N. 23 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 gennaio 2017

Ordinanza  del  12  gennaio  2017  della  Corte  di  cassazione   nel
procedimento penale a carico di Chebby Walid. 
 
Reati e pene - Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze
  stupefacenti o psicotrope - Pena minima edittale di  anni  otto  di
  reclusione, anziche' sei, a seguito alla sentenza n.  32  del  2014
  della Corte costituzionale. 
- Decreto del Presidente della Repubblica  9  ottobre  1990,  n.  309
  (Testo  unico  delle  leggi  in   materia   di   disciplina   degli
  stupefacenti   e   sostanze   psicotrope,   prevenzione,   cura   e
  riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza),  art.  73,
  comma 1. 
(GU n.9 del 1-3-2017 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Sesta sezione penale 
 
    composta da 
    Domenico Carcano - Presidente; 
    Andrea Tronci; 
    Pierluigi Di Stefano; 
    Massimo Ricciarelli; 
    Alessandra Bassi, relatore; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza  sul  ricorso  proposto  da:
Procuratore della Repubblica presso  il  Tribunale  di  Imperia,  nei
confronti di Chebby Walid  nato  il  24  settembre  1980  avverso  la
sentenza del 22 aprile 2015 del Gip del Tribunale di Imperia; 
    visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    udita in pubblica udienza del  13  dicembre  2016,  la  relazione
svolta dal consigliere Alessandra Bassi; 
    udito il Procuratore generale in persona del Ciro Angelillis, che
ha concluso chiedendo l'annullamento con  rinvio  della  sentenza  in
relazione  all'art.  73,  comma  5  decreto  del   Presidente   della
Repubblica n. 309/1990. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con il provvedimento  in  epigrafe,  il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale di Imperia  ha  condannato,  all'esito  del
giudizio abbreviato, Walid Chebby alle pene di legge, in ordine a due
violazioni dell'art. 73 decreto del  Presidente  della  Repubblica  9
ottobre 1990, n. 309, riqualificate dal decidente ai sensi del  comma
5 della stessa disposizione. In particolare, la  prima  contestazione
sub capo A) ha ad  oggetto  la  detenzione  di  23  ovuli  contenenti
complessivamente  10,07  grammi  di  eroina,  di  cui  3773   mg   di
eroina-base pari a circa 150 dosi singole da 25 mg;  la  seconda  sub
capo B) concerne la cessione continuata ad un  primo  acquirente,  da
novembre a dicembre 2013 - con cadenza di almeno quattro  volte  alla
settimana (per un totale di circa 130  cessioni),  e  ad  un  secondo
acquirente, da febbraio a marzo 2014 - con cadenza di  due/tre  volte
alla settimana (per un totale di  circa  140  cessioni)  -,  in  ogni
occasione  di  dosi  di  circa  mezzo  grammo  di  eroina,   per   il
corrispettivo di 40 euro ciascuna. 
    A   sostegno   della   riqualificazione   giuridica   dei   fatti
nell'ipotesi lieve, il Giudice di merito ha  valorizzato  il  modesto
quantitativo delle singole dosi di volta in volta cedute, seppure per
un ambito temporale di qualche mese, la natura di «droga  da  strada»
dell'eroina - notoriamente connotata da una percentuale di  principio
attivo bassissima (del 2 o 3%)  -,  i  ricavi  modesti  tratti  dalle
cessioni, l'assenza  di  elementi  che  consentano  di  ritenere  che
l'imputato  sia  dedito  ad  un  traffico  stabile   e   lucroso   di
stupefacenti, trattandosi piuttosto di un «manovale del crimine». 
    In punto di trattamento sanzionatorio, il  Gup  ha  applicato  le
circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto
alla  contestata  e  ritenuta  recidiva,  in   considerazione   della
condizione  di  tossicodipendenza  dell'imputato  e  del   suo   buon
comportamento processuale. 
    2. Ricorre avverso la sentenza il pubblico  ministero  presso  il
Tribunale di Imperia e ne chiede l'annullamento  per  inosservanza  o
erronea  applicazione  di  legge  e  contraddittorieta'  o  manifesta
illogicita'  della  motivazione  in   relazione   al   riconoscimento
dell'ipotesi  lieve  di  cui  all'art.  73,  comma  5,  decreto   del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990,  n.  309,  nonche'  delle
circostanze attenuanti generiche. In particolare: 
    2.1. in  relazione  al  primo  profilo  di  doglianza,  la  parte
pubblica ricorrente evidenzia come, nella  specie,  non  ricorrano  i
presupposti  dell'ipotesi  lieve  dal  momento  che  l'imputato,   in
relazione alla contestazione sub capo A), deteneva sulla  persona  di
23 involucri di eroina pronti  per  essere  ceduti  -  contenenti  un
quantitativo complessivo di eroina base pari a 3773 mg da  cui  erano
ricavabili circa 150 dosi singole da 25 mg ciascuna -; era dedito  ad
un'attivita' di smercio  con  modalita'  professionali  -  stante  la
vendita abituale e quotidiana in uno stesso luogo con  l'utilizzo  di
ben due utenze cellulari, sulle  quali  i  clienti  effettuavano  gli
ordinativi, con una clientela ben  piu'  ampia  dei  due  acquirenti,
identificati ed escussi dagli  inquirenti,  di  cui  al  capo  B)  -;
disponeva della somma di 195 euro in contanti, suddivisa in banconote
di piccolo taglio, in assenza di alcuna lecita attivita' lavorativa. 
    2.2. In merito alla seconda censura, il ricorrente  rimarca  come
l'imputato  non  possa   ritenersi   meritevole   delle   circostanze
attenuanti generiche alla  luce  della  condizione  di  assuntore  di
stupefacenti  ne'  delle  telegrafiche  spontanee  dichiarazioni  che
rendeva in udienza, dopo due interrogatori nei quali si  era  avvalso
della facolta' di non rispondere, al chiaro  scopo  di  ottenere  una
mitigazione del trattamento sanzionatorio, in assenza di una  sincera
resipiscenza. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Ritiene la Corte che sussistano i presupposti per sollevare la
questione di  legittimita'  costituzionale,  per  contrasto  con  gli
articoli 25, 3 e 27 Cost., in relazione all'art. 73, comma 1, decreto
del Presidente della Repubblica n. 309/1990, nella parte in cui detta
norma prevede - a seguito della sentenza n. 32 dell'11 febbraio  2014
della Corte costituzionale - la pena minima edittale di otto anni  in
luogo  di  quella  di  sei  anni  introdotta  con  l'art.  4-bis  del
decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con  modificazioni
con la legge 21 febbraio 2006, n. 49. 
    2. In via preliminare,  occorre  notare  come  la  questione  sia
rilevante ai fini della decisione del ricorso sottoposto al vaglio di
questo Collegio. 
    2.1. Il pubblico ministero di Imperia ha proposto ricorso avverso
la sentenza pronunciata  dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del
medesimo Tribunale, all'esito del giudizio abbreviato, nei  confronti
di  Walid  Chebby,  per  due  violazioni  dell'art.  73  decreto  del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, riqualificate dal
decidente  ai  sensi  del  comma  5  della  stessa  disposizione.  In
particolare, il pubblico ministero ritiene che  non  sia  ravvisabile
l'ipotesi  lieve  con  riguardo   a   nessuna   delle   condotte   in
contestazione: quanto alla prima,  in  considerazione  del  rilevante
dato ponderale  della  sostanza  detenuta  e  dall'elevato  grado  di
purezza dello stupefacente - da cui erano ricavabili ben 150 dosi  -,
della suddivisione della sostanza  in  23  involucri,  nonche'  delle
ulteriori «modalita' e circostanze dell'azione» del caso  concreto  -
quali la disponibilita' in capo all'imputato di una  rilevante  somma
di denaro in contanti e della operativita' in  una  vasta  e  florida
piazza di spaccio -, indicative della professionalita'  dell'illecito
agire.  Quanto  alla  seconda  condotta  ascritta,  in  ragione   del
rilevante ambito temporale  in  cui  si  sono  dipanate  le  condotte
illecite (almeno otto mesi), della cadenza ravvicinata delle cessioni
ai due acquirenti, del comprovato inserimento  dell'imputato  in  una
rete  organizzata  di  distribuzione  nonche'  della  abitualita'   e
serialita' dell'attivita' di spaccio  in  assenza  di  una  qualunque
fonte lecita di  reddito,  elementi  indicativi  dell'ampia  rete  di
smercio facente capo all'imputato, ben  oltre  i  due  unici  clienti
individuati dalla polizia giudiziaria  sulla  base  dell'esplorazione
della memoria digitale dei telefoni cellulari in uso allo Chebby. 
    2.2. Orbene, ritiene il Collegio che le censure mosse dalla parte
pubblica con riguardo ad entrambe le contestazioni colgano nel segno. 
    Quanto alla contestazione sub capo A), mette  conto  di  rilevare
che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte regolatrice,
l'avvenuta trasformazione della fattispecie  prevista  dall'art.  73,
comma 5, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre  1990,  n.
309, da circostanza attenuante ad ipotesi autonoma  di  reato  -  per
effetto  dell'art.  2  decreto-legge  23  dicembre  2013,   n.   146,
convertito con modificazioni dalla legge 21 febbraio 2014,  n.  10  -
non ha comportato alcun mutamento nei caratteri costitutivi del fatto
di lieve entita', che continua ad essere configurabile nelle  ipotesi
di minima offensivita' penale della condotta, deducibile sia dal dato
qualitativo e quantitativo,  sia  dagli  altri  parametri  richiamati
dalla disposizione (mezzi, modalita', circostanze  dell'azione),  con
la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti
negativamente assorbente, ogni altra considerazione  resta  priva  di
incidenza sul giudizio (Sez. 4, n. 15020 del 29 gennaio 2014,  Bushi,
Rv. 259353; conf. n. 27480/2014 e n. 29260/2014, non massimate). 
    Mantengono pertanto inalterata validita' i principi  espressi  da
questa  Corte  nel  suo  piu'  ampio  consesso,  secondo   cui   tale
fattispecie puo'  essere  riconosciuta  solo  in  ipotesi  di  minima
offensivita'  penale  della  condotta,  deducibile   sia   dal   dato
qualitativo e quantitativo,  sia  dagli  altri  parametri  richiamati
dalla disposizione (mezzi, modalita', circostanze  dell'azione),  con
la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti
negativamente assorbente, ogni altra considerazione  resta  priva  di
incidenza sul giudizio (Sez. U, n. 35737 del 24 giugno 2010, P.G.  in
proc. Rico, Rv. 247911). 
    Allorche' la quantita' di stupefacente  risulti  «considerevole»,
risulta evidente la significativa potenzialita' offensiva  del  fatto
ed il pericolo di diffusivita' della  sostanza,  che  impediscono  di
ravvisare la fattispecie incriminatrice in parola. 
    2.3. Sulla scorta di tali  coordinate  ermeneutiche,  giudica  il
Collegio che la decisione  del  Giudice  a  quo  -  nel  senso  della
ritenuta sussistenza dei presupposti del fatto di  lieve  entita'  di
cui all'art. 73, comma 5, decreto del Presidente della  Repubblica  9
ottobre 1990, n. 309 -, non possa  ritenersi  corretta.  Cio'  sia  a
fronte del rilevante dato ponderale del  materiale  drogante  oggetto
della condotta sub capo A), da cui erano ricavabili 150 dosi singole,
di per se' difficilmente conciliabile con l'ipotesi lieve, che - come
sopra rilevato - presuppone una trascurabile entita' della lesione  o
della messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice,
che  va  appunto  riferito  all'interesse  sociale  ad  evitare  ogni
diffusione delle sostanze droganti; sia delle  ulteriori  circostanze
dell'agire - ben lumeggiate dall'inquirente sulla scorta della stessa
ricostruzione in fatto  del  Giudice  della  cognizione  -,  tali  da
connotare il fatto in termini di offensivita' non modesta, in ragione
dell'inserimento dell'episodio in un contesto di spaccio  continuato,
abituale, condotto con modalita' organizzate e  rivolto  ad  un'ampia
platea di clienti. 
    2.4.  Le  considerazioni  teste'  svolte  valgono  anche  per  la
contestazione sub capo B). Non e' revocabile in  dubbio  che  -  come
questa Corte regolatrice ha avuto modo di affermare - lo  svolgimento
di  un'attivita'  di  spaccio  di  stupefacenti  non  occasionale  ma
continuativo non sia di per se' incompatibile con l'attenuante  della
lieve entita' del fatto. La previsione normativa dell'art. 74,  comma
6, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, di
un'associazione  per  delinquere  costituita  per  commettere   fatti
descritti dal comma 5 dell'art. 73 stesso decreto - cioe'  una  serie
indeterminata di fatti di lieve entita' - rende evidente che, a  piu'
forte ragione, e' ammissibile configurare come lievi gli episodi  che
costituiscono attuazione del programma criminoso associativo (Sez. 6,
n. 25988 del 29 maggio 2008, pubblico ministero in  proc.  Lataj  Rv.
240569; Sez. 4, n. 1736 del 27 novembre 1997, Fierro, Rv. 210161). Ne
discende che il fatto di lieve entita' non puo' essere legittimamente
escluso in ragione della reiterazione nel tempo di una pluralita'  di
condotte  di  cessione  della  droga,  giacche'  in   tal   modo   si
prescinderebbe da una valutazione di tutti  i  parametri  dettati  in
proposito  dall'art.  73,  comma  5,  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 21612  del  29/04/2014,
Villari Rv. 259233). 
    In ossequio al principio di diritto appena  delineato,  ferma  la
modesta entita' ponderale delle singole dosi oggetto delle  reiterate
cessioni da parte di Chebby ai due clienti  abituali  indicati  nella
imputazione (giusta il loro vile controvalore di 40 euro), il giudice
a  quo  ha  peraltro  trascurato  di  considerare,  da  un  lato,  la
circostanza che la cadenza ravvicinata delle cessioni non poteva  non
presupporre una disponibilita' complessiva a monte  di  quantita'  di
stupefacente non irrilevanti; per altro verso, gli  ulteriori  indici
fattuali  relativi  a  «i  mezzi,  la  modalita'  e  le   circostanze
dell'azione»  -  puntualmente  evidenziati  dal  ricorrente  -,   non
conciliabili  con  l'ipotesi  lieve  che  -  come  gia'  rimarcato  -
presuppone, anche in caso di svolgimento dell'attivita' delittuosa in
forma  organizzata,  una  modesta   pericolosita'   e   una   flebile
offensivita' della condotta, da  valutare  in  relazione  al  rischio
concreto di diffusivita' e di circolazione della sostanza drogante. 
    2.5. Nel senso della insussistenza dei presupposti per ricondurre
le vicende sub iudice all'ipotesi lieve  si  e'  del  resto  espresso
anche il Procuratore  generale  il  quale,  all'odierna  udienza,  ha
chiesto  che  la  sentenza  sia  annullata  proprio   in   punto   di
qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell'art.  73,  comma  5,
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. 
    3. Sulla  scorta  delle  superiori  considerazioni,  ritenuta  la
sussistenza dei  presupposti  dell'ipotesi  delineata  nell'art.  73,
comma 1, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre  1990,  n.
309, si appalesa evidente la  rilevanza  nel  caso  di  specie  della
questione di legittimita' costituzionale in relazione al  trattamento
sanzionatorio previsto per tale delitto, come  risultante  a  seguito
della pronuncia d'incostituzionalita' dell'art.  4-bis  decreto-legge
30 dicembre 2005, n. 272, convertito con legge 21 febbraio  2006,  n.
49. 
    3.1. A tale riguardo, negli ultimi  paragrafi  della  motivazione
della citata decisione,  la  Corte  costituzionale  ha  espressamente
rilevato che, in forza della pronuncia d'incostituzionalita' da  essa
resa, «riprende applicazione l'art. 73  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica n. 309 del 1990 nel testo anteriore  alle  modifiche
con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede  un
trattamento sanzionatorio piu' mite, rispetto a quello caducato,  per
gli illeciti concernenti le cosiddette "droghe leggere"  (puniti  con
la pena della reclusione da due a sei anni e  della  multa,  anziche'
con la pena della reclusione da sei a  venti  anni  e  della  multa),
viceversa stabilisce sanzioni piu' severe per i reati concernenti  le
cosiddette "droghe pesanti" (puniti con la pena della  reclusione  da
otto a venti anni, anziche' con quella da sei a venti anni)». 
    3.2. Giudica il Collegio che, in considerazione del  quantitativo
di  stupefacente  oggetto  delle  condotte  e   delle   modalita'   e
circostanze dei fatti - dunque  della  concreta  gravita'  dei  reati
sotto il profilo oggettivo e soggettivo -, pur non versandosi in casi
riportabili al disposto del comma 5 dell'art. 73, si tratti nondimeno
di vicende di  non  particolare  gravita',  rispetto  alle  quali  il
Giudice di merito  investito  del  giudizio  di  rinvio  attesterebbe
l'entita' della sanzione intorno al  minimo  edittale.  Minimo  della
pena che, secondo le indicazioni espresse  dal  giudice  delle  leggi
nella pronuncia d'incostituzionalita' n. 32 del 2014, si individua, a
seguito della declaratoria d'incostituzionalita',  in  otto  anni  di
reclusione  (ed  euro   25.822,00   di   multa),   limite   inferiore
dell'intervallo edittale della pena detentiva che questa Corte dubita
- appunto - essere conforme al dettato costituzionale per le  ragioni
di seguito esposte. 
    4. Tanto premesso quanto alla rilevanza ai fini  della  decisione
della   causa,   ritiene   questa   Corte   che   la   questione   di
costituzionalita' sia anche  non  manifestamente  infondata.  A  tale
fine,  il  giudice  remittente  non  deve  difatti  stabilire  se  la
questione sia fondata o infondata -  compito,  questo,  di  esclusiva
competenza  della  Corte  costituzionale  -,   ma   deve   unicamente
verificare se essa sia o meno manifestamente  infondata,  limitandosi
ad una valutazione sommaria, per rilevare se esista, a  prima  vista,
un dubbio di costituzionalita'. Dubbio  che,  nella  fattispecie,  il
Collegio stima non meramente plausibile, ma  serio  e  meritevole  di
vaglio  da  parte   dell'organo   giurisdizionale   istituzionalmente
deputato al controllo di costituzionalita' delle leggi. 
    5. Dato conto della rilevanza e della non manifesta  infondatezza
della questione di costituzionalita' e prima di passare alla disamina
dei profili di contrasto con la Carta  fondamentale,  occorre  ancora
rammentare   che    la    Corte    costituzionale    ha    dichiarato
l'incostituzionalita' delle  norme  di  cui  agli  articoli  4-bis  e
4-vicies ter decreto-legge n. 272 del 2005 (la prima delle  quali  ha
appunto modificato la disposizione che  qui  viene  in  rilievo)  con
riferimento all'art. 77,  comma  secondo,  Cost.,  sulla  base  della
rilevata  eterogeneita'  delle  disposizioni  aggiunte  in  sede   di
conversione in legge del citato decreto-legge (con legge  n.  49  del
2006) rispetto al  contenuto  ed  alla  finalita'  del  provvedimento
d'urgenza,  dunque  in  ragione  del  non  corretto  uso  del  potere
legislativo di conversione facente capo al Parlamento. In sintesi, in
ragione di un vizio procedurale nella formazione della legge. 
    5.1. Deve essere ancora precisato che, avendo  riguardo  al  mero
profilo sanzionatorio (lasciando qui da parte - in quanto irrilevante
ai fini che ci occupano - il tema delle  tabelle  ministeriali  degli
stupefacenti, parimenti investito  dalla  pronuncia  n.  32/2014)  -,
l'intervento  del  Giudice  costituzionale  sulle  norme  a  modifica
dell'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre  1990,
n. 309, si e' tradotto  nella  (re-)introduzione  di  un  trattamento
sanzionatorio piu' mite  -  rispetto  a  quello  caducato  -  per  le
condotte concernenti le cosiddette droghe leggere e, viceversa, in un
trattamento sanzionatorio  piu'  severo  per  quelle  concernenti  le
cosiddette    droghe    pesanti,    proprio     in     considerazione
dell'innalzamento del minimo edittale della pena detentiva da  sei  a
otto anni di reclusione (mentre la pena pecuniaria e'  stata  ridotta
da 26.000 a 25.822 euro di multa). 
    6. A giudizio del Collegio, il limite minimo edittale della  pena
detentiva di otto anni di reclusione previsto  dal  citato  art.  73,
comma 1, quale risultato della  pronuncia  d'incostituzionalita'  del
citato art. 4-bis, si pone in contrasto con il disposto dell'art. 25,
comma secondo, Cost., la' dove sancisce il principio  di  riserva  di
legge in materia penale. 
    6.1. A tale proposito, va premesso che, secondo il sistema  delle
fonti del diritto quale e' delineato nella nostra Carta  Fondamentale
e risulta dall'assetto attuale del nostro ordinamento  giuridico,  le
sentenze costituzionali di accoglimento - di natura sia ablativa, sia
addittiva -, avendo carattere di generalita' (erga  omnes),  incidono
direttamente sulla disciplina normativa vigente  in  una  determinata
materia e devono, pertanto, essere considerate quali vere  e  proprie
fonti del diritto penale. 
    Ferma la natura di fonte normativa, in linea con  le  indicazioni
della migliore dottrina ed in ossequio  ai  principi  espressi  dalla
stessa Consulta negli arresti che saranno nel  prosieguo  disaminati,
e' tuttavia da  escludere  che  le  sentenze  di  accoglimento  delle
questioni  d'incostituzionalita'  possano  essere   equiparate,   nel
sistema gerarchico delle fonti, alle  norme  costituzionali,  dovendo
piuttosto essere assimilate alle norme legislative ordinarie. Come ha
condivisibilmente  rilevato  un'autorevole  dottrina,   le   sentenze
additive devono essere considerate alla stregua di una fonte di rango
legislativo e non  costituzionale:  la  porzione  normativa  aggiunta
mediante la pronuncia  di  incostituzionalita'  puo'  essere  infatti
sostituita successivamente  dal  legislatore  ordinario,  che  rimane
pertanto libero di regolare la materia con una diversa disciplina. 
    6.2. Chiarito che la sentenza d'incostituzionalita' si pone su di
un piano di parita' rispetto alla legge ordinaria, l'esercizio  della
funzione legislativa ad opera della giustizia costituzionale non puo'
non raffrontarsi, ed incontrare in essa un limite, con la riserva  di
legge in materia penale, sancita dall'art. 25, comma  secondo,  Cost.
Detta norma afferma, difatti,  il  principio  di  carattere  generale
secondo il quale gli interventi in materia penale  tesi  ad  ampliare
l'area di un'incriminazione ovvero ad inasprirne le sanzioni  possono
essere legittimamente compiuti  soltanto  ad  opera  del  legislatore
parlamentare. La Carta Fondamentale assicura cosi' al  cittadino  che
la produzione della legislazione penale - quella che piu' delle altre
incide sui diritti e sulle liberta' fondamentali della persona -  sia
affidata  al  Parlamento,   quale   organo   dotato   della   massima
legittimazione democratica. 
    6.3. Sulla scorta  delle  considerazioni  che  precedono  e  come
meglio si argomentera' nel prosieguo,  ritiene  il  Collegio  che  la
declaratoria d'incostituzionalita' di una norma penale  generale  dal
contenuto  favorevole  (che  non  introduca,  cioe',  un  trattamento
privilegiato soltanto per determinate  categorie  di  soggetti  o  di
comportamenti) non possa ritenersi conforme al dettato dell'art.  25,
comma secondo, della Carta fondamentale. 
    Cio' neanche nel caso in cui la norma introdotta  dal  Parlamento
costituisca il frutto di un procedimento  di  formazione  legislativa
viziato, per contrasto con la disposizione  -  anch'essa  di  rilievo
costituzionale dell'art. 77,  comma  secondo,  Cost.,  la'  dove,  in
materia  penale,  detto  vizio  procedurale  non  puo'   non   essere
recessivo, in un  giudizio  di  bilanciamento  fra  valori  di  rango
costituzionale in gioco, rispetto al principio di riserva di legge in
materia penale, per l'evidente pregnanza che detto  principio  assume
nell'ordinamento giuridico per il diretto  riverbero  sulle  liberta'
fondamentali della generalita' dei cittadini. 
    7. A sostegno di tale conclusione soccorrono i principi  espressi
dallo stesso Giudice delle leggi in tema di controllo di legittimita'
costituzionale delle norme penali  favorevoli,  tale  essendo  quella
contenuta nel citato art. 4-bis nella parte in cui prevedeva  -  come
gia' evidenziato - il minimo edittale di pena  detentiva  per  l'art.
73, comma 1, di sei anni  di  reclusione,  dunque  significativamente
piu' lieve - soprattutto con riguardo alla pena detentiva - di quello
reso vigente. 
    7.1. Illuminanti al riguardo sono le  considerazioni  svolte  dal
Giudice costituzionale nella sentenza n. 394  dell'8  novembre  2006,
avente ad oggetto il denunciato  contrasto  con  l'art.  3  Cost.  di
alcune norme in materia di reati elettorali. In  tale  pronuncia,  la
Consulta ha osservato che «secondo la consolidata  giurisprudenza  di
questa Corte, all'adozione di pronunce in  malam  partem  in  materia
penale  osta  non  gia'  una  ragione  meramente  processuale  -   di
irrilevanza, nel senso che l'eventuale decisione di accoglimento  non
potrebbe trovare comunque applicazione nel giudizio a quo  -  ma  una
ragione sostanziale, intimamente connessa al principio della  riserva
di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale
«nessuno puo' essere punito se non in forza  di  una  legge  che  sia
entrata in vigore prima del fatto  commesso»  (ex  plurimis,  tra  le
ultime, sentenze n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002, n. 508  del  2000;
ordinanze n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n.  392  del  1998;  con
particolare riguardo alla materia elettorale, ordinanza  n.  132  del
1995).   Rimettendo   al   legislatore   -    e    segnatamente    al
«soggetto-Parlamento»,   in   quanto   rappresentativo    dell'intera
collettivita' nazionale (sentenza n. 487 del 1989) - la riserva sulla
scelta  dei  fatti  da  sottoporre  a  pena  e  delle  sanzioni  loro
applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove
fattispecie criminose o di estendere  quelle  esistenti  a  casi  non
previsti; sia di incidere in  peius  sulla  risposta  punitiva  o  su
aspetti comunque inerenti alla  punibilita'  (e  cosi',  ad  esempio,
sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti  interruttivi
o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000  e  n.  337  del
1999).  Questa  Corte  ha  peraltro  chiarito  che  il  principio  di
legalita' non preclude lo scrutinio di  costituzionalita',  anche  in
malam partem, delle c.d. norme penali di favore:  ossia  delle  norme
che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un  trattamento
penalistico   piu'   favorevole   di    quello    che    risulterebbe
dall'applicazione di norme generali o comuni. Di tale orientamento  -
che trova la sua prima compiuta enunciazione nella  sentenza  n.  148
del 1983 - questa Corte ha fatto ripetute applicazioni  (sentenze  n.
167 e n. 194 del 1993; n. 124 del 1990; n. 826 del  1988),  anche  in
rapporto a questioni di costituzionalita' omologhe a quelle  oggi  in
esame, dirette a conseguire una modifica peggiorativa del trattamento
sanzionatorio di determinate figure di  reato  (sentenza  n.  25  del
1994; v., altresi', le ordinanze n. 95 del 2004 e n.  433  del  1998,
con le quali la Corte ha scrutinato direttamente nel merito questioni
di tal fatta). Esso si connette all'ineludibile esigenza  di  evitare
la creazione di «zone franche» dell'ordinamento (cosi' la sentenza n.
148 del 1983), sottratte al controllo di costituzionalita', entro  le
quali il legislatore potrebbe di fatto  operare  svincolato  da  ogni
regola, stante l'assenza d'uno strumento che permetta alla  Corte  di
riaffermare  il  primato  della   Costituzione   sulla   legislazione
ordinaria.   Qualora   alla   preclusione    dello    scrutinio    di
costituzionalita'  in  malam  partem   fosse   attribuito   carattere
assoluto, si determinerebbe, in effetti, una  situazione  palesemente
incongrua: venendosi a riconoscere, in sostanza, che  il  legislatore
e' tenuto a rispettare i precetti costituzionali se  effettua  scelte
di aggravamento del trattamento penale, mentre  puo'  violarli  senza
conseguenze, quando dalle sue  opzioni  derivi  un  trattamento  piu'
favorevole. In accordo con l'esigenza ora evidenziata,  va  osservato
che il principio di legalita'  impedisce  certamente  alla  Corte  di
configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative
di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte
alla sfera applicativa di una norma comune o comunque piu'  generale,
accordando loro un trattamento piu' benevolo  (sentenza  n.  148  del
1983): e cio' a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite
il quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante,
di una causa di non punibilita', di una causa di estinzione del reato
o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura  autonoma
di reato punita in modo piu' mite). In simili frangenti, difatti,  la
riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione resta salva:
l'effetto in malam partem non  discende  dall'introduzione  di  nuove
norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della  Corte,
la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata  lesiva  dei
parametri costituzionali; esso rappresenta, invece,  una  conseguenza
dell'automatica riespansione della norma generale o  comune,  dettata
dallo   stesso   legislatore,   al   caso   gia'   oggetto   di   una
incostituzionale   disciplina    derogatoria.    Tale    riespansione
costituisce una reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla
sua  unitarieta'  -  alla  scomparsa  della  norma  incostituzionale:
reazione che  si  verificherebbe  in  ugual  modo  anche  qualora  la
fattispecie derogatoria rimossa fosse piu' grave;  nel  qual  caso  a
riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave,  senza  che
in siffatto fenomeno possa ravvisarsi  alcun  intervento  creativo  o
additivo della Corte in materia punitiva. 
    Con riguardo ai criteri di identificazione delle norme penali  di
favore, questa Corte ha gia' avuto modo di sottolineare come  occorra
distinguere fra le previsioni normative che  «delimitano»  l'area  di
intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla  definizione
della fattispecie di reato; e quelle  che  invece  «sottraggono»  una
certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di applicazione  di
altra norma,  maggiormente  comprensiva.  Solo  a  queste  ultime  si
attaglia, in effetti - ove l'anzidetta sottrazione si  risolva  nella
configurazione di un trattamento privilegiato - la qualificazione  di
norme penali di favore; non invece alle prime, le quali si  traducono
in dati normativi  espressivi  di  «una  valutazione  legislativa  in
termini di «meritevolezza» ovvero di  «bisogno»  di  pena,  idonea  a
caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»: scelta cui  la
Corte non potrebbe sovrapporre - «senza esorbitare dai propri compiti
ed invadere il campo riservato dall'art. 25, secondo comma, Cost.  al
legislatore» - «una diversa strategia di criminalizzazione  volta  ad
ampliare»,  tramite  ablazione  degli  elementi  stessi,  «l'area  di
operativita' della sanzione». 
    7.2.  Occorre  rimarcare  come  la  Corte   costituzionale,   nel
tracciare il discrimen fra le norme favorevoli suscettibili e  quelle
insuscettibili di scrutinio di  costituzionalita',  abbia  richiamato
espressis verbis i principi affermati nella precedente  pronuncia  n.
161 del 26 maggio 2004, con la quale ha dichiarato  inammissibile  la
questione di incostituzionalita' - per contrasto con gli articoli  3,
24, primo comma, e 27, terzo comma, Cost. -  degli  articoli  2621  e
2622 codice civile in  relazione  alla  previsione  delle  soglie  di
punibilita'  a  carattere  percentuali  e  dell'ulteriore   requisito
dell'alterazione sensibile della  rappresentazione  della  situazione
economica. Nella motivazione, la  Corte  ha  evidenziato  come  detti
requisiti dell'incriminazione - in quanto  rivolte  alla  generalita'
dei cittadini e non ad una categoria «privilegiata»  -  costituiscano
espressione della discrezionalita' del legislatore e, dunque, di  una
scelta sottratta al sindacato della Corte, «la  quale  non  potrebbe,
senza esorbitare dai propri compiti ed invadere  il  campo  riservato
dall'art. 25, secondo comma, Cost.  al  legislatore,  sovrapporre  ad
essa - tramite l'intervento ablativo invocato - una diversa strategia
di criminalizzazione, volta ad ampliare l'area di operativita'  della
sanzione  prevista  dalla  norma  incriminatrice  (conf.   cfr.,   ex
plurimis, sentenze n. 49 del 2002; n. 183, n. 508 e n. 580 del  2000;
n. 411 del 1995)». 
    7.3. Orbene, schematizzando i principi espressi dal Giudice delle
leggi nelle pronunce dianzi  passate  in  rassegna,  nella  categoria
delle norme penali  favorevoli  si  inscrivono,  a  ben  vedere,  due
tipologie di provvedimenti: 
    a) le norme penali «di favore», cioe'  quelle  che  «sottraggono»
una certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di applicazione
di  un'altra  norma,  maggiormente  comprensiva,  risolvendosi  nella
configurazione di un trattamento privilegiato per  una  categoria  di
persone o per alcune condotte, esonerandole da  sanzione  o  comunque
assoggettandole ad una risposta sanzionatoria piu' benevola; 
    b) le norme  favorevoli  di  carattere  generale  o  comune,  che
realizzano un effetto favorevole - la' dove restringono il  perimetro
della  incriminazione,  circoscrivono  l'ambito  della   punibilita',
introducono una causa di  giustificazione  ovvero  affievoliscono  la
sanzione gia' comminata - sulla base di «una valutazione  legislativa
in termini di "meritevolezza" ovvero di "bisogno" di pena,  idonea  a
caratterizzare una precisa scelta politico-criminale». 
    Ricostruita la linea di demarcazione  fra  le  due  tipologie  di
norme penali favorevoli, le indicazioni  del  Giudice  costituzionale
sono  nette   nel   senso   di   ritenere   che   lo   scrutinio   di
costituzionalita'  -  sebbene  suscettibile  di  riverberare  in  una
decisione in malam partem  -  sia  consentito  solo  e  soltanto  con
riguardo alle norme penali di favore  in  senso  stretto,  id  est  a
quelle che  introducono  una  disciplina  speciale  rispetto  ad  una
disciplina generale. Secondo il dictum della  sentenza  n.  394/2006,
«la nozione di norma penale di favore e' la risultante di un giudizio
di relazione fra due o piu' norme compresenti nell'ordinamento in  un
dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione possa  esser
fatta discendere dal raffronto tra una norma  vigente  ed  una  norma
anteriore, sostituita  dalla  prima  con  effetti  di  restringimento
dell'area  di  rilevanza  penale  o  di  mitigazione  della  risposta
punitiva». Si  tratta  dunque  di  quelle  norme  che,  un'autorevole
dottrina, ha  inquadrato  in  un  rapporto  di  specialita'  di  tipo
sincronico che si instaura fra due norme che coesistono  allo  stesso
tempo nel sistema penale. 
    Seguendo le coordinate ermeneutiche tracciate dalla stessa  Corte
costituzionale, certamente, non  e'  assoggettabile  a  scrutinio  di
costituzionalita' in malam partem  quella  norma  che,  ponendosi  in
rapporto   diacronico   con   quella   preesistente,   comporti   una
«mitigazione della risposta punitiva», trattandosi in  tale  caso  di
una semplice ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, di  un
intervento   di   carattere   generale   frutto   della   valutazione
discrezionale riservata al legislatore in materia penale, non teso ad
introdurre un privilegio per particolari categorie di soggetti  o  di
comportamenti. Inequivoco in  tale  senso  e'  l'ulteriore  passaggio
della sentenza n. 394/2006, nel quale si e' notato che,  in  caso  di
sostituzione di una norma ad un'altra «con effetti di  restringimento
dell'area  di  rilevanza  penale  o  di  mitigazione  della  risposta
punitiva», «la richiesta di sindacato in malam partem  mirerebbe  non
gia' a far riespandere la  portata  di  una  norma  tuttora  presente
nell'ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma  abrogata,
espressiva  di  scelte  di  criminalizzazione   non   piu'   attuali:
operazione,  questa,  senz'altro  preclusa  alla  Corte,  in   quanto
chiaramente invasiva del monopolio del legislatore  su  dette  scelte
(sentenze n. 330 del 1996 e n. 108 del 1981;  ordinanza  n.  175  del
2001)». 
    7.4. In ossequio ai principi espressi dalla Corte  costituzionale
in  tale  arresto  chiarificatore,  non   puo'   pertanto   ritenersi
consentita la pronuncia d'incostituzionalita'  in  malam  partem  che
interessi una norma - come appunto quella di cui si discute - con  la
quale  il  legislatore  sia  intervenuto  a  modificare  la  risposta
sanzionatoria (nello  specifico,  abbassando  il  minimo  della  pena
detentiva da otto a sei anni di reclusione,  lasciando  invariato  il
massimo della  pena),  in  virtu'  di  una  valutazione  di  politica
criminale tesa a garantire - giusta l'ampliamento di uno dei  margini
dell'intervallo  sanzionatorio  -  una  migliore  modulazione   della
risposta sanzionatoria alle condotte concernenti gli stupefacenti  e,
dunque, ad assicurare l'applicazione di una  pena  piu'  adeguata  al
caso di specie. 
    7.5. Ne' a  smentire  la  natura  di  norma  generale  favorevole
dell'art. 73, comma 1, nella parte in cui prevedeva - ante  pronuncia
n.  32/2014  -   una   pena   minima   inferiore,   potrebbe   valere
l'osservazione che, sotto il disposto di tale previsione,  ricadevano
condotte aventi ad oggetto tanto le droghe c.d. pesanti quanto quelle
leggere, se solo si considera che la  parificazione  del  trattamento
sanzionatorio per gli illeciti concernenti le  diverse  tipologie  di
sostanze non poteva impedire - anzi pacificamente consentiva  -  che,
nel punire fatti riguardanti le sostanze della Tabella I del  decreto
ministeriale (cioe' le  c.d.  droghe  pesanti),  il  giudice  potesse
fissare la pena-base sul minimo edittale di sei anni di reclusione. 
    8.   Ritiene   questa    Corte    che    la    declaratoria    di
incostituzionalita'  di  una  norma  generale  favorevole   non   sia
consentita neanche in presenza di un vizio procedurale  commesso  dal
Parlamento nella formazione della legge. 
    8.1.  A  tale  proposito,  va,  in  primo  luogo,  rammentato  il
pronunciamento n. 161 del 2004, gia' sopra ricordato, in  materia  di
false comunicazioni sociali ex articoli 2621 e 2622 codice civile  In
tale arresto, la  Corte  ha  dichiarato  inammissibile  la  questione
d'incostituzionalita' sollevata con riguardo  alla  previsione  delle
soglie  di  punibilita'  in  quanto   rispondente   ad   una   scelta
discrezionale  del  legislatore,  e  cio'  sebbene  fra   i   profili
d'incostituzionalita'  evidenziati  dal  remittente  vi  fosse  anche
quello di cui all'art. 76  Cost.  concernente  l'eccesso  di  delega,
dunque un vizio procedimentale connesso all'esercizio della  funzione
legislativa delegata  al  Governo.  In  tale  pronuncia,  il  Giudice
costituzionale ha affermato che il principio di riserva di legge  non
tollera limitazioni e deve, pertanto, prevalere rispetto a  qualunque
vizio procedurale nella formazione della  legge,  anche  se  commessa
nell'esercizio della funzione legislativa delegata all'Esecutivo. 
    8.2. Lo scrutinio di  costituzionalita'  avente  ad  oggetto  una
norma penale favorevole frutto  di  un  vizio  procedurale  non  puo'
ritenersi ammesso neanche alla  luce  dei  principi  affermati  dalla
Corte costituzionale nelle pronunce n. 361 del  2010  e  n.  123  del
2011, nelle quali venivano in rilievo  censure  di  costituzionalita'
concernenti atti legislativi regionali per  violazione  del  disposto
degli articoli 117  e  118  Cost.:  in  tali  casi,  la  Consulta  ha
affermato che, «in base alla giurisprudenza di questa  Corte,  l'atto
affetto da  vizio  radicale  nella  sua  formazione  e'  inidoneo  ad
innovare l'ordinamento e, quindi, anche  ad  abrogare  la  precedente
normativa». Se non che le citate sentenze  nn.  361  e  123,  per  un
verso, non riguardano materie  penali  sicche'  i  principi  in  esse
espressi,  seppur  utili  a  descrivere   i   vizi   del   meccanismo
procedimentale di approvazione di una legge, non  si  preoccupano  di
affrontare il tema - che si  e'  visto  fondamentale  ai  fini  della
valutazione del caso sub indice - dei rapporti fra  violazione  delle
regole procedimentali per la formazione  dell'atto  normativo  ed  il
principio la riserva di legge in materia penale  ex  art.  25,  comma
secondo Cost. Per altro verso, riguardano atti assunti dalla  Regione
in carenza di potere  legislativo  e  non,  come  si  e'  sopra  gia'
rilevato, di atti formati dal Parlamento. 
    8.3. Simili considerazioni valgono per la  fattispecie  presa  in
considerazione  nella  sentenza  n.  162  del  2012,  concernente  le
sanzioni amministrative applicate dalla Consob,  dunque  una  materia
non penale e, dunque, anch'essa  aliena  dal  terreno  dell'art.  25,
comma secondo, Cost. 
    8.4. Ne' lo scrutinio  di  costituzionalita'  in  caso  di  vizio
procedurale  nella   formazione   della   norma   penale   favorevole
riportabile al disposto  dell'art.  77,  comma  secondo,  Cost.  (che
appunto viene in rilievo nella specie) potrebbe  essere  giustificato
alla luce dei principi espressi in due arresti - che  si  tratteranno
subito oltre -, nei  quali  la  Corte  costituzionale,  rivedendo  il
principio espresso nella decisione  n.  161  del  2004,  ha  ritenuto
ammissibile lo scrutinio in malam partem in materia penale in caso di
norma emanata dal Governo oltre i limiti della legge delega. 
    In particolare, nella decisione n. 28 del  28  gennaio  2010,  la
Consulta   ha   dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale    (in
riferimento agli articoli 11 e 117, primo comma, Cost.), di una legge
intermedia (piu' esattamente di un  decreto  legislativo  intermedio)
che, in contrasto con una direttiva comunitaria  sui  rifiuti,  aveva
escluso la punibilita' di un fatto precedentemente e  successivamente
previsto come reato in detta materia. 
    Come ben chiarito dalla Corte nella motivazione, in tale caso, si
trattava di una norma emanata in difetto di  delega  e,  dunque,  con
esercizio  illegittimo  della  funzione  legislativa  da  parte   del
Governo, non di una norma  approvata  dal  Parlamento  nell'esercizio
della funzione legislativa. In particolare, il Giudice delle leggi ha
osservato che: «l'abrogazione della fattispecie criminosa mediante un
decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di  delega,  si
porrebbe, infatti, in contrasto con l'art. 25, secondo comma,  Cost.,
che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo
dell'intera  collettivita'  nazionale,  la  scelta   dei   fatti   da
sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili,  precludendo  al
Governo scelte di politica  criminale  autonome  o  contrastanti  con
quelle del legislatore  delegante.  Se  si  escludesse  il  sindacato
costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche  nel
caso di violazione dell'art. 76 Cost., si consentirebbe  allo  stesso
di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative
al trattamento penale di alcuni fatti. Deve quindi  concludersi  che,
quando, deducendo la violazione dell'art. 76 Cost.,  si  propone  una
questione di  legittimita'  costituzionale  di  una  norma  di  rango
legislativo  adottata  dal  Governo  su  delega  del  Parlamento,  il
sindacato di questa Corte  non  puo'  essere  precluso  invocando  il
principio della riserva di legge in materia penale. Questo  principio
rimette al legislatore, nella figura appunto del soggetto-Parlamento,
la scelta dei  fatti  da  sottoporre  a  pena  e  delle  sanzioni  da
applicare, ed e' violato qualora quella scelta sia invece  effettuata
dal Governo in assenza o  fuori  dai  limiti  di  una  valida  delega
legislativa». 
    8.5. I principi espressi nella citata sentenza  n.  28  del  2010
sono stati ribaditi nella sentenza n. 5 del 15  gennaio  2014,  nella
quale la Consulta ha dichiarato l'incostituzionalita' delle norme  in
tema di associazioni militari  sul  rilievo  che  il  Governo  avesse
legiferato in materia  penale  in  carenza  della  necessaria  delega
legislativa. 
    9.  Ritiene  il  Collegio  che,  dall'argomentare   della   Corte
costituzionale nelle sentenze n. 28 del 2010 e n. 5 del 2014, emerga,
con nettezza, la non assimibilita' della situazione in cui una  norma
sia emanata dal Governo extra delega a quella -  di  cui  appunto  si
tratta -,  in  cui  la  norma  sia  varata  dal  Parlamento,  seppure
all'esito di un procedimento viziato. 
    9.1. Ed invero, negli arresti teste' rammentati, la  Consulta  ha
dichiarato l'incostituzionalita' in malam partem sul presupposto che,
in detti casi, la norma favorevole espunta dall'ordinamento giuridico
fosse  stata  emanata  -  nella  sostanza  -  in  assenza  di  potere
legislativo e che, di conseguenza, non vi fosse materia per  ritenere
operante e validamente invocabile il principio della riserva di legge
in materia penale, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. 
    Di contro, nel caso in oggetto, la norma di cui  al  citato  art.
4-bis  e'  stata  introdotta  dal   Parlamento   quale   disposizione
aggiuntiva rispetto a quelle presenti nel decreto-legge da convertire
in  legge,  dunque  (come  chiarito  la  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 32 del 2014), in «difetto di  omogeneita',  e  quindi  di
nesso funzionale, tra le  disposizioni  del  decreto-legge  e  quelle
impugnate, introdotte nella legge di conversione». La norma  generale
favorevole e' stata adottata - non da parte del Governo extra delega,
cioe' sostanzialmente in mancanza di potere legislativo -, bensi' dal
Parlamento, organo costituzionale cui  spetta  in  via  esclusiva  di
legiferare in materia penale, pur commettendo un vizio procedurale di
rilievo costituzionale (in quanto dante luogo  ad  un  contrasto  con
l'art. 77, comma secondo, Cost.), che ha consentito di percorrere una
sorta di corsia preferenziale per l'approvazione delle medesime e  di
ottenere un'accelerazione del procedimento di formazione normativa. 
    9.2.  Ritiene  il   Collegio   che,   fermo   il   controllo   di
costituzionalita' delle leggi ordinarie in  forza  del  principio  di
legalita' costituzionale - alla stregua del quale, in un  ordinamento
caratterizzato dalla  garanzia  della  rigidita'  costituzionale,  le
norme di rango primario devono conformarsi alle norme  costituzionali
e, dunque, essere  assoggettate  al  controllo  di  costituzionalita'
rimesso alla Corte costituzionale -,  in  tutti  i  casi  in  cui  si
realizzi un contrasto  tra  principi  di  rango  costituzionale,  sia
necessario operare un bilanciamento, assegnando ad uno dei due valori
confliggenti preminenza sull'altro. Cio' e' necessario  nel  caso  di
specie, nel quale il principio di riserva di legge in materia  penale
sancito dall'art. 25, comma secondo, confligge con le disposizioni  -
anch'esse contenute  nella  Carta  fondamentale  -  che  regolano  la
formazione  delle  fonti  normative,  quali  quelle  contenute  nella
Sezione II, Titolo I, Parte II, a disciplina della «formazione  delle
leggi». 
    9.3. Orbene, tenuto conto  dell'assetto  del  nostro  ordinamento
statuale ed, in particolare, della ripartizione dei poteri fra i vari
organi costituzionali, il  principio  di  riserva  di  legge  fissato
nell'art. 25, comma secondo, mentre non ha ragione di essere invocato
nel caso dell'esercizio extra delega della  funzione  legislativa  da
parte  del  Governo  -  organo  costituzionale  privo  di  un  potere
normativo «originario», essendo ammesso  ad  esercitare  soltanto  un
potere legislativo «derivato» da quello parlamentare -, in quanto, in
tale  ipotesi,  non  v'e',  in  effetti,  un  esercizio  del   potere
legislativo su cui poggiare detta riserva, deve essere  affermato  in
tutta la sua pienezza, o comunque  prevalere  sul  vizio  procedurale
costituzionalmente  rilevante,  allorche'  si  tratti  dell'esercizio
della funzione legislativa da parte del Parlamento, cioe' dell'organo
investito secondo Costituzione del  potere  di  introdurre  le  norme
penali nel sistema giuridico. 
    10. Tirando le fila delle considerazioni sopra svolte: 
    non vi sono preclusioni allo scrutinio di costituzionalita' delle
norme penali di favore in senso proprio: si tratta delle norme che  -
come  precisato  dalla  dottrina  -  si  trovano  in   relazione   di
specialita' sincronica tra loro, essendo compresenti nell'ordinamento
giuridico la norma generale e la norma speciale di  favore,  rispetto
alle quali il sindacato di costituzionalita'  in  malam  partem  deve
considerarsi ammissibile, pur in presenza del principio di riserva di
legge  in  materia  penale,  in  quanto   tese   ad   introdurre   un
ingiustificato privilegio, al fine di impedire la creazione di  spazi
sottratti al controllo di legalita' costituzionale; 
    siffatto sindacato e'  invece  inammissibile  in  caso  di  norme
penali generali favorevoli,  cioe'  delle  norme  che  -  secondo  la
dottrina  -  si  pongono  in  rapporto  di  specialita'   diacronica,
creandosi  la  relazione  di  genere  a  specie   nella   successione
temporale:  in   tale   ipotesi,   lo   scrutinio   di   legittimita'
costituzionale non puo' invadere il campo della riserva di  legge  in
materia  penale  e  fare  si'  che  dall'annullamento   della   norma
favorevole discenda la reviviscenza della piu' severa norma abrogata. 
    10.1. In particolare, il principio di riserva di legge in materia
penale  non  puo'  arretrare  allorquando  la   disposizione   penale
favorevole «generale» o «comune» costituisca il frutto dell'esercizio
del potere legislativo in materia penale  da  parte  del  Parlamento,
dunque da parte dell'organo che, secondo la Costituzione, e' deputato
alla formazione  delle  leggi  e  legittimato,  dall'art.  25,  comma
secondo, Cost., a legiferare in materia penale. 
    Ed invero, nel caso in cui  il  Parlamento  abbia  esercitato  il
potere al medesimo facente capo  in  violazione  delle  disposizioni,
pure di rilievo costituzionale, che ne regolano  le  modalita'  ed  i
limiti (come appunto quella di cui all'art. 77, comma secondo, Cost.,
stante  «l'eterogeneita'  delle  disposizioni  aggiunte  in  sede  di
conversione»),  nel  necessario  giudizio  di  bilanciamento  fra   i
principi di rango costituzionale, quello dell'art. 77, comma secondo,
Cost. non puo' non essere recessivo rispetto a quello - configgente -
dell'art. 25, comma secondo, Cost., in quanto  strettamente  connesso
alla salvaguardia dei  diritti  e  delle  liberta'  fondamentali  del
cittadino. 
    D'altronde, la violazione  dell'art.  77,  comma  secondo,  Cost.
configura una situazione - si ribadisce - affatto diversa  da  quella
in cui la norma generale favorevole sia stata introdotta dal  Governo
senza delega o extra delega, atteso che in tale caso non si tratta  -
a ben vedere - di un mero «vizio procedurale» nella formazione  della
fonte normativa, bensi' del difetto di potere legislativo  che  rende
«inapplicabile» il principio di riserva di  legge  fissato  nell'art.
25, comma secondo, Cost. 
    11.   In   conclusione,   ritiene   il   Collegio   che,    ferma
l'incostituzionalita' della norma del citato art. 4-bis decreto-legge
n. 205/2005 per il contrasto con l'art. 77, comma secondo,  Cost.  e,
conseguentemente, delle modifiche da essa apportate alla normativa in
tema di stupefacenti, il ripristino  della  disciplina  anteriormente
vigente risulti,  nondimeno,  precluso  con  limitato  riguardo  alla
previsione - nel corpo dell'art. 73, comma 1, decreto del  Presidente
della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 - della pena detentiva minima
edittale di otto anni di reclusione (in luogo di quella di  sei  anni
di reclusione introdotta con la  novella  del  2005-2006).  Trattasi,
invero, di disposizione in malam  partem,  la  cui  (re-)introduzione
nell'ordinamento giuridico violerebbe  il  principio  di  riserva  di
legge in materia penale sancito dall'art. 25, comma  secondo,  Cost.,
norma  imperativa  direttamente  connessa  alla  tutela  dei  diritti
fondamentali della  persona,  da  ritenere  prevalente  su  quella  -
confliggente - di cui al citato art. 77, comma  secondo,  di  rilievo
meramente procedurale (seppure costituzionale). 
    12. Sotto un profilo completamente diverso, ritiene  il  Collegio
che l'attuale pena minima edittale prevista dall'art.  73,  comma  1,
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n.  309,  sia
comunque incostituzionale per difetto di ragionevolezza. 
    12.1. Questa Corte e' consapevole del recente  pronunciamento  n.
148  del  1°  giugno  2016,  col  quale  la  Consulta  ha  dichiarato
l'inammissibilita',  per  assenza  di  soluzioni   costituzionalmente
obbligate in materia riservata alla discrezionalita' legislativa,  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 73, comma  1,  del
decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309  (come
risultante a seguito della sentenza n. 32 del  2014),  impugnato,  in
riferimento agli articoli 3 e 27  Cost.,  in  quanto  prevede  per  i
delitti di produzione, traffico e  detenzione  illeciti  di  sostanze
stupefacenti o psicotrope in relazione alla pena detentiva minima  di
otto anni di reclusione (ed euro 25.822 di multa),  in  relazione  al
trattamento sanzionatorio previsto nel successivo comma 5. 
    12.2. A tale proposito, deve essere tuttavia considerato, per  un
verso, come - a ben vedere - la previsione del minimo della  pena  di
otto  anni  non  possa  attribuirsi  all'«ampio  margine  di   libera
determinazione»   del   legislatore   in   materia   di   trattamento
sanzionatorio (come appunto argomentato dalla Consulta nella sentenza
n. 148/2016), proprio perche' detto parametro edittale costituisce il
frutto, non dell'esercizio della funzione legislativa del  Parlamento
(che anzi l'aveva portato  a  sei  anni),  bensi'  un  effetto  della
declaratoria d'incostituzionalita' della norma che  aveva  introdotto
la pena detentiva piu' mite. 
    12.3.  Per  altro  verso,  va  rilevato  come  l'irragionevolezza
dell'attuale trattamento sanzionatorio dell'art. 73, comma 1,  emerga
dal raffronto non soltanto  con  la  pena  prevista  per  le  ipotesi
«lievi» di cui al comma 5 della stessa  disposizione,  ma  anche  con
quella comminata dal comma 4 della medesima norma. 
    Quanto al primo profilo, occorre porre l'accento sul  fatto  che,
mentre la linea di demarcazione «naturalistica»  fra  le  fattispecie
«ordinaria» e «lieve» e' talvolta non netto (si pensi  alle  condotte
concernenti quantitativi non particolarmente cospicui, ma non minimi,
ovvero connotate da modalita' esecutive caratterizzate da una  certa,
ma non rilevante pericolosita' quanto al rischio di diffusione  della
sostanza, suscettibili di escludere comunque la sussumibilita'  della
fattispecie  concreta   nell'art.   73,   comma   5),   il   «confine
sanzionatorio»  dell'una  e  dell'altra  incriminazione   e'   invece
estremamente - ed irragionevolmente  -  distante  (intercorrendo  ben
quattro anni di pena detentiva fra il massimo dell'una ed  il  minimo
dell'altra).  Il  che,  nella  prassi,  spesso  induce  i  giudici  a
forzature interpretative, tese a rimediare -  mediante  l'ampliamento
dell'ambito  applicativo  dell'ipotesi  «lieve»  -   l'ingiustificato
dislivello edittale fra le due fattispecie incriminatrici. 
    Quanto  al  secondo  profilo,  va  notato  come,   all'intervento
legislativo del 2006, fosse sotteso l'intento di assoggettare  ad  un
trattamento sanzionatorio unitario le condotte aventi ad  oggetto  le
droghe c.d. pesanti e leggere, fissando un unico,  ampio,  intervallo
sanzionatorio da sei a venti anni di reclusione per le incriminazioni
concernenti tutte le diverse tipologie  di  sostanze.  Ratio  che  e'
stata replicata anche dal legislatore del  2014  nel  riformulare  il
comma  5  (dapprima  con  la  legge  21  febbraio  2014,  n.  10,  di
conversione - con modifiche - del decreto-legge 23 dicembre 2013,  n.
146; poi con la legge 16 maggio 2014, n. 79,  di  conversione  -  con
modifiche - del decreto-legge 20 marzo  2014,  n.  36),  la'  dove  -
superando  l'impostazione  dell'originario  testo  del  decreto   del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 - si  e'  prevista
una disciplina unitaria per le condotte di «lieve entita'» aventi  ad
oggetto entrambe le tipologie di droga. 
    A fronte  del  trattamento  sanzionatorio  unitario  per  le  due
categorie  di  sostanze  stupefacenti  previsto   per   le   condotte
contemplate dall'art. 73, comma 5, per le condotte «non lievi» aventi
ad oggetto tipologie diverse di materiale drogante, non solo non v'e'
piu' unitarieta' sanzionatoria, ma e' addirittura previsto  uno  iato
edittale di ben due anni (essendo comminata, per le  condotte  aventi
ad oggetto le sostanze di cui alla Tabella II, la pena  detentiva  da
due a sei anni e, per quelle aventi oggetto le sostanze di  cui  alla
Tabella I, la pena detentiva  da  otto  a  venti  anni),  foriero  di
ingiustificabili  disparita'  di  trattamento.  Iato   edittale   che
verrebbe meno allorche' - per l'ipotesi di cui all'art. 73, comma 1 -
fosse ripristinato il limite minimo di pena edittale di sei  anni  di
reclusione. 
    13. L'attuale trattamento sanzionatorio previsto dal comma 1  del
citato art.  73  si  appalesa,  quanto  alla  previsione  del  minimo
edittale fissato in otto anni, in contrasto anche  col  principio  di
proporzionalita', riportabile al disposto degli articoli 3 e 27 Cost. 
    La sproporzione  del  trattamento  sanzionatorio  si  rivela  con
nitidezza nel momento in cui - in presenza di  fatti  che  presentino
una non rilevante gravita', ma  che  non  consentano  l'inquadramento
della  fattispecie  nell'art.  73,  comma  5  -  il  decidente,   pur
indirizzandosi verso il minimo edittale, si trova comunque  costretto
ad infliggere pene di entita' eccessiva, che non sono in  ragionevole
rapporto con il disvalore della condotta. 
    14. Occorre rimarcare come questa Corte non  intenda  sollecitare
un  «intervento  creativo»  del  Giudice  costituzionale,   tale   da
interferire «indebitamente  nella  sfera  delle  scelte  di  politica
sanzionatoria rimesse al legislatore, in spregio al  principio  della
separazione dei poteri», la' dove - per quanto si e' sopra chiarito -
la pronuncia invocata muove anzi verso il  ripristino  del  parametro
edittale previsto dallo stesso legislatore del 2006. 
    Il Collegio e' ben conscio del  fatto  che,  secondo  i  principi
anche di recente espressi dalla Consulta nella sentenza  n.  236  del
2016, le valutazioni in punto di ragionevolezza e di proporzionalita'
in materia sanzionatoria penale  devono  essere  condotte  attraverso
precisi  punti  di  riferimento,   gia'   rinvenibili   nel   sistema
legislativo   «in   riferimento   a   grandezze   gia'    rinvenibili
nell'ordinamento» (v. sentenze n. 148 del 2016 e  n.  22  del  2007),
giacche' obiettivo del  controllo  sulla  manifesta  irragionevolezza
delle scelte sanzionatorie non e' alterare le  opzioni  discrezionali
del legislatore, ma ricondurre a coerenza le scelte gia' delineate  a
tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove
possibile, all'eliminazione di ingiustificabili incongruenze. 
    Se non che, nel caso di specie, la  «grandezza  gia'  rinvenibile
nell'ordinamento»  e'  esattamente  quella   gia'   individuata   dal
legislatore del 2006, il  quale  aveva  comminato,  per  le  condotte
previste  nell'art.  73,  comma  1,  decreto  del  Presidente   della
Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, la pena  minima  di  sei  anni  di
reclusione (per tutte le tipologie di  droga  e,  dunque,  anche  per
quelle c.d. pesanti). 
    In altri termini, questa Corte remittente ritiene unica soluzione
conforme  ai  parametri  costituzionali  degli  articoli  25,   comma
secondo, 3 e 27 Cost. - tale  da  delineare  un  intervento  «a  rime
obbligate» -, quella del  ripristino  del  trattamento  sanzionatorio
gia' introdotto nel 2006 da sei a venti anni di reclusione. 
    15. Le considerazioni  sopra  svolte  non  valgono  per  la  pena
pecuniaria, dal momento che dalla pronuncia di incostituzionalita' e'
disceso un effetto in favor,  seppure  di  minimo  rilievo  (la  pena
pecuniaria e' stata difatti  ridotta  da  26.000  a  25.822  euro  di
multa). 
    16. Occorre osservare come  al  «risultato»  invocato  da  questo
Giudice remittente la Corte costituzionale adita  potrebbe  giungere,
in linea  teorica,  anche  con  una  pronuncia  di  natura  meramente
interpretativa. Nondimeno tale esito decisorio - pur suscettibile  di
influire  sulle   situazioni   future   -   renderebbe   problematica
l'applicazione del  trattamento  sanzionatorio  piu'  favorevole  con
riguardo  ai  fatti  commessi  e  giudicati  nell'intervallo  fra  la
sentenza n. 32/2014 e l'eventuale decisione in tale senso del Giudice
Costituzione e potrebbe, pertanto, essere foriero  di  ingiustificate
disparita' di trattamento fra cittadini in una medesima posizione. 
    16.  Conclusivamente,  questa   Corte   chiede   che   la   Corte
costituzionale   dichiari   costituzionalmente    illegittima,    per
violazione degli articoli 25, comma secondo, 3 e 27 Cost. la norma di
cui all'art. 73, comma 1, decreto del Presidente della  Repubblica  9
ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui prevede quale  minimo  della
pena detentiva la reclusione di otto anni anziche' di sei anni. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  73,  comma  1,  decreto  del
Presidente della Repubblica n. 309/1990, come  risultante  a  seguito
della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, quanto alla
pena minima edittale, per contrasto con gli articoli 25, 3 e 27 Cost. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata  al  pubblico  ministero  ricorrente,   all'imputato,   al
Procuratore generale presso la Corte di cassazione, al Presidente del
Consiglio dei ministri e  sia  comunicata  ai  presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
        Cosi' deciso, il 13 dicembre 2016 
 
                       Il Presidente: Carcano 
 
 
                                      Il consigliere estensore: Bassi