N. 16 RICORSO PER LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE 20 febbraio 2017

Ricorso per questione di legittimita'  costituzionale  depositato  in
cancelleria il 20 febbraio 2017 (del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri). 
 
Regione  Veneto  -  Legge  regionale  recante   "Applicazione   della
  convenzione quadro per la protezione delle minoranze  nazionali"  -
  Previsione che al popolo veneto spettano  i  diritti  di  cui  alla
  Convenzione quadro per  la  protezione  delle  minoranze  nazionali
  fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995,  ratificata  con  legge  28
  agosto 1997, n. 302. 
- Legge della Regione Veneto 13 dicembre 2016,  n.  28  (Applicazione
  della  convenzione  quadro  per  la  protezione   delle   minoranze
  nazionali), intero testo, e art. 4. 
(GU n.13 del 29-3-2017 )
    Ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri,  rappresentato
e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato  presso   cui   e'
domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12; 
    Contro Regione Veneto in persona del Presidente pro tempore; 
    Per  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  della
intera legge regionale  13  dicembre  2016,  n.  28,  pubblicata  nel
Bollettino Ufficiale della Regione Veneto del 13  dicembre  2016,  n.
120. 
 
                                Fatto 
 
    La  legge  regionale   in   epigrafe   ha   inteso   disciplinare
l'«Applicazione della convenzione  quadro  per  la  protezione  delle
minoranze nazionali». 
    Essa consiste di cinque  articoli,  di  cui  il  quinto  riguarda
l'entrata in vigore, mentre i primi quattro contengono le  previsioni
normative di sostanza. 
    L'art. 1 dichiara che al «popolo veneto» spettano  i  diritti  di
cui alla convenzione quadro del Consiglio d'Europa per la  protezione
delle minoranze nazionali ratificata con legge  statale  n.  302/1997
(comma 1). Prosegue estendendo la qualifica di «minoranza  nazionale»
anche alla comunita' che  si  trovano  al  di  fuori  del  territorio
regionale veneto, legate  storicamente  e  culturalmente  al  «popolo
veneto» (comma 2). Precisa che anche le comunita'  cimbre  e  ladine,
oggetto della tutela quali minoranze etniche e  linguistiche  di  cui
alla legge regionale n.  73/1994  (in  realta',  di  cui  alla  legge
statale n. 482/1999) fanno parte del «popolo veneto» (comma 3). 
    L'art. 2 prevede (testualmente) che la legge «si  attua  a  tutti
gli ambiti previsti dalla convenzione quadro per la protezione  delle
minoranze nazionali» (comma 1); e che spetta alla Giunta stabilire le
modalita' di applicazione della convenzione,  senza  oneri  a  carico
della regione (comma 2). 
    L'art. 3, nel congiunto  disposto  dei  suoi  due  commi,  sembra
prefigurare la creazione «presso la giunta regionale», non si dice ad
iniziativa di chi ne' in quale forma, di  un  «soggetto»,  denominato
«aggregazione delle associazioni maggiormente  rappresentative  degli
enti e associazioni di  tutela  della  identita',  cultura  e  lingua
venete»   (in   breve,   «una   aggregazione   di   associazioni   di
associazioni»). Tale «soggetto»  dovra'  raccogliere  e  valutare  le
«dichiarazioni spontanee» di essere «appartenente minoranza nazionale
veneta»; dichiarazioni, di cui non si precisano i soggetti, la forma,
gli effetti; ne' il  rapporto  con  l'attribuzione  ope  legis  fatta
dall'art.  1  della  qualita'  di  «minoranza  nazionale»  all'intera
popolazione compresa nel territorio veneto, e  anche  alle  comunita'
«venete» che si asseriscono esistenti fuori da quel territorio. 
    Infine, l'art. 4,  ricollegandosi  al  fatto  che  l'applicazione
della legge non dovra' comportare  «oneri  a  carico  della  regione»
(art. 2, comma 2), prevede che le spese  di  attuazione  della  legge
staranno a carico delle amministrazioni centrale e  periferiche  (che
dovranno non solo «sostenerle», ma  prima  anche  «deliberarle»),  si
dice  in  conformita'  alla  carta  europea   dell'autonomia   locale
ratificata con legge n. 439/1989. 
    La legge regionale, che presenta contenuto omogeneo, e' nella sua
interezza  costituzionalmente  illegittima  e,  giusta  delibera  del
Consiglio dei ministri del 10 febbraio 2017, prodotta  unitamente  al
presente ricorso, viene impugnata per i seguenti 
 
                               Motivi 
 
    Per chiarezza di esposizione e  per  evitare  ripetizioni,  nello
svolgimento del presente  ricorso  si  premetteranno  le  censure  di
ordine sostanziale (in particolare contenute nel primo e nel  secondo
motivo)  rispetto  alle  censure  di  incompetenza  del   legislatore
regionale. Resta ovviamente fermo che tali ultime  censure  rivestono
carattere preliminare e assorbente. 
    1. - Violazione degli articoli 5, 6, 114 Cost. 
    1.1. L'art. 1 della legge impugnata,  come  si  e'  visto,  erige
l'intera popolazione compresa nel territorio regionale del Veneto, in
«minoranza nazionale», ai sensi della convenzione quadro omonima. 
    Cio' si desume  dal  rinvio  agli  artt.  1  e  2  dello  statuto
regionale operato dall'art. 1 della  legge  al  fine  di  determinare
l'estensione di tale presunta minoranza. L'art. 1 dello statuto,  nei
commi 2 e 3, prevede infatti che «2.  Il  Veneto  e'  costituito  dal
popolo veneto e dai territori  delle  province  di  Belluno,  Padova,
Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza. 
    3. Venezia, citta' metropolitana, e' il capoluogo del Veneto.». 
    Sicche',  in  sostanza,  il  «popolo  veneto»,  che  si  vorrebbe
identificare nella  «minoranza  nazionale»  contemplata  dalla  legge
impugnata, coincide con la popolazione vivente nel  territorio  delle
suddette province e citta' metropolitana. 
    Cio'  viola  chiaramente  le   disposizioni   costituzionali   in
epigrafe. 
    Invero,  l'art.  114,  comma  1  Cost.,  nel  prevedere  che   la
Repubblica  e'  costituita  da  comuni,  province,  regioni,   citta'
metropolitane e  Stato,  va  inteso  nel  senso  che  la  popolazione
riferibile ad uno di tali enti territoriali  esponenziali  non  puo',
per definizione, essere altresi' identificata per cio' solo  con  una
minoranza nazionale. Proprio perche' quegli enti esponenziali,  nella
loro componente  territoriale  e  nella  loro  componente  personale,
concorrono a formare la Repubblica,  i  territori  e  le  popolazioni
identificate con riferimento ad essi (qui, alla regione veneta)  sono
tutti  parte  integrante  e  sostanziale  del  territorio   e   della
popolazione della Repubblica. Repubblica, precisa l'art. 5, parimenti
violato dalla  legge  impugnata,  che  proprio  perche'  fondata  sul
riconoscimento delle autonomie locali e' una e indivisibile. 
    Insomma, gli enti esponenziali in cui  si  manifesta  l'autonomia
locale,  cioe'  comuni,  province,  citta'  metropolitane,   regioni,
concorrono appunto, con la loro popolazione e con i loro territori, a
comporre l'unita' territoriale e personale della Repubblica;  il  che
esclude che il popolo di una regione, identificato sol perche'  tale,
possa costituire una «minoranza nazionale», staccata  e  contrapposta
rispetto alla maggioranza della popolazione della Repubblica;  e  per
questo meritevole di protezione ai  sensi  della  convenzione  quadro
sulle minoranze nazionali. 
    Ritenere il contrario, comporterebbe infrangere il  principio  di
unita' e indivisibilita'  della  Repubblica,  perche'  finirebbe  per
rappresentare quest'ultima non come una comunita' tutta dotata di una
propria identita' (lo «Stato comunita'»)  giuridicamente  unificatasi
nell'ordinamento costituzionale, bensi' come una somma  materiale  di
minoranze  autopostesi  come  tali,  l'una   estranea   all'altra   e
coesistenti tra loro su  una  base  giuridicamente  non  definita  ma
comunque precaria. 
    Ripetiamo che l'articolazione della  Repubblica  nelle  autonomie
locali espresse  esponenzialmente  da  regioni,  province,  comuni  e
citta' metropolitane, e' appunto la condizione  della  sua  esistenza
come comunita' generatrice di un ordinamento  unitario.  Non  vi  e',
insomma, contraddizione, ma implicazione reciproca tra  articolazione
autonomistica e unita' della Repubblica. 
    Codesta Corte nella sentenza n. 118/2015 ha  gia'  spiegato  alla
regione Veneto che  «L'unita'  della  Repubblica  e'  uno  di  quegli
elementi cosi' essenziali dell'ordinamento costituzionale  da  essere
sottratti persino al potere di revisione costituzionale (sentenza  n.
1146 del 1988). Indubbiamente,  come  riconosciuto  anche  da  questa
Corte, l'ordinamento repubblicano e' fondato altresi' su principi che
includono  il  pluralismo  sociale  e  istituzionale  e   l'autonomia
territoriale, oltre che l'apertura all'integrazione sovranazionale  e
all'ordinamento internazionale; ma detti principi debbono svilupparsi
nella  cornice  dell'unica  Repubblica:   «La   Repubblica,   una   e
indivisibile, riconosce e  promuove  le  autonomie  locali»  (art.  5
Cost.). 
    Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, pluralismo  e
autonomia non consentono alle Regioni di qualificarsi in  termini  di
sovranita', ne'  permettono  che  i  loro  organi  di  governo  siano
assimilati a quelli dotati di rappresentanza nazionale  (sentenze  n.
365 del 2007, n. 306 e n. 106  del  2002).  A  maggior  ragione,  gli
stessi  principi  non   possono   essere   estremizzati   fino   alla
frammentazione dell'ordinamento». 
    Poiche', invece, il concetto di «minoranza nazionale», anche  se,
prudentemente,  non  definito  dalla  convenzione  quadro,  si   pone
indubbiamente in relazione di distinzione  rispetto  alla  «nazione»,
cioe' all'ordinamento unitario «maggiore» in cui  la  «minoranza»  si
inserisce distinguendosene, e' evidente che la comunita'  costitutiva
di un ente di autonomia territoriale, come una regione, non  puo'  di
per se' rappresentare una  «minoranza»;  essa  non  puo'  essere  una
frazione proprio perche' e'  una  parte  integrante  della  comunita'
«maggiore», vale a dire della Repubblica. 
    Che le  minoranze  siano  realta'  personali  che  la  Repubblica
considera come ulteriori rispetto alle proprie componenti costitutive
di tipo personale, e proprio per  questo  meritevoli  di  una  tutela
specifica alla luce dei principi fondamentali di tutela della persona
e di uguaglianza sostanziale (artt.  2  e  3  Cost.),  e'  comprovato
dall'art. 6 Cost. Qui si prevede  che  la  Repubblica  (non  il  solo
«Stato  ordinamento»)  tutela  con  apposite   norme   le   minoranze
linguistiche; e cio' implica  che  la  Repubblica  in  tutte  le  sue
articolazioni, comprese le regioni, identifichi tali  minoranze,  che
dunque non possono coincidere con le suddette articolazioni;  p.  es.
con una regione (o meglio, con la sua componente personale). 
    In proposito, codesta Corte costituzionale ha  gia'  chiarito  in
modo definitivo nella sentenza n. 170/2010: 
        «Il quadro concettuale di riferimento implica,  da  un  lato,
evidentemente, la nozione di "Repubblica", nel senso  di  istituzione
complessiva, orientata, nella pluralita' e nella molteplicita'  delle
sue componenti, ad esprimere e tutelare  elementi  identitari,  oltre
che   interessi,   considerati   storicamente   comuni   o,   almeno,
prevalentemente  condivisi  all'interno  della  vasta   e   composita
comunita' "nazionale"; e, dall'altro lato, la nozione  di  "minoranze
linguistiche", considerate, invece,  come  comunita'  necessariamente
ristrette  e  differenziate,  nelle  quali   possono   spontaneamente
raccogliersi persone che, in quanto  parlanti  tra  loro  una  stessa
"lingua",  diversa  da  quella  comune,  custodiscono  ed   esprimono
specifici e particolari modi di sentire e di vivere o di convivere. 
    Una traduzione, necessariamente semplificata,  di  questo  schema
sul  piano  strettamente  formale,  da   un   lato,   rinvia,   quasi
tralatiziamente,  alla  figura  soggettiva   dello   "Stato",   nella
configurazione  di  "Stato  nazionale",  titolare,  anche  in  quanto
considerato ente territoriale originario, della cura degli  interessi
collettivi (o sociali) assunti come "generali" o, per l'appunto, come
"pubblici"; dall'altro lato, invece, essa resta priva del riferimento
a uno specifico soggetto, per la  difficolta'  di  concentrare  entro
schemi  di  imputazione  tipici  un  insieme  di   relazioni,   anche
giuridiche, che il nome collettivo "minoranza"  consente  di  rendere
esprimibili, o  percepibili,  proprio  attraverso  la  sua  apparente
indeterminatezza, nella implicita  e  ineludibile  relazione  con  la
nozione di "maggioranza". 
    In questo modo, potra' considerarsi acquisito che, mentre  in  un
caso, con i termini "Repubblica"  e  "Stato"  -  e  indipendentemente
dalla  questione,  tutta  storica,   della   riducibilita'   dell'una
all'altro - ci si vorra' riferire in modo  precipuo  alla  dimensione
dell'organizzazione  politica  o  amministrativa  di  una   comunita'
"generale"  o  al  sistema  delle  sue  articolazioni  istituzionali,
nell'altro caso, con l'espressione  "minoranza  linguistica",  ci  si
manterra' sul piano di fenomeni sociali affidati all'andamento  delle
dinamiche segnate dal comportamento dei protagonisti. Ne', su  questo
specifico punto, risultera'  significativo  il  mutamento  del  testo
della norma di cui all'art. 114 Cost., atteso  che  esso  continua  a
fare espresso riferimento - sia pure con rilevanti  novita'  rispetto
al testo originario -  soltanto  ai  diversi  enti  territoriali  che
costituiscono  la  "Repubblica"  e  non  anche,  direttamente,   alle
relative comunita'. 
    A proposito di questo - del  fatto,  cioe',  che  il  tema  della
tutela delle minoranze linguistiche non e' direttamente riferibile  a
quello  delle  relazioni  organizzative  Stato-Regioni  -  non  sara'
superfluo tenere a mente che la attuale collocazione della  norma  di
cui all'art. 6 Cost. tra i "principi fondamentali"  e'  frutto  della
modifica,  nella  discussione   in   Assemblea   costituente,   della
originaria scelta di prevedere, oltre che un piu' ampio testo (di  un
articolo aggiuntivo, il 108-bis, tra l'altro dedicato alle "minoranze
etniche e linguistiche"), anche il suo inserimento nel  quadro  della
disciplina  delle  autonomie  regionali:  si  ritenne  che  il   tema
riguardasse piuttosto un "problema generale" e che averne  omesso  la
disciplina nella  prima  parte  della  Costituzione  costituisse  una
"lacuna" da colmare. 
    Cosicche', in definitiva,  la  norma  di  cui  all'art.  6  Cost.
finisce per rappresentare - ben al di la'  di  quanto,  peraltro,  si
possa trarre, a proposito di "principi  fondamentali",  dal  semplice
argomento della sedes  materiae  -  una  sorta  di  ulteriore  tratto
fisionomico della dimensione costituzionale repubblicana e  non  gia'
soltanto un indice della relativa forma di governo. E  la  previsione
della  tutela  appare   direttamente   destinata,   piu'   che   alla
salvaguardia  delle  lingue  minoritarie  in  quanto  oggetti   della
memoria, alla consapevole custodia e valorizzazione di  patrimoni  di
sensibilita' collettiva vivi e vitali nell'esperienza  dei  parlanti,
per  quanto  riuniti  solo  in  comunita'  diffuse  e   numericamente
"minori". 
    E' noto  che  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  in  tema  di
titolarita' del potere normativo in materia di tutela delle minoranze
linguistiche,  dopo  una  fase  nella  quale  era   stata   affermata
"l'esclusiva potesta' del legislatore statale" (sentenza  n.  62  del
1960),  in  ragione  di  inderogabili  "esigenze  di  unita'   e   di
eguaglianza", ha poi progressivamente riconosciuto  anche  un  potere
del legislatore regionale, sia  pure  entro  limiti  determinati  (da
ultimo, sentenza n. 159 del 2009). 
    Ma e' indubbio che, se questo riconoscimento puo'  consentire  un
intervento del legislatore delle Regioni anche a statuto ordinario, e
specialmente  in  connessione  alle  ragioni  di  convergenti  tutele
dell'identita' culturale  e  del  patrimonio  storico  delle  proprie
comunita', esso certamente non vale ad attribuire a  quest'ultimo  il
potere autonomo e indiscriminato di identificare e tutelare - ad ogni
effetto - una propria "lingua" regionale  o  altre  proprie  "lingue"
minoritarie, anche al di la' di quanto riconosciuto e  stabilito  dal
legislatore statale. Ne', tanto meno, puo' consentire al  legislatore
regionale  medesimo  di  configurare  o   rappresentare,   sia   pure
implicitamente, la "propria" comunita' in quanto tale - solo  perche'
riferita, sotto il profilo personale, all'ambito  territoriale  della
propria competenza - come "minoranza  linguistica",  da  tutelare  ai
sensi dell'art. 6 Cost.: essendo del tutto  evidente  che,  in  linea
generale, all'articolazione politico-amministrativa dei diversi  enti
territoriali all'interno di una medesima  piu'  vasta,  e  composita,
compagine   istituzionale   non   possa   reputarsi   automaticamente
corrispondente - ne', in senso specifico,  analogamente  rilevante  -
una  ripartizione  del  "popolo",  inteso  nel  senso  di   comunita'
"generale", in improbabili sue "frazioni".». (enfasi aggiunta). 
    Se questi  concetti  debbono  valere  a  proposito  di  minoranze
identificate esclusivamente con  riferimento  alla  loro  espressione
linguistica, a maggior ragione debbono valere  con  riferimento  alla
pretesa di identificare  una  «minoranza  nazionale»;  cioe'  ad  una
minoranza le cui espressioni  si  pretendono  dalla  legge  impugnata
riferite non solo alla lingua, ma «a tutti gli ambiti previsti  dalla
convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali» (art.
2). 
    1.2. D'altra parte, che la popolazione di una regione  non  possa
costituire una «minoranza nazionale» ai sensi e  agli  effetti  della
convenzione quadro, emerge dal contenuto stesso della convenzione. 
    Tale contenuto si compendia, come si vedra' anche nel  anche  nel
paragrafo  che  segue,  nell'assicurare  alle  minoranze  i   diritti
costituzionali fondamentali (liberta' di riunione,  di  associazione,
di manifestazione del pensiero, di religione, di  uso  della  lingua;
diritto ad una istruzione conforme alla propria identita', ecc.). 
    La convenzione, quale che sia il concetto di minoranza  nazionale
che essa accoglie (si  e'  gia'  osservato  che  la  convenzione  non
definisce  la  minoranza  nazionale),   certamente   presuppone   una
situazione di pericolo di lesione di tali diritti fondamentali in cui
gli appartenenti alla minoranza si trovano, proprio a causa  di  tale
appartenenza. Percio', statuisce l'obbligazione internazionale  dello
Stato di garantire tali diritti. 
    Questo indiscutibile  presupposto  rappresenta  anche  il  limite
della portata precettiva della convenzione quadro. 
    Da cio' discende che la convenzione  quadro  non  puo'  mai,  per
definizione,  riferirsi  alla  popolazione  di  una  intera  regione,
particolarmente in un ordinamento costituzionale come quello italiano
che negli  artt.  5  e  114  fa  delle  regioni  uno  degli  elementi
costitutivi della Repubblica. 
    Opinare diversamente, significherebbe ammettere  la  possibilita'
che la popolazione di una regione  in  quanto  tale  sia  esposta  al
rischio di violazione dei diritti costituzionali fondamentali; il che
e' manifestamente contraddittorio, giacche' se una regione, cioe'  la
sua popolazione, e' uno degli elementi costitutivi della  Repubblica,
che a sua volta e' l'ordinamento  che  garantisce  quei  diritti,  ne
consegue che la regione (la sua popolazione) concorre anch'essa quale
ordinamento a garantire quei diritti, e non  puo',  per  definizione,
rappresentare l'oggetto di una loro possibile violazione. 
    1.3. Sotto gli aspetti evidenziati  finora,  le  censure  rivolte
all'art. 1 vanno dunque estese anche all'art. 2, che ne  completa  il
regime. Mentre, infatti, l'art.  1  identifica  l'aspetto  soggettivo
della presunta «minoranza nazionale»,  facendolo  coincidere  con  la
popolazione del Veneto, l'art.  2  determina  i  contenuti  oggettivi
della tutela che si vorrebbe apprestare. L'art. 2, nel rinviare  alla
convenzione  quadro,  tenta  di  determinare  le  espressioni  e  gli
interessi della pretesa minoranza che sarebbero meritevoli di tutela. 
    La convenzione quadro nell'art. 5 prevede infatti che  «Le  Parti
s'impegnano a promuovere condizioni tali da consentire  alle  persone
che appartengono a minoranze nazionali, di conservare e di sviluppare
la loro cultura e di preservare gli elementi  essenziali  della  loro
identita'  quali  la  religione,  la  lingua,  le  tradizioni  ed  il
patrimonio culturale.». 
    Il che dimostra che la legge impugnata intenderebbe dare  rilievo
a  tutti  i  tratti  identitari  fondamentali  di  un  «popolo»,  per
distinguere e contrapporre quelli  veneti  rispetto  a  quelli  della
generalita' del popolo italiano. Il che,  giusta  gli  ovvi  principi
richiamati nel paragrafo che precede, non e' ovviamente consentito ad
alcun legislatore, ne' regionale ne' statale. 
    E che la convenzione quadro, il cui contenuto la legge  impugnata
fa proprio, intenda il concetto di «minoranza»  (nello  stesso  senso
gia' chiarito da codesta nel precedente sopra citato)  come  qualcosa
di  inevitabilmente  contrapposto   alla   maggioranza   del   popolo
organizzato nell'ordinamento generale, risulta anche da  un  sommario
esame dell'articolato della convenzione. 
    Si pensi all'art. 6, che prescrive  il  «dialogo  interculturale»
tra maggioranza  e  minoranza.  O  agli  articoli  da  7  a  11,  che
riconoscono alle minoranze  nazionali  i  diritti  fondamentali  alla
liberta' di riunione, di associazione, di religione,  di  espressione
del  pensiero,  di  uso  della  propria  lingua.  Tali  garanzie  non
avrebbero ovviamente senso se le minoranze in questione  non  fossero
configurate dalla convenzione come qualcosa di  estraneo  o,  per  lo
meno, esterno al corpo sociale identificato  con  la  maggioranza,  e
percio'  potenzialmente  esposto  agli  abusi  di  questa.  Si  pensi
all'art. 12, che sul presupposto implicito ma evidente che vengano  a
contatto mondi sociali l'uno all'altro eterogeneo, raccomanda che gli
Stati contraenti adottino «misure nel settore dell'istruzione e della
ricerca per promuovere la conoscenza  della  cultura,  della  storia,
della lingua e della religione delle loro minoranze nazionali e della
maggioranza». 
    Non occorre dilungarsi  ulteriormente  per  comprendere  come  il
rapporto che la Costituzione, nelle norme in rubrica, stabilisce  tra
la  Repubblica  e  una  sua  componente  costitutiva  territoriale  e
personale, quale una regione, non puo' essere questo. 
    Non ci si puo'  tuttavia  esimere  dal  citare  l'art.  20  della
convenzione quadro, in quanto anch'esso da  ritenere  compreso  nella
portata dispositiva  dell'art.  2  della  legge  impugnata  allorche'
rinvia alla convenzione stessa. 
    L'art.  20  prevede  che  «Nell'esercizio  dei  diritti  e  delle
liberta' che  scaturiscono  dai  principi  enunciati  nella  presente
Convenzione  quadro,  le  persone  appartenenti  ad   una   minoranza
nazionale rispettano la legislazione nazionale ed i  diritti  altrui,
in particolare quelli delle persone appartenenti alla  maggioranza  o
ad altre minorita' nazionali.». 
    Questa previsione, di per se' comprensibile se  riferita  ad  una
vera «minoranza nazionale»,  diviene  grave  se  riferita  all'intera
popolazione di una regione. In questa ipotesi, se ne potrebbe infatti
ricavare che la vincolativita' della Costituzione e delle leggi della
Repubblica  presso  tale   popolazione   dovrebbe   dipendere   dalla
convenzione  stessa,  che  si  interpone  come  una  sorta  di  fonte
intermedia operante un rinvio recettizio  alla  Costituzione  e  alle
leggi,  cosi'  spezzando   il   nesso   di   diretta   vincolativita'
dell'ordinamento repubblicano verso una parte dei suoi soggetti. 
    La violazione degli artt. 5 e 114 Cost. non potrebbe essere  piu'
chiara. 
    1.3. Gli articoli 1 e 2 della legge regionale fin qui  esaminati,
come visto, sono quelli  che  contengono  la  disciplina  essenziale,
soggettiva e oggettiva, che la regione tenta di introdurre. 
    L'art.  3,  invece,  prefigura  la  curiosa  entita'   denominata
«aggregazione delle associazioni maggiormente  rappresentative  degli
enti ed associazioni di tutela  della  identita',  cultura  e  lingua
venete, da costituirsi presso la giunta regionale»,  per  attribuirle
il  compito  di   raccogliere   le   «dichiarazioni   spontanee»   di
appartenenza alla  presunta  minoranza  (1)  .  In  questo  modo,  la
disposizione mostra  di  collegarsi  all'art.  3  della  convenzione,
secondo cui «Ogni persona che appartiene ad una  minoranza  nazionale
ha diritto di scegliere liberamente se essere trattata o non trattata
in quanto tale e nessuno svantaggio dovra' risultare da questa scelta
o dall'esercizio dei diritti ad essa connessi.». 
    E' evidente la violazione delle norme costituzionali  in  rubrica
in cui incorre anche l'art.  3,  conseguenzialmente  alle  violazioni
sopra denunciate. Esso comporta, infatti, che si consenta ai  singoli
appartenenti alla popolazione di  una  regione  e  con  cio',  giusta
quanto sopra illustrato, appartenenti al popolo italiano, di decidere
individualmente, con una sorta di opzione, se tale loro  appartenenza
sia piena o, invece, mediata dalla collocazione in  una  entita'  (la
«minoranza nazionale») che inevitabilmente si distingue e contrappone
rispetto al popolo italiano; che pero', per  dettato  costituzionale,
e'  composto,  appunto,  dalle  popolazioni  di  tutti  i  suoi  enti
territoriali esponenziali. 
    E'  agevole  rilevare  che  la   determinazione   dell'estensione
soggettiva  di  una  «minoranza  nazionale»  all'interno  del  popolo
italiano (cioe' delle popolazioni di  tutti  gli  enti  territoriali)
deve essere effettuata, come si e' ricordato e  come  si  vedra'  nei
motivi seguenti, dal  legislatore  nazionale,  e  non  puo'  comunque
comportare che l'intera popolazione di una  regione  sia  considerata
una «minoranza nazionale». Una  volta  determinata  legislativamente,
con questo limite,  l'estensione  della  minoranza  nazionale,  sara'
consentito  ai  singoli  che  vi  siano  compresi  di  dichiarare  se
intendano avvalersi o meno della normativa in materia. 
    L'art.  3,  invece,  in  definitiva  comporta  che   l'estensione
soggettiva della presunta «minoranza nazionale»  venga  rimessa  alla
scelta  arbitraria  dei   singoli   appartenenti   alla   popolazione
regionale. 
    Il che, una volta di piu', appare in contrasto con gli artt. 5  e
114 Cost., allorche' identificano con l'appartenenza dei singoli alla
popolazione di  un  ente  territoriale  l'appartenenza  dei  medesimi
singoli all'indivisibile popolazione della  Repubblica,  e  rimettono
alla legislazione di questa lo stabilire  le  condizioni  alle  quali
tale vincolo di appartenenza possa essere in qualche modo attenuato. 
    1.4.  Le  violazioni  denunciate  nei  paragrafi  che   precedono
comportano  poi,  in  via  consequenziale,   l'illegittimita'   anche
dell'art. 4 della legge, che tratta degli  aspetti  finanziari  della
legge, ed ha per questo funzione secondaria e servente rispetto  agli
articoli precedenti, cosi' riproducendone i vizi. 
    2. - Violazione degli articoli 2 e 3 Cost. 
    In tema di tutela delle minoranze, specificamente delle minoranze
linguistiche considerate dall'art. 6 Cost., ma con  argomenti  che  a
fortiori possono  estendersi  al  piu'  ampio  tema  delle  minoranze
nazionali, codesta Corte costituzionale ha da tempo  chiarito  (sent.
n. 159/2009) che «la tutela delle minoranze linguistiche  costituisce
principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale  (sentenze  n.
15 del 1996, n. 261 del 1995 e n. 768 del 1988).  Piu'  precisamente,
"tale principio, che  rappresenta  un  superamento  delle  concezioni
dello Stato nazionale chiuso dell'ottocento  e  un  rovesciamento  di
grande  portata  politica  e  culturale,  rispetto  all'atteggiamento
nazionalistico manifestato dal  fascismo,  e'  stato  numerose  volte
valorizzato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche perche'  esso
si situa al punto di incontro con  altri  principi,  talora  definiti
"supremi",  che  qualificano  indefettibilmente   e   necessariamente
l'ordinamento vigente (sentenze n. 62 del 1992, n. 768 del  1988,  n.
289  del  1987  e  n.  312  del  1983):  il  principio   pluralistico
riconosciuto dall'art. 2 - essendo la lingua un elemento di identita'
individuale e collettiva di importanza basilare - e il  principio  di
eguaglianza riconosciuto dall'art. 3 della  Costituzione,  il  quale,
nel primo comma, stabilisce la pari dignita' sociale e  l'eguaglianza
di fronte alla legge di  tutti  i  cittadini,  senza  distinzione  di
lingua e, nel  secondo  comma,  prescrive  l'adozione  di  norme  che
valgano anche positivamente per rimuovere le situazioni di  fatto  da
cui possano derivare conseguenze discriminatorie" (sentenza n. 15 del
1996).». 
    Cio' comporta che  una  determinata  porzione  della  popolazione
nazionale puo' essere considerata  «minoranza»,  e  per  questo  resa
titolare di diritti ad una particolare protezione che inevitabilmente
la distinguono dal resto della  popolazione  e  le  conferiscono  uno
«status» particolare, solo se cio' sia imposto dai principi «supremi»
di cui agli artt. 2 e 3 Cost. 
    Occorre, in  altri  termini,  dimostrare  che  negare  i  diritti
particolari di «minoranza» agli appartenenti a  tale  porzione  della
popolazione si tradurrebbe nella negazione dell'identita'  collettiva
di tale gruppo, in violazione dell'art. 2  Cost.;  e  nella  indebita
parificazione giuridica alla condizione della generalita' del  popolo
di  una   situazione   collettiva   connotata   invece   da   marcate
particolarita' culturali, e come tale meritevole  di  un  trattamento
differenziato, pena la violazione dell'art. 3 Cost. 
    Ma nel caso in esame e' pacifico  che  non  emerge  alcuna  delle
condizioni ora  richiamate.  Non  sussiste  infatti  alcuna  evidenza
scientifica, di tipo storico o sociologico, che possa attribuire alla
popolazione  del  territorio  veneto  connotati  identitari  tali  da
giustificarne un trattamento giuridico quale «minoranza nazionale» da
tutelare rispetto alla generalita' del popolo italiano. 
    Di tale necessario presupposto non  vi  e'  traccia  neppure  nei
lavori preparatori della legge regionale.  La  relazione  per  l'aula
depositata dal relatore Barbisan, che si produce, non ne  fa  parola,
mentre fa  erroneamente  riferimento  al  principio  dell'autogoverno
regionale sancito dall'art. 2 dello statuto regionale  («Il  presente
progetto di legge, d'iniziativa  dei  consigli  comunali  di  Resana,
Grantorto, Segusino e Santa Lucia di Piave, prende le mosse dal fatto
che il "popolo veneto"  e'  piu'  volte  riconosciuto  nello  Statuto
attuale della regione  Veneto  e  che  il  riconoscimento  della  sua
esistenza e' pacificamente accettato da tutte le forze politiche  che
di questo Consiglio fanno parte. I  proponenti  non  dimenticano  che
l'art.  2  dell'attuale  Statuto  stabilisce  anche  il  diritto   di
autogoverno del "popolo  veneto"  e  che  tale  principio,  e'  stato
vagliato e avallato dal parlamento italiano in  doppia  lettura.  Dai
proponenti  viene  chiesto  al  Consiglio   regionale   di   svolgere
l'importante ruolo di riconoscimento della applicabilita' al  "popolo
veneto" della norma "Convenzione Quadro  sulle  minoranze  nazionali"
ratificata e resa esecutiva dalla legge n. 302/1997.»). 
    Laddove l'autogoverno  non  e'  certo  parte  dei  diritti  delle
minoranze   nazionali   riconosciuti   dalla   convenzione    quadro.
L'incompatibilita' logica  tra  autogoverno  e  status  di  minoranza
protetta, del resto, emerge proprio dall'art.  2  statuto,  allorche'
questo, stabilito (con  proposizione  piu'  politica  che  giuridica,
stante l'evidente impossibilita'  di  applicarla  alla  lettera)  che
«L'autogoverno del popolo veneto si attua in forme  rispondenti  alle
caratteristiche  e  alle  tradizioni  della  sua  storia»,   prosegue
disponendo,  in  termini  finalmente  giuridici,  che   «La   Regione
salvaguarda  e  promuove  l'identita'  storica  del  popolo  e  della
civilta'  veneta  e  concorre  alla  valorizzazione   delle   singole
comunita'. Riconosce e  tutela  le  minoranze  presenti  nel  proprio
territorio». 
    L'autogoverno opera, cioe', come contributo  della  regione  alla
attuazione dei citati valori costituzionali fondamentali,  anche  nel
campo della tutela delle minoranze presenti nel territorio veneto. Il
che logicamente e testualmente esclude che l'autogoverno  possa  esso
costituire il titolo per erigere l'intera  popolazione  regionale  in
minoranza da proteggere. 
    La legge impugnata viola quindi l'art. 2 Cost., perche'  ravvisa,
fuori di ogni  presupposto,  nell'intera  popolazione  regionale  una
formazione sociale da tutelare  come  minoranza.  E  viola  l'art.  3
Cost., perche' ravvisa a vantaggio della  popolazione  regionale  una
insussistente diversita'  di  situazioni  rispetto  alla  generalita'
della  popolazione  italiana,  sicche'  e'  da  escludere   che   sia
giustificato  il  trattamento  privilegiato  che  la  legge  nel  suo
complesso e nelle sue disposizioni particolari (come  illustrate  nel
primo motivo) intende riservare alla popolazione regionale (2) . 
    3. - Violazione degli articoli 80, 117, comma 2, lettera a) Cost. 
    Venendo ora  ai  profili  preliminari  inerenti  alla  competenza
legislativa, va escluso che alla  regione  spetti  la  competenza  ad
emanare una normativa come quella qui in esame. 
    3.1.  A  proposito  della  convenzione  quadro  sulle   minoranze
nazionali, codesta Corte ha gia' chiarito nella  citata  sentenza  n.
159/2009 che «Se nei testi  piu'  risalenti,  come  la  Dichiarazione
universale dei diritti  dell'uomo  adottata  dall'Assemblea  generale
delle Nazioni unite il 10  dicembre  1948  (artt.  2,  7,  26)  e  la
Convenzione per la salvaguardia  per  i  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, ratificata con legge 4  agosto  1955,  n.  848
(artt. 6  e  14),  si  affermavano  principi  di  eguaglianza  e  non
discriminazione per motivi attinenti  alla  lingua  utilizzata  dalle
persone, soprattutto negli atti internazionali  adottati  dagli  anni
novanta emerge anche il problema  del  trattamento  delle  cosiddette
«minoranze nazionali»: un problema, questo, affrontato andando  oltre
la mera non discriminazione, per cercare di  garantire  la  effettiva
partecipazione  degli  appartenenti  a  tali  minoranze   alla   vita
collettiva del loro Paese attraverso il diritto all'uso della  lingua
nelle relazioni istituzionali, il diritto all'istruzione anche  nella
lingua minoritaria, il sostegno alla cultura della minoranza. 
    Di  questa  fase  innovativa   sono   significativi   esempi   la
risoluzione  dell'Assemblea  generale  delle  Nazioni  Unite  del  18
dicembre 1992 (Dichiarazione sui diritti delle  persone  appartenenti
alle minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche)  ed  in
particolare la Carta europea delle  lingue  regionali  o  minoritarie
adottata dal Consiglio d'Europa il 5 novembre 1992. 
    Lo Stato italiano non ha, ad oggi,  provveduto  a  ratificare  la
Carta  europea  delle  lingue  regionali  o  minoritarie  del   1992,
diversamente da quanto avvenuto  con  la  Convenzione-quadro  per  la
protezione delle minoranze nazionali - alla quale fa  riferimento  la
legge  28  agosto  1997,  n.  302  (Ratifica  ed   esecuzione   della
Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta
a Strasburgo il 1° febbraio  1995)  -  e  con  la  Convenzione  sulla
protezione  e  la  promozione  delle  diversita'  delle   espressioni
culturali - alla quale fa riferimento la legge 19 febbraio  2007,  n.
19 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione sulla  protezione  e  la
promozione delle diversita'  delle  espressioni  culturali,  fatta  a
Parigi il 20 ottobre 2005). 
    Particolarmente significativa si rivela l'affermazione  contenuta
nell'art. 1 della Sezione  I  della  suddetta  Convenzione-quadro,  a
mente della quale «la protezione  delle  minoranze  nazionali  e  dei
diritti  e  delle  liberta'  delle  persone  appartenenti  a   queste
minoranze e' parte integrante  della  protezione  internazionale  dei
diritti dell'uomo e  in  guanto  tale  rientra  nella  portata  della
cooperazione internazionale». La stessa non  solo  impegna  le  Parti
contraenti a garantire pienamente l'esercizio delle  liberta'  civili
agli appartenenti alle minoranze nazionali, ma contiene - tra l'altro
- disposizioni sulla libera utilizzazione della lingua minoritaria in
privato ed in pubblico, sul suo uso  in  caso  di  procedure  penali,
sulla sua utilizzazione per i nomi personali e  le  insegne  private,
sul suo insegnamento nel sistema della pubblica istruzione.». (enfasi
aggiunta) 
    Come si vede, l'attuazione della  convenzione  quadro  rientra  a
pieno  titolo  nella  materia  della  politica  estera  e   relazioni
internazionali, che l'art. 117, comma 2,  lettera  a)  Cost.  riserva
alla competenza esclusiva del legislatore  statale.  Tale  competenza
esclusiva statale,  come  costantemente  ritenuto  da  codesta  Corte
costituzionale, attiene ai  provvedimenti  normativi  «relativi  alle
esigenze di salvaguardia delle linee della politica estera  nazionale
e  di  corretta  esecuzione  degli  obblighi  di  cui  lo  Stato   e'
responsabile nell'ordinamento internazionale» (sentenza n.  238/2004,
che richiama le sentenze n. 179 del 1987  e  n.  737  del  1988).  E'
quindi evidente, come si dira' di qui a poco,  che  non  spetta  alla
regione  interporsi  nell'attuazione  degli  obblighi  internazionali
dello  Stato  derivanti  dalla   convenzione   quadro,   determinando
direttamente  con  proprio  atto   normativo   l'esistenza   di   una
determinata  «minoranza  nazionale»  (per  di  piu'  coincidente  con
l'intera popolazione regionale). 
    E cio', del resto, ben si intende. Il «distacco» di una  porzione
della popolazione nazionale dalla generalita', e la qualificazione di
tale  porzione  come  «minoranza  nazionale»,   incide   direttamente
sull'elemento personale dell'ordinamento dello Stato, perche' implica
la  rilevazione  in  capo  alla  «minoranza»  di  valori   identitari
specifici, non coincidenti con i valori identitari della generalita'.
Il che  ha  un  immediato  riflesso  sulla  personalita'  di  diritto
internazionale  dello  Stato,  in  primo  luogo  perche'  questa   e'
costituita unitariamente proprio dalle sue componenti territoriali  e
personali. 
    E in secondo  luogo  perche',  nell'attuale  avanzato  quadro  di
tutela internazionale delle minoranze nazionali, il riconoscimento di
una di tali  minoranze  rende,  come  visto,  operanti  gli  obblighi
internazionali dello Stato sopra illustrati, sicche' e' evidente che,
ai sensi dell'art. 117, comma 2, lettera  a)  Cost.,  solo  la  legge
dello Stato puo' operare quel riconoscimento, poiche'  cio'  comporta
effetti diretti sul piano degli obblighi  di  diritto  internazionale
generale e pattizio. 
    Tale rilevazione deve essere, del resto,  operata  esclusivamente
dallo Stato, perche' questo e'  l'unico  ente  territoriale  che,  in
forza della sua generalita', e' in  grado  di  bilanciare  i  diversi
interessi  potenzialmente  confliggenti,  e  di  assicurare  che   il
riconoscimento di una  «minoranza  nazionale»  non  si  traduca,  per
questa e per la  restante  popolazione  (e  per  le  eventuali  altre
minoranze)  in  una  ragione  di  privilegio  o,   inversamente,   di
discriminazione. 
    3.2. Sotto altro profilo,  la  legge  regionale  impugnata  viola
l'art. 80 Cost. 
    Questo riserva in esclusiva alle «Camere», cioe'  al  legislatore
statale, la competenza ad  autorizzare  con  legge  la  ratifica  dei
trattati internazionali di natura politica. 
    Cio', come si e' visto, e' appunto  quanto  e'  accaduto  con  la
legge  n.  302/1997  in  relazione  alla  convenzione  quadro   sulle
minoranze nazionali. 
    La legge regionale in esame  rende  inapplicabile  al  Veneto  la
legge statale di  ratifica:  infatti,  da  un  lato  ne  modifica  la
portata, prevedendo, contro il senso costituzionalmente  attribuibile
alla convenzione e, quindi, contro lo spirito della legge di ratifica
(in cui si  esprime  l'effettiva  volonta'  manifestata  dallo  Stato
nell'aderire alla convenzione), che una intera popolazione  regionale
possa costituire una minoranza nazionale (si e' gia' visto nel  primo
motivo, a cui si rinvia,  che  il  concetto  di  minoranza  nazionale
assunto dalla convenzione, e prima, il concetto di minoranza  assunto
in Costituzione, implicano invece di necessita'  la  contrapposizione
di un gruppo minore alla generalita' della popolazione, e quindi  nel
nostro ordinamento costituzionale non sono concetti  riferibili  alla
popolazione di una regione in quanto tale, posto che  questa  e'  per
Costituzione  uno  degli   elementi   personali   costitutivi   della
Repubblica  nella  sua   unita');   dall'altro,   erigendo   l'intera
popolazione veneta in minoranza nazionale, impedisce  in  pratica  al
legislatore statale di individuare nell'ambito di quella  popolazione
le vere ed effettive minoranze nazionali  eventualmente  presenti  al
suo interno. 
    In sostanza, prevedendo con l'art. 1 che la popolazione veneta e'
una minoranza nazionale protetta ai sensi della  convenzione,  e  con
l'art. 2 che la legge  intende  in  tal  modo  dare  attuazione  alla
convenzione, il legislatore regionale solo formalmente si  e'  basato
sulla legge statale di ratifica, ma in realta' ha a tutti gli effetti
emanato una propria particolare legge di ratifica della  convenzione,
che si sovrappone del tutto alla legge statale e viene  a  costituire
il vero titolo che rende  operante  la  convenzione  nell'ordinamento
regionale. Palese e', dunque, la violazione dell'art. 80 Cost. 
    3.3.  Le  considerazioni  che   precedono   dimostrano,   infine,
l'erroneita' della tesi  sostenuta  nella  relazione  al  disegno  di
legge,  quando  questa  afferma  che  «E'  gia'  stato  chiarito  dai
proponenti stessi in I Commissione  consiliare  che  la  materia  del
"riconoscimento  delle  minoranze  nazionali"  e'   assegnata   dalla
Costituzione italiana in maniera esclusiva  alle  Regioni  in  virtu'
dell'art. 117, comma 4, che recita: "Spetta alle Regioni la  potesta'
legislativa  in  riferimento  ad  ogni  materia   non   espressamente
riservata alla legislazione dello Stato". 
    Infatti, non essendo la materia  "minoranze  nazionali"  elencata
tra quelle di competenza esclusiva dello Stato e nemmeno  tra  quelle
di  competenza  concorrente  tra  Stato  e  Regioni,   essa   e'   da
considerarsi una competenza residuale ma esclusiva delle Regioni. 
    Che la materia di cui si tratta non sia quella  delle  "minoranze
linguistiche" e' dimostrato anche dal fatto che  i  diritti  previsti
dalla Convenzione quadro sulle minoranze nazionali non spettano  alle
minoranze linguistiche e non vengono loro riconosciuti. D'altra parte
le minoranze  linguistiche  e  regionali  sono  oggetto  di  un'altra
Convenzione del Consiglio d'Europa, che l'Italia si  sta  apprestando
ad attuare.». 
    Al contrario,  l'attinenza  immediata  della  materia  "minoranze
nazionali" agli obblighi internazionali  e  alla  personalita'  dello
Stato, ascrive  tale  materia  senza  alcun  dubbio  alla  competenza
esclusiva dello Stato; e proprio per questo, e perche' non vengono in
considerazione profili di tutela di minoranze linguistiche, non opera
neppure la particolare competenza concorrente (con  prevalente  ruolo
della legge statale) in materia di minoranze linguistiche,  enucleata
da codesta Corte costituzionale nella citata sentenza n. 159/2009. 
    Non vi e' quindi alcun titolo per ritenere operante  la  clausola
residuale di competenza legislativa regionale  posta  dall'art.  117,
comma 4 Cost. 
    4. - Violazione degli articoli 81, commi 3 e  4,  117,  comma  2,
lettere g) ed e), 118, comma 1, Cost. 
    I motivi che precedono sono assorbenti e travolgono anche  l'art.
4. Tuttavia, per completezza, si deduce anche il presente motivo, che
e' specificamente rivolto contro l'art. 4 della legge impugnata. 
    Come si e' visto,  l'art.  4  prevede  che  le  spese  necessarie
all'attuazione  della  legge  siano  deliberate  e  sostenute   dalle
amministrazioni   centrali   e   periferiche,   «eventualmente    con
perequazione  dell'amministrazione  centrale»;  tutto  cio'   perche'
l'attuazione della legge deve avvenire «senza oneri  a  carico  della
regione» (art. 2, comma 2). L'art. 4 rimanda anche all'art.  9  della
convenzione europea contenente la carta europea dell'autonomia locale
ratificata con legge n. 439/1989. 
    4.1. Cio' premesso, appare evidente, innanzitutto, la  violazione
dell'art. 117,  comma  2,  lettera  g)  Cost.,  nella  parte  in  cui
attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato  l'ordinamento  e
l'organizzazione amministrativa dello Stato stesso. 
    E' giurisprudenza pacifica di codesta Corte quella secondo cui la
regione non puo' con propria legge attribuire  competenze  ad  organi
dello Stato (v. da ultimo sent. n. 9/2016 ove si legge «Questa  Corte
ha, in effetti, ripetutamente affermato che "le Regioni  non  possono
porre a carico di organi e  amministrazioni  dello  Stato  compiti  e
attribuzioni  ulteriori  rispetto  a  quelli  individuati  con  legge
statale" (sentenza n. 322 del 2006).  Tale  preclusione  opera  -  in
forza del parametro costituzionale evocato - anche con riguardo  alla
previsione di "forme di collaborazione e di coordinamento", le quali,
ove coinvolgano compiti e attribuzioni di organi  dello  Stato,  "non
possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle
Regioni, nemmeno nell'esercizio  della  loro  potesta'  legislativa",
dovendo "trovare il loro fondamento o il loro  presupposto  in  leggi
statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra  gli  enti
interessati" (sentenza n. 429 del 2004).»). Ma cio' e' appunto quanto
fa l'art. 4 in commento allorche' prevede che le spese di  attuazione
della  legge  siano  «deliberate»  dalle   amministrazioni   centrali
chiamate ad attuarle  (amministrazioni  centrali  che,  peraltro,  la
disposizione neppure individua). 
    4.2. In secondo luogo, nella parte  in  cui  pone  a  carico  del
bilancio statale  le  spese  necessarie  all'attuazione  della  legge
regionale, prevedendo anche forme di perequazione finanziaria (non e'
chiaro a beneficio di chi) da parte di tale bilancio, la legge stessa
viola l'art. 117, comma 2, lettera e). Questo, infatti, riserva  alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato la  «perequazione  delle
risorse finanziarie», cioe' il  riequilibrio  tra  le  disponibilita'
finanziarie dei diversi  livelli  di  governo  dotati  di  differente
capacita' fiscale. Non spetta, dunque,  alla  legge  regionale  porre
spese a carico del bilancio statale, ne'  prevedere  che  tali  spese
siano finalizzate alla perequazione finanziaria. 
    4.3. L'art. 4, allorche' pone a carico del bilancio statale spese
di  attuazione  della  legge  impugnata,  anche  con   finalita'   di
perequazione finanziaria, viola poi l'art. 81 Cost. nei commi 4 e 3. 
    Lo viola nel comma 4, secondo cui «Le Camere ogni anno  approvano
con legge il bilancio  e  il  rendiconto  consuntivo  presentati  dal
Governo», perche' da questa disposizione si trae  l'ovvio  corollario
che  solo  la  legge  statale  di  approvazione  del  bilancio   puo'
autorizzare spese a carico del bilancio statale; con  la  conseguenza
che e' palese l'incompetenza della legge regionale a prevedere  spese
gravanti sul bilancio statale. 
    Lo viola, comunque (osserviamo per completezza) anche  nel  comma
3, secondo cui  «Ogni  legge  che  importi  nuovi  o  maggiori  oneri
provvede ai mezzi per farvi fronte»: la legge regionale impugnata non
contiene infatti alcuna clausola finanziaria da cui, ammesso  che  si
possa, siano indicati i mezzi di copertura delle spese in  questione.
E lo viola ancora per l'ulteriore ragione che tali  spese  sono  solo
menzionate, ma non sono in alcun modo quantificate; il che  impedisce
in radice ogni ipotetica previsione di copertura. 
    4.4. I rilievi di cui ai precedenti paragrafi del presente motivo
non potrebbero essere superati valorizzando il riferimento che l'art.
4 fa alla convenzione  relativa  alla  carta  europea  dell'autonomia
locale, ratificata con legge n. 439/1989, e in particolare all'art. 9
di questa. 
    Anche ad ammettere che la carta in questione sia pertinente  alla
materia delle minoranze nazionali (il che non e', posto che  il  tema
delle autonomie locali attiene all'articolazione autonomistica  degli
ordinamenti unitari, in quanto appunto costituiti dall'insieme  delle
comunita' autonome che in essi si riconoscono; laddove il tema  delle
minoranze nazionali attiene alla tutela giuridica di  gruppi  sociali
che dal punto di  vista  identitario  si  distinguono  rispetto  alle
comunita' autonome e  alla  comunita'  generale  da  queste  formata:
sicche' non si tratta di  riconoscere  alle  minoranze  in  questione
forme di autogoverno, anche  per  esse  dovendo  valere  quelle  gia'
previste in generale, quanto di garantirne i diritti fondamentali  da
possibili  abusi  della  maggioranza),  comunque  essa  non  potrebbe
costituire titolo per la regione ad  imporre  spese  a  carico  dello
Stato. 
    E' un fatto che la carta europea dell'autonomia locale  e'  stata
ratificata con legge dello Stato, sicche'  spetta  allo  Stato  darvi
attuazione, se  del  caso  prevedendo  con  propria  legge  le  spese
perequative  eventualmente  necessarie,  come  la  carta   raccomanda
nell'art. 9, comma  5  («5.  La  tutela  delle  collettivita'  locali
finanziariamente piu' deboli richiede la messa in opera di  procedure
di perequazione finanziaria o  di  misure  equivalenti,  destinate  a
correggere gli effetti di una ripartizione impari di fonti potenziali
di  finanziamento,  nonche'  degli  oneri  loro   incombenti.   Dette
procedure o misure non devono diminuire la liberta' di opzione  delle
collettivita' locali nel proprio settore di responsabilita'.»). 
    Va poi considerato che si tratta di eccezioni, poiche' la  regola
rimane  l'autofinanziamento  delle  autonomie,  basato  sui   tributi
locali, come prevede l'art. 9  nel  comma  1  («1.  Le  collettivita'
locali hanno diritto, nell'ambito della politica economica nazionale,
a risorse proprie sufficienti, di cui  possano  disporre  liberamente
nell'esercizio delle loro competenze») e nel comma 3 («3.  Una  parte
almeno delle risorse  finanziarie  delle  collettivita'  locali  deve
provenire da tasse e imposte locali di cui  esse  hanno  facolta'  di
stabilire il tasso nei limiti previsti dalla legge»). 
    Il riferimento all'art. 9 della carta non puo'  quindi  valere  a
superare la palese incompetenza della legge regionale a  dettare  una
norma come l'art. 4. 

(1) In  realta',   il   testo   sostanzialmente   incomprensibile   e
    inapplicabile dell'art. 3 e' stato votato dal consiglio regionale
    in   sostituzione   del   ben   piu'   chiaro,   ma    gravemente
    discriminatorio, testo della proposta iniziale, che  nell'art.  3
    pretendeva di stabilire: «1. Il riconoscimento dei diritti di cui
    al precedente art. 1 e' subordinato al possesso del patentino  di
    bilinguismo regolato da  apposita  delibera  dell'Istituto  della
    Lingua Veneta nel rispetto del suo statuto ed ai sensi e per  gli
    effetti dell'art. 2 legge n. 340/1971 e legge 25 ottobre 1977, n.
    881 "Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo  ai
    diritti  economici,  sociali  e  culturali,  nonche'  del   patto
    internazionale  relativo  ai  diritti  civili  e  politici,   con
    protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a  New  Jork
    rispettivamente il 16 e il  19  dicembre  1966.".  2.  L'Istituto
    Lingua  Veneta  opera  come  rappresentanza  istituzionale  della
    minoranza per quanto  concerne  l'attuazione  delle  disposizioni
    della legge n. 302/1997.». Prudentemente, la relazione  Barbisan,
    di cui infra nel testo, osservava in proposito: «Quanto  all'art.
    3 del progetto di legge in  esame,  che  introduce  il  tema  del
    patentino  linguistico,  si  ritiene  che  esso   potra'   essere
    tranquillamente stralciato dall'intero articolato del progetto di
    legge. Cio' a testimonianza del fatto che non e' la tutela di una
    minoranza linguistica cio' a cui questo progetto di legge  tende,
    ma al riconoscimento di una minoranza nazionale, di cui la lingua
    e' solo uno dei tanti aspetti che la configura tale.». 

(2) Non  crediamo  che  la   specificita'   identitaria   dell'intera
    popolazione regionale possa trarsi  dalle  seguenti  proposizioni
    della relazione dei  presentatori  del  progetto  di  legge  alla
    commissione consiliare (che  pure  si  produce  con  il  presente
    ricorso): «esiste un diritto speciale che il popolo veneto ha  di
    essere riconosciuto da parte delle diverse regioni  poiche'  esso
    e' gia' stato  riconosciuto  "popolo"  dall'art.  2  della  legge
    costituzionale n. 340 del 1971 che istituiva la regione veneto, e
    seppure tale riconoscimento c'e' anche nel  nuovo  statuto  della
    regione veneto del 2012, emanato dalla regione stessa, questo non
    ha lo stesso valore costituzionale del  riconoscimento  del  1971
    che venne invece emanato dal parlamento e in doppia lettura  come
    per le riforme costituzionali. Il popolo veneto  e'  dunque  gia'
    riconosciuto come soggetto di diritto esistente, per cui ad  esso
    semmai si devono pure il diritto  all'autodeterminazione  (legge.
    n. 881/1977), fatto riconosciuto  anche  con  le  risoluzioni  n.
    42/1998 e ancora nel 2012 ma  senza  alcuna  utilita'  effettiva.
    Riconoscere il popolo veneto come «minoranza  nazionale»  non  e'
    impegnativo sul piano della indipendenza, anzi, la  stessa  legge
    n. 302/1997 afferma che i diritti li'  sanciti  non  debbono  poi
    essere usati per raggiungere l'indipendenza, ed allo stesso tempo
    e' proprio la negazione dei  diritti  di  minoranza  nazionale  a
    legittimare invece eventuali azioni di indipendenza a  causa  del
    fatto che costituiscono violazione dei diritti umani fondamentali
    sul  piano  internazionale  e  sono   causa   giustificativa   di
    secessione legittimata nel diritto dei popoli. La regione  veneto
    ha gia' riconosciuto il popolo veneto come  soggetto  di  diritto
    internazionale, chiedendo pure un referendum regionale (e non  di
    tutti i veneti) per l'autonomia o l'indipendenza, e  dunque  puo'
    tranquillamente riconoscere la  minoranza  nazionale  del  popolo
    veneto, e le due cose non sono in  conflitto  fin  tanto  che  il
    popolo veneto non decida  di  esercitare  la  propria  sovranita'
    internazionale notoriamente  scippata  nel  1866  con  plebiscito
    invalidato  e  poi  annullato  nel  2010  dallo  stesso   governo
    italiano. Il riconoscere l'identita' e l'autonomia specifica  del
    popolo veneto quale  minoranza  nazionale  significa  riconoscere
    allo stesso tempo il suo appartenere alla Repubblica italiana, ed
    e' certamente competenza delle regioni (art. 117, comma 4  Cost.)
    il farlo, anche se questo portera' ai veneti uno status del tutto
    speciale sottoponendoli ad una amministrazione speciale  similare
    a quella del Sud Tirolo ma pur sempre unitaria. Il riconoscere ai
    veneti i diritti di minoranza  nazionale  non  trasformerebbe  la
    regione  in  una  autonomia  speciale,  ma  obbligherebbe  invece
    l'amministrazione   dello   stato   a   rispettare    la    sfera
    dell'autonomia del popolo veneto, a trattarlo come tale,  per  di
    piu' dovendo lo stato assumersi  i  costi  della  salvaguardia  e
    della  realizzazione  della  minoranza  nazionale,   in   realta'
    semplicemente  dovendo  provvedere  ad  una  decurtazione   della
    tassazione oggi avente un residuo di decine di miliardi a sfavore
    dei veneti.  Insomma  lo  stato  dovrebbe  ridurre  gli  introiti
    regionali ad un ragionevole 10-20 per cento in linea  con  quanto
    avviene nei territori europei contermini.». 
 
                              P. Q. M. 
 
  Tutto  cio'  premesso,  il  Presidente  del  Consiglio  come  sopra
rappresentato e difeso ricorre a codesta Ecc.ma Corte  costituzionale
affinche' voglia  dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale  della
legge regionale del Veneto 13 dicembre 2016, n.  28,  pubblicata  nel
Bollettino Ufficiale della Regione Veneto del 13  dicembre  2016,  n.
120. 
    Si produce in estratto conforme la  delibera  del  Consiglio  dei
ministri del 10 febbraio 2017. 
    Si producono altresi' i seguenti documenti: 
        1) relazione dei proponenti per la commissione consiliare; 
        2) relazione per l'aula del relatore Barbisan. 
          Roma, 13 febbraio 2017 
 
                   L'Avvocato dello Stato: Gentili