N. 123 SENTENZA 7 marzo - 26 maggio 2017

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo amministrativo - Tassativita' dei casi di revocazione  della
  sentenza. 
- Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell'articolo
  44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per
  il riordino del  processo  amministrativo),  art.  106;  codice  di
  procedura civile, artt. 395 e 396. 
-   
(GU n.22 del 31-5-2017 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Paolo GROSSI; 
Giudici :Alessandro CRISCUOLO, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,  Marta
  CARTABIA,  Mario  Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,   Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON,  Franco  MODUGNO,  Augusto
  Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  106  del
decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104  (Attuazione  dell'articolo
44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al  governo  per
il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del
codice di  procedura  civile,  promosso  dall'Adunanza  plenaria  del
Consiglio di Stato, nel procedimento vertente tra S. S.  ed  altri  e
l'Universita' degli  studi  di  Napoli  Federico  II  ed  altri,  con
ordinanza del 4 marzo 2015, iscritta al n. 190 del registro ordinanze
2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  39,
prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visti gli atti di costituzione di F. F. ed altri,  di  T.  C.  ed
altri,  dell'Universita'  degli  Studi  di  Napoli  Federico   II   e
dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS); 
    udito nell'udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice  relatore
Giancarlo Coraggio; 
    uditi gli avvocati Riccardo Marone e Raffaella Veniero per F.  F.
ed altri, Riccardo Marone Giuseppe Maria Perullo per T. C. ed  altri,
Angelo Abignente per l'Universita' degli Studi di Napoli Federico  II
e Dario Marinuzzi per l'INPS. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha  sollevato,  in
riferimento  agli  artt.  24,  111  e   117,   primo   comma,   della
Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  al  parametro  interposto
dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto  1955,  n.  848,  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art.  106  del  decreto  legislativo  2  luglio  2010,  n.   104
(Attuazione dell'articolo 44 della  legge  18  giugno  2009,  n.  69,
recante  delega   al   governo   per   il   riordino   del   processo
amministrativo), e degli artt. 395 e  396  del  codice  di  procedura
civile, «nella  parte  in  cui  non  prevedono  un  diverso  caso  di
revocazione della sentenza  quando  cio'  sia  necessario,  ai  sensi
dell'art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
e delle  liberta'  fondamentali,  per  conformarsi  ad  una  sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo». 
    1.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che: 
    -  i  ricorrenti  avevano  svolto  dal  1983  al  1997   funzioni
assistenziali presso il Policlinico dell'Universita' degli  studi  di
Napoli Federico II (d'ora in avanti: l'Universita' o l'Universita' di
Napoli),  sulla  base  di  contratti  a  termine  aventi  ad  oggetto
l'esplicazione  di  attivita'  professionale  medica   remunerata   a
gettone; 
    - con ricorsi proposti nel 2004  innanzi  al  TAR  Campania  essi
avevano chiesto il riconoscimento dell'esistenza di  un  rapporto  di
lavoro di fatto alle  dipendenze  dell'Universita',  con  conseguente
riconoscimento del diritto  al  versamento  dei  relativi  contributi
previdenziali; 
    - il TAR adito aveva accolto in parte i ricorsi, riconoscendo che
l'attivita' espletata dai ricorrenti era assimilabile  a  quella  dei
ricercatori universitari, «non ponendosi quindi  problemi  in  ordine
alla sussistenza della giurisdizione amministrativa»; 
    - diversamente,  l'Adunanza  plenaria  del  Consiglio  di  Stato,
pronunciandosi in sede di appello con la  sentenza  n.  4  del  2007,
aveva ritenuto applicabile alla controversia l'art. 45, comma 17, del
decreto legislativo 31 marzo  1998,  n.  80  (Nuove  disposizioni  in
materia  di  organizzazione   e   di   rapporti   di   lavoro   nelle
amministrazioni pubbliche, di  giurisdizione  nelle  controversie  di
lavoro e  di  giurisdizione  amministrativa,  emanate  in  attuazione
dell'articolo 11, comma 4, della  L.  15  marzo  1997,  n.  59),  poi
confluito nell'attuale art. 69, comma 7, del decreto  legislativo  30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale dispone, per le
liti  relative  al  pubblico  impiego   "privatizzato",   che   «[l]e
controversie relative a questioni attinenti al periodo  del  rapporto
anteriore a tale  data  [30  giugno  1998]  restano  attribuite  alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano
state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000»; 
    - in principio si era ritenuto  che  la  disposizione  in  parola
prevedesse per i ricorsi proposti  successivamente  a  tale  data  la
giurisdizione del giudice  ordinario,  in  funzione  di  giudice  del
lavoro; era  successivamente  prevalso,  nella  giurisprudenza  tanto
della Corte di cassazione quanto del Consiglio di Stato,  il  diverso
orientamento che  «ricollegava  alla  scadenza  di  tale  termine  la
radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di
contenzioso»; anche  la  Corte  costituzionale  aveva  avallato  tale
interpretazione, ritenuta  coerente  con  le  esigenze  organizzative
connesse al trapasso da una giurisdizione all'altra; 
    - uniformandosi a tale giurisprudenza  piu'  recente,  l'Adunanza
plenaria  aveva  dichiarato  l'inammissibilita'  per  tardivita'  dei
ricorsi proposti in primo grado dopo il 15 settembre 2000; 
    - alcuni dei  ricorrenti  soccombenti  nel  giudizio  di  appello
avevano quindi presentato ricorso  alla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo che, con le  sentenze  Mottola  contro  Italia  e  Staibano
contro Italia del 4 febbraio 2014 (d'ora in avanti: sentenze  Mottola
e Staibano), aveva accertato una duplice  violazione  degli  obblighi
convenzionali da parte dello Stato italiano; 
    - in particolare, la  Corte  di  Strasburgo  aveva  accertato  la
violazione dell'art. 6, paragrafo 1,  della  CEDU,  relativamente  al
diritto di accesso a un tribunale, poiche', anche se tale diritto non
e' assoluto, potendo in astratto essere  condizionato,  nel  caso  di
specie era risultato ingiustamente leso nella sua  sostanza;  nonche'
dell'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa:
i ricorrenti  erano  titolari  di  un  «bene»  ai  sensi  del  citato
parametro  convenzionale,  poiche'  il  loro   diritto   di   credito
pensionistico aveva una base sufficiente  nel  diritto  interno  alla
luce della giurisprudenza all'epoca consolidata, e la  decisione  del
Consiglio di Stato aveva svuotato la loro  legittima  aspettativa  al
conseguimento di tale bene; 
    - relativamente,  invece,  alla  domanda  di  equa  soddisfazione
formulata ai sensi dell'art. 41 della Convenzione, la  Corte  EDU  si
era riservata la decisione «tenuto conto della  possibilita'  che  il
Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»; 
    - alla luce di tali  sentenze,  i  soccombenti  nel  giudizio  di
appello definitosi con la citata sentenza n. 4 del 2007 dell'Adunanza
plenaria (alcuni dei quali ricorrenti a Strasburgo) hanno iniziato il
giudizio a quo per la sua  revocazione,  chiedendo  al  Consiglio  di
Stato di procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata
dell'art. 106 del d.lgs. n. 104 del 2010 (d'ora in avanti: cod. proc.
amm.) e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ., ovvero, in  subordine,
di  sollevare  questione  di  legittimita'  costituzionale  di   tali
articoli, per violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost.; 
    - «[n]el merito», i ricorrenti hanno chiesto al giudice adito, in
conformita' alle pronunce della Corte EDU, di  applicare  l'art.  69,
comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella sola interpretazione resa
possibile dalla sentenza della Corte europea, e cioe' nel senso della
perdurante   giurisdizione   amministrativa,    delle    controversie
riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti  la  traslazione
della giurisdizione»; e  conseguentemente,  accertata  la  natura  di
fatto del loro rapporto d'impiego, di confermare la sentenza del  TAR
Campania  che  aveva  condannato  l'amministrazione   resistente   al
pagamento della contribuzione previdenziale e dell'indennita' di fine
rapporto; 
    - nel giudizio a quo si e' costituito l'Istituto nazionale per la
previdenza sociale (INPS), eccependo l'inammissibilita' del  ricorso,
non vertendosi in alcuno  dei  casi  di  revocazione  previsti  dalla
legge; che il giudicato interno  non  puo'  essere  travolto  da  una
sentenza della Corte EDU; e che la Corte costituzionale si  era  gia'
pronunciata nel senso della non illegittimita' dell'art. 69, comma 7,
citato; 
    - si e' del pari costituita l'Universita' di Napoli, eccependo la
inammissibilita'  del  ricorso  per  insussistenza  dei   presupposti
normativi  per  la  revocazione;  l'irrilevanza  della  questione  di
costituzionalita'   poiche'   la   riapertura   del   processo    non
consentirebbe all'Adunanza  plenaria  di  entrare  nel  merito  della
domanda dei ricorrenti, ostandovi l'art. 69, comma 7, del  d.lgs.  n.
165 del 2001; l'assenza di un obbligo di riaprire  il  processo  alla
luce delle sentenze della  Corte  di  Strasburgo;  la  inutilita'  di
sollevare una questione di legittimita' costituzionale, essendosi  la
Corte costituzionale gia' pronunciata sul citato art. 69, comma 7. 
    1.2.- Tanto premesso, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
in punto di «ammissibilita'» del ricorso per revocazione, ritiene non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 106 cod. proc. amm. e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ. 
    Rammenta in primo luogo il rimettente  che,  alla  stregua  della
consolidata giurisprudenza della  Corte  costituzionale,  il  giudice
comune  non  puo'  disapplicare  la   norma   interna   che   ritenga
incompatibile con la CEDU, a  differenza  di  quanto  accade  per  il
diritto dell'Unione, dovendo, invece, laddove  ravvisi  un  contrasto
tra  la  prima  e  la  seconda  non  risolvibile  con  lo   strumento
dell'interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare  questione
di legittimita' costituzionale per violazione  dell'art.  117,  primo
comma, Cost. 
    Nel caso in esame vi sarebbe «una tensione tra le  norme  interne
che disciplinano la revocazione della sentenza amministrativa passata
in giudicato e l'obbligo  assunto  dall'Italia  di  conformarsi  alle
decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU)». 
    Allorquando, infatti, i giudici  europei  abbiano  accertato  con
sentenza definitiva una violazione  dei  diritti  riconosciuti  dalla
Convenzione, sorgerebbe per lo Stato l'obbligo di adottare le  misure
necessarie per garantire la restitutio in integrum, ossia  per  porre
il ricorrente in una situazione analoga a quella in cui si troverebbe
qualora la violazione non vi fosse stata. 
    L'obbligo di conformarsi alla sentenza della Corte di  Strasburgo
sussisterebbe anche ove la  violazione  commessa  dallo  Stato  sorga
proprio a causa della sentenza passata in giudicato. 
    Sul punto, la Corte EDU e gli organi  del  Consiglio  d'Europa  -
prosegue il Consiglio di Stato - hanno  progressivamente  individuato
la riapertura del processo  quale  soluzione  maggiormente  idonea  a
garantire la restitutio in integrum in  favore  delle  vittime  delle
violazioni non altrimenti rimediabili: in questi  casi,  infatti,  la
rimozione  del  giudicato  formatosi   sarebbe   indispensabile   per
rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo Stato-giudice  nel
corso del processo. 
    Tale obbligo di riapertura  dei  processi  iniqui  sarebbe  stato
affermato con maggior forza con riferimento ai processi penali,  dove
i valori  in  gioco,  in  primis  quello  della  liberta'  personale,
renderebbero «del tutto intollerabile il perdurare di  violazioni  di
diritti fondamentali». Cio' avrebbe portato molti Stati aderenti alla
Convenzione a prevedere la possibilita' di riapertura dei processi in
via legislativa o giurisprudenziale. 
    Osserva il  rimettente  che  in  Italia  tanto  e'  avvenuto  con
riferimento ai processi  penali  grazie  all'intervento  della  Corte
costituzionale, che, con la sentenza n. 113 del 2011,  ha  introdotto
un nuovo caso di revisione, qualora  cio'  si  renda  necessario  per
conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU. 
    Secondo l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, un  contrasto
tra le norme processuali interne e l'obbligo gravante sullo Stato  di
conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo  puo'  sussistere
anche «nel caso di specie in cui e' in  discussione  l'ammissibilita'
del  ricorso  per  la  revocazione  di  una  sentenza   del   giudice
amministrativo». 
    Non a caso - prosegue il rimettente - la Raccomandazione R(2000)2
sulla riapertura dei processi, adottata dal Comitato dei ministri  il
19 gennaio  2000,  pur  dedicando  particolare  attenzione  a  quelli
penali, non esclude quelli civili e amministrativi.  Gli  Stati  sono
incoraggiati alla riapertura ove  ricorrano  due  condizioni:  a)  la
parte lesa continui a soffrire serie  conseguenze  negative  a  causa
della  sentenza  nazionale  che  non  possano  essere   adeguatamente
rimediate attraverso l'equa soddisfazione prevista dall'art. 41 della
CEDU; b) la Corte EDU «abbia riconosciuto la sentenza domestica quale
fonte di una violazione  degli  obblighi  convenzionali  per  ragioni
sostanziali o procedurali». 
    Osserva ancora il rimettente che nel caso di specie la  Corte  di
Strasburgo ha accertato che la sentenza dell'Adunanza plenaria  n.  4
del 2007 ha violato tanto il diritto di accesso a un tribunale quanto
il  diritto  di  proprieta':  qualora  non   fosse   ammissibile   la
revocazione, «l'ordinamento italiano  non  fornirebbe  ai  ricorrenti
alcuna possibilita' per vedere rimediata la  violazione  dei  diritti
fondamentali dagli stessi subita». 
    Essi, infatti, si vedrebbero definitivamente negato  il  «diritto
di azionabilita' delle proprie  posizioni  soggettive  che  all'epoca
tentarono di fare valere davanti al giudice  amministrativo»,  e,  in
particolare, la possibilita' «di fare valere i diritti  pensionistici
che assumono essere loro spettanti». 
    Osserva il  Consiglio  di  Stato,  poi,  che,  sebbene  la  Corte
costituzionale abbia in piu'  occasioni  dichiarato  non  fondate  le
questioni di costituzionalita' dell'art. 69, comma 7, del  d.lgs.  n.
165 del 2001, esse non sarebbero mai state sollevate con  riferimento
all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  relazione   ai   parametri
interposti di natura convenzionale. 
    Anche davanti al giudice amministrativo verrebbe  in  rilievo  la
tutela di  diritti  fondamentali  che  potrebbero  essere  violati  e
generare responsabilita' convenzionale dello Stato: qualora la  Corte
EDU  accerti  tale  violazione,  potrebbero  darsi  casi  in  cui  la
rimozione del giudicato si  appalesi  quale  unico  mezzo  utile  per
rimuovere  le  perduranti   violazioni   di   diritti   fondamentali,
analogamente  a  quanto  riconosciuto  con  riferimento  al  processo
penale. 
    Non a  caso  molti  Stati  aderenti  alla  Convenzione  avrebbero
previsto la possibilita'  di  riaprire  anche  i  processi  civili  e
amministrativi. 
    Alla luce di questi rilievi, ritiene il rimettente che  le  norme
processuali nazionali che disciplinano i casi  di  revocazione  delle
sentenze del giudice amministrativo  «si  pongano  in  tensione»  con
l'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  in  riferimento   al   parametro
interposto dell'art. 46, paragrafo 1, della CEDU,  «non  contemplando
tra i  casi  di  revocazione  quella  che  si  renda  necessaria  per
conformarsi ad  una  sentenza  definitiva  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo». 
    Secondo il rimettente, l'assenza di un apposito rimedio  volto  a
riaprire il processo giudicato iniquo dalla Corte EDU si porrebbe  in
contrasto anche con i principi sanciti dagli artt. 24  e  111  Cost.,
dal  momento  che  «le  garanzie  di  azionabilita'  delle  posizioni
soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione  non
sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU». 
    Aggiunge il Consiglio di Stato  di  non  potere  disapplicare  le
norme processuali interne incompatibili con la Convenzione e  di  non
poterne  dare  una  interpretazione  adeguatrice,  in  ragione  della
tassativita' dei casi di revocazione previsti. 
    1.3.- Infine, il rimettente afferma che la questione e' rilevante
nel  giudizio  a  quo,  in  quanto  dalla   sua   soluzione   dipende
l'ammissibilita' del ricorso per revocazione proposto. 
    La rilevanza non verrebbe meno alla luce del fatto che  la  Corte
costituzionale ha gia' avuto modo di dichiarare in piu' occasioni  la
non fondatezza delle questioni  di  costituzionalita'  sollevate  nei
confronti dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001,  poiche'
«la  questione  attinente  all'interpretazione  e  alla  legittimita'
costituzionale di detta norma riguarda una eventuale fase  successiva
dell'iter  logico  di  decisione  [...].   Una   volta   che   verra'
eventualmente  ritenuto  ammissibile  il  ricorso   per   revocazione
proposto nella fase rescindente, si  dovranno  valutare,  nella  fase
rescissoria,  se,  nel  merito,  vi  siano  i  presupposti   per   la
revocazione della sentenza n. 4/2007 di questa Adunanza plenaria». 
    2.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa  Corte  il
16 luglio 2015, si sono costituiti T. C., M.E. V., D. P., A.  F.,  F.
M., S. S., S. L., P. N., M. L.P., D. M., C. A., D. M., A. L. e F. T.,
tutti ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo  l'accoglimento  della
questione di costituzionalita' sollevata  e  riservandosi  di  meglio
illustrare in prosieguo le proprie difese. 
    3.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa  Corte  il
16 luglio 2015, si sono costituiti F. F., P. A., A. D.R., M.A. L., M.
M. e M. M.,  anch'essi  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo,  chiedendo
l'accoglimento  della  questione  di  costituzionalita'  sollevata  e
anch'essi riservandosi di meglio illustrare in prosieguo  le  proprie
difese. 
    4.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa  Corte  il
13 ottobre 2015, si e' costituito l'INPS, eccependo, in primo  luogo,
l'inammissibilita' della questione per difetto di rilevanza,  poiche'
il  bene  della  vita  anelato  dai  ricorrenti  (il   diritto   alle
prestazioni   previdenziali)   sarebbe   strettamente   legato   alla
«valutazione   della   legittimita'   costituzionale   della    norma
decadenziale». 
    In altri termini, la questione di costituzionalita' dell'art. 69,
comma  7,  del  d.lgs.  165  del  2001  non  riguarderebbe  una  fase
successiva dell'iter logico-giuridico  che  il  giudice  a  quo  deve
seguire, ma atterrebbe «in modo diretto e immediato alla  valutazione
della rilevanza della attuale questione di costituzionalita'». 
    Poiche' la Corte costituzionale avrebbe  piu'  volte  escluso  la
illegittimita'  della  disposizione  citata,  non  vi  sarebbero  gli
estremi per giungere alla revocazione della sentenza n.  4  del  2007
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, dal che  l'irrilevanza
della questione sollevata. 
    Nel merito essa sarebbe infondata, poiche' le sentenze Mottola  e
Staibano non affermerebbero in alcun modo  l'obbligo  di  revocazione
della sentenza del Consiglio di Stato, ed  anzi  presupporrebbero  il
contrario,  laddove  prendono  in  esame   la   richiesta   di   equa
soddisfazione  avanzata  dalle  parti,   riservandosi   di   decidere
all'esito di un eventuale accordo tra le stesse: il  risarcimento  in
forma specifica e la restitutio in integrum determinerebbero, laddove
cumulati, un ingiustificato arricchimento dei ricorrenti. 
    Osserva ancora l'INPS che il giudizio davanti alla Corte  EDU  si
e' svolto tra i ricorrenti e lo Stato italiano,  sicche'  l'eventuale
revocazione della sentenza passata in giudicato sarebbe obbligata  in
forza di una decisione intervenuta all'esito di un processo al  quale
l'istituto non ha partecipato, con palese violazione del suo  diritto
costituzionale alla difesa. 
    Infine,  il  travolgimento  del  giudicato   nel   caso   a   quo
significherebbe  disattendere  la  consolidata  giurisprudenza  della
Corte   costituzionale   sulla   non   illegittimita'   del   termine
decadenziale previsto dall'art. 69, comma 7, del d.lgs.  n.  165  del
2001 e prima ancora dall'art. 45, comma 17,  del  d.lgs.  n.  80  del
1998. 
    5.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa  Corte  il
13 ottobre 2015, si e' costituita l'Universita' di Napoli,  eccependo
l'inammissibilita' del ricorso per difetto di rilevanza, perche'  con
la riapertura del processo i ricorrenti potrebbero ottenere  solo  un
diritto al versamento dei contributi previdenziali che pero'  sarebbe
ormai prescritto ai sensi dell'art. 3 della legge 8 agosto  1995,  n.
335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare). 
    Nel merito, l'Universita' ritiene che i ricorrenti abbiano  avuto
ampie  possibilita'  di  accedere  alla   giustizia,   come   sarebbe
dimostrato dal fatto  che  molti  soggetti  versanti  nella  medesima
situazione giuridica avevano ottenuto piena soddisfazione giudiziaria
delle loro richieste. 
    Spetterebbe in ogni caso alla Corte costituzionale valutare se la
richiesta declaratoria di incostituzionalita' delle  norme  censurate
dal rimettente «incontri dei controlimiti  invalicabili  innanzitutto
nei  principi  costituzionali  posti  a  fondamento  dell'ordinamento
processuale  civile  nonche'  nel  principio   del   buon   andamento
dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.». 
    Verrebbe in rilievo, in primo luogo, «il delicato  e  ineludibile
bilanciamento tra le esigenze sottese all'apertura della  revocazione
ad ipotesi nuove [...] e il valore  costituzionale  della  stabilita'
del giudicato desumibile dal combinato disposto degli artt. 24 e  111
Cost.». 
    La Corte costituzionale avrebbe in piu' occasioni  ricordato  che
la certezza delle situazioni giuridiche connessa al giudicato  e'  un
valore costituzionalmente protetto che  giustifica  la  delimitazione
delle ipotesi di revocazione straordinaria; e che il giudicato e' uno
dei  principali  strumenti  per   la   realizzazione   della   tutela
giurisdizionale dei diritti e  la  sua  intangibilita'  un  principio
fondamentale del nostro ordinamento. 
    Quanto all'art. 46 della CEDU, l'Universita'  di  Napoli  ritiene
che esso non imponga  l'obbligo  di  riapertura  del  processo,  come
sarebbe   dimostrato    dall'esistenza    del    rimedio    dell'equa
soddisfazione. Andrebbe valutato, poi, nel  caso  di  specie,  se  il
precetto delle sentenze Mottola e  Staibano  possa  essere  osservato
solo mediante l'eliminazione del giudicato. 
    Ancora, l'intangibilita' del giudicato troverebbe  un  ancoraggio
nel  principio  di  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione
consacrato nell'art. 97 Cost., poiche' la revisione per contrasto con
la  sentenza  della  Corte  EDU  incoraggerebbe  la   riapertura   di
innumerevoli giudizi, comportando un forte aggravio dell'ingolfamento
del sistema giudiziario italiano. 
    Infine, non sarebbe pertinente il richiamo  alla  sentenza  della
Corte costituzionale  n.  113  del  2011,  attese  le  innegabili  ed
intrinseche differenze tra il diritto penale e quello civile,  quanto
a norme procedurali e, soprattutto, a interessi sottesi  e  tipologia
di diritti tutelati: basterebbe considerare  che  l'art.  30,  quarto
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla  costituzione  e
sul funzionamento della Corte costituzionale), in tema  di  efficacia
retroattiva delle pronunce di illegittimita' costituzionale  consente
il travolgimento del solo giudicato penale. 
    Attribuire alla sentenza della Corte EDU una  «forza  revocatoria
del giudicato» civile e  amministrativo,  significherebbe  attribuire
alla pronuncia della Corte europea  uno  status  superiore  a  quello
riconosciuto  nel  nostro  ordinamento  alle  sentenze  della   Corte
costituzionale. 
    6.- Con memorie rispettivamente depositate il 13 e il 14 febbraio
2017 l'Universita' di Napoli e l'INPS hanno ribadito  le  ragioni  di
inammissibilita' e non fondatezza  delle  questioni  gia'  illustrate
nelle rispettive memorie di costituzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  L'Adunanza  plenaria  del  Consiglio  di  Stato  dubita,  in
riferimento  agli  artt.  24,  111  e   117,   primo   comma,   della
Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  al  parametro  interposto
dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  (CEDU),  firmata  a
Roma il 4 novembre 1950, ratificata e  resa  esecutiva  con  legge  4
agosto 1955, n. 848, della legittimita' costituzionale dell'art.  106
del  decreto  legislativo  2  luglio   2010,   n.   104   (Attuazione
dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al
governo per il riordino del processo amministrativo), e  degli  artt.
395 e 396 del codice di procedura civile, «nella  parte  in  cui  non
prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza  quando  cio'
sia necessario, ai sensi dell'art.  46,  par.  1,  della  Convenzione
europea dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,  per
conformarsi ad  una  sentenza  definitiva  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo». 
    2.- Il  rimettente  e'  stato  adito  per  la  revocazione  della
sentenza n. 4 del 2007, con cui l'Adunanza plenaria aveva  dichiarato
inammissibili alcuni ricorsi proposti da medici cosiddetti a  gettone
e volti alla condanna  dell'Universita'  di  Napoli  Federico  II  al
versamento di  contributi  previdenziali,  ritenendo  intervenuta  la
decadenza dall'azione prevista prima  dall'art.  45,  comma  17,  del
decreto legislativo 31 marzo  1998,  n.  80  (Nuove  disposizioni  in
materia  di  organizzazione   e   di   rapporti   di   lavoro   nelle
amministrazioni pubbliche, di  giurisdizione  nelle  controversie  di
lavoro e  di  giurisdizione  amministrativa,  emanate  in  attuazione
dell'articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo  1997,  n.  59),  e  poi
dall'art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.  165
(Norme generali sull'ordinamento del  lavoro  alle  dipendenze  delle
amministrazioni pubbliche), il quale dispone, per le liti relative al
pubblico impiego "privatizzato", che «[l]e  controversie  relative  a
questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore a tale data [30
giugno 1998] restano  attribuite  alla  giurisdizione  esclusiva  del
giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a  pena  di
decadenza, entro il 15 settembre 2000». 
    Riferisce l'Adunanza  plenaria  che  la  domanda  di  revocazione
costituisce il seguito delle pronunce della Corte europea dei diritti
dell'uomo, Mottola contro Italia e  Staibano  contro  Italia,  del  4
febbraio 2014 (d'ora in avanti:  sentenze  Mottola  e  Staibano),  le
quali hanno accertato che lo Stato italiano, con la sentenza n. 4 del
2007 del Consiglio di Stato, ha violato il diritto dei ricorrenti  di
accesso a un tribunale, garantito dall'art. 6 della CEDU, nonche'  il
diritto al rispetto dei propri beni, garantito dall'art. 1 del  primo
Protocollo addizionale alla CEDU. 
    Ritiene il rimettente che, qualora l'ordinamento non  apprestasse
lo strumento della revocazione delle sentenze amministrative  passate
in giudicato per porre rimedio a  qualsivoglia  violazione  accertata
dalla Corte EDU, ne risulterebbe violato  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., con riferimento all'art. 46,  paragrafo  1,  della  CEDU,  che
impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze  definitive
della Corte [europea dei diritti dell'uomo] sulle controversie  nelle
quali sono parti». 
    La mancata previsione di un caso specifico di  revocazione  -  ad
avviso del rimettente -  comporterebbe  anche  una  violazione  degli
artt. 24 e 111 Cost., perche' «le  garanzie  di  azionabilita'  delle
posizioni  soggettive  e  di  equo  processo  previste  dalla  nostra
Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU». 
    3.- Passando all'esame delle censure, la seconda e' inammissibile
per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza  (tra  le
tante, sentenze n. 276 e n. 133 del 2016; ordinanze n. 93  del  2016,
n. 261, n. 181 e n. 174 del 2012, n. 236 e n. 126 del 2011). 
    Il rimettente,  infatti,  non  spiega  le  ragioni  dell'asserito
contrasto delle norme censurate con gli evocati artt. 24 e 111 Cost.,
limitandosi ad affermare in termini generici e senza alcun esame  dei
parametri costituzionali,  l'equivalenza  tra  la  garanzia  da  essi
apprestata e quella offerta dal sistema convenzionale. 
    4.- Quanto alla prima censura di violazione dell'art. 117,  primo
comma, Cost., in relazione  al  parametro  interposto  dell'art.  46,
paragrafo 1, della CEDU, ai fini dell'esame sia della  rilevanza  che
del merito, e'  opportuno  prendere  le  mosse  dal  contenuto  delle
sentenze Mottola e Staibano. 
    4.1.- Quest'ultime hanno accertato, in primo luogo, la violazione
del diritto dei ricorrenti all'equo processo, non essendo stato  loro
consentito, in concreto, di accedere a un tribunale, dal momento  che
il termine dell'art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del  2001,  prima
interpretato dalla  giurisprudenza  come  termine  di  proponibilita'
dell'azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di  azione
davanti al giudice  ordinario,  e'  stato  poi  ritenuto  termine  di
decadenza sostanziale. 
    Secondo la Corte EDU, il mutamento di indirizzo giurisprudenziale
(e non il termine  previsto  dalla  norma,  «finalizzato  alla  buona
amministrazione della giustizia» e «in se' non eccessivamente breve»)
ha impedito ai ricorrenti di  ottenere  tutela,  nonostante  avessero
«adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base
di un'interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle
competenze». 
    Le sentenze hanno inoltre riscontrato una  violazione  di  natura
sostanziale: i ricorrenti  sono  stati  lesi  anche  nel  diritto  al
rispetto dei propri beni garantito dall'art. 1 del  primo  Protocollo
addizionale alla  Convenzione,  perche'  il  mutamento  di  indirizzo
giurisprudenziale li ha privati del riconoscimento di un  diritto  di
credito - quello ai versamenti dei  contributi  previdenziali  -  che
«aveva una base sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato
da una giurisprudenza ben consolidata». 
    All'accertamento  della  violazione  procedurale  e   di   quella
sostanziale la Corte di Strasburgo ha quindi  fatto  seguire  l'esame
della domanda di equo indennizzo, riservandosi di decidere laddove le
parti non raggiungano un accordo («si riserva la decisione e fissera'
l'ulteriore procedimento, tenuto  conto  della  possibilita'  che  il
Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»). 
    5.- Quanto alla rilevanza,  secondo  l'Istituto  nazionale  della
previdenza sociale (INPS), essa  difetterebbe  perche'  la  questione
sollevata sarebbe strettamente legata a quella del  citato  art.  69,
comma 7, piu' volte sottoposto all'esame  di  questa  Corte,  che  ha
sempre   ritenuto   non   fondate   le    relative    questioni    di
costituzionalita': nel giudizio a quo non ricorrerebbero,  dunque,  i
presupposti  per  la  revocazione  della  sentenza  n.  4  del   2007
dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. 
    Secondo l'Universita' degli studi di Napoli Federico II,  invece,
la rilevanza difetterebbe perche' con la riapertura  del  processo  i
ricorrenti mirerebbero all'accertamento  di  un  diritto,  quello  al
versamento dei contributi previdenziali, che sarebbe ormai prescritto
ai sensi dell'art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335  (Riforma  del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare). 
    5.1.- E' noto che il giudizio sulla rilevanza  «e'  riservato  al
giudice rimettente, si' che l'intervento della Corte  deve  limitarsi
ad  accertare  l'esistenza  di  una  motivazione   sufficiente,   non
palesemente erronea o contraddittoria, senza  spingersi  fino  ad  un
esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice  a  quo  a
determinate  conclusioni.  In   altre   parole,   nel   giudizio   di
costituzionalita', ai fini dell'apprezzamento della  rilevanza,  cio'
che conta e' la valutazione che il rimettente  deve  fare  in  ordine
alla possibilita' che il procedimento pendente possa  o  meno  essere
definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata,
potendo la Corte interferire su tale  valutazione  solo  se  essa,  a
prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento  (ex  plurimis,
sentenze n. 91 del 2013, n. 41 del 2011 e n. 270 del 2010)» (sentenza
n. 71 del 2015; nello stesso senso, tra le tante successive, sentenza
n. 228 del 2016). 
    Non incorre in questo  vizio  l'ordinanza  di  rimessione,  nella
quale si afferma di dover fare applicazione delle norme censurate per
decidere, in sede rescindente, sull'ammissibilita' della  domanda  di
revocazione. 
    E'  evidente,  infatti,  che  la  decisione  della  questione  di
costituzionalita' influisce sulla prima valutazione che il rimettente
e' chiamato ad operare circa la riconducibilita' del caso  di  specie
ad uno dei motivi revocatori previsti  dalla  legge  (tra  le  tante,
sentenze n. 20 del 2016, n. 294 del 2011, n. 151 del 2009;  ordinanza
n. 147 del 2015). 
    Al contrario, sia la questione della legittimita'  costituzionale
dell'art. 69, comma 7, sia  quella  della  prescrizione  dei  diritti
azionati in giudizio attengono alla successiva ed eventuale fase  del
merito rescissorio e quindi, non incidendo sulla verifica preliminare
di ammissibilita' dell'azione cui  e'  chiamato  il  rimettente,  non
mettono in discussione la rilevanza della questione. 
    5.2.- Neanche  incide  sulla  rilevanza  la  circostanza  che  le
sentenze Mottola  e  Staibano  non  abbiano  affermato  l'obbligo  di
riapertura  del  processo,  quale  forma  dovuta  di  restitutio   in
integrum. Cio' infatti non esclude che nel giudizio comune  si  debba
dare una risposta alla domanda della parte ricorrente, intesa  a  far
valere il diritto a uno specifico rimedio processuale, che si  assume
discendere, di per se', dall'accertata violazione dell'art. 46  della
CEDU. 
    Stabilire se tale  diritto  sussista  o  meno  pone,  invero,  un
problema di interpretazione  della  norma  convenzionale  interposta,
problema che, nella specie, coinvolge il merito  della  questione  di
costituzionalita' (tra le piu' recenti, sentenze n. 43 del  2017,  n.
276 e n. 193 del 2016). 
    6.- Nel merito la questione non e' fondata. 
    7.- L'esame della censura sollevata dal  rimettente  va  condotto
separatamente per i ricorrenti nel giudizio per revocazione che hanno
adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo e  per  quelli  che  non
hanno attivato lo strumento  processuale  convenzionale,  ma  versano
nella medesima situazione sostanziale. 
    8.- Per i secondi, questa Corte si e' gia' pronunciata  in  senso
negativo,  perche'  l'obbligo  di  riapertura  del  processo,   posto
dall'art. 46 della CEDU, «nel significato attribuitole dalla Corte di
Strasburgo, non concerne i casi,  diversi  da  quello  oggetto  della
pronuncia, nei quali per  l'ordinamento  interno  si  e'  formato  il
giudicato» (sentenza n. 210 del 2013). 
    Vi e', infatti, «una radicale  differenza  tra  coloro  che,  una
volta esauriti i ricorsi interni,  si  sono  rivolti  al  sistema  di
giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono  avvalsi
di tale facolta', con la conseguenza che la loro vicenda processuale,
definita  ormai  con  la  formazione  del  giudicato,  non  e'   piu'
suscettibile del rimedio convenzionale» (cosi' la citata sentenza  n.
210 del 2013). 
    9.- Per i soggetti che hanno adito vittoriosamente  la  Corte  di
Strasburgo, invece, questa Corte, con la sentenza n. 113 del 2011, ha
riconosciuto l'esistenza dell'obbligo convenzionale di riapertura del
processo penale, allorquando cio' sia necessario per conformasi a una
sentenza della Corte EDU, e conseguentemente ha introdotto  nell'art.
630 del codice di procedura penale una specifica ipotesi di revisione
della sentenza passata in giudicato. 
    Cio' che in questa sede va verificato e' se tale conclusione  sia
valida  anche  per  i  processi  diversi  da  quelli  penali  e,   in
particolare, per quelli amministrativi. 
    10.- Come osservato da questa Corte  nella  decisione  da  ultimo
ricordata, sin dalla sentenza della Grande Camera,  13  luglio  2000,
Scozzari  e  Giunta   contro   Italia,   la   Corte   EDU,   leggendo
congiuntamente ed evolutivamente gli artt. 41 e 46 della Convenzione,
ha ritenuto che l'obbligo  di  conformazione  alle  proprie  sentenze
implichi, anche cumulativamente, a carico dello Stato condannato:  1)
il pagamento dell'equa soddisfazione, ove attribuita dalla  Corte  ai
sensi dell'art. 41 della CEDU; 2) l'adozione, se del caso, di  misure
individuali  necessarie  all'eliminazione  delle  conseguenze   della
violazione accertata; 3) l'introduzione di misure  generali  volte  a
far cessare la violazione derivante da un atto normativo o da  prassi
amministrative o giurisprudenziali e  ad  evitare  violazioni  future
(principio ribadito, da ultimo, nelle sentenze della  Corte  EDU,  14
febbraio 2017, S.K. contro Russia, paragrafo 132; 15  dicembre  2016,
Ignatov contro Ucraina, paragrafo  49;  20  settembre  2016,  Karelin
contro Russia, paragrafo 92; Grande Camera, 17  luglio  2014,  Centre
for legal resources on behalf of Valentin  Campeanu  contro  Romania,
paragrafo 158). 
    Le  misure  individuali  sono  quelle  volte  a   consentire   la
restitutio in integrum, al fine di porre il  ricorrente,  per  quanto
possibile,  «in  una  situazione  equivalente  a  quella  in  cui  si
troverebbe se non vi fosse  stata  una  inosservanza  delle  esigenze
della Convenzione» (Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro
Italia, paragrafo 151; nello stesso senso,  tra  le  tante,  sentenze
Grande  Camera,  12  marzo  2014,  Kuric  e  altri  contro  Slovenia,
paragrafo 79; Grande Camera,  30  giugno  2009,  Verein  Tierfabriken
Schweiz (VgT) contro Svizzera, paragrafo 85). 
    La Corte EDU, peraltro, ha costantemente affermato che  in  linea
di  principio  non  spetta  ad  essa  indicare  le  misure   atte   a
concretizzare  la  restitutio  in  integrum  o  le  misure   generali
necessarie a porre fine alla violazione convenzionale,  restando  gli
Stati liberi di scegliere i mezzi per l'adempimento di tale  obbligo,
purche' compatibili con le conclusioni contenute nelle  sue  sentenze
(tra le tante, sentenze Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro
Ucraina, paragrafo 57; Grande Camera,  17  luglio  2014,  Centre  for
legal resources  on  behalf  of  Valentin  Campeanu  contro  Romania,
paragrafo 158; Grande Camera, 12 marzo 2014,  Kuric  e  altri  contro
Slovenia, paragrafo  80),  e  solo  in  taluni  casi  eccezionali  ha
ritenuto utile indicare il tipo di misure da adottare (tra le ultime,
sentenze 30 ottobre 2014, Davydov  contro  Russia,  paragrafo  27;  9
gennaio 2013, Oleksandr Volkov contro Ucraina, paragrafo 195). 
    Essa, peraltro, nel caso di violazione  delle  norme  sul  giusto
processo (art. 6 della CEDU), ha anche affermato  che  la  riapertura
del processo o  il  riesame  del  caso  rappresentano,  in  linea  di
principio, il mezzo piu' appropriato per  operare  la  restitutio  in
integrum (tra le tante, sentenze 20 settembre  2016,  Karelin  contro
Russia, paragrafo 97; Grande Camera, 5 febbraio 2015,  Bochan  contro
Ucraina, paragrafo 58). 
    10.1.- Di queste ultime misure si occupa anche la Raccomandazione
R(2000)2 del 19 gennaio 2000, che, pur  non  essendo  vincolante,  e'
particolarmente importante per la ricostruzione della  portata  della
giurisprudenza convenzionale, e cio' sia perche' proviene dall'organo
- il Comitato dei ministri - istituzionalmente  deputato  a  vigilare
sull'esecuzione delle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo,
sia perche' condiziona la  prassi  applicativa  rilevante  sul  piano
dell'interpretazione della CEDU, ai sensi dell'art. 31, paragrafo  3,
della Convenzione di Vienna sui trattati,  sia  perche',  infine,  e'
spesso richiamata dalla Corte nelle sue decisioni, entrando  cosi'  a
far  parte  del  relativo  apparato  motivazionale   e   quindi,   in
definitiva, contribuendo a riempire di contenuto il  significato  dei
precetti convenzionali. 
    Nella Raccomandazione si legge che  l'obbligo  conformativo  puo'
«in  certe  circostanze»  ricomprendere  misure  individuali  diverse
dall'equo indennizzo; che «in circostanze eccezionali» il riesame del
caso o la riapertura dei processi si e'  dimostrata  la  misura  piu'
adeguata, se non l'unica, per raggiungere la restitutio in  integrum;
che, infine, quest'ultima appare indicata laddove «la parte  continui
a soffrire conseguenze negative molto serie a causa  della  decisione
interna, che non  possono  essere  adeguatamente  rimosse  attraverso
l'equa soddisfazione». 
    11.- Dalla giurisprudenza della Corte EDU e dalla Raccomandazione
si ricava, dunque, che l'obbligo di conformazione alle sentenze della
Corte ha  un  contenuto  variabile,  che  le  misure  ripristinatorie
individuali diverse  dall'indennizzo  sono  solo  eventuali  e  vanno
adottate  esclusivamente  laddove   siano   «necessarie»   per   dare
esecuzione alle sentenze stesse, e che  il  riesame  del  caso  o  la
riapertura del processo sono tuttavia da  ritenersi  le  misure  piu'
appropriate nel caso di  violazione  delle  norme  convenzionali  sul
giusto processo. 
    12.-  La  specifica  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo
relativa ai processi civili e amministrativi  e'  sostanzialmente  in
linea con questi principi. 
    In particolare, anche nelle sentenze rese in  queste  materie  si
sottolinea l'importanza della riapertura del processo o  del  riesame
del caso per la effettivita' del sistema convenzionale,  in  presenza
di violazioni processuali. 
    Si   deve   constatare,   tuttavia,   che   l'indicazione   della
obbligatorieta' della riapertura del processo, quale  misura  atta  a
garantire la restitutio in integrum, e'  presente  esclusivamente  in
sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti  interni  gia'
prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti
di revisione delle sentenze passate in giudicato (si vedano,  tra  le
altre,  le  sentenze  22  novembre  2016,  Artemenko  contro  Russia,
paragrafo 34; 26 aprile 2016, Kardoš contro Croazia, paragrafo 67; 26
luglio 2011, T.Ç. e  H.Ç  contro  Turchia,  paragrafi  94  e  95;  20
dicembre 2007,  Iosif  e  altri  contro  Romania,  paragrafo  99;  20
dicembre 2007, Paykar Yev Haghtanak LTD contro Armenia, paragrafo 58;
10 agosto 2006, Yanakiev contro Bulgaria,  paragrafo  90;  11  luglio
2006, Gurov contro Moldavia, paragrafo 43). 
    12.1.- Riassume con grande chiarezza l'atteggiamento della  Corte
EDU nelle materie diverse da quella penale la sentenza  della  Grande
Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina. 
    Quest'ultima,  dopo  avere  riportato  i  dati  di   uno   studio
comparativo sullo stato della  legislazione  degli  Stati  contraenti
(paragrafi 26 e 27), osserva che non  vi  e'  un  approccio  uniforme
sulla possibilita' di riaprire i processi civili  in  seguito  a  una
sentenza della Corte EDU che abbia accertato violazioni convenzionali
(paragrafo 57). 
    La  sentenza,  poi,  pur  incoraggiando  gli   Stati   contraenti
all'adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura  del
processo, afferma che e' rimesso agli Stati  medesimi  la  scelta  di
come  meglio  conformarsi   alle   pronunce   della   Corte,   «senza
indebitamente stravolgere i principi della res iudicata o la certezza
del diritto  nel  contenzioso  civile,  in  particolare  quando  tale
contenzioso riguarda  terzi  con  i  propri  legittimi  interessi  da
tutelare» (paragrafo 57). 
    13.-  Questo  passaggio  della  motivazione  e'  di   particolare
rilievo,  ai  fini  della  risoluzione  dell'odierna   questione   di
costituzionalita',   perche',   nel    perimetrare    l'obbligo    di
conformazione discendente dall'art.  46,  paragrafo  1,  della  CEDU,
individua nella tutela dei soggetti diversi  dallo  Stato  che  hanno
preso parte al  giudizio  interno  la  principale  differenza  fra  i
processi penali e quelli civili, differenza che riguarda pure  quelli
amministrativi,    anch'essi    caratterizzati    dalla     frequente
partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo Stato, di
parti resistenti private  affidatarie  di  un  munus  pubblico  e  di
controinteressati. 
    E' la tutela di costoro, unita al  rispetto  nei  loro  confronti
della certezza del diritto garantita dalla  res  iudicata  (oltre  al
fatto che nei processi civili e amministrativi non  e'  in  gioco  la
liberta' personale), a  spiegare  l'atteggiamento  piu'  cauto  della
Corte EDU al di fuori della materia penale. 
    14.- Cio'  trova  riscontro  nella  posizione  di  diversi  Stati
contraenti, i quali hanno manifestato analoga  cautela  al  riguardo,
come notato - si e' visto -  dalla  stessa  sentenza  Bochan  e  come
emerge sia dal Memorandum esplicativo della Raccomandazione R(2000)2,
sia dal Review sull'esecuzione della citata  Raccomandazione  del  12
maggio del 2006 sia, infine, dall'Overview del  comitato  di  esperti
datato 12 febbraio 2016. 
    15.- Si deve dunque concludere  che,  nelle  materie  diverse  da
quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale  non  emerge,  allo
stato, l'esistenza di un  obbligo  generale  di  adottare  la  misura
ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione  di
prevederla e' rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro,  sono
incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta  attenzione
per i vari e confliggenti interessi in gioco. 
    16.- Questo invito e' stato accolto da circa  meta'  degli  Stati
del Consiglio d'Europa, come emerge dal citato  Overview,  il  quale,
alla data del 12 febbraio 2016, indica in  ventitre'  gli  Stati  che
hanno introdotto  strumenti  atti  a  consentire  la  riapertura  dei
processi civili a seguito di sentenze della Corte EDU di accertamento
di violazioni convenzionali. 
    Tra questi vi e' la Germania, ove,  con  la  Zweites  Gesetz  zur
Modernisierung der Justiz -  2.  Justizmodernisierungsgesetz  del  22
dicembre 2006, il legislatore ha  aggiunto  ai  casi  di  revocazione
straordinaria  delle  sentenze  civili  elencati  dall'art.  580  del
Zivilprozessordnung quello in cui la Corte EDU abbia stabilito che la
Convenzione o i suoi protocolli sono stati violati  da  una  sentenza
nazionale e quest'ultima si basi  su  tale  violazione.  I  giudicati
amministrativi possono  egualmente  essere  rimessi  in  discussione,
poiche', come nel  nostro  ordinamento,  esiste  una  norma  che,  in
materia di revocazione, rinvia alle disposizioni del citato codice di
rito. 
    Anche  in  Spagna,  a  seguito   di   diversi   tentativi   della
giurisprudenza  di  utilizzare  in  via  estensiva  gli  istituti  di
impugnazione gia' presenti nell'ordinamento, a partire dal 1° ottobre
2015, mediante la modifica della Ley Organica 6/1985, de 1 de  julio,
del Poder Judicial, e' stato introdotto all'art.  5-bis  un  caso  di
recurso de revision  di  tutte  le  sentenze  in  contrasto  con  una
pronuncia  definitiva  della  Corte   di   Strasburgo,   purche'   la
violazione, per la  sua  natura  e  gravita',  comporti  effetti  che
persistono e che non  possono  cessare  in  altro  modo  che  con  la
revisione. 
    Da ultimo, il legislatore francese, con la Loi n° 2016-1547 du 18
novembre 2016 de modernisation de  la  justice  du  XXIe  siecle,  ha
introdotto nel Code de l'organisation judiciaire la  possibilita'  di
chiedere la revocazione delle sentenze  civili  rese  in  materia  di
stato delle persone in caso di condanna da  parte  della  Corte  EDU,
laddove, per la sua natura e gravita',  la  violazione  convenzionale
abbia creato un danno non risarcibile con l'equa soddisfazione. 
    17.- Anche nel nostro ordinamento la riapertura del processo  non
penale, con il conseguente travolgimento  del  giudicato,  esige  una
delicata ponderazione, alla luce dell'art. 24 Cost., fra  il  diritto
di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e  tale
ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore. 
    In  questa  prospettiva,  se  e'  vero  che  non  e'  irrilevante
l'interesse statale ad una disciplina che eviti  indennizzi  a  volte
onerosi,  per  lesioni  anche  altrimenti  riparabili,  non  si  puo'
sottacere  che  l'invito  della  Corte  EDU  potrebbe   essere   piu'
facilmente recepito in presenza di  un  adeguato  coinvolgimento  dei
terzi nel processo convenzionale. 
    E' noto, infatti, che quest'ultimo vede come parti necessarie  il
ricorrente e lo Stato autore della  violazione,  mentre  l'intervento
degli altri soggetti che hanno preso parte al giudizio interno -  cui
peraltro il ricorso non deve essere notificato - e' rimesso, ai sensi
dell'art. 36, paragrafo 2, della CEDU, alla valutazione discrezionale
del Presidente della Corte, il quale «puo'  invitare»  «ogni  persona
interessata diversa dal  ricorrente  a  presentare  osservazioni  per
iscritto o a partecipare alle udienze». 
    Non vi e'  dubbio,  allora,  che  una  sistematica  apertura  del
processo  convenzionale  ai  terzi  -  per  mutamento   delle   fonti
convenzionali o in forza di una loro interpretazione  adeguatrice  da
parte  della  Corte  EDU  -  renderebbe  piu'  agevole  l'opera   del
legislatore nazionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 106 del decreto legislativo 2  luglio  2010,
n. 104 (Attuazione dell'articolo 44 della legge 18  giugno  2009,  n.
69,  recante  delega  al  governo  per  il  riordino   del   processo
amministrativo), e degli artt. 395 e  396  del  codice  di  procedura
civile,  sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  24  e  111   della
Costituzione, dall'Adunanza plenaria  del  Consiglio  di  Stato,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 106 del d.lgs. n.  104  del  2010,  e  degli
artt. 395 e 396 cod. proc. civ., sollevata, in  riferimento  all'art.
117, primo comma,  della  Costituzione,  dall'Adunanza  plenaria  del
Consiglio di Stato, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017. 
 
                                F.to: 
                      Paolo GROSSI, Presidente 
                    Giancarlo CORAGGIO, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2017. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA