penale, per cui avrebbe dovuto essere  ritenuto  competente
il Tribunale di Bassano del  Grappa,  avendo  la  procura  di  quella
circoscrizione per prima iscritto la notizia di  reato,  il  7  marzo
2007. Del tutto destituita di fondamento  sarebbe  l'affermazione  di
segno contrario della  Corte  d'appello  secondo  cui  l'associazione
operava in Milano perche'  li'  venivano  intessuti  i  rapporti,  si
decidevano gli acquisti e le vendite, si costituivano e  scioglievano
le societa' cartiere. Si  rileva,  inoltre,  che  il  Tribunale,  con
ordinanza  del  7  ottobre  2011,  aveva  risolto  la  questione   di
competenza territoriale relativa ai reati fiscali contestati  ai  due
Adami (capi di imputazione D e D1), disponendo la trasmissione  degli
atti alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma,  ove
aveva sede la societa' Centroplast, che aveva operato  l'emissione  e
l'annotazione delle fatture  contestate;  e  cio',  in  virtu'  della
maggiore gravita' di tali reati rispetto al reato  di  partecipazione
all'associazione  per  delinquere.  Quanto  a  tale   ultimo   reato,
ricondotto alla fattispecie di cui al  secondo  comma  dell'art.  416
codice penale,  il  Tribunale  aveva  affermato  che  la  sua  natura
permanente imponeva una trattazione unitaria delle posizioni di tutti
gli aderenti all'associazione, cosicche'  la  competenza  non  poteva
essere  ritenuta  radicata  in  Parma.   La   difesa   critica   tale
conclusione, sostenendo che: o il reato di cui  all'art.  416  codice
penale  deve  essere  considerato   unitariamente   e,   dunque,   la
fattispecie di cui al primo comma dello stesso art.  416,  contestata
ad alcuni dei coimputati, e' comunque piu' grave dei reati scopo, ivi
compresi quelli di cui ai capi D e D1, oppure tali ultimi reati, piu'
gravi e contestati come commessi in Parma, attraggono anche  la  meno
grave fattispecie associativa di cui al secondo comma  dell'art.  416
codice penale, contestata ai due Adami. 
    2.6. - Si rileva, in  sesto  luogo,  l'inosservanza  della  legge
penale in relazione alla ritenuta partecipazione degli imputati Adami
all'associazione  per  delinquere.  La  Corte  d'appello  si  sarebbe
limitata, sul punto, a richiamare la  sentenza  di  primo  grado.  Il
Tribunale, per parte sua, avrebbe  desunto  la  partecipazione  degli
imputati  all'associazione  dal  fatto  che  questi  avevano   fruito
dell'opera   dell'associazione   stessa,    intrattenendo    rapporti
commerciali con  Magnone  Paolo.  Mancherebbe,  in  tale  quadro,  il
necessario presupposto dell'affectio  societatis,  che  non  potrebbe
essere sostituito da quello dell'«utilita'  della  condotta»,  invece
richiamato  dal  Tribunale.  Ne'  vi  sarebbe  prova   dell'effettiva
conoscenza degli  Adami  con  gli  altri  partecipanti  al  sodalizio
criminale, perche' questi ultimi avevano rapporti  solo  con  Magnone
Paolo, che ritenevano essere  il  dominus  sostanziale  di  tutte  le
societa', senza avere alcuna consapevolezza della rete interpersonale
creata da quest'ultimo. 
    2.7. - Sempre in relazione  alla  ritenuta  partecipazione  degli
imputati all'associazione  per  delinquere,  si  rilevano  -  con  un
settimo motivo di doglianza - la mancanza e la manifesta  illogicita'
della motivazione. La Corte territoriale non  avrebbe  risposto  alle
doglianze difensive contenute nell'atto d'appello e,  in  ogni  caso,
non avrebbe considerato in alcun modo il ruolo di Adami Francesco. Si
ribadisce, in ogni caso, che gli  Adami  avevano  solo  rapporti  con
Magnone Paolo e non con altri presunti appartenenti all'associazione. 
    2.8. - Con un'ottava censura, si  rilevano  l'inosservanza  della
legge  penale,  nonche'  la  mancanza  della  prova   relativa   alla
realizzazione  delle  condotte  di  partecipazione  all'associazione,
dovendosi   ricondurre   i   fatti   di   frode   carosello   e    di
sovrafatturazione,  ove  anche  sussistenti,  alla  fattispecie   del
concorso di persone reato. In  particolare,  le  condotte  contestate
consisterebbero nella promozione e incentivazione  di  operazioni  in
frode  all'Iva,   commesse   interponendo   negli   scambi   societa'
riconducibili a Magnone, al solo fine di conseguire indebiti  crediti
Iva; consisterebbero altresi' nell'incameramento di somme in contanti
corrisposte  da  Magnone,  quali  restituzioni  di   parte   dell'Iva
conseguenti alle sovrafatturazioni poste in essere a beneficio  della
societa' Centroplast. Non si sarebbe considerato che  non  era  stato
contestato ad Adami Norberto che  la  merce  venduta  da  Centroplast
fosse ritornata alla stessa Centroplast. Ne' sarebbero  probanti,  in
tal senso, le dichiarazioni dei trasportatori della  merce,  i  quali
avevano affermato che i trasporti in realta' non venivano  effettuati
verso la societa' apparente destinataria, ma solo  verso  il  cliente
finale  italiano.  Non  si  sarebbe  considerato,  infatti,  che   il
documento di trasporto era compilato da Magnone e non dagli Adami, in
capo  ai  quali,  non  vi  era,  dunque,  la   consapevolezza   della
destinazione finale della merce. Quanto  alle  sovrafatturazioni,  le
stesse sarebbero state provate tramite  intercettazioni  telefoniche,
ma - secondo la difesa - sulla base di mere  illazioni,  non  essendo
emersa alcuna prova concreta  di  una  contropartita  legata  a  tali
pretese  sovrafatturazioni,  se   non   una   labile   analogia   con
comportamenti tenuti da altri. 
    2.9. - Con un nono motivo di doglianza, si deduce la mancanza  di
motivazione  in  relazione  alla  realizzazione  delle  condotte   di
partecipazione ad associazione per delinquere, sul  rilievo  che  non
sarebbero state considerate, sul punto, le doglianze difensive. 
    2.10. - Una  decima  censura  e'  riferita  all'inutilizzabilita'
delle testimonianze rese dal trasportatore  Fabiano,  perche'  questo
sarebbe stato sentito come semplice testimone e non con  le  garanzie
previste per il concorrente nel reato, che sarebbe  quello  di  falsa
fatturazione, a lui ascrivibile per la materiale redazione  da  parte
sua del documento di trasporto. La difesa lamenta che Corte d'appello
aveva  ritenuto  insussistente  la  violazione  dell'art.  63  codice
procedura penale, sul rilievo che tale soggetto  non  avrebbe  dovuto
essere sentito con  le  relative  garanzie,  perche'  non  era  stato
indagato, senza pero'  considerare  che  egli  pacificamente  avrebbe
dovuto essere ritenuto concorrente nel reato, avendo  sostanzialmente
confessato di averlo commesso. 
    2.11. - Si deduce, inoltre, la nullita' della  sentenza  ex  art.
604, comma 1, codice procedura penale, per violazione degli  articoli
516 e 522 codice procedura penale, in  relazione  alla  contestazione
delle cessioni in nero quale  ulteriore  condotta  di  partecipazione
all'associazione a delinquere. Non  si  sarebbe  considerato  che  la
difesa aveva formulato un apposito motivo di appello,  lamentando  la
violazione  del  principio  di  correlazione  tra   contestazione   e
condanna, non essendo mai state contestate le pretese vendite in nero
agli imputati Adami. 
    2.12. - Sempre in relazione alle richiamate vendite in  nero,  vi
sarebbe violazione di legge, in mancanza di riscontri telefonici e in
presenza di annotazioni su agende sequestrate a Norberto Adami, dalle
quali - secondo la  difesa  -  risultavano  al  piu'  annotazioni  di
offerte e non di cessioni. 
    2.13. - Un tredicesimo motivo si incentra, ancora, sulla ritenuta
realizzazione delle cessioni in nero, sotto il profilo della mancanza
di motivazione in ordine alla loro effettiva consumazione. 
    2.14. - Con la quattordicesima censura, si prospettano violazione
di legge e vizi della motivazione  in  relazione  alla  confisca  del
denaro  presente  su  due  dossier  titoli,  ritenuto   riconducibile
all'operativita' dell'associazione criminale.  Le  somme  sequestrate
venivano  qualificate  non  come  prodotto  o  profitto   del   reato
associativo, ma come prezzo del  reato  stesso.  Era  stato  disposto
anche il sequestro di fabbricati e terreni non piu' menzionati  nelle
sentenze di primo e secondo grado,  le  quali  si  erano  limitate  a
disporre la confisca di quanto in sequestro. Si trattava, infatti, di
un sequestro disposto per  equivalente,  in  ragione  della  ritenuta
natura transnazionale dei reati fiscali relativi alle annualita' 2006
e 2007 avente ad oggetto beni privi di ogni relazione con il reato di
associazione contestato. 
    2.15. - Con un quindicesimo motivo di  doglianza  -  erroneamente
indicato nel ricorso con il numero 14 - si contesta la motivazione in
ordine alla quantificazione della pena, che sarebbe stata ancorata ad
un presunto grave danno cagionato alla collettivita', del  quale  non
vi sarebbe prova in atti. 
    2.16. - Con un sedicesimo  motivo  di  doglianza  -  erroneamente
indicato dal ricorrente con il  numero  15  -  si  chiede  che  venga
dichiarata la prescrizione del reato associativo, essendo le condotte
partecipative, in ipotesi, commesse fino all'anno 2007 e  vertendosi,
dunque, in una fattispecie a «contestazione chiusa». 
3. - La sentenza e' stata impugnata anche dal difensore di Bortoletto
Igor. 
    3.1. - Si  deduce,  in  primo  luogo,  la  mancata  notificazione
dell'estratto  contumaciale  della  sentenza  di  primo  grado,   cui
conseguirebbe l'annullamento sia del decreto che dispone il  giudizio
in  appello,  sia  della  sentenza  di   appello,   con   conseguente
trasmissione  degli  atti  al  Tribunale,  per  sanare  il  vizio  di
notificazione (Cass., sez. 2, 5 giugno 2012, n. 25778). 
    3.2. - In secondo luogo, si lamentano l'inosservanza dell'art. 8,
comma 3, codice procedura penale, nonche' la mancanza e la  manifesta
illogicita' della motivazione, in relazione alla ritenuta  competenza
territoriale del Tribunale di Milano. Si svolgono, sul punto, rilievi
analoghi a quelli svolti dalla difesa  degli  imputati  Adami  (sopra
riportati al punto 2.5.).  Si  ribadisce,  in  particolare,  che  non
sarebbe stato considerato  il  carattere  diffuso  dell'associazione,
della quale non era possibile individuare un unico e  stabile  centro
operativo, in presenza di societa' «cartiere» aventi sede in  diversi
luoghi, di societa' estere, di  soggetti  prestanome  presso  le  cui
residenze le societa' avevano sede. Si  sarebbe  dovuta  riconoscere,
dunque, la competenza del Tribunale di Vicenza o di quello di Bassano
del Grappa. 
    3.3. - In terzo luogo, si deduce la  carenza  di  motivazione  in
ordine alla mancata assoluzione dell'imputato dal  reato  di  cui  al
capo I dell'imputazione (artt. 81, secondo comma, 110 codice  penale,
e 8 del decreto legislativo n. 74 del 2000), a lui  contestato  nella
sua veste di amministratore di due  societa'  «cartiere»  del  gruppo
Magnone,  in  relazione  all'emissione  di  fatture  per   operazioni
soggettivamente inesistenti, che avevano consentito notevoli evasioni
dell'Iva in piu' anni. Con riferimento alla societa' Boston  Plastic,
la difesa aveva evidenziato, in grado  di  appello,  la  mancanza  di
prova di eventuali retrocessioni dell'Iva, perche' vi erano flussi di
denaro in uscita a favore di tale Fornasari,  ma  tali  flussi  erano
riferibili ad acquisti di merce al nero. Ne' i trasportatori  avevano
confermato che la merce fosse rientrata al punto di partenza, perche'
la stessa  era  accompagnata  da  un  documento  di  trasporto  verso
l'estero che recava una data  posteriore  rispetto  ai  documento  di
trasporto nazionale.  Inoltre  -  sempre  secondo  la  prospettazione
difensiva - la societa' non poteva ritenersi del  tutto  inoperativa,
perche' aveva effettivamente a disposizione un magazzino,  tanto  che
lo stesso imputato era stato visto nell'attivita' di scarico di merci
da camion  stranieri.  La  Corte  d'appello  non  avrebbe  tenuto  in
considerazione le doglianze difensive, non avendole neanche riportate
nel  corpo  della  sentenza,  ed  essendosi  limitata  ad  affrontare
questioni relative alla quantificazione della pena. 
4.  -  La  sentenza   e'   stata   impugnata   anche   nell'interesse
dell'imputato   Giovannelli   Iuri,   in   relazione   alla   mancata
considerazione dei motivi d'appello. In particolare,  la  ditta  Wall
Plast di cui al capo 02  dell'imputazione  sarebbe  stata  creata  da
Nobili per staccarsi da Magnone. In tale quadro, Giovannelli  sarebbe
stato posto a capo  della  ditta  da  Nobili,  rimanendo  estraneo  a
rapporti  con  Magnone.  La  ditta  in  questione   avrebbe   operato
regolarmente e la dichiarazione Iva per il 2007 sarebbe stata  omessa
solo perche' erano intervenuti i sequestri quando era ancora in corso
l'anno fiscale. 
  5. - Tramite il  difensore,  ha  proposto  ricorso  per  cassazione
Magnone Filippo. 
    5.1. - La prima doglianza del ricorrente, relativa alla capacita'
del giudice, e' formulata in modo analogo  a  quella  dei  ricorrenti
Adami riportata sub 2.1. 
    5.2. - Si prospetta, in secondo luogo, una censura relativa  alla
competenza territoriale, analoga a quelle riportate sub 2.5. e 3.2. 
    5.3. - In terzo luogo, si lamenta la manifesta illogicita'  della
motivazione quanto al reato associativo, che sarebbe stato  posto  in
essere dall'imputato attraverso la gestione in via di fatto di  dieci
societa'. Non si sarebbe considerato che l'imputato aveva  confessato
la gestione di solo cinque, societa' e che egli si era  sempre  mosso
nell'ambito delle direttive impartitegli dal padre e non aveva svolto
-  come  erroneamente  indicato  in  altra  parte  della  sentenza  -
attivita' di coordinamento nei confronti degli altri associati. 
    5.4. - Con un quarto motivo di doglianza, si lamenta la  mancanza
di motivazione quanto ai reati di cui ai capi H, H1, I, I1, L, L1, N,
N1, O, O1, R, R1  dell'imputazione,  perche'  la  Corte  territoriale
avrebbe erroneamente ritenuto  che  l'imputato  non  avesse  proposto
alcuna  impugnazione  e,  comunque,  non   avrebbe   fornito   alcuna
motivazione circa la responsabilita' penale. 
    5.5. - Si lamenta,  in  quinto  luogo,  sotto  il  profilo  della
manifesta illogicita' della motivazione che, in relazione ai capi  H,
H1, I, I1, J, J1, L, L1, P, P1, Q, Q1 - che non erano  stati  oggetto
di confessione da parte dell'imputato - la  Corte  d'appello  avrebbe
indebitamente esteso la  valenza  probatoria  della  confessione,  in
realta' limitata agli altri capi. 
6. - La sentenza e' stata impugnata anche nell'interesse  di  Magnone
Matteo Camillo, il quale  prospetta,  in  primo  luogo,  due  censure
analoghe a quelle sopra riportate sub 5.1. e 5.2., relativamente alla
capacita' del giudice e all'incompetenza territoriale. 
    6.1. - Si prospetta,  poi,  l'erronea  applicazione  del  secondo
comma dell'art. 416  codice  penale,  evidenziando  che  la  condotta
addebitata  all'imputato  e'  quella  di  partecipe  e  organizzatore
dell'associazione del padre Magnone Paolo, perche' egli  amministrava
di    fatto    due    societa',    coordinandone    l'attivita'    di
commercializzazione  fittizia.  Gli   unici   elementi   qualificanti
potrebbero al piu' ravvisarsi - secondo  la  difesa  -  nella  tenuta
della  contabilita',  nell'esecuzione   degli   ordini   del   padre,
nell'attivita' di segretariato, svolte dall'imputato e richiamate  ai
capi I e I1 dell'imputazione, in relazione all'attivita' della Boston
Plast,  «essendo  stata  invece  esclusa  l'efficacia  causale  della
condotta in relazione alla Star Chemical». Non  si  sarebbe  comunque
considerato, sul punto, che per conto della Boston Plast  operava  in
realta' un soggetto diverso da Magnone Matteo. 
    6.2. - Si lamenta, infine, la violazione degli articoli 81 e  133
codice penale, perche' i giudici di  merito  avrebbero  calcolato  la
pena in modo erroneo. Il Tribunale, partendo dalla pena base  di  tre
anni e sei mesi di reclusione per il reato piu' grave, di cui al capo
I dell'imputazione, ha ridotto la pena per le circostanze  attenuanti
generiche ad  anni  due  e  mesi  quattro  di  reclusione;  pena  poi
aumentata per la continuazione di due mesi per ogni  capo,  giungendo
alla pena finale di tre anni di reclusione anziche'  di  due  anni  e
dieci mesi di reclusione. La Corte d'appello ha ridotto la pena di un
mese, pur avendo dichiarato la prescrizione  con  riferimento  ad  un
periodo. Mancherebbe, piu' in generale, una  corretta  determinazione
dei momenti consumativi dei reati. 
7. - La sentenza e' stata impugnata anche nell'interesse  di  Magnone
Paolo. 
    7.1. - Si svolgono, in primo  luogo,  considerazioni  analoghe  a
quelle svolte dagli altri ricorrenti circa  l'erronea  individuazione
del giudice competente per territorio. 
    7.2.  -  In  secondo  luogo,  si  prospettano  la  mancanza,   la
contraddittorieta' e la manifesta illogicita'  della  motivazione  in
riferimento alla questione relativa alla inutilizzabilita' degli atti
di indagine compiuti dopo la scadenza del  termine  di  durata  delle
indagini preliminari. Si evidenzia, in particolare, che: 
      a) la  richiesta  di  proroga  del  termine  per  le  indagini,
avanzata tempestivamente dal  pubblico  ministero,  aveva  avuto  per
oggetto solo i reati fiscali e il reato di  truffa  e  non  anche  il
reato associativo; 
      b) per tale ultimo  reato,  il  termine  di  conclusione  delle
indagini doveva ritenersi spirato l'11 febbraio 2008, cosicche' tutti
gli atti di indagine  successivi  avrebbero  dovuto  essere  ritenuti
inutilizzabili; 
      c) l'ordinanza di proroga era stata emessa solo il  3  novembre
2010 e, dunque, dopo che,  all'udienza  preliminare  del  29  ottobre
2010, la difesa aveva sollevato la questione  relativa  alla  mancata
proroga delle indagini, eccependo la nullita' degli  atti  successivi
al termine naturale di loro conclusione; 
      d) anche a voler ritenere sussistente una proroga della  durata
delle indagini, vi sarebbero  ulteriori  atti  posti  in  essere  dal
pubblico   ministero   successivamente,   da   considerare   comunque
inutilizzabili. 
    7.3.  -  Si  lamentano,  in  terzo   luogo,   la   mancanza,   la
contraddittorieta',  la  manifesta  illogicita'  della   motivazione,
nonche' l'erronea applicazione della disposizione incriminatrice,  in
relazione  al  reato  associativo.   La   Corte   d'appello   avrebbe
individuato un disegno criminoso limitato alle sole frodi  fiscali  e
temporalmente circoscritto (dal  2004  al  2008),  individuando  tali
elementi quali segni sintomatici di un'associazione  per  delinquere,
in mancanza sia di una stabile organizzazione,  sia  dell'intento  di
compiere un numero indeterminato di violazioni.  In  particolare,  si
operava costituendo delle societa'  cartiere  con  amministratori  di
comodo, che smettevano di operare una  volta  raggiunto  l'obiettivo;
cosicche' non permaneva  alcun  rapporto  di  questi  con  gli  altri
concorrenti. Sarebbe, dunque, al piu' configurabile  un  concorso  di
persone nei singoli reati, anche in  presenza  di  sistemi  paralleli
creati autonomamente da alcuni dei coimputati, che contrastavano  con
gli interessi della presunta associazione. 
    7.4. - Con una quarta doglianza,  si  rilevano  la  mancanza,  la
contraddittorieta' e la manifesta illogicita'  della  motivazione  in
relazione ai reati-scopo.  Si  evidenzia  che  l'imputato  aveva  fin
dall'inizio confessato  di  essere  il  sostanziale  responsabile  di
alcune delle societa' cartiere, escludendo categoricamente  di  avere
rapporti con altre (Wall Plast,  Star  Chemical,  Elledi  Plast,  Web
Plast, Poliplast), delle quali aveva indicato gli amministratori.  La
Corte d'appello non avrebbe specificato  perche'  l'imputato  sarebbe
stato ritenuto attendibile quanto alle prime societa' e inattendibile
quanto alle seconde. In particolare: in relazione alla Wall Plast,  i
testimoni dell'accusa e l'amministratore Nobili avrebbero  confermato
l'estraneita' di  Magnone;  in  relazione  alla  Star  Chemical,  non
sarebbero state prese in considerazione  le  censure  dell`appellante
relative al fatto che quest'ultima  era  riconducibile  solo  a  tale
Fortuni; in relazione a Elledi Plast e  Web  Plast,  non  si  sarebbe
considerato che le stesse erano gestite da tale Dozio e non  facevano
parte, percio', del gruppo di Magnone; in relazione a  Poliplast,  vi
sarebbe una totale mancanza di motivazione nella sentenza  impugnata.
Del tutto  insufficiente  sarebbe,  comunque,  la  motivazione  della
sentenza con riferimento alle societa' per  le  quali  vi  era  stata
assunzione di responsabilita' da parte dell'imputato. In particolare,
quanto al capo H1, non vi sarebbe stato il superamento  della  soglia
di punibilita' con riferimento all'annualita' 2005. 
    7.5. -  Si  eccepisce,  in  quinto  luogo,  la  prescrizione  dei
reati-scopo, intervenuta fra l'aprile 2014 e il giugno 2015. 
    7.6. - Si prospetta, infine, una doglianza analoga  a  quella  di
altri ricorrenti (sub 2.1.,  5.1.,  6.),  relativamente  all'avvenuta
sottoscrizione della sentenza impugnata da  parte  di  un  magistrato
gia' cessato dall'ordine giudiziario. 
8.  -  Avverso  la  sentenza  ha  proposto  ricorso  per   cassazione
personalmente l'imputato Monza Rinaldo Paolo, il  quale  propone,  in
primo luogo, una censura analoga  a  quella  degli  altri  ricorrenti
quanto alla competenza territoriale. 
    8.1. - Con  un  secondo  motivo  di  doglianza,  si  rilevano  la
contraddittorieta', la  carenza  e  la  manifesta  illogicita'  della
motivazione quanto al reato di cui  all'art.  416  codice  penale  Si
sostiene, in particolare, che non vi  sarebbe  prova  di  un  accordo
volto alla commissione di piu' reati  indefiniti,  perche'  vi  erano
singole  specifiche  frodi  fiscali  che,  una  volta  commesse,  non
presupponevano l'esistenza di alcun successivo  ulteriore  accordo  e
facevano,  anzi,  venire  meno  ogni   precedente   vincolo   tra   i
concorrenti.  In  particolare,  l'imputato  Monza  non  aveva  alcuna
consapevolezza della partecipazione all'attuazione  di  un  programma
criminoso, ne'  dell'esistenza  di  altri  soggetti  partecipanti;  a
fronte di una mera serie di  reati  continuati  posti  in  essere  da
Magnone con il contributo di diversi soggetti. 
    8.2. - Si deduce, in terzo luogo, la manifesta illogicita'  della
sentenza con riferimento alla specifica posizione di Monza, il  quale
poteva essere ritenuto al piu' coinvolto nei rapporti commerciali tra
Axel, Biofuturo e CLP, della quale era solo  formale  amministratore,
perche' il ruolo gestionale effettivo era  invece  svolto  da  Latino
Luca, come confermato da Magnone Paolo. E Monza non avrebbe avuto, in
ogni  caso,  alcun  vantaggio,  perche'  le  fatture  di  CLP   erano
palesemente in perdita, essendo la stessa CLP  un  mero  schermo  che
serviva a Biofuturo. 
9.  -  La  sentenza   e'   stata   impugnata   anche   nell'interesse
dell'imputato   Nobili   Michael,   in   relazione    alla    mancata
considerazione dei motivi d'appello. In particolare, non  vi  sarebbe
la prova di rapporti duraturi fra Magnone e i soggetti che  fungevano
da prestanome per suo conto. Inoltre, la ditta Wall Plast di  cui  al
capo 02 dell'imputazione sarebbe stata creata da Nobili per staccarsi
da Magnone. In tale quadro, Giovannelli sarebbe stato  posto  a  capo
della societa' da Nobili, rimanendo estraneo a rapporti con  Magnone,
tanto da non essere imputato per il reato associativo fin dall'inizio
delle  indagini.  La  ditta  avrebbe  operato   regolarmente   e   la
dichiarazione Iva per il 2007 sarebbe stata omessa solo perche' erano
intervenuti i sequestri quando era ancora in corso l'anno fiscale. 
  10. - Ha proposto ricorso per cassazione  avverso  la  sentenza  il
difensore di Pavanati Leonardo. 
    10.1. - Con un primo  motivo  di  doglianza  si  ribadiscono  le,
censure gia' proposte avverso l'ordinanza del 14 ottobre 2011, con la
quale  il  Tribunale  aveva  consentito  l'ingresso  agli  atti   del
fascicolo dibattimentale degli accertamenti  eseguiti  dall'autorita'
giudiziaria di San Marino. Sul  punto,  la  Corte  d'appello  avrebbe
incentrato la sua decisione sulla ritenuta assenza di interesse della
parte privata a sollevare questione circa  il  mancato  rispetto  del
principio  della  «doppia  incriminazione»,  posto  esclusivamente  a
tutela dello Stato  destinatario  della  richiesta.  L'ordinanza  del
Tribunale sarebbe in contrasto con la giurisprudenza di  legittimita'
che esclude la possibilita' che  gli  stessi  fatti  storici  possano
integrare, in concorso con fattispecie tributarie, anche l'ipotesi di
truffa ai danni dello Stato, di cui all'art. 640, secondo  comma,  n.
1),  codice  penale.  L'autorita'  di  San  Marino   aveva   ritenuto
sussistente il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, mentre
il  Gup  aveva  prosciolto  gli  imputati  da  tale  reato  all'esito
dell'udienza preliminare;  cosicche'  sarebbe  mancato  il  requisito
della doppia punibilita'. 
    10.2. - In  secondo  luogo,  si  prospettano  la  mancanza  e  la
manifesta illogicita' della  motivazione  con  riferimento  al  reato
associativo, essendo al piu' configurabile un concorso di persone  in
una  pluralita'  di  reati,  fra  loro  legati  dal   vincolo   della
continuazione. Mancherebbero, in particolare, l'indeterminatezza  del
programma criminoso e la stabilita' del vincolo associativo. 
    10.3. - Con una terza censura, si deducono vizi della motivazione
in relazione alla specifica posizione che  l'imputato  avrebbe  avuto
nell'ambito  dell'associazione,  con  particolare  riferimento   alla
valenza dell'attivita' di cambio di assegni  effettuata  nel  2004  a
favore di Magnone tramite conti correnti bancari accesi a San Marino.
Si  tratterebbe  -  secondo  la   prospettazione   difensiva   -   di
un'attivita'  del  tutto  svincolata  da  un  contesto   associativo,
spiegabile sulla base dei rapporti tra due soli soggetti. Vi sarebbe,
nella motivazione della sentenza, un salto logico nella parte in  cui
la  stessa  valorizza  la  totale  inesistenza  di   reali   rapporti
commerciali fra Europlast, riconducibile a Pavanati,  e  le  societa'
riconducibili a Magnone Paolo, non essendo tale situazione di per se'
indice dell'esistenza di un sodalizio criminoso. 
    10.4. - In quarto  luogo,  si  lamentano  l'erronea  applicazione
dell'art. 62-bis codice penale e vizi della motivazione in  relazione
al diniego della concessione delle circostanze attenuanti  generiche,
motivato sulla base dei soli precedenti penali. 
11. - La sentenza e' stata  impugnata,  con  unico  atto,  anche  dal
difensore di Zanardelli Guido e Zanardelli Oliviero, il quale  svolge
una prima doglianza - analoga a quelle  svolte  da  altri  ricorrenti
(sub 2.1., 5.1., 6., 7.6.) - in relazione alla  sottoscrizione  della
sentenza da parte del presidente del collegio,  gia'  precedentemente
uscito dall'ordine giudiziario. 
    11.1. -  Una  seconda  doglianza  e'  riferita  all'eccezione  di
competenza territoriale  che  la  Corte  d'appello  avrebbe  ritenuto
preclusa in quanto non  dedotta,  prima  dello  scadere  del  termine
decadenziale, nel giudizio di primo grado. La difesa sostiene che  la
questione era stata proposta all'udienza preliminare e che era  stata
parzialmente accolta con riferimento ad alcuni  dei  reati-scopo  (in
particolare quelli di cui ai  capi  C  e  C1,  ritenuti  commessi  in
Brescia). Quanto al residuo capo A  dell'imputazione  (reato  di  cui
all'art. 416 codice penale),  la  relativa  questione  sarebbe  stata
riproposta nelle udienze dibattimentali successive  e  rigettata  dai
Tribunale con  ordinanza  del  7  ottobre  2011.  Non  sussisterebbe,
dunque,  alcuna  preclusione  sul  punto,  contrariamente  a   quanto
ritenuto dalla Corte d'appello. 
    11.2. - Con una terza doglianza, si prospetta la violazione degli
articoli 12 e 16 codice procedura penale, sempre con riferimento alla
competenza  territoriale.  La  difesa  svolge,  sul  punto,   censure
analoghe a quelle svolte da altri ricorrenti (sub 2.5.,  3.2.,  5.2.,
6.)  circa  l'insussistenza   di   concreti   elementi   a   sostegno
dell'individuazione del luogo di commissione del  reato  associativo.
Con particolare  riferimento  alla  posizione  degli  Zanardelli,  si
rileva che la competenza territoriale avrebbe dovuto essere  ritenuta
radicata in Brescia, luogo in cui sarebbero stati  commessi  i  reati
tributari, piu' gravi rispetto alla  partecipazione  all'associazione
per delinquere ricondotta  al  secondo  comma  dell'art.  416  codice
penale. 
    11.3. - In quarto  luogo,  si  lamentano  l'erronea  applicazione
dell'art. 416 codice penale e vizi  della  motivazione  in  relazione
alla responsabilita' degli imputati per il reato associativo. 
    Non  sarebbero  sufficienti,  a  tal  fine,  la  dimostrazione  e
l'analitica descrizione delle condotte di frode  fiscale  alle  quali
avrebbero partecipato gli Zanardelli (oggetto di separato giudizio di
fronte al Tribunale di Brescia), da cui potrebbe desumersi, al  piu',
un concorso in un reato continuato. Mancherebbe, in  ogni  caso,  una
puntuale descrizione della condotta, sia sotto il profilo  del  dolo,
sia sotto il profilo del contributo oggettivamente fornito. E non  si
sarebbe tenuto conto del fatto che  la  societa'  amministrata  dagli
imputati  Zanardelli  aveva  interesse  a  non  porre  in  essere  o,
comunque, a porre fine alle operazioni di  frode  carosello,  perche'
essa si vedeva sottrarre una quota di mercato, praticando prezzi  che
non godevano di alcun vantaggio fiscale. Nessuna prova a carico degli
imputati deriverebbe, poi, dalle  intercettazioni  telefoniche  nelle
quali Magnone Filippo semplicemente ammetteva di dovere dei  soldi  a
Zanardelli Oliviero. Ne' i due imputati erano - secondo la  difesa  -
effettivamente a conoscenza di chi fossero i destinatari delle merci,
i cui documenti di trasporto non erano da loro redatti, ma redatti su
incarico dei clienti, soggetti riconducibili a Bortoletto Igor,  come
confermato dal trasportatore Fabiano. L'altro  trasportatore  Roncari
aveva riferito, in relazione  ad  altri  trasporti,  che  i  relativi
documenti  venivano  redatti  su  incarico  dei  Magnone.  E  non  si
sarebbero considerate le  dichiarazioni  rese  dal  teste  Zanardelli
Ferruccio, magazziniere  della  societa'  nella  quale  gli  imputati
Zanardelli operavano, secondo cui egli scaricava e caricava i  camion
in arrivo, senza che fossero gli imputati a determinare il luogo e il
soggetto a cui materialmente veniva  consegnata  la  merce.  Analoghe
conclusioni  avrebbero  dovuto  essere   raggiunte   in   base   alle
testimonianze di Uberti e Campagna, nonche' delle versioni dei  fatti
rese dagli stessi imputati.  Sarebbe  stata,  invece,  scorrettamente
valorizzata la testimonianza di Salatti, il quale non  aveva  fornito
un'adeguata spiegazione su come conoscesse Zanardelli Guido ed  aveva
ammesso di avere gestito la ditta individuale Prisma.  Tale  soggetto
avrebbe dovuto essere considerato quale imputato di  reato  connesso,
mancando  riscontri  della  veridicita'  del  suo  narrato  e,  anzi,
essendovi rilevanti esitazioni e ambiguita'  nella  sua  deposizione.
Analoghe  considerazioni  varrebbero  -  secondo  la   prospettazione
difensiva - per la testimonianza di Spera Rita, legale rappresentante
della  Poliplast,   riconducibile   a   Magnone,   in   relazione   a
triangolazioni commerciali con altre ditte. 
    11.4. - Con un quinto motivo di doglianza, si deducono vizi della
motivazione nonche' la violazione degli articoli 132,  133  e  62-bis
codice penale, in  relazione  al  trattamento  sanzionatorio  e  alla
mancata concessione dei doppi benefici di legge. In particolare,  gli
Zanardeili sarebbero stati  sanzionati  piu'  gravemente  rispetto  a
coimputati che,  oltre  che  della  partecipazione  all'associazione,
rispondevano anche di tutti i reati-fine. Inoltre, il reato di cui al
primo comma dell'art. 416 codice penale, contestato a Magnone Paolo e
Magnone Filippo, sarebbe stato punito  meno  gravemente  rispetto  al
reato di cui all'art. 416, secondo comma, codice  penale,  contestato
agli Zanardelli. E  la  diminuzione  per  le  circostanze  attenuanti
generiche  sarebbe  stata  ingiustificatamente  computata  in  misura
inferiore al massimo. Non si sarebbero  considerati,  poi,  la  buona
condotta processuale di Zanardelli Guido, che era rientrato in Italia
non appena venuto a conoscenza del provvedimento cautelare emesso nei
suoi confronti, ne' il fatto che entrambi gli imputati avevano sempre
fornito la medesima versione  dei  fatti,  cosicche'  non  si  poteva
ritenere sussistente una mancanza di resipiscenza. 
    11.5. - In prossimita' dell'udienza davanti a  questa  Corte,  la
difesa ha proposto nuovi motivi di ricorso,  formulando  una  censura
analoga  a  quella  dei  ricorrenti  circa  la  sottoscrizione  della
sentenza da parte del presidente, gia' uscito dall'ordine giudiziario
(sub 2.1., 5.1., 6., 7.6., 11.),  e  deducendo  la  prescrizione  dei
reati, che si sarebbe verificata il 24 dicembre 2015. 
 
                       Considerato in diritto 
 
1. - La questione di legittimita' costituzionale. 
    E' rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento  agli
articoli 3, 11, 25, secondo comma,  27,  terzo  comma,  101,  secondo
comma, Cost., la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2
della legge 2 agosto  2008,  n.  130,  che  ordina  l'esecuzione  del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  Europea,  come  modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona  del  13  dicembre  2007  (TFUE),
nella parte in cui impone di applicare l'art. 325, §§ 1  e  2,  TFUE,
dal quale - nell'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia,  8
settembre 2015, causa C-105/14, Taricco - discende l'obbligo  per  il
giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160, terzo comma, e  161,
secondo comma, codice penale, in presenza delle circostanze  indicate
nella  sentenza  europea,  allorquando  ne  derivi   la   sistematica
impunita' delle gravi  frodi  in  materia  di  IVA,  anche  se  dalla
disapplicazione, e  dal  conseguente  prolungamento  del  termine  di
prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato. 
2. - La decisione della Corte di Giustizia. 
    La Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, con sentenza emessa l'8
settembre 2015 (causa C-105/14, Taricco), pronunziandosi  sul  rinvio
pregiudiziale proposto, ai sensi dell'art.  267  TFUE,  dal  Gip  del
Tribunale  di  Cuneo  con  ordinanza  del  17  gennaio  2014,  in  un
procedimento penale riguardante  reati  in  materia  di  imposta  sul
valore aggiunto (IVA) analoghi - come si vedra' -  a  quelli  oggetto
del presente procedimento, ed integranti  il  consueto  schema  della
c.d. «frode carosello», ha statuito che: «Una normativa nazionale  in
materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato
disposto  dell'art.  160,  ultimo  comma,  del  codice  penale,  come
modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e  dell'art.  161  di
tale codice - normativa che prevedeva, all'epoca dei fatti di cui  al
procedimento  principale,  che   l'atto   interruttivo   verificatosi
nell'ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia
di imposta sul  valore  aggiunto  comportasse  il  prolungamento  del
termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale -
e' idonea a pregiudicare  gli  obblighi  imposti  agli  Stati  membri
dall'art. 325, paragrafi 1  e  2,  TFUE  nell'ipotesi  in  cui  detta
normativa nazionale impedisca  di  infliggere  sanzioni  effettive  e
dissuasive in un numero considerevole di  casi  di  frode  grave  che
ledono  gli  interessi  finanziari  dell'Unione  europea,  o  in  cui
preveda, per i casi di frode  che  ledono  gli  interessi  finanziari
dello Stato membro interessato, termini di prescrizione  piu'  lunghi
di quelli previsti per i casi  di  frode  che  ledono  gli  interessi
finanziari dell'Unione europea, circostanze  che  spetta  al  giudice
nazionale verificare. Il giudice nazionale e'  tenuto  a  dare  piena
efficacia  all'art.  325,  paragrafi  1  e  2,  TFUE   disapplicando,
all'occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto  di
impedire allo Stato membro interessato  di  rispettare  gli  obblighi
impostigli dall'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE». 
    La Corte  di  Lussemburgo,  nel  solco  del  precedente  Fransson
(Grande  Sezione,  sentenza  del  26  febbraio  2013,  C-617/10),  ha
ribadito la propria giurisdizione sulla materia della sanzione  delle
frodi fiscali, attratta al  livello  sovranazionale  in  ragione  del
possibile impatto finanziario sul bilancio UE di un gettito ridotto a
causa dell'inadeguatezza di una disciplina nazionale (§ 38: «La Corte
ha  in  proposito  sottolineato  che,  poiche'  le  risorse   proprie
dell'Unione  comprendono  in  particolare,  ai  sensi  dell'art.   2,
paragrafo  1,  lettera  b),  della  decisione  2007/436,  le  entrate
provenienti dall'applicazione di un'aliquota uniforme agli imponibili
IVA armonizzati  determinati  secondo  regole  dell'Unione,  sussiste
quindi un nesso diretto  tra  la  riscossione  del  gettito  dell'IVA
nell'osservanza del diritto dell'Unione  applicabile  e  la  messa  a
disposizione del bilancio dell'Unione  delle  corrispondenti  risorse
IVA, dal momento che qualsiasi lacuna  nella  riscossione  del  primo
determina potenzialmente una riduzione delle seconde»). 
    Pur  sottolineando  la  liberta'   di   scelta   delle   sanzioni
applicabili spettante agli Stati membri,  che  «possono  assumere  la
forma di  sanzioni  amministrative,  di  sanzioni  penali  o  di  una
combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte
le entrate provenienti dall'IVA e tutelare in tal modo gli  interessi
finanziari  dell'Unione   conformemente   alle   disposizioni   della
direttiva 2006/112 e all'art. 325 TFUE», la  Corte  di  Giustizia  ha
affermato che «possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali
per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi  di
gravi frodi in materia di IVA» (§ 39), in quanto, l'art. 2,  par.  1,
della  Convenzione  PIF  (firmata  dagli  Stati  membri   dell'UE   a
Lussemburgo il 26 luglio 1995) prevede che «gli Stati  membri  devono
prendere le misure necessarie affinche' le condotte che integrano una
frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione  siano  passibili
di  sanzioni  penali  effettive,  proporzionate  e   dissuasive   che
comprendano, almeno nei casi di frode  grave,  pene  privative  della
liberta'» (§ 40). 
    Sui fondamento di tale base legale, la  Corte  ha  sostenuto  che
«gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave
siano  passibili  di  sanzioni  penali  dotate,  in  particolare,  di
carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure  prese  a  tale
riguardo devono essere le stesse che gli Stati  membri  adottano  per
combattere i casi di  frode  di  pari  gravita'  che  ledono  i  loro
interessi finanziari» (§ 43). 
    Alla stregua di tale principio, dunque, la Corte  ha  individuato
nel giudice nazionale il destinatario del compito di «verificare alla
luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti,  se  le
disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare  in  modo
effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi
finanziari dell'Unione» (§ 44). 
    Nel caso dell'ordinamento italiano, non essendo  stati  sollevati
dubbi sul carattere dissuasivo delle sanzioni penali, o  sul  termine
di prescrizione dei reati, bensi' sul prolungamento di' tale termine,
la Corte di Giustizia ha affermato che «Qualora il giudice  nazionale
dovesse concludere che dall'applicazione delle disposizioni nazionali
in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un  numero
considerevole  di  casi,  l'impunita'  penale  a  fronte   di   fatti
costitutivi di una  frode  grave,  perche'  tali  fatti  risulteranno
generalmente prescritti prima che la sanzione penale  prevista  dalla
legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva,  si
dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale  per
combattere contro la frode e le altre attivita' illegali  che  ledono
gli interessi finanziari dell'Unione non possono  essere  considerate
effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con  l'art.  325,
paragrafo 1, TFUE, con l'art. 2, paragrafo 1, della  Convenzione  PIF
nonche' con la direttiva 2006/112, in combinato disposto  con  l'art.
4, paragrafo 3, TUE» (§ 47). 
    Nondimeno, un secondo presupposto di «illegittimita' comunitaria»
viene individuato nella disparita' di trattamento sanzionatorio con i
casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari  della  Repubblica
italiana, e riscontrato nella differente disciplina  complessivamente
prevista per il delitto di associazione per delinquere finalizzata al
contrabbando  di  tabacchi  di  cui   all'art.   291-quater   decreto
legislativo n. 43 del 1973 (§  48:  «Inoltre,  il  giudice  nazionale
dovra' verificare se le disposizioni nazionali  di  cui  trattasi  si
applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai
casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari  della  Repubblica
italiana, come richiesto dall'art. 325, paragrafo 2, TFUE.  Cio'  non
avverrebbe, in particolare, se l'art. 161, secondo comma, del  codice
penale stabilisse termini di prescrizione piu' lunghi per  fatti,  di
natura e gravita' comparabili, che ledano  gli  interessi  finanziari
della Repubblica italiana. Orbene, come osservato  dalla  Commissione
europea nell'udienza dinanzi alla Corte, e con riserva di verifica da
parte del giudice nazionale, il diritto  nazionale  non  prevede,  in
particolare, alcun termine assoluto  di  prescrizione  per  quel  che
riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in
materia di accise sui prodotti del tabacco»). 
    La conseguenza che ne fa derivare la Corte di Giustizia, nel caso
di verifica dell'ineffettivita' sanzionatoria o della  disparita'  di
trattamento rispetto alle frodi  lesive  degli  interessi  finanziari
nazionali,  e'  l'obbligo  del  giudice  nazionale  di'  disapplicare
direttamente  le  disposizioni  in  materia  di  interruzione   della
prescrizione, senza la mediazione di una modifica legislativa o di un
sindacato di costituzionalita', in virtu'  dell'obbligo  degli  Stati
membri di lottare contro attivita' illecite  lesive  degli  interessi
finanziari  dell'Unione  imposti  dal   diritto   primario,   ed   in
particolare dall'art. 325, par. 1 e 2, TFUE (§ 50),  che  «pongono  a
carico degli Stati membri un  obbligo  di  risultato  preciso  e  non
accompagnato  da  alcuna  condizione  quanto  all'applicazione  della
regola in esse enunciata» (§ 51). 
    In forza del  principio  del  primato  dei  diritto  dell'Unione,
dunque, la Corte ha affermato l'effetto diretto dell'art.  325  TFUE,
che rende ipso iure inapplicabile qualsiasi disposizione contrastante
della legislazione nazionale esistente (§ 52). 
3. - Rilevanza della questione. 
    La questione di legittimita' che viene rimessa  al  sindacato  di
costituzionalita' ha rilevanza nel procedimento in corso,  in  quanto
la sentenza Taricco ha un valore generale e vincola non  soltanto  il
giudice a quo,  ma  anche  tutti  i  giudici  nazionali,  nonche'  la
pubblica amministrazione (ex multis, Corte  cost.,  sent.  13  luglio
2007,  n.  284:  «Le  statuizioni  della  Corte  di  Giustizia  delle
Comunita' europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente
applicabili cui ineriscono, operativita' immediata negli  ordinamenti
interni»; Corte cost., n. 389/1989; Corte cost., n. 113/1985). 
    La stessa Corte di Giustizia, nella sentenza Taricco, ha ribadito
Che «Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione  che  le
disposizioni nazionali di cui trattasi non  soddisfano  gli  obblighi
del diritto dell'Unione relativi al carattere effettivo e  dissuasivo
delle misure di lotta contro le frodi all'IVA, detto giudice  sarebbe
tenuto  a  garantire  la  piena  efficacia  del  diritto  dell'Unione
disapplicando, all'occorrenza,  tali  disposizioni  e  neutralizzando
quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della  presente  sentenza,
senza che debba chiedere o attendere la  previa  rimozione  di  dette
disposizioni  in  via  legislativa   o   mediante   qualsiasi   altro
procedimento costituzionale» (§ 49). 
    3.1. - Nei procedimento in oggetto ricorrono le condizioni  dalle
quali  la   Corte   di   Giustizia   fa   discendere   l'obbligo   di
disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160,  ultimo  comma,  e
161, secondo comma, codice penale. 
    In particolare:  ricorre  la  prima  ipotesi  di  «illegittimita'
comunitaria»,  per  ineffettivita'   della   complessiva   disciplina
sanzionatoria delle frodi; ricorre anche la disparita' di trattamento
sanzionatorio  con  i  casi  di  frode  lesiva  dei  soli   interessi
finanziari della Repubblica italiana,  riscontrata  nella  differente
disciplina complessivamente prevista per il delitto  di  associazione
per  delinquere  finalizzata  al  contrabbando  di  tabacchi  di  cui
all'art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973, in quanto  la
sentenza della Corte di Appello ha condannato alcuni  degli  imputati
odierni ricorrenti per l'imputazione di associazione  per  delinquere
finalizzata   alla   commissione   di   reati   fiscali    (capo    A
dell'imputazione). 
    In   particolare,   i   requisiti   integranti   l'illegittimita'
comunitaria   per   ineffettivita'   della   complessiva   disciplina
sanzionatoria delle frodi sono, come visto:  1)  la  pendenza  di  un
procedimento penale riguardante «frodi gravi» in materia  di  imposta
sul valore aggiunto; 2) l'ineffettivita' delle sanzioni previste  «in
un numero considerevole di  casi  di  frode  grave»  che  ledono  gli
interessi finanziari dell'Unione europea. 
    3.1.1.  -  Sotto  il  primo  profilo,  deve  rilevarsi   che   le
imputazioni e la stessa sentenza della  Corte  di  Appello  impugnata
evidenziano che  il  procedimento  penale  riguarda  frodi  gravi  in
materia di IVA,  suscettibili  di  ledere  gli  interessi  finanziari
dell'UE, avendo ad oggetto uno dei piu' diffusi sistemi di frode IVA,
nella prassi nota come «frode carosello»; termine con cui si  intende
comunemente un meccanismo fraudolento dell'Iva attuato mediante varie
cessioni di' beni, in genere provenienti ufficialmente  da  un  Paese
dell'Unione  europea,  al  termine  del  quale   l'impresa   italiana
acquirente detrae l'Iva,  nonostante  il  venditore  compiacente  non
l'abbia versata; a tal fine, in genere viene interposto un  soggetto,
c.d. «societa' filtro», nell'acquisto di beni tra il reale  venditore
ed  il  reale  acquirente;  quest'ultimo  risulta  formalmente   aver
acquistato il bene dalla «societa' filtro», che  emette  una  fattura
con Iva, ma omettendo di versarla, mentre l'acquirente  si  crea  una
corrispondente detrazione. 
    In particolare, dall'imputazione di  cui  al  capo  A  (art.  416
codice penale) e  dalla  sentenza  impugnata,  emerge  che  le  frodi
carosello  venivano  realizzate   mediante   falsa   fatturazione   e
violazione  dell'obbligo  fiscale  in  materia  di  IVA,   attraverso
l'interposizione  di  una  serie  di  societa'  che   consentiva   la
realizzazione  di  una  serie  di  indebiti  crediti  d'imposta   nei
confronti dell'amministrazione finanziaria  dello  Stato,  in  alcuni
casi anche con la  predisposizione  di  documentazione  di  trasporto
falsa, attestante la consegna di una merce in realta' mai consegnata,
e attraverso la dissimulazione delle restituzioni di  parte  dell'Iva
in conseguenza  delle  sovrafatturazioni  poste  in  essere.  E  tale
meccanismo trova compimento nelle condotte di violazione dell'art.  2
del decreto legislativo n. 74 del 2000, contestate ai capi H, H1,  I,
J1, L, N, O, P, Q, R, e consistenti  nell'emissione  di  fatture  per
operazioni  inesistenti  nei  confronti  delle  societa'  che  se  ne
avvalevano allo scopo di realizzare  un  apparente  credito  di  IVA.
Completano  il  quadro  le  imputazioni  relative   alla   violazione
dell'art. 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (capi H1, I1,  j2,
K1, L1, N1, O1, P1, Q1, R1), contestate per la mancata  presentazione
della dichiarazione Iva da parte delle societa' «cartiere». Si tratta
di un insieme di elementi sufficientemente chiaro ed univoco, perche'
dallo stesso emerge, nei  suoi  connotati  essenziali,  proprio  quel
meccanismo frodatorio cui la  richiamata  giurisprudenza  comunitaria
intende porre rimedio; di talche' non puo' assumere rilievo in  senso
contrario la circostanza che nel presente  procedimento  non  vi  sia
anche la contestazione dei corrispondenti reati ex art. 2 del decreto
legislativo n. 74 del 2000, relativi  alla  presentazione,  da  parte
delle societa' riceventi le fatture per operazioni inesistenti, delle
dichiarazioni dei redditi mediante l'uso di tali fatture. 
    3.1.2. - Tanto premesso, deve ritenersi innanzitutto  sussistente
il requisito, pur non determinato dalla  sentenza  Taricco  nei  suoi
esatti confini, della  gravita'  della  frode:  dalla  lettura  delle
numerose imputazioni e della sentenza della Corte di Appello,  emerge
infatti che  il  meccanismo  frodatorio  e'  stato  attuato  mediante
emissione di fatture per imponibili  molto  significativi  (in  molti
casi assai superiori al milione di euro  e,  a  volte,  superiori  ai
dieci milioni di euro per anno di imposta) e che l'omesso  versamento
IVA ha riguardato somme elevatissime (anche esse spesso superiori  al
milione di euro). E una frode che abbia determinato evasioni  fiscali
per milioni di euro appare senz'altro connotata dal  requisito  della
gravita'. 
    Va,  inoltre,  chiarito  che  nel  concetto  di  «frode»   grave,
suscettibile di ledere  gli  interessi  finanziari  dell'UE,  assunto
dalla Corte di Giustizia quale presupposto per la disapplicazione dei
termini massimi di prolungamento della prescrizione, devono ritenersi
incluse, nella  prospettiva  dell'ordinamento  penale  italiano,  non
soltanto le fattispecie che contengono il requisito della fraudolenza
nella descrizione della norma penale - come nel caso  degli  articoli
2, 3 e 11 del decreto legislativo n. 74 del 2000 - ma anche le  altre
fattispecie che, pur non  richiamando  espressamente  tale  connotato
della condotta, siano  dirette  all'evasione  dell'IVA.  Diversamente
opinando, si otterrebbe una irragionevole disparita'  di  trattamento
in relazione a condotte comunque poste in  essere  al  medesimo  fine
illecito,  ma,  altresi',  la  considerazione   che   proprio   nelle
operazioni fraudolente piu' complesse ed  articolate  (come  le  c.d.
frodi  carosello),  e  dunque  maggiormente  insidiose  per  il  bene
giuridico tutelato, le singole  condotte,  astrattamente  ascrivibili
alla tipicita' di fattispecie penali  prive  del  requisito  espresso
della fraudolenza - soprattutto a quelle di cui agli articoli  5,  8,
10-ter decreto legislativo n. 74/2000 -  rappresentano  la  modalita'
truffaldina dell'operazione;  sarebbe  intrinsecamente  irragionevole
disapplicare le norme viziate  da  «illegittimita'  comunitaria»,  in
relazione alle sole  fattispecie  connotate  dal  requisito  espresso
della  fraudolenza,  e  non   disapplicarle   nelle   fattispecie   -
strettamente connesse sotto il profilo  fattuale,  ed  indispensabili
per la configurazione del meccanismo frodatorio - non  connotate  dal
medesimo requisito. 
    Ma a corroborare tale principio  sovviene,  oltre  al  richiamato
profilo di irragionevolezza rilevante sotto il profilo  fattuale,  un
ben piu'  pregnante  argomento  interpretativo,  rappresentato  dalla
definizione di «frode» rilevante nell'ordinamento sovranazionale:  al
riguardo, gia' l'art. 325 TFUE, richiamato dalla Corte di Lussemburgo
quale   norma   di   diritto   primario   fondante    l'obbligo    di
disapplicazione, sancisce che «L'Unione e gli Stati membri combattono
contro la  frode  e  le  altre  attivita'  illegali  che  ledono  gli
interessi finanziari dell'Unione (...)»; se, dunque, l'art. 325  TFUE
rappresenta la base legale dell'obbligo  di  disapplicazione  sancito
dalla Corte di Giustizia, esso ha ad oggetto «la  frode  e  le  altre
attivita'  illegali».  E  del  resto,  la  Corte  di  Lussemburgo  ha
affermato il principio in discussione con riferimento ad  una  «frode
carosello» nella quale erano contestate, altresi', fattispecie penali
prive del requisito  espresso  della  fraudolenza  nella  descrizione
normativa. Inoltre, nella consapevolezza, che dovrebbe essere  comune
negli  ordinamenti  occidentali  di  civil  law,  che  il  linguaggio
normativo, soprattutto nel diritto  penale,  delimita  gli  spazi  di
liberta', e dunque e' essenziale nell'affermazione (e  nelle  diverse
declinazioni) del principio di legalita', non puo' omettersi  che  la
nozione di «frode»  e'  specificamente  definita  dall'art.  1  della
Convenzione PIF come  «qualsiasi  azione  od  omissione  intenzionale
relativa (...) all'utilizzo o alla presentazione di  dichiarazioni  o
documenti falsi, inesatti o incompleti cui  consegua  la  diminuzione
illegittima di risorse del  bilancio  generale  [dell'Unione]  o  dei
bilanci gestiti [dall'Unione] o per conto di ess[a]»; norma che viene
richiamata dalla stessa sentenza Taricco a proposito dell'irrilevanza
del fatto  che  l'IVA  non  venga  riscossa  direttamente  per  conto
dell'Unione (§ 41). 
    3.1.3. - Con riferimento al secondo requisito  individuato  dalla
Corte di Giustizia per rendere obbligatoria la disapplicazione  delle
norme  sul  prolungamento  del  termine  di  prescrizione,  ed   alla
verifica,   rimessa   al    giudice    nazionale,    di    apprezzare
l'ineffettivita' delle sanzioni previste «in un numero  considerevole
di  casi  di  frode  grave»  che  ledono  gli  interessi   finanziari
dell'Unione europea, va innanzitutto  evidenziata  l'indeterminatezza
del requisito, probabilmente piu' consono alle differenti  esperienze
ordinamentali di common law, che pure integrano, sovente  in  maniera
significativa, la matrice culturale e giuridica  della  giurisdizione
europea. 
    Al riguardo - premesso che tale requisito sara' oggetto  di  piu'
ampia  considerazione   nella   valutazione   della   non   manifesta
infondatezza della questione di costituzionalita' - va osservato che,
ove   si   considerasse   in   astratto,   ovvero   con   riferimento
all'integralita' dei procedimenti  pendenti  dinanzi  alle  autorita'
giudiziarie italiane,  esso  implicherebbe  una  prognosi  di  natura
statistica che esula dai limiti cognitivi e valutativi del giudice, e
anche di questa Corte; a cio'  ostando  -  come  anche  osservato  da
autorevole dottrina -  non  soltanto  l'assenza  di  dati  statistici
affidabili,  ma  soprattutto  l'orizzonte  conoscitivo  del   singolo
giudice, necessariamente limitato, dal vigente  sistema  processuale,
ai fatti di causa, ovvero i fatti che si riferiscono all'imputazione,
alla  punibilita'  e  dai  quali  dipenda  l'applicazione  di   norme
processuali (art. 187 codice procedura penale) rilevanti nel  singolo
processo, e non gia' nella generalita' degli altri processi.  Escluso
che possa altresi' risolversi in  una  prognosi  meramente  empirica,
fondata su  soggettivismi  di  difficile  verificabilita'  (in  senso
epistemologico), il requisito del «numero considerevole  di  casi  di
frode grave» non  puo'  che  intendersi,  ai  fini  del  giudizio  di
rilevanza della questione di costituzionalita' proposta, in concreto,
con riferimento alle fattispecie oggetto del singolo giudizio. 
    Ebbene, alla stregua di  tale  nozione,  deve  ritenersi  che  il
requisito ricorra in ragione del numero estremamente significativo di
operazioni fraudolente oggetto  di  contestazione,  poste  in  essere
tramite l'interposizione di numerose societa', reiterate nell'arco di
piu' anni (dal 2003 al 2008), con la creazione di  un'associazione  a
delinquere che vede il coinvolgimento di mezzi, uomini e strutture, e
che ha causato l'evasione dell'IVA per importi di milioni di euro. 
    3.1.4. - E, come  anticipato,  ricorre  anche  la  disparita'  di
trattamento sanzionatorio  con  i  casi  di  frode  lesiva  dei  soli
interessi finanziari della Repubblica italiana. Si procede,  infatti,
anche per l'imputazione di associazione  per  delinquere  finalizzata
alla  commissione  di  reati  fiscali  (capo   A   dell'imputazione);
fattispecie che, sotto il profilo della disciplina della durata della
prescrizione, presenta un «tetto  massimo»  (il  massimo  della  pena
edittale aumentato di un quarto), che  invece  non  e'  previsto  per
l'associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi
di cui all'art. 291-quater decreto legislativo n. 43 del 1973. 
    3.2. - La rilevanza  della  questione  proposta  deriva,  dunque,
dalla circostanza che alcuni dei numerosi  reati  contestati,  ove  i
termini di prescrizione fossero calcolati secondo  le  norme  di  cui
agli  articoli  160  e  161  codice  penale,  sarebbero  estinti  per
prescrizione. Al riguardo, essendo previste per i  reati  fiscali  di
cui agli articoli 5 e 8 del decreto legislativo n. 74 del  200,  pene
non superiori ai sei anni di  reclusione,  il  termine  ordinario  di
prescrizione e' pari a sei anni;  in  caso  di  atti  interruttivi  -
l'ultimo dei quali, nella specie,  Costituito  dalla  sentenza  della
Corte d'appello del 16 ottobre 2013 - la prescrizione massima e' pari
a sette anni e sei mesi. 
    Giova  aggiungere  che  il  comma  1-bis  dell'art.  17   decreto
legislativo n. 74 del 2000, che eleva i termini di  prescrizione  dei
reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo  decreto  di  un
terzo, e' stato introdotto dal decreto-legge 13 agosto 2011, n.  138,
convertito dalla legge 14 settembre 2011, n.  148,  norma  successiva
alla  commissione  dei  reati  contestati.  E  tale  disposizione  e'
inapplicabile alla fattispecie in esame,  per  la  stessa  previsione
della disciplina transitoria contenuta nell'art. 2,  comma  36-vicies
bis del decreto-legge citato, che stabilisce che «Le norme di cui  al
comma 36 - vicies semel si applicano ai fatti successivi alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». 
    Pertanto, prescindendo dai reati in ordine ai quali la  Corte  di
Appello  ha  gia'  dichiarato  l'estinzione   per   prescrizione,   e
considerando che dagli  atti  a  disposizione  di  questa  Corte  non
emergono cause di sospensione, sarebbe comunque maturata,  alla  data
odierna, la prescrizione dei reati  fiscali  commessi  prima  del  30
settembre 2008. 
    Quanto alle imputazioni oggetto  del  presente  procedimento,  va
evidenziato che il delitto di emissione  di  fatture  per  operazioni
inesistenti, previsto dall'art. 8 del decreto legislativo n.  74  del
2000, si perfeziona nel momento dell'emissione della singola  fattura
ovvero, ove si abbiano plurimi episodi nel corso del medesimo periodo
di imposta,  nel  momento  dell'emissione  dell'ultimo  di  essi  (ex
plurimis, Sez. 3, n. 6264 del 14 gennaio 2010, Ventura,  Rv.  246193;
Sez. 3, n. 10558 del 6 febbraio 2013, D'Ippoliti, Rv. 254759). Invece
il reato  di  omessa  dichiarazione  (art.  5  dello  stesso  decreto
legislativo) si consuma alla scadenza dei termini  di  legge  per  la
presentazione della dichiarazione (31 ottobre  2006,  per  l'anno  di
imposta 2005; 1°  ottobre  2007,  per  l'anno  di  imposta  2006;  30
settembre 2008, per l'anno di imposta 2007). 
    Pertanto, dovrebbero  considerarsi  estinti  per  prescrizione  i
reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8  del
decreto legislativo n. 74 del 2000) contestati ai capi: H, I (fatture
emesse negli anni 2006 e 2007); J1, O, R (limitatamente alle  fatture
emesse nell'anno 2007); L (fatture emesse nell'anno 2006);  N,  P,  Q
(fatture emesse nell'anno 2007). E sarebbero del  pari  prescritti  i
reati ex art. 5 del decreto legislativo n. 74 del  2000,  di  cui  ai
capi: H1, I1 (limitatamente agli anni di imposta  2005  e  2006);  J2
(limitatamente all'anno di imposta 2005); K1 (anno di imposta  2005);
L1 (anno di imposta 2006). 
    La  prescrizione,  dunque,  estinguerebbe  molte  delle  condotte
criminose oggetto di imputazione; e tale dato  integra  senz'altro  -
unitamente a quello rappresentato dalle numerose  condotte  (per  gli
anni di imposta precedenti al  2005)  per  le  quali  e'  stata  gia'
dichiarata la prescrizione  in  grado  d'appello  e  all'unicita'  di
disegno criminoso con il reato associativo - il «numero considerevole
di casi di frode grave»  che  resterebbero  impuniti  in  conseguenza
della disciplina sul prolungamento, non oltre un quarto, del  termine
di prescrizione. 
    3.3. - La concreta rilevanza della  questione  non  e',  in  ogni
caso, esclusa dalla circostanza che la prescrizione per i reati sopra
elencati sarebbe decorsa prima della  pubblicazione  della  decisione
della Corte di Giustizia Taricco, dell'8 settembre 2015;  ovvero,  al
piu' tardi: il 30 giugno 2015, per i reati di  emissione  di  fatture
per operazioni  inesistenti  (considerando,  quale  data  dell'ultima
fattura emessa nel 2007, il 31 dicembre di quell'anno); il 1°  aprile
2015, con riferimento alle omesse dichiarazioni per l'anno  d'imposta
2006. 
    3.3.1 - Questo collegio e' consapevole del fatto che,  in  ordine
alla efficacia  dell'obbligo  di  disapplicazione,  si  registra  una
divergenza interpretativa:  la  sentenza  Sez.  3,  n.  2210  del  15
settembre 2015, Pennacchini, Rv. 266121, ha disapplicato gli articoli
160 e 161 codice penale nei confronti  di  imputati  per  i  quali  i
termini di prescrizione erano  gia'  scaduti  prima  della  decisione
della Corte di Giustizia dell'8 settembre 2015, sul  rilievo  che  la
sentenza   Taricco   fosse   meramente   dichiarativa   del   diritto
dell'Unione; anche l'ordinanza n.  339  del  18  settembre  2015  (in
Gazzetta Ufficiale n. 2 del 13 gennaio 2016) con la quale la Corte di
Appello di Milano ha  sollevato  questione  di  costituzionalita'  ha
promosso il giudizio incidentale sul presupposto che  quasi  tutti  i
reati in contestazione fossero gia' estinti per prescrizione (§ 4 del
Ritenuto in fatto), e dunque, in considerazione del brevissimo  lasso
di tempo (dieci giorni) dalla pubblicazione della  sentenza  Taricco,
prima  dell'8  settembre  2015.  Al  contrario,  nel  solco  di   una
autorevole  dottrina,  e  riprendendo  le  conclusioni  dell'Avvocato
Generale nella causa Taricco dinanzi alla Corte di Giustizia, la Sez.
4 di questa Corte ha ritenuto che i principi affermati  dalla  stessa
sentenza Taricco, in  ordine  alla  possibilita'  di  disapplicazione
della disciplina della prescrizione prevista dagli articoli 160 e 161
codice penale se ritenuta idonea a pregiudicare gli obblighi  imposti
a tutela degli  interessi  finanziari  dell'Unione  europea,  non  si
applicano ai fatti gia' prescritti alla data di pubblicazione di tale
pronuncia (8 settembre 2015), in tal senso reputando non rilevante la
questione di costituzionalita' sollecitata (Sez. 4, n.  7914  del  25
gennaio 2016, Tormenti, Rv. 266078). 
    Prende atto dell'esistenza di tali due  orientamenti  l'ordinanza
di promovimento di questione di legittimita' costituzionale emessa da
altro collegio di questa stessa sezione della Corte di cassazione, in
data 30 marzo 2016, in un giudizio  che  ha  per  oggetto  reati  che
sarebbero prescritti - secondo il regime degli  articoli  160  e  161
codice penale - per la maggior parte, dopo l'8 settembre 2015. E tale
ordinanza non prende posizione sulla maggiore persuasivita'  dell'uno
o dell'altro di tali orientamenti,  ai  fini  della  rilevanza  della
questione di legittimita' proposta, proprio  perche',  anche  qualora
dovesse  ritenersi  maggiormente  persuasiva  la   tesi   della   non
applicabilita' del dictum della Corte di Giustizia  ai  fatti  per  i
quali la prescrizione era gia' maturata prima della  sentenza  dell'8
settembre   2015,   i   reati   contestati   in   tale   procedimento
risulterebbero prescritti, per la maggior  parte,  successivamente  a
tale data. 
    3.3.2. - Il caso qui in esame ha invece per oggetto, come  visto,
reati la cui prescrizione sarebbe maturata -  secondo  il  regime  di
diritto interno - prima dell'8 settembre 2015, con la conseguenza che
la questione di  legittimita'  costituzionale  che  si  propone  puo'
essere ritenuta rilevante, a  condizione  di  richiamare  e  ribadire
l'orientamento interpretativo fatto  proprio  dalla  sentenza  Cass.,
sez. 3, n. 2210  del  2015,  secondo  cui  la  disapplicazione  degli
articoli 160 e  161  codice  penale  opera  anche  nei  confronti  di
imputati per i quali i termini di  prescrizione  erano  gia'  scaduti
prima della decisione della Corte di Giustizia dell'8 settembre 2015,
sul rilievo che la sentenza  Taricco  e'  da  considerarsi  meramente
dichiarativa del diritto dell'Unione. 
    E  ad  avviso  di  questo  collegio  non   vi   e'   spazio   per
interpretazioni diverse. Come ben evidenziato nella sentenza sez.  3,
n. 2210 del 2015, nel caso Taricco, la Corte  di  Lussemburgo  si  e'
limitata ad interpretare una norma (oggi trasfusa  nell'attuale  art.
325 TFUE) gia' da tempo esistente nel diritto  primario  dell'Unione,
che ha soltanto topograficamente mutato  numerazione  e  collocazione
con il passaggio dal trattato di Maastricht a quello di  Amsterdam  e
poi a quello di Lisbona. Una norma che, imponendo sin dal  1993  agli
Stati  membri  un  obbligo  di  tutela  effettiva   degli   interessi
finanziari dell'Unione e, in ogni caso, di una tutela  equivalente  a
quella apprestata ai corrispondenti interessi  finanziari  nazionali,
era gia'  pienamente  applicabile  al  momento  in  cui  erano  stati
commessi i fatti da parte degli imputati anche nel caso qui in esame.
Gli imputati non possono dunque dolersi  ora  di  un'applicazione,  a
proprio sfavore, di una norma gia' pienamente in  vigore  al  momento
del fatto, e dalla quale gia' discendeva l'inapplicabilita' nei  loro
confronti della disciplina di cui agli articoli 160, ultima parte,  e
161 codice penale. E  non  appare  persuasivo,  in  senso  contrario,
l'argomento - espresso da una parte della dottrina - secondo  cui  la
sentenza della Corte di giustizia, nello  stabilire  come  una  norma
gia' esistente nel sistema del diritto UE debba essere  interpretata,
avrebbe natura solo formalmente dichiarativa. Tale argomento si  basa
essenzialmente sul duplice assunto che: 
      a) l'imputato non poteva prevedere, al momento dei  fatti,  che
la disciplina prevista dal  codice  penale  italiano  in  materia  di
prescrizione sarebbe stata dichiarata dalla Corte di  giustizia,  nel
2015, contraria all'art. 325 TFUE, o alle disposizioni  dei  trattati
di' Maastricht e di Lisbona che ne costituiscono gli antecedenti; 
      b) le condizioni per la disapplicazione della normativa interna
sulla prescrizione («gravita' della frode», «numero considerevole  di
casi«, «disparita' di trattamento con le frodi che  ledono  interessi
finanziari interni») sono state delineate solo dalla pronuncia  della
Corte di giustizia e non erano  precedentemente  prevedibili  in  via
interpretativa. Si tratta di un assunto che non appare condivisibile,
perche' prende le mosse da un mero inconveniente di fatto, costituito
dalla  difficile  prevedibilita'  dell'esito   interpretativo   fatto
proprio dalla Corte dell'Unione, e pone, quale  ulteriore  condizione
per la disapplicazione della normativa interna, la circostanza che il
termine di prescrizione del reato scada dopo l'8 settembre  2015.  Si
tratta di una circostanza non richiamata dalla stessa Corte, la quale
non ha inteso limitare nel tempo - come invece avvenuto in altri casi
con esplicite statuizioni - gli effetti della propria  pronuncia.  Ed
e' del resto coerente con i principi di riferimento richiamati  dalla
sentenza  Taricco  la  conclusione  che  la  tutela  dell'affidamento
dell'imputato nel decorso della prescrizione sia da ritenere in  ogni
caso  recessiva   rispetto   al   superiore   interesse   finanziario
dell'Unione,   trattandosi   essenzialmente   di    un    affidamento
immeritevole, perche' avente ad oggetto l'incapacita' dello Stato  di
perseguire  e  punire  tempestivamente  il  reato.  Questo   collegio
ritiene,  dunque,  che  non  vi   sia   spazio   per   la   contraria
interpretazione - costituzionalmente conforme quanto  ai  reati  gia'
prescritti alla data dell'8 settembre 2015 - secondo cui la  sentenza
Taricco trova applicazione  solo  per  i  reati  il  cui  termine  di
prescrizione  viene  a  scadere  dopo  tale  data,   trattandosi   di
un'interpretazione  che  non  si  presta  in  alcun  modo  ad  essere
conciliata con la lettera e la ratio di tale sentenza. 
    3.4. - Al fine di fugare ogni ulteriore dubbio circa la rilevanza
della questione di legittimita' costituzionale che qui si propone, e'
necessario richiamare i principi  espressi  dalla  giurisprudenza  di
legittimita' in relazione alla prescrizione del reato nel giudizio di
cassazione, allo scopo di evidenziare che, sulla base  degli  atti  e
dei motivi proposti, non emergono  profili  pregiudiziali  dirimenti;
con  la  conseguenza  che  sarebbe  comunque  necessario  pronunciare
l'annullamento senza rinvio della sentenza della Corte d'appello, per
essere i reati sopra elencati estinti per prescrizione. 
    3.4.1. - Come chiarito dalla giurisprudenza di questa  Corte,  la
prescrizione del reato - come  l'esistenza  di  altre  cause  di  non
punibilita' - deve essere  dichiarata  a  meno  che  non  vi  sia  il
presupposto  per  l'applicazione  dell'art.  129,  comma  2,   codice
procedura penale e' costituito dall'evidenza, emergente dagli atti di
causa, che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha  commesso
o che il fatto non costituisce reato, o non e' previsto  dalla  legge
come reato. Solo in tali casi, infatti, la formula di proscioglimento
nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato  ed  e'  fatto
obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti
per l'immediato proscioglimento devono, pero', risultare  dagli  atti
in modo incontrovertibile tanto da non  richiedere  alcuna  ulteriore
dimostrazione in  considerazione  della  chiarezza  della  situazione
processuale. E'  necessario,  quindi,  che  la  prova  dell'innocenza
dell'imputato emerga positivamente dagli atti stessi, senza ulteriori
accertamenti, dovendo il giudice procedere non ad un «apprezzamento»,
ma ad una mera «constatazione». E l'obbligo di immediata declaratoria
delle cause di non punibilita' vale anche in  sede  di  legittimita',
tanto da  escludere  che  il  vizio  di  motivazione  della  sentenza
impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre al  suo  annullamento
con rinvio, possa essere rilevato dalla Corte di cassazione  che,  in
questi casi, deve invece dichiarare l'estinzione dei reato.  In  caso
di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si  troverebbe  nella
medesima  situazione,  che  gli   impone   l'obbligo   dell'immediata
declaratoria della causa di estinzione del reato. E  cio',  anche  in
presenza di una nullita' di ordine generale  che,  dunque,  non  puo'
essere rilevata nel giudizio di legittimita',  essendo  l'inevitabile
rinvio  ai  giudice  del  merito  incompatibile  con   il   principio
dell'immediata applicabilita' della  causa  estintiva  (ex  plurimis,
sez. 6, 1° dicembre 2011, n. 5438;  sez.  un.,  28  maggio  2009,  n.
35490, rv. 244275; sez. un., 27 febbraio 2002, n. 17179, rv.  221403;
sez. un. 28 novembre 2001, n. 1021, rv. 220511). 
    Altro principio costantemente affermato da questa Corte e' che la
possibilita' di rilevare e dichiarare le cause di non  punibilita'  a
norma  dell'art.  129  codice  procedura  penale,  ivi  compresa   la
prescrizione,  e'  preclusa  dall'inammissibilita'  del  ricorso  per
cassazione,  anche  dovuta  alla   genericita'   o   alla   manifesta
infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi  di  un  valido
rapporto di impugnazione (ex multis,  sez.  3,  8  ottobre  2009,  n.
42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo  2005,  n.
4). 
    3.4.2. - I presupposti per l'applicazione dell'art. 129, comma 2,
codice  procedura  penale,  come  appena  delineati,  non  sussistono
certamente nel caso di specie, con riferimento agli atti di  causa  e
al contenuto della sentenza impugnata. 
    Infatti, i motivi di ricorso relativi alla responsabilita' penale
sono tali che il  loro  eventuale  accoglimento  renderebbe  comunque
necessario un rinvio al giudice del merito;  rinvio  incompatibile  -
come  appena   visto   -   con   l'immediata   applicabilita'   della
prescrizione. 
    Essi attengono, infatti, sostanzialmente alla  motivazione  della
sentenza impugnata circa la sussistenza degli elementi  soggettivi  e
oggettivi  dei  reati  contestati,   anche   con   riferimento   alla
valutazione e all'utilizzabilita' delle prove (motivi sopra riportati
sub 2.6., 2.7., 2.8., 2.9., 2.10., 2.11.,  2.12.,  2.13.,  3.3.,  4.,
5.3., 5.4., 5.5., 6.1., 7.2., 7.3.,  7.4.,  8.1.,  8.2.,  9.,  10.1.,
10.2., 10.3., 11.3.). Analoghe considerazioni valgono per le  censure
che attengono alla regolarita' della sottoscrizione della sentenza da
parte del presidente del  collegio,  uscito  dall'ordine  giudiziario
(motivi sopra riportati sub 2.1., 2.2., 2.3., 5.1.,  6.,  7,6.,  11.,
11.5.), al tempo trascorso tra  la  pronuncia  della  sentenza  e  il
deposito della motivazione (sub  2.4.)  a  vizi  della  notificazione
dell'estratto   contumaciale   della   sentenza   (sub    3.1.),    o
all'incompetenza territoriale (sub 2.5., 3.2., 5.2.,  6.,  7.1.,  8.,
11.1., 11.2.). 
    Ininfluenti, perche' non riferibili neanche  indirettamente  alla
responsabilita' penale - e, dunque, all'ambito  di  applicazione  del
richiamato  art.  129  -  sono,  infine,  le  censure   relative   al
trattamento sanzionatorio e a alle  circostanze  (sub  2.14.,  2.15.,
6.2., 10.4., 11.4), nonche' alla prescrizione (sub 2.16., 11.5.). 
    E  ad  un  primo  esame,  condotto  allo  specifico  fine   della
valutazione  della  rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale, i motivi di ricorso risultano, almeno in  parte,  non
inammissibili; cosicche', quanto meno in relazione alle posizioni  di
alcuni dei ricorrenti,  il  rapporto  processuale  si  deve  ritenere
validamente formato ed impone a questa Corte l'eventuale declaratoria
della prescrizione. 
4. - Non manifesta infondatezza della questione. 
    Ricorrendo le condizioni indicate dalla Corte  di  Giustizia  che
fondano l'obbligo, per il giudice nazionale, di disapplicare le norme
interne di cui agli articoli 160, ult. comma, e 161, comma 2,  codice
penale, questa Corte dubita della compatibilita' di tale obbligo  con
una serie di  fondamentali  principi  costituzionali.  Si  sono  gia'
evidenziate  sub   3.3.2.   le   ragioni   dell'impraticabilita'   di
un'interpretazione costituzionalmente conforme dei principi enunciati
dalla sentenza Taricco. Ne'  l'oggettiva  incertezza  di  alcuni  dei
requisiti  enunciati  da  tale  sentenza  -  quali  la  «frode»,   la
«gravita'» della frode, e la ricorrenza del «numero considerevole  di
casi» - puo' far propendere per l'alternativa - pur sostenuta da  una
parte della dottrina - della pratica inapplicabilita' dell'obbligo di
disapplicazione   per   indeterminatezza   dei   presupposti.    Tale
alternativa non e' infatti oggettivamente  praticabile,  sia  per  la
vigenza  di  un  obbligo   di   fedelta'   «comunitaria»,   sia   per
l'applicazione gia' operata anche da questa Corte (Sez.  3,  n.  2210
del  15  settembre  2015,  Pennacchini,  Rv.  266121).  Deve   dunque
svolgersi una serie di analitiche considerazioni  -  in  larga  parte
analoghe  a  quelle  gia'  svolte  da  questa  stessa   sezione   con
l'ordinanza  pronunciata  il  30  marzo  2016  -  circa  la   portata
innovativa della  sentenza  Taricco  e  circa  l'interpretazione  dei
parametri costituzionali di riferimento. 
    4.1. - La dottrina dei controlimiti. 
    Secondo   quanto   ripetutamente   riconosciuto    dalla    Corte
costituzionale, «la Costituzione italiana  contiene  alcuni  principi
supremi che non possono  essere  sovvertiti  o  modificati  nel  loro
contenuto essenziale neppure da leggi di revisione  costituzionale  o
da altre leggi costituzionali. Tali sono  tanto  i  principi  che  la
stessa Costituzione esplicitamente prevede come  limiti  assoluti  al
potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art.
139 Cost.), quanto i principi  che,  pur  non  essendo  espressamente
menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione
costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali
si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto,  ha  gia'
riconosciuto  in  numerose  decisioni   come   i   principi   supremi
dell'ordinamento  costituzionale  abbiano   una   valenza   superiore
rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando
ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono
della particolare «copertura  costituzionale»  fornita  dall'art.  7,
comma secondo, Cost., non si sottraggono all'accertamento della  loro
conformita' ai «principi supremi dell'ordinamento costituzionale» (v.
sentenze nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del  1977,  18
del 1982), sia quando ha affermato che la  legge  di  esecuzione  del
Trattato della CEE puo' essere assoggettata al  sindacato  di  questa
Corte «in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale e ai diritti inalienabili  della  persona  umana»  (v.
sentenze nn. 183 del 1973, 170 del 1984)» (Corte cost., n.  1146  del
29 dicembre 1988, § 2.1.). 
    In  particolare,  nei  rapporti  tra  ordinamento   nazionale   e
ordinamento  (all'epoca)  comunitario,  la  Corte  costituzionale  ha
riconosciuto la prevalenza del diritto sovranazionale  nelle  materie
(in passato molto piu' circoscritte) di  competenza  dell'Unione,  in
ragione delle limitazioni di sovranita'  cui  lo  Stato  italiano  ha
consentito  sulla  base  dell'art.  11  Cost.;   nondimeno,   proprio
nell'ambito di tali rapporti, e' stata sovente ribadita la  «garanzia
del  sindacato  giurisdizionale  di  questa  Corte  sulla  perdurante
compatibilita' del Trattato con  i  predetti  principi  fondamentali»
dell'ordinamento costituzionale o con i «diritti  inalienabili  della
persona umana» (Corte cost., n. 183 del 27 dicembre 1973, § 9); anche
nella sentenza n.  170  del  8  giugno  1984  e'  stata  ribadita  la
possibilita' che «la legge di esecuzione  del  Trattato  possa  andar
soggetta al suo sindacato, in riferimento  ai  principi  fondamentali
del nostro ordinamento costituzionale e al diritti inalienabili della
persona  umana»,  quanto   alle   disposizioni   che   «si   assumano
costituzionalmente illegittime (...) in relazione  al  sistema  o  al
nucleo essenziale dei suoi principi» (§ 7). 
    La dottrina dei «controlimiti», elaborata come argine rispetto ad
eventuali violazioni dei principi fondamentali della  Costituzione  e
dei diritti  inviolabili  da  parte  delle  fonti  degli  ordinamenti
sovranazionale e internazionale, del diritto  concordatario  e  delle
stesse leggi costituzionali e di revisione,  e'  stata  concretamente
'azionata' con riferimento al principio - ritenuto, appunto,  supremo
- del diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost.,
nei rapporti con il diritto concordatario (Corte cost., n. 18  del  2
febbraio  1982,  §  5),  e,  piu'  di  recente,  nel   rapporto   con
l'ordinamento internazionale, a proposito della norma consuetudinaria
internazionale sull'immunita' degli  Stati  dalla  giurisdizione  per
atti jure imperii (Corte cost., n. 238 del 22 ottobre 2014). 
    In particolare questa seconda sentenza ha evidenziato, sula  scia
della dottrina, l'oggettivita' del «limite» (non  rimovibile  neppure
da chi lo oppone),  a  differenza  della  declinazione  soggettiva  e
relativa   insita   nell'originaria   formula,   elaborata   da   pur
autorevolissima dottrina  costituzionale,  delle  «controlimitazioni»
alle  limitazioni  di  sovranita';  la  sentenza  n.  238  del  2014,
nell'individuare  i  «controlimiti»  nei  «principi  qualificanti   e
irrinunciabili dell'assetto  costituzionale  dello  Stato  (...)  che
sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali della persona» (§
3.1.), ha ribadito efficacemente la natura dei «principi supremi»  ed
il sindacato di costituzionalita' ad essa riservato in caso  di  loro
compressione: «Non v'e' dubbio, infatti, ed  e'  stato  confermato  a
piu'  riprese  da  questa  Corte,   che   i   principi   fondamentali
dell'ordinamento  costituzionale  e  i  diritti  inalienabili   della
persona costituiscano  un  «limite  all'ingresso  [...]  delle  norme
internazionali generalmente  riconosciute  alle  quali  l'ordinamento
giuridico italiano si conforma secondo l'art. 10, primo  comma  della
della Costituzione» (sentenze n. 48 del 1979 e n.  73  del  2001)  ed
operino quali «controlimiti»  all'ingresso  delle  norme  dell'Unione
europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del  1984,  n.
232 del 1989, n. 168 del 1991, n.  284  del  2007),  oltre  che  come
limiti all'ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e
del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31  e  n.  30  del
1971).  Essi  rappresentano,   in   altri   termini,   gli   elementi
identificativi ed irrinunciabili dell'ordinamento costituzionale, per
cio' stesso sottratti anche alla revisione  costituzionale  (articoli
138 e 139 Cost.: cosi' nella  sentenza  n.  1146  del  1988).  In  un
sistema accentrato di controllo di costituzionalita', e' pacifico che
questa  verifica   di   compatibilita'   spetta   alla   sola   Corte
costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice,  anche  in
riferimento alle norme consuetudinarie internazionali. (...) Anche di
recente,  poi,  questa  Corte  ha  ribadito  che   la   verifica   di
compatibilita'   con    i    principi    fondamentali    dell'assetto
costituzionale e di tutela dei diritti  umani  e'  di  sua  esclusiva
competenza (sentenza n. 284 del 2007); ed  ancora,  precisamente  con
riguardo al diritto di accesso alla giustizia (art. 24 Cost.), che il
rispetto  dei  diritti  fondamentali,  cosi'  come  l'attuazione   di
principi inderogabili,  e'  assicurato  dalla  funzione  di  garanzia
assegnata alla Corte costituzionale (sentenza n. 120  del  2014)»  (§
3.2.). 
    Sulla base di tali rilievi vanno, dunque, articolati i  dubbi  di
costituzionalita' che l'obbligo di disapplicazione  delle  norme  sul
prolungamento dei termini di prescrizione solleva con  riferimento  a
plurimi parametri costituzionali,  ritenuti  coessenziali  al  nucleo
dell'identita' costituzionale dell'ordinamento nazionale. 
    Infatti, oltre al  profilo  del  principio  dell'irretroattivita'
della legge penale, sul quale  si  sono  soffermate  la  gia'  citata
ordinanza della Corte di Appello di Milano, nonche' le prime pronunce
di legittimita', e la dottrina, a parere di questa  Corte  la  dubbia
costituzionalita' dell'obbligo di disapplicazione deriva  in  maniera
significativa dal principio  di  riserva  di  legge,  e  dagli  altri
principi fondamentali (articoli 3, 11, 27, comma  2,  101,  comma  2,
Cost.)  invocati  quali  parametri  di  costituzionalita',   talmente
avvinti al  «nucleo  essenziale»  della  legalita'  da  dover  essere
assunti in una considerazione sistematica e complessiva. 
    4.2. - Il principio di irretroattivita' della legge penale  (art.
25, secondo comma, Cost.). 
    La disapplicazione delle norme di cui  agli  articoli  160,  ult.
comma, e 161, comma 2, codice penale,  imposta  dall'art.  325  TFUE,
nell'interpretazione   attribuita   dalla   Corte    di    Giustizia,
determinerebbe la retroattivita'  in  malam  partem  della  normativa
nazionale risultante: l'effetto sarebbe, infatti, quello di allungare
i tempi della prescrizione anche in relazione a fatti commessi  prima
della sentenza Taricco. 
    Al riguardo, la Corte di  Giustizia  ha  affrontato  il  problema
della potenziale violazione del principio  di  legalita'  in  materia
penale, giungendo ad una conclusione negativa. 
    Adottando quale parametro di riferimento l'art.  49  della  Carta
dei diritti fondamentali dell'Unione (CDFUE) - secondo  cui  «Nessuno
puo' essere condannato per un'azione o un'omissione che,  al  momento
in cui e' stata commessa, non costituiva  reato  secondo  il  diritto
interno o il  diritto  internazionale.  Parimenti,  non  puo'  essere
inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in  cui
il reato e' stato commesso. Se, successivamente alla commissione  del
reato, la legge  prevede  l'applicazione  di  una  pena  piu'  lieve,
occorre applicare quest'ultima» - che, in forza del  successivo  art.
52 CDFUE, recepisce il principio del  nullum  crimen  nell'estensione
riconosciutagli  dalla  giurisprudenza  della  Corte  di   Strasburgo
formatasi sulla corrispondente previsione dell'art. 7 CEDU, la  Corte
di Lussemburgo ha affermato che la  materia  della  prescrizione  del
reato  concerne  il   profilo   processuale   delle   condizioni   di
procedibilita' del reato, e dunque non e' coperta dalla garanzia  del
nullum crimen;  in  tal  senso,  infatti,  anche  l'applicazione  del
termine  di  prescrizione  a  fatti  gia'  commessi,  ma  non  ancora
giudicati in via definitiva, deve ritenersi compatibile con l'art.  7
CEDU, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un
«fatto» o con una «pena» non previsti dalla legge  al  momento  della
sua commissione. 
    La sentenza Taricco espressamente  afferma:  «la  disapplicazione
delle disposizioni nazionali di cui  trattasi  avrebbe  soltanto  per
effetto  di  non  abbreviare  il  termine  di  prescrizione  generale
nell'ambito di un procedimento  penale  pendente,  di  consentire  un
effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonche' di  assicurare,
all'occorrenza, la parita' di trattamento tra  le  sanzioni  volte  a
tutelare, rispettivamente, gli  interessi  finanziari  dell'Unione  e
quelli della Repubblica italiana.  Una  disapplicazione  del  diritto
nazionale siffatta non violerebbe i  diritti  degli  imputati,  quali
garantiti dall'art. 49 della Carta» (§ 55); di conseguenza,  «non  ne
deriverebbe affatto una  condanna  degli  imputati  per  un'azione  o
un'omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva
un reato punito dal diritto nazionale  (v.,  per  analogia,  sentenza
Niselli, C.457/02, EU:C:2004:707, punto 30),  ne'  l'applicazione  di
una sanzione che; allo stesso  momento,  non  era  prevista  da  tale
diritto.  Al  contrario,  i  fatti  contestati  agli   imputati   nel
procedimento   principale   integravano,   alla   data   della   loro
commissione,  gli  stessi  reati  ed  erano  passibili  delle  stesse
sanzioni  penali  attualmente  previste»  (§   56);   pertanto,   nel
richiamare la giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo  formatasi
sulla  previsione   dell'art.   7   CEDU,   «che   sancisce   diritti
corrispondenti a quelli garantiti dall'art. 49 della Carta», sostiene
che «la proroga del  termine  di  prescrizione  e  la  sua  immediata
applicazione  non  comportano  una  lesione  dei  diritti   garantiti
dall'art. 7 della suddetta Convenzione, dato  che  tale  disposizione
non puo' essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei
termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora
prescritti» (§ 57). 
    La minore estensione del riconoscimento offerto, nell'ordinamento
sovranazionale e nella giurisprudenza della Corte di  Strasburgo,  al
principio di legalita' in materia penale,  in  quanto  limitato  alla
previsione del fatto e della  sanzione,  implica,  per  la  Corte  di
Giustizia, che la disciplina della prescrizione  venga  attratta  nel
regime processuale, non gia' sostanziale, governato dal principio del
tempus regit actum. 
    4.2.1. -  Ma  la  conclusione  alla  quale  giunge  la  Corte  di
Giustizia non appare  conforme  al  piu'  esteso  riconoscimento  del
principio di legalita' in materia penale nell'ordinamento  nazionale,
come delineato dalla giurisprudenza costituzionale, e di conseguenza,
al principio di irretroattivita' della  legge  penale.  Al  riguardo,
infatti,  cio'  che  rileva  e'  che  l'obbligo  di   disapplicazione
determinerebbe l'applicazione di una disciplina complessivamente piu'
sfavorevole anche ai fatti commessi prima della sentenza Taricco. 
    L'art.  53  della  Carta  dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione
europea sancisce  il  criterio  del  best  standard  del  livello  di
protezione  nella  tutela  multilivello  dei  diritti   fondamentali:
«Nessuna disposizione della presente Carta deve  essere  interpretata
come limitativa o lesiva  dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal
diritto dell'Unione, dal diritto  internazionale,  dalle  convenzioni
internazionali delle quali l'Unione, la Comunita' o tutti  gli  Stati
membri sono parti contraenti, in particolare la  convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali,  e  dalle  costituzioni  degli  Stati  membri»;  ed  il
precedente  art.  49  della  Carta  di  Nizza  riconosce  proprio  il
principio di legalita', ed il corollario dell'irretroattivita', tra i
diritti fondamentali dell'Unione. 
    Ebbene, pur nella consapevolezza che, nel recente  caso  Melloni,
il piu' elevato standard di tutela garantito  dal  sistema  domestico
(spagnolo) e' stato ritenuto recessivo rispetto  alla  primaute'  del
diritto  eurounitario  (CGUE,  GS,  26  febbraio  2013,  Melloni   c.
Ministerio Fiscal), la  Carta  di  Nizza  afferma  che,  in  caso  di
asimmetria nella tutela di un diritto fondamentale tra  l'ordinamento
nazionale e quello europeo, il diritto  deve  essere  riconosciuto  e
salvaguardato nella sua piu' ampia estensione,  secondo  il  criterio
del best standard, rappresentando la tutela  europea  il  livello  di
protezione minimo (in tal  senso,  di  recente,  si  e'  espresso  il
Bundesverfassungsgericht,  15  dicembre  2015,  R.,  nella   medesima
materia, oggetto del caso Melloni, del mandato  di  arresto  europeo,
affermando che la protezione dei diritti inalienabili garantiti dalla
Costituzione tedesca  prevale  sull'applicazione  della  legislazione
comunitaria).   
    Nel caso in  esame,  dunque,  il  principio  di  irretroattivita'
dovrebbe essere garantito nella piu'  ampia  estensione  riconosciuta
dall'ordinamento costituzionale italiano, che vi ricomprende tutti  i
presupposti della punibilita', compresa la prescrizione. 
    4.2.2. - Va, del resto, osservato  che  la  prescrizione  rientra
nell'ambito dei presupposti e delle condizioni della punibilita',  ed
in  ragione  di  tale  dimensione  ne  viene  affermata   la   natura
sostanziale,   con   conseguente   riconoscimento   della    garanzia
dell'irretroattivita'. 
    Sul punto, giova rammentare che la  prescrizione  e'  configurata
nel nostro ordinamento come causa di estinzione del  reato,  come  si
evince ad abundantiam dall'inserimento nel relativo Capo I del Titolo
VI del codice  penale:  sebbene  la  collocazione  legislativa  delle
relative norme non assuma un  carattere  decisivo,  ma  sia  comunque
pregnante - soprattutto ove si pensi  al  diverso  inquadramento  del
previgente  codice  Zanardelli   del   1889,   che   qualificava   la
prescrizione come causa di estinzione dell'azione penale (art. 91)  -
la  concezione  sostanziale  si  fonda   anche   sull'Interpretazione
letterale dell'art. 157 codice penale («la prescrizione  estingue  il
reato») e sulla possibilita', sancita dall'art. 129 codice  procedura
penale,  di  un  accertamento  giudiziale,  sia   pure   nei   limiti
dell'evidenza  probatoria,  che  il  fatto  non  sussiste  o  non  e'
preveduto dalla legge come reato o che l'imputato non lo ha commesso,
anche allorquando sia maturata la prescrizione;  la  norma,  infatti,
induce a ritenere che la prescrizione non incida sull'azione  penale,
atteso  che,  non  avendo  natura  processuale,  non   ha   efficacia
preclusiva di ogni provvedimento sul merito. 
    Del resto, l'opinione minoritaria che in dottrina ha sostenuto la
natura  processuale  della  prescrizione,  ha  fondato   la   propria
ricostruzione sull'ultrattivita'  di  alcuni  effetti  (confisca  dei
beni, obbligazioni civili) derivanti dal reato, seppur prescritto; ma
la percorribilita' di tale tesi sembrerebbe ancor  piu'  problematica
alla luce dell'orientamento, ancora controverso, espresso in  recenti
pronunce, anche della giurisprudenza europea (Corte EDU,  29  ottobre
2013, Varvara c. Italia), sulla illegittimita' di una misura ablativa
senza una  definitiva  affermazione  di  responsabilita'  penale,  in
quanto impedita dalla prescrizione. 
    E tale conclusione trova conferma nella relazione che si instaura
tra la prescrizione e altri istituti, che affidano la non punibilita'
del reato a  giudizi  ex  post  ed  in  concreto  (sulla  particolare
tenuita' dell'offesa, nell'art.  131-bis  codice  penale,  sull'esito
positivo della prova, nell'art. 168-ter, comma 2, codice penale), che
presuppongono il perfezionamento di un fatto astrattamente  punibile;
tant'e' che, nella messa alla prova, il corso della prescrizione  del
reato - in quanto presupposto astratto della punibilita' - e' sospeso
(art.  168-ter,  comma  1,  codice  penale),  e  la  declaratoria  di
estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione  della
punibilita' per  particolare  tenuita'  del  fatto  di  cui  all'art.
131-bis codice penale sia perche' diverse  sono  le  conseguenze  che
scaturiscono dai due istituti, sia perche' il primo di essi  estingue
il reato, mentre il secondo lascia inalterato l'illecito penale nella
sua materialita' storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26  maggio
2015, Sorbara, Rv. 263885). 
    4.2.3. - Nel senso della natura sostanziale si e' espressa  anche
la giurisprudenza costituzionale, che nella sentenza n.  393  del  23
novembre 2006, pronunciata a proposito della  disciplina  transitoria
della prescrizione  introdotta  dalla  legge  n.  251  del  2005,  ha
espressamente affermato: "la locuzione «disposizioni piu'  favorevoli
al reo» si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche  in
melius alla disciplina di una  fattispecie  criminosa,  ivi  comprese
quelle che incidono sulla prescrizione del reato (sentenze n.  455  e
n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000; n. 288 e n. 51  del  1999;
n. 219 del 1997; n. 294 e n. 137 del 1996). Una conclusione,  questa,
coerente con la natura sostanziale della  prescrizione  (sentenza  n.
275 del 1990) e con l'effetto da essa prodotto, in quanto «il decorso
del tempo non si limita ad estinguere l'azione penale, ma elimina  la
punibilita' in se' e per se', nel senso che costituisce una causa  di
rinuncia totale dello Stato alla potesta' punitiva» (Cass., Sez. I, 8
maggio 1998, n. 7442). Tale effetto, peraltro,  esprime  l'«interesse
generale di non piu' perseguire i reati rispetto ai  quali  il  lungo
tempo decorso dopo la loro commissione  abbia  fatto  venir  meno,  o
notevolmente attenuato (...) l'allarme  della  coscienza  comune,  ed
altresi'  reso  difficile,  a  volte,  l'acquisizione  del  materiale
probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n.  254  del
1985; ordinanza n. 337 del 1999)". 
    E la natura sostanziale della prescrizione e'  stata  di  recente
ribadita anche dalla sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con la quale la
Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' del raddoppio dei
termini di prescrizione per l'incendio colposo (§  3).  Sulla  stessa
linea si collocano le sentenze con cui, proprio sul presupposto della
natura sostanziale delle norme sulla prescrizione, si  e'  dichiarata
l'inammissibilita' delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale
proposte in malam partem, poiche' il principio di  riserva  di  legge
impedisce  di  incidere  in  peius  non  soltanto  sulla  fattispecie
incriminatrice e sulla pena, ma altresi' sugli  altri  presupposti  e
sulle condizioni della punibilita'. In  particolare,  secondo  quanto
sottolineato da Corte cost. n.  324  del  1°  agosto  2008,  sono  da
ritenere "Inammissibili pronunce il cui effetto possa  essere  quello
di  introdurre  nuove  fattispecie  criminose,  di  estendere  quelle
esistenti a casi non previsti, o, comunque,  «di  incidere  in  peius
sulla risposta punitiva  o  su  aspetti  inerenti  alla  punibilita',
aspetti fra i quali,  indubbiamente,  rientrano  quelli  inerenti  la
disciplina della prescrizione e  dei  relativi  atti  interruttivi  o
sospensivi» (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)". 
    Non contrasta con tale orientamento la sentenza n. 236 del  2011,
richiamata da Sez. 3, n. 2210 del 15 settembre 2015, Pennacchini, Rv.
266121. Con tale  pronuncia,  infatti,  la  Corte  costituzionale  ha
semplicemente ribadito che il principio  della  retroattivita'  della
lex mitior non riceve la medesima copertura costituzionale  dell'art.
25, comma 2, Cost. riservata all'irretroattivita' della norma  penale
sfavorevole, e, vertendo il sindacato  sulla  disciplina  transitoria
della  prescrizione,  ha  osservato  come  il  parametro   interposto
invocato, rappresentato dall'art.  7  CEDU,  non  fornisse  copertura
«convenzionale» alla prescrizione, perche' estranea al perimetro  del
principio  di  legalita'  nella  declinazione  della   giurisprudenza
europea. 
    4.2.4. - Come gia' in parte anticipato  in  sede  di  motivazione
sulla rilevanza della  questione  (sub  3.3.,  3.3.1.,  3.3.2.),  non
ricorrono i presupposti per  una  interpretazione  costituzionalmente
conforme dell'obbligo di disapplicazione individuato dalla  Corte  di
Giustizia:  al  riguardo,  non  appare  persuasiva   la   tesi,   pur
autorevolmente sostenuta in dottrina, secondo la quale la  disciplina
della prescrizione avrebbe natura  sostanziale  prima  dell'esercizio
dell'azione  penale,  assumendo  invece   natura   processuale   dopo
l'attivazione della pretesa punitiva, con la conseguenza che solo  la
disciplina  dell'interruzione  della  prescrizione  sarebbe  attratta
nella logica del processo, e dunque sottratta alla garanzia dell'art.
25, comma 2, Cost.; in tal senso, l'obbligo  di  disapplicazione  dei
termini «ordinari» di interruzione della prescrizione, sancito  dalla
sentenza Taricco, e comportanti un prolungamento dei termini  massimi
della causa estintiva, sarebbe governato dal principio  tempus  regit
actum. La tesi esposta, infatti, si pone  in  contraddizione  con  la
giurisprudenza costituzionale gia' richiamata,  che  ritiene  coperti
dalla garanzia della riserva di legge  tutti  gli  "aspetti  inerenti
alla punibilita', (...) fra i quali, indubbiamente, rientrano  quelli
inerenti  la  disciplina  della  prescrizione  e  dei  relativi  atti
interruttivi o sospensivi (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65
del 2008)" (Corte cost., n. 324 del  2008.  E  non  risulta  comunque
condivisibile l'assunto di fondo dal quale tale tesi muove,  e  cioe'
che la ratio della prescrizione sarebbe duplice: prima del  processo,
sarebbe legata al «tempo dell'oblio»;  dopo  l'esercizio  dell'azione
penale sarebbe governata da una  logica  di  contenimento  dei  tempi
processuali.  Infatti,  la   prescrizione,   almeno   nella   attuale
disciplina  positiva,  non  puo'  essere  ritenuta  funzionale   alla
salvaguardia del principio della  durata  ragionevole  del  processo,
perche' - come condivisibilmente osservato da autorevole  dottrina  -
la conformazione positiva dell'istituto,  il  cui  corso  continua  a
decorrere  pure  successivamente  all'esercizio  dell'azione  penale,
rende la causa estintiva un (legittimo)  obiettivo  dell'imputato  di
definizione   processuale   che   determina,   al   contrario,    una
significativa dilatazione dei tempi processuali. 
    4.2.5.  -  Peraltro,  l'eventuale  distinzione   tra   disciplina
sostanziale   della    prescrizione    e    disciplina    processuale
dell'interruzione   della   prescrizione   apparirebbe   una   fictio
insuscettibile di fondare, comunque, un'applicazione di  piu'  lunghi
termini di prescrizione a fatti commessi in precedenza. Deve  infatti
ribadirsi che, sotto il profilo  del  principio  di  irretroattivita'
della legge penale non rileva  che  l'aspettativa  dell'imputato  non
riguardi piu' il tempo di commissione dei reato, ma, dopo l'esercizio
dell'azione penale, il tempo del  processo.  Infatti,  un'aspettativa
declinata in tali termini sarebbe da qualificare quale  interesse  di
fatto  irrilevante  sotto  il  profilo  processuale,  e  ancor  prima
costituzionale. Cio' che,  al  contrario,  viene  in  rilievo  e'  il
diritto dell'imputato a non subire l'applicazione, imprevista, di una
disciplina penale complessivamente piu' rigorosa  rispetto  a  quella
vigente al momento di commissione del fatto. 
    Tale essendo la dimensione sistematica  della  prescrizione,  non
merita di essere condivisa, la tesi dottrinale e giurisprudenziale  -
gia' analizzata sub 3.3.2. - che propone di  delimitare  gli  effetti
dell'obbligo  di  disapplicazione  in  malam  partem  imposto   dalla
sentenza Taricco ai soli reati per i quali la  prescrizione  non  era
ancora maturata al momento della  pubblicazione  della  decisione  (8
settembre  2015),  escludendo  quelli  per  i  quali  il  termine  di
prescrizione era gia' decorso. Tale tesi appare infatti fondata su un
duplice argomento fallace: la natura processuale della  prescrizione,
che ne consentirebbe l'applicazione secondo il principio tempus regit
actum,  e  la  natura  costitutiva  della  sentenza  della  Corte  di
Giustizia, assunta a fonte diretta del diritto penale.  Deve  infatti
ribadirsi che la  sentenza  Taricco,  non  puo'  essere  considerata,
nell'ordinamento nazionale, alla stregua di una legge processuale, la
cui entrata in vigore segna il limite temporale di applicazione. E in
ogni caso, anche se l'obbligo  di  disapplicazione  in  malam  partem
dovesse ritenersi riferito ad una disciplina  processuale,  governata
dai principio tempus regit actum, va evidenziato che  il  dispositivo
della sentenza Taricco non indica alcuna delimitazione temporale.  E,
del resto, anche l'espressione «quando  i  fatti  addebitati  non  si
siano ancora prescritti», contenuta al § 57 della motivazione, appare
quantomeno    controversa,     potendo     riferirsi     l'esclusione
dell'allungamento dei termini di prescrizione ai  soli  reati  per  i
quali la prescrizione sia  stata  gia'  dichiarata;  un  riferimento,
dunque,  che,  anche  in  considerazione  dell'oggetto   del   rinvio
pregiudiziale, riguardante un procedimento  nel  quale  i  reati  non
erano gia' prescritti,  ne'  si  sarebbero  prescritti  in  un  lasso
imminente di tempo, sembra concernere soltanto i «rapporti esauriti»,
ovvero i rapporti definiti con sentenza  passata  in  giudicato,  con
espressa declaratoria di estinzione per prescrizione, e non  anche  i
rapporti ancora pendenti. 
    4.3. - Il diritto di difesa (art. 24 Cost.)  e  il  principio  di
uguaglianza (art. 3 Cost.). 
    La  violazione   del   diritto   dell'imputato   a   non   subire
l'applicazione, imprevista, di una disciplina penale complessivamente
piu' rigorosa rispetto a quella vigente al momento di commissione del
fatto puo' essere inoltre apprezzata sotto un  diverso  profilo,  che
coinvolge la garanzia sancita del  diritto  di  difesa  dall'art.  24
Cost., in relazione alla quale la Corte costituzionale ha gia'  fatto
valere i controlimiti, quanto alla compressione del diritto di difesa
(cfr., supra, 4.1.). Infatti, nel caso qui in esame,  un'applicazione
retroattiva (ai fatti commessi  prima  della  sentenza  Taricco)  del
prolungamento dei termini massimi di prescrizione comprometterebbe la
posizione dell'imputato, che,  legittimamente,  e  sulla  base  delle
informazioni sui presupposti della  punibilita'  vigenti  al  momento
della  scelta  processuale,  abbia  deciso  di  non  beneficiare  dei
vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti alternativi, e, sulla
base  dei  nuovi  presupposti,  piu'  sfavorevoli,  non  possa   piu'
esercitare le facolta'  difensive  riconosciutegli  nella  competente
scansione procedimentale. 
    E  il  sostanziale  «cambiamento  delle  regole  in  corsa»   che
conseguirebbe all'obbligo di disapplicazione sancito  dalla  sentenza
Taricco appare  suscettibile  di  violare  non  soltanto  il  «nucleo
essenziale» del diritto di difesa, riconosciuto e garantito dall'art.
24 Cost., ma altresi' il principio di uguaglianza, sancito  dall'art.
3 Cost., per  la  disparita'  di  trattamento  con  chi,  in  analoga
situazione processuale, e nella consapevolezza dei nuovi  presupposti
della  punibilita'   legati   al   prolungamento   dei   termini   di
prescrizione, e' ancora in tempo per esercitare le facolta' difensive
connesse  alla  scelta  dei  riti  alternativi,  ed  ai   conseguenti
trattamenti sanzionatori premiali. 
    4.4. - Il principio di tassativita' e  determinatezza  (art.  25,
secondo comma, Cost.) 
    Come anticipato in sede  di  motivazione  sulla  rilevanza  della
questione,  la  Corte   di   Giustizia   individua   i'   presupposti
dell'obbligo di disapplicazione delle norme  sull'interruzione  della
prescrizione in concetti vaghi ed indeterminati  -  il  cui  richiamo
sembra dunque comportare una violazione dei principi di  tassativita'
e determinatezza che regolano anche l'istituto della  prescrizione  -
quali «la  frode  e  le  altre  attivita'  illegali  che  ledono  gli
interessi finanziari dell'UE» ed il «numero considerevole di casi  di
frode grave» che dovrebbe essere oggetto di accertamento giudiziale. 
    Si deve qui ribadire, sotto un primo profilo, che la  nozione  di
«frode grave» e' rimessa alla valutazione del giudice, in assenza  di
parametri normativi univoci e direttamente applicabili.  E  anche  la
delimitazione   dell'ambito   di   operativita'    dell'obbligo    di
disapplicazione, riconosciuto dalla Corte di Giustizia a «la frode  e
le altre attivita'  illegali  che  ledono  gli  interessi  finanziari
dell'UE»,  resta  del  tutto  affidata  al   giudice,   non   essendo
specificate le fattispecie incriminatrici per le quali  tale  obbligo
dovrebbe  valere.   Resta,   dunque,   l'oggettiva   indeterminatezza
dell'ambito di  operativita'  dell'obbligo  di  disapplicazione,  non
essendo disposto, in maniera precisa,  se  esso  operi  soltanto  con
riferimento ai reati tributari con condotta fraudolenta (articoli  2,
3 e 11 - decreto legislativo n. 74/2000), o anche con riferimento  ai
reati tributari che non descrivono  una  fraudolenza  della  condotta
(articoli  4,  5,  8,  10,  10-bis,  10-ter,  10-quater   -   decreto
legislativo n. 74/2000), ovvero anche con riferimento ad altri  reati
potenzialmente offensivi degli interessi finanziari  dell'UE  (tra  i
quali  l'art.  640-bis  codice  penale  ,  sovente   contestato   nei
procedimenti penali per le  c.d.  «frodi  carosello»).  Deve  inoltre
osservarsi  che  l'art.  325  TFUE  non  pare   essere   una   regola
suscettibile di applicazione giudiziale automatica, ma, al piu',  una
regola sulla produzione di norme, diretta all'UE e agli Stati membri;
in ambito giurisdizionale, invece, puo' essere assunta non gia'  come
regola, che risponde alla  logica  della  tassativita',  bensi'  come
principio, che risponde alla  diversa  logica  del  bilanciamento  di
interessi. 
    Parimenti indeterminato risulta  il  parametro  costituito  dalla
valutazione, rimessa al giudice nazionale, dell'ineffettivita'  delle
sanzioni previste «in un numero considerevole di casi di frode grave»
che  ledono  gli  interessi  finanziari   dell'Unione   europea.   E'
sufficiente ribadire, sul punto, quanto gia'  osservato  in  sede  di
valutazione della rilevanza  della  questione  di  costituzionalita'.
Tale requisito  puo'  essere  considerato  in  astratto,  ovvero  con
riferimento all'integralita' dei procedimenti pendenti  dinanzi  alle
autorita'  giudiziarie  italiane;  in  tal   caso,   tuttavia,   esso
implicherebbe una prognosi di natura statistica che esula dai  limiti
cognitivi e valutativi del giudice, e anche di questa Corte;  a  cio'
ostando non soltanto l'assenza  di  dati  statistici  affidabili,  ma
soprattutto   l'orizzonte   conoscitivo    del    singolo    giudice,
necessariamente limitato, dal vigente sistema processuale,  ai  fatti
di causa, ovvero i fatti che  si  riferiscono  all'imputazione,  alla
punibilita' e dai quali dipenda l'applicazione di  norme  processuali
(art. 187 codice procedura penale) rilevanti  nel  singolo  processo,
non gia' nella generalita'  degli  altri  processi.  In  una  seconda
ipotesi ricostruttiva, il  presupposto  potrebbe  risolversi  in  una
prognosi meramente empirica, del singolo giudice,  e  dell'esperienza
soggettivamente espressa; in tal caso,  tuttavia,  esso  sarebbe  del
tutto vago ed indeterminato, in quanto fondato  su  soggettivismi  di
difficile verificabilita'. In una terza ipotesi,  seguita  da  questa
Corte  ai  diversi  fini  della  valutazione  della  rilevanza  della
questione, il requisito del «numero considerevole di  casi  di  frode
grave»  puo'  essere  inteso  in  concreto,  con   riferimento   alle
fattispecie oggetto del giudizio rimesso al singolo giudice. In tutti
i casi, dunque, anche in quest'ultimo, che sembra affidare al giudice
una  piu'  ristretta  base  cognitiva,  la  valutazione  sul  «grado»
(statistico, soggettivo, empirico) di ineffettivita' delle previsioni
sanzionatorie resta  comunque  rimessa  all'esclusiva  decisione  del
giudice nazionale, sulla base di  parametri  non  predeterminati  ne'
predeterminabili; con la conseguenza che la disapplicazione in  malam
partem  finirebbe  per  fondarsi  su  vere  e   proprie   valutazioni
politico-criminali,  riservate,  nel  nostro  ordinamento  al  potere
legislativo. 
    4.5. - Il principio di separazione dei poteri e di sottoposizione
del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.). 
    La censurata mancanza di tassativita' dei principi-guida espressi
dalla sentenza Taricco ha - come  anticipato  -  anche  l'effetto  di
attribuire  all'ordine  giudiziario  un  anomalo   potere   normativo
riservato al legislatore, che pare violare il principio  fondamentale
della separazione dei poteri e il precetto che impone che il  giudice
sia soggetto «soltanto alla legge». 
    Al riguardo, va ribadito che la soggezione del giudice  «soltanto
alla legge» comprende certamente anche le fonti  sovranazionali  che,
in virtu' delle limitazioni di sovranita' consentite con  la  stipula
dei Trattati, integrano il nostro sistema costituzionale delle fonti.
Tuttavia, la frizione con il principio di separazione dei poteri  non
deriva,  nel  caso  in  esame,   dalla   «provenienza»   europea,   o
giurisprudenziale della norma, bensi' dal contenuto della norma,  che
rimette direttamente al giudice la valutazione di adeguatezza di  una
disciplina penale ai fini di prevenzione. In  altri  termini  -  come
gia' visto - al giudice viene  affidata  una  valutazione  di  natura
politico-criminale, relativa all'efficacia  general-preventiva  della
complessiva disciplina penale a  tutela  degli  interessi  finanziari
dell'U.E., che, in base ai principio della divisione dei poteri,  non
puo' che competere al legislatore, nazionale o comunitario che sia. 
    4.6. - Il principio della finalita' rieducativa della pena  e  il
principio di ragionevolezza (artt. 27, terzo comma, e 3 Cost.). 
    Come gia' piu'  volte  ricordato,  l'obbligo  di  disapplicazione
delle norme sull'interruzione della prescrizione, con il  conseguente
prolungamento dei relativi termini, viene affermato  dalla  Corte  di
Giustizia con riferimento ai «casi di  frode  grave  che  ledono  gli
interessi finanziari dell'Unione europea». La disciplina, derogatoria
rispetto a quella generale, rinviene dunque la  propria  ratio  nella
tutela degli  interessi  finanziari  dell'U.E.,  che  fonderebbe  una
maggiore estensione della punibilita'  delle  «frodi  gravi»  per  la
salvaguardia dell'interesse alla percezione  dei  tributi  in  ambito
comunitario. Tuttavia, il prolungamento dei termini di  prescrizione,
e quindi della punibilita', in ragione della tutela  degli  interessi
finanziari dell'U.E., comporta una funzionalizzazione della pena  che
risulta eccentrica rispetto al teleologismo costituzionale:  la  pena
non tende piu'  alla  rieducazione  del  condannato,  secondo  quanto
previsto dall'art. 27, terzo comma, Cost., ma  diviene  strumento  di
tutela degli  interessi  finanziari  dell'Unione.  In  tal  modo,  la
visione personalistica sottesa alla funzione rieducativa  della  pena
affermata dalla Costituzione soccombe alla visione  patrimonialistica
e  finanziaria  sottesa  alla  tutela  degli   interessi   finanziari
dell'Unione. Ne' potrebbe fondatamente obiettarsi che  gli  interessi
finanziari dell'Unione sono un legittimo bene giuridico  suscettibile
di tutela, perche', in tal modo, si incorrerebbe  in  una  inversione
metodologica:  invero,  e'  pacifico  che  gli  interessi  finanziari
dell'U.E. (e qualsiasi interesse patrimoniale ritenuto meritevole  di
tutela da parte del legislatore) fondano la tutela penale  apprestata
con   le   relative   fattispecie   incriminatrici   a   salvaguardia
dell'interesse alla percezione dei tributi (anche  "comunitari");  ma
l'assetto della punibilita'  non  puo'  essere  modificato,  mediante
prolungamento dei termini di prescrizione, consentendo l'applicazione
della sanzione penale all'esclusivo fine di  tutelare  gli  interessi
finanziari, anziche' al fine di tendere  alla  risocializzazione  del
condannato. 
    Va,  al  riguardo,  richiamata  la  giurisprudenza  della   Corte
costituzionale, che ha valorizzato il principio di  rieducazione  sul
piano della struttura del reato (sentenza n. 364  del  1988),  e  sul
piano   della   dimensione   teleologica   della    pena,    mediante
l'affermazione dell'immanenza della finalita' rieducativa  alla  fase
dell'astratta previsione normativa, della concreta commisurazione,  e
dell'esecuzione (sentenza n. 313 del 1990). 
    Sotto diverso  ed  ulteriore  profilo,  va  sottolineato  che  il
fondamento della prescrizione e' stato  individuato,  dalla  dottrina
prevalente  e  dalla  stessa  giurisprudenza  costituzionale,   nella
funzione special-e general-preventiva della pena, sul rilievo che  il
decorso  del  tempo  dal  reato   affievolirebbe   le   esigenze   di
prevenzione, sia sotto il profilo dell'allarme sociale, sia sotto  il
profilo  dell'attitudine  rieducativa  di  una  pena   che   verrebbe
applicata nei confronti di una persona potenzialmente «diversa»,  che
potrebbe, in ipotesi, essersi  nel  frattempo  integrata  e,  magari,
riappropriata   del   valore   precedentemente   offeso.   La   Corte
costituzionale, nella sentenza 28 maggio 2014, n. 143, con  la  quale
ha  dichiarato  l'illegittimita'  del  raddoppio   dei   termini   di
prescrizione per l'incendio colposo, significativamente evidenzia  la
connessione tra  prescrizione  e  funzione  rieducativa  della  pena.
Afferma, altresi', che entrambi gli elementi, di natura  general-e  e
special-preventiva, sono strettamente  collegati  alla  gravita'  del
reato,  come  dimostrato  dall'ancoraggio  legislativo  del   termine
prescrizionale alla pena massima prevista in astratto per  il  reato;
nondimeno,  ammette  che  il  legislatore  dispone   di   una   ampia
discrezionalita' nello stabilire  termini  prescrizionali  derogatori
rispetto  alla  mera  gravita'  dei  reati;  tuttavia,  delimita   il
perimetro di legittimita' dell'esercizio  di  tale  discrezionalita',
individuando nel particolare allarme sociale di alcuni reati,  ovvero
nella  particolare  difficolta'  di  indagine   e   di   accertamento
processuale, che incida in maniera rilevante sulla durata  media  del
processo, le ragioni che possono fondare la previsione di  piu'  ampi
termini di prescrizione. 
    Ebbene, nel caso dell'obbligo di  disapplicazione  sancito  dalla
Corte di Giustizia, il  prolungamento  dei  termini  di  prescrizione
riguarderebbe non gia' «alcuni tipi di reato», ma  soltanto  i  reati
che ledono gli interessi finanziari dell'UE.  In  altri  termini,  il
prolungamento dei termini non  coinvolgerebbe  tutte  le  fattispecie
astratte  di   dichiarazione   fraudolenta,   omessa   dichiarazione,
emissione di  fatture  per  operazioni  inesistenti,  previste  dagli
articoli 2, 5 e 8 del decreto legislativo  n.  74  del  2000,  bensi'
soltanto le fattispecie concrete che «ledono gli interessi finanziari
dell'Unione europea»; non e' il «tipo di reato» che viene  assunto  a
discrimen del  differente  trattamento,  ragionevole  in  virtu'  del
maggior allarme sociale o della complessita' dell'accertamento, ma il
«tipo di fatto»,  in  quanto  offensivo  degli  interessi  finanziari
dell'UE. 
    Tale conseguenza pare comportare una violazione del principio  di
ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto  determina  ingiustificabili
sperequazioni di trattamento  tra  fattispecie  omogenee:  la  stessa
fattispecie, in ipotesi  di  dichiarazione  fraudolenta,  ove  lesiva
degli  interessi  finanziari  dell'UE,  sarebbe  sottoposta   ad   un
prolungamento dei termini di  prescrizione;  ove  risulti  lesiva  di
interessi finanziari domestici, sarebbe disciplinata  dagli  ordinari
termini  di  prescrizione.  La  medesima  tipologia  di   fattispecie
astratta, del resto, esclude  che  la  sperequazione  di  trattamento
possa essere giustificata da un maggior allarme sociale ovvero da una
maggior complessita' di accertamento. 
    4.7. - Il principio del rispetto da parte dell'Unione europea dei
controlimiti alle limitazioni di sovranita' (art. 11 Cost.). 
    I controlimiti - a cui si e' gia' fatto riferimento  sub  4.1.  -
assumono rilevanza sia in negativo, nella prospettiva  nazionale  (ai
sensi dell'art. 11 Cost.) e nella prospettiva eurounitaria (ai  sensi
dell'art. 4.2 TUE), sia in positivo, quali riflessi dei  limiti  alle
attribuzioni dell'Unione imposti dagli stessi Trattati (articoli  83,
258 e 325 TFUE). 
    In tal senso, va evidenziato che il profilo dei «controlimiti» e'
legato non  soltanto  all'individuazione  ed  alla  salvaguardia  dei
principi  supremi,  ma  altresi'  alle  limitazioni   di   sovranita'
consentite dall'art. 11 Cost. Ebbene, le limitazioni  di  sovranita',
oltre a non poter tracimare in vere e proprie cessioni di sovranita',
in tanto sono costituzionalmente legittime, in quanto siano  adottate
«nelle forme e nei limiti» previsti dalle fonti che le consentono. Al
riguardo, va ricordato che il  Trattato  sull'Unione  europea,  fonte
delle «limitazioni di sovranita'» consentite ai  sensi  dell'art.  11
Cost., prevede, all'art. 4.2: «L'Unione rispetta l'uguaglianza  degli
Stati membri davanti ai trattati e la loro identita' nazionale insita
nella  loro  struttura  fondamentale,  politica   e   costituzionale,
compreso il sistema delle autonomie locali e regionali.  Rispetta  le
funzioni essenziali  dello  Stato,  in  particolare  le  funzioni  di
salvaguardia   dell'integrita'    territoriale,    di    mantenimento
dell'ordine pubblico  e  di  tutela  della  sicurezza  nazionale.  In
particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza  di
ciascuno  Stato  membro».  Va  anche   ribadito   che   i   parametri
costituzionali  invocati,  come  si  e'  gia'  osservato,   connotano
l'identita' costituzionale del nostro ordinamento,  essendo  «insiti»
nella struttura fondamentale dello Stato italiano  e  devono  percio'
fungere da limite ali'ambito di applicazione del diritto dell'Unione.
E, in tale quadro, deve rilevarsi  che  la  sentenza  Taricco  sembra
travalicare i confini delle attribuzioni  riconosciute  dal  Trattato
alle istituzioni dell'Unione. 
    Invero, la Corte di Giustizia individua la «base legale»  per  la
tutela penale degli  interessi  finanziari  dell'U.E.  nell'art.  325
TFUE, che, come si evince dalla collocazione e dal tenore, non e' una
norma penale; l'art. 325 TFUE, infatti,  e'  una  disposizione  sulla
produzione delle leggi, rivolta agli Stati membri, a carico dei quali
pone un obbligo di risultato preciso, come si  evince  dal  comma  2,
secondo cui «Gli Stati membri  adottano,  per  combattere  contro  la
frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure
che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi
finanziari».  Da  tale  disposizione,  e   dal   complessivo   quadro
istituzionale dell'Unione, deriva che l'eventuale inadeguatezza della
tutela penale apprestata da un ordinamento nazionale potrebbe  essere
sanzionata con una procedura  di  inadempimento  dello  Stato  membro
(art. 258 e ss. TFUE), non gia' con l'affermazione di un  obbligo  di
disapplicazione con effetti penali in malam partem rivolto ai giudici
nazionali; oppure l'Unione avrebbe la possibilita',  alternativa,  di
esercitare i poteri conferiti dall'art. 83 TFUE, mediante adozione di
direttive, previo inserimento della materia delle  frodi  nell'ambito
delle competenze  penali  indirette  dell'Unione.  E  qui  si  coglie
l'ulteriore profilo di travalicamento dei limiti - che,  come  si  e'
evidenziato, incide sul rispetto dell'art. 11 Cost. -  in  quanto  il
Trattato U.E. riconosce alle istituzioni dell'Unione, nell'ambito  di
quelle «limitazioni di sovranita'»  consentite  dall'art.  11  Cost.,
competenza  penale  soltanto  indiretta,  prevedendo  l'adozione   di
direttive in alcune  sfere  di  criminalita'  caratterizzate  da  una
dimensione transnazionale; in tal senso, l'art. 83 TFUE  prevede  che
«Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante direttive
secondo la procedura legislativa ordinaria, possono  stabilire  norme
minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in  sfere
di criminalita' particolarmente grave che presentano  una  dimensione
transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni  di  tali
reati o da una particolare necessita' di combatterli su basi comuni»;
e tra tali  "materie"  non  rientrano,  allo  stato,  le  frodi  agli
interessi finanziari dell'Unione, essendo previste le seguenti "sfere
di  criminalita'":  «terrorismo,  tratta   degli   esseri   umani   e
sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito  di
stupefacenti, traffico  illecito  di  armi,  riciclaggio  di  denaro,
corruzione,  contraffazione  di  mezzi  di  pagamento,   criminalita'
informatica e criminalita' organizzata». 
    L'assunzione dell'art. 325 TFUE quale «base legale» per la tutela
penale di interessi finanziari dell'U.E., dunque, oltre  ad  eccedere
la natura programmatica della disposizione,  finisce  per  attribuire
una competenza penale diretta all'Unione, al di  fuori  degli  stessi
limiti istituzionali previsti dal Trattato. 
5. - Alla stregua  delle  considerazioni  che  precedono,  va  dunque
proposta la questione di' legittimita' costituzionale che puo' essere
sintetizzata come segue: 
      Se l'art. 2 della legge 2  agosto  2008,  n.  130,  che  ordina
l'esecuzione del Trattato sui funzionamento dell'Unione Europea, come
modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13  dicembre  2007
(TFUE), nella parte in cui impone di applicare l'art. 325, § 1  e  2,
TFUE,  dal  quale  -  nell'interpretazione  fornita  dalla  Corte  di
Giustizia, 8 settembre 2015, causa C -  105/14,  Taricco  -  discende
l'obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli articoli  160,
comma 3, e 161, comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze
indicate nella sentenza europea, allorquando ne derivi la sistematica
impunita' delle gravi  frodi  in  materia  di  IVA,  anche  se  dalla
disapplicazione, e  dal  conseguente  prolungamento  del  termine  di
prescrizione, discendano effetti sfavorevoli per l'imputato; 
      violi i controlimiti alle limitazioni  di  sovranita'  previste
dall'art. 11 Cost. e, in particolare, 
        1) l'art. 25, secondo comma, Cost., sotto  il  profilo  della
irretroattivita' della legge penale, perche' la disapplicazione delle
norme di cui agli articoli 160, ult. comma, e 161,  comma  2,  codice
penale, imposta dall'art. 325 TFUE, nell'interpretazione datane dalla
Corte di Giustizia, determina la retroattivita' in malam partem della
normativa nazionale risultante, con l'effetto di  allungare  i  tempi
della prescrizione anche in relazione a fatti  commessi  prima  della
sentenza Taricco; 
        2)  gli  articoli  24  e  3  Cost.,  perche'  un'applicazione
retroattiva (ai fatti commessi  prima  della  sentenza  Taricco)  del
prolungamento dei termini massimi di prescrizione comprometterebbe la
posizione dell'imputato, che,  legittimamente,  e  sulla  base  delle
informazioni sui presupposti della  punibilita'  vigenti  al  momento
della  scelta  processuale,  abbia  deciso  di  non  beneficiare  dei
vantaggi premiali connessi alla scelta dei riti alternativi, e, sulla
base  dei  nuovi  presupposti,  piu'  sfavorevoli,  non  possa   piu'
esercitare le facolta'  difensive  riconosciutegli  nella  competente
scansione procedimentale; con disparita' di trattamento con  chi,  in
analoga situazione processuale,  e  nella  consapevolezza  dei  nuovi
presupposti della punibilita' legati al prolungamento dei termini  di
prescrizione, e' ancora in tempo per esercitare le facolta' difensive
connesse  alla  scelta  dei  riti  alternativi,  ed  ai   conseguenti
trattamenti sanzionatori premiali; 
        3) l'art. 25, secondo comma, Cost., sotto  il  profilo  della
tassativita' e determinatezza delle disposizioni penali,  perche'  la
Corte  di  Giustizia  individua   i   presupposti   dell'obbligo   di
disapplicazione delle norme sull'interruzione della  prescrizione  in
concetti vaghi ed indeterminati, quali «la frode e le altre attivita'
illegali che ledono gli interessi finanziari dell'UE» ed  il  «numero
considerevole di casi di frode grave»; 
        4) l'art. 101, secondo comma, Cost., sotto il  profilo  della
separazione dei poteri e della sottoposizione  del  giudice  soltanto
alla legge, perche' l'individuazione dei presupposti dell'obbligo  di
disapplicazione delle norme sull'interruzione della  prescrizione  in
concetti vaghi ed indeterminati ha l'effetto di affidare  al  giudice
una valutazione di natura politico-criminale, relativa  all'efficacia
generai-preventiva della complessiva disciplina penale a tutela degli
interessi finanziari dell'U.E., che spetta, invece, al legislatore; 
        5) gli articoli 27, terzo  comma,  e  3  Cost.,  quanto  alla
finalita'  rieducativa  della  pena  e  alla   ragionevolezza   nella
determinazione della stessa, perche' il prolungamento dei termini  di
prescrizione, e quindi della punibilita',  in  ragione  della  tutela
degli interessi finanziari dell'U.E., comporta una funzionalizzazione
della pena non piu' alla rieducazione del condannato, ma alla  tutela
di tali interessi finanziari, senza il necessario collegamento con la
gravita'  del  reato,  e  con   ingiustificabili   sperequazioni   di
trattamento  nei  confronti  di  chi  commetta  analoghi  reati   con
esclusiva lesione di interessi finanziari domestici; 
        6) l'art. 11 Cost., il quale prevede il  rispetto,  da  parte
dell'Unione  europea,  dei  controlimiti   alle   limitazioni   della
sovranita' degli Stati membri, perche' i  principi  espressi  con  la
richiamata sentenza Taricco travalicano i confini delle  attribuzioni
riconosciute dal Trattato alle istituzioni  dell'Unione,  utilizzando
come «base legale» per la tutela penale  degli  interessi  finanziari
dell'U.E. l'art. 325  TFUE,  che  non  e'  una  norma  penale  e  non
attribuisce una competenza penale diretta all'Unione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, 
    solleva la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  2
della legge 2 agosto  2008,  n.  130,  che  ordina  l'esecuzione  del
Trattato  sul  funzionamento  dell'Unione  europea,  come  modificato
dall'art. 2 del Trattato di Lisbona  del  13  dicembre  2007  (TFUE),
nella parte che impone di applicare l'art. 325, § 1 e 2, TFUE,  dalla
quale - nell'interpretazione fornita  dalla  Corte  di  Giustizia,  8
settembre 2015; causa C-105/14, Taricco - discende l'obbligo  per  il
giudice nazionale di disapplicare gli articoli 160, comma 3,  e  161,
comma 2, codice penale, in presenza delle circostanze indicate  nella
sentenza, allorquando ne derivi la sistematica impunita' delle  gravi
frodi in materia di  IVA,  anche  se  dalla  disapplicazione,  e  dal
conseguente prolungamento del  termine  di  prescrizione,  discendano
effetti sfavorevoli per l'imputato, per contrasto di tale  norma  con
gli articoli 3, 11, 25, secondo comma, 27, terzo comma, 101,  secondo
comma, Cost. 
    Sospende  il  giudizio  in  corso,  ed  i  relativi  termini   di
prescrizione, fino  alla  definizione  del  giudizio  incidentale  di
legittimita' costituzionale. 
    Manda la Cancelleria per gli adempimenti di rito, disponendo  che
gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale,  e
che l'ordinanza sia notificata alle parti ed al  Pubblico  Ministero,
nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri, e sia comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
      Cosi' deciso in Roma il 31 marzo 2016 
 
                         Il Presidente: Rosi 
 
 
                                   Il consigliere estensore: Andronio